Webgiornale novembre 2025
Concorso nel 70° dell’accordo italo-tedesco. Scade il 14 novembre
Berlino - “Un
biglietto di Buone Feste per l’Ambasciata: un augurio che unisce!” è il nuovo
concorso promosso dall’Ambasciata d’Italia a Berlino con l’obiettivo di
promuovere l’amicizia tra Italia e Germania, coinvolgendo le giovani
generazioni e rafforzando la diffusione della lingua e della cultura italiana
in Germania.
L’iniziativa
rientra nell’ambito delle celebrazioni del 70° anniversario del primo accordo
bilaterale sulla manodopera del 1955, che facilitò l’arrivo dei lavoratori
italiani in Germania creando un partenariato fondamentale tra i due Paesi.
Il concorso è
rivolto agli alunni e alle alunne delle scuole in Germania, di ogni ordine e
grado, nonché studenti dei corsi di lingua e cultura italiana di età minore di
diciotto anni, invitati a creare un biglietto di auguri natalizio che esprima,
con creatività e originalità, i valori dell’amicizia tra i due Paesi e la
cultura italiana.
Il biglietto
vincitore diventerà il biglietto ufficiale di auguri natalizi dell’Ambasciata e
della Rete consolare in Germania per il 2025 e l’autore o l’autrice saranno
invitati alla una cerimonia di premiazione che si terrà presso l’Ambasciata,
ricevendo un attestato e un riconoscimento speciale.
Il biglietto
prescelto e una selezione di altre cinque opere finaliste verranno esposti in
Ambasciata durante la cerimonia di premiazione e verranno pubblicati sul sito e
sui canali social dell’Ambasciata. Tutti i partecipanti riceveranno un
attestato di partecipazione.
Tutte le
indicazioni per partecipare sono disponibili sul bando pubblicato
dall’Ambasciata al sito
https://ambberlino.esteri.it/wp-content/uploads/2025/10/BANDO-CONCORSO-AUGURI-BUONE-FESTE-2025.pdf.
La scadenza per l’invio delle opere è venerdì 14 novembre 2025. Ulteriori
informazioni si possono richiedere via email all’indirizzo
stampa.berlino@esteri.it. (aise/dip 10)
Consiglio europeo: Costa (presidente), “decisioni importanti”
Bruxelles. “Avevo
dichiarato che oggi sarebbe stato il momento delle decisioni. Abbiamo mantenuto
la parola. Su tutti i fronti”. Così, con – forse – eccessivo ottimismo, Antonio
Costa, commenta l’esito del Consiglio europeo svoltosi ieri a Bruxelles e
terminato a notte inoltrata. “Abbiamo affermato più volte che sosterremo
l’Ucraina per quanto necessario e per tutto il tempo necessario. Oggi abbiamo
raggiunto tre accordi importanti. In primo luogo, i leader europei si sono
impegnati a garantire che il fabbisogno finanziario dell’Ucraina sia coperto
per i prossimi due anni. Abbiamo chiesto alla Commissione di presentare
‘opzioni’ il prima possibile, in modo che l’Ucraina disponga delle risorse
necessarie per continuare a difendersi e lottare per una pace giusta e duratura
nel 2026 e nel 2027, se necessario”.
Il presidente del
Consiglio europeo aggiunge: “La Russia dovrebbe prenderne atto; l’Ucraina
disporrà delle risorse finanziarie necessarie per difendersi dall’aggressione
russa nel prossimo futuro. Ora è necessario lavorare sugli aspetti tecnici,
legali e finanziari del sostegno europeo, e torneremo su questo tema al
Consiglio europeo di dicembre”. È chiaro a tutti che la guerra non terminerà
presto, nonostante le richieste e le aspettative del Presidente Zelensky, ieri
a Bruxelles, e le vane promesse di Donald Trump.
“In secondo luogo,
abbiamo adottato il 19° pacchetto di sanzioni, che aumenterà la nostra
pressione sulla Russia e danneggerà ulteriormente la sua macchina da guerra”.
Sanzioni promesse anche dagli Usa, scatenando la reazione di Putin.
“In terzo luogo,
gli Stati membri hanno concordato di rafforzare le misure e coordinare le
azioni per smantellare la flotta ombra russa. In sintesi: continuiamo a
utilizzare tutti i mezzi a nostra disposizione per mettere l’Ucraina in una
posizione di forza se e quando inizieranno i negoziati con Putin. Speriamo che
questo momento arrivi presto. Ma, indipendentemente dalle circostanze, il
nostro messaggio è chiaro: l’Europa non deluderà l’Ucraina”. La tanto attesa
decisione sull’utilizzo degli asset russi per finanziare l’Ucraina è stata
ancora una volta rinviata: ma su questo Costa ha glissato, decisione rimandata.
Così come nessuno ha promesso, come richiesto da Zelensky, soldati e altri
missili.
Il secondo ambito
in cui il Consiglio europeo, secondo il presidente Antonio Costa, ha espresso i
suoi risultati è la difesa. “Oggi – ha riferito in Conferenza stampa – abbiamo
chiuso un ciclo che avevamo aperto lo scorso febbraio, quando ho convocato un
brainstorming dedicato a questo tema. In meno di un anno, lavorando a stretto
contatto con la Commissione europea, abbiamo delineato le basi per l’Europa
della difesa. Abbiamo approvato nuovi strumenti finanziari per sviluppare
queste capacità, in piena coerenza con la Nato. Le nostre priorità sono ora
chiare, a partire dalla difesa anti-droni e aerea. E guardiamo, naturalmente,
al nostro fianco orientale”. Poi ha esposto due scadenze: “La fase 1 sarà
finalizzare entro la fine dell’anno le ‘coalizioni di capacità’ che guideranno
questi progetti; la fase 2 sarà quella di avviare e portare avanti progetti
concreti all’inizio del 2026”. Gli Stati membri saranno “al posto di guida per
portare avanti i nostri sforzi congiunti, con un ruolo più importante per i ministri
della Difesa e l’Agenzia europea per la difesa”.
La difesa europea,
ha dichiarato Costa, “non si limita a spendere di più. Si tratta di spendere in
modo più intelligente, lavorare insieme e garantire risultati ai nostri
cittadini. È così che costruiamo la sovranità dell’Europa. E la Roadmap per la
preparazione alla difesa presentata oggi dalla Commissione europea” è stata “un
elemento decisivo in tal senso”.
Il presidente del
Consiglio europeo Costa ha poi segnalato le altre “conclusioni” del summit,
contenute in un lunghissimo documento che segnala decisioni e lascia intendere
le mancate convergenze. Su competitività e clima: “L’Europa è in prima linea
nell’azione per il clima. Trasformare questa sfida in opportunità economiche.
Posizionarsi come leader nelle tecnologie del futuro. Oggi abbiamo ribadito il
nostro impegno nei confronti dell’Accordo di Parigi e abbiamo concordato sulla
necessità di essere pragmatici e flessibili nella nostra strategia, per
garantire che le ambizioni climatiche dell’Europa e la competitività della
nostra economia e delle nostre industrie vadano di pari passo e non lascino
indietro nessuno”. C’è, al fondo, la contrarietà di numerosi governi verso il
Green Deal. “Guardando al 2040, stiamo definendo un percorso chiaro e
realistico per raggiungere i nostri obiettivi climatici: assicurandoci che la
nostra transizione sia giusta e accessibile per cittadini e imprese; sostenendo
la modernizzazione e la decarbonizzazione delle nostre industrie; seguendo il
principio di neutralità tecnologica, per garantire il raggiungimento dei nostri
obiettivi nel modo più efficiente in termini di costi; e garantendo che la
transizione contribuisca a una solida base industriale europea”. Parlando di
ambiente emergono più gli interessi delle imprese che quelli della salute e il
rispetto del Creato.
Quindi altri temi:
“L’accessibilità e il costo degli alloggi sono tra le questioni concrete più
urgenti per milioni di europei. Sebbene in questo ambito le competenze
rimangano a livello nazionale, regionale e locale, ho voluto che i leader
europei si riunissero e discutessero di come l’Unione europea possa integrare e
sostenere i loro sforzi. Il nostro dibattito è stato molto utile e concreto. Ha
offerto una guida politica per la preparazione del Piano europeo per l’edilizia
abitativa a prezzi accessibili da parte della Commissione europea”.
“In conclusione:
oggi il Consiglio europeo ha adottato misure concrete su Ucraina, difesa, clima
e competitività. E abbiamo aperto un nuovo ciclo per la politica abitativa. E
continueremo a impegnarci. Per i nostri cittadini, per il nostro futuro e per il
nostro posto nel mondo”. Su altri temi urgenti e divisivi, fra cui le
migrazioni, Costa tace.
Nel riferire del
Consiglio europeo tenutosi a Bruxelles, durante la conferenza stampa accanto ad
Antonio Costa, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen ha
affrontato diversi temi. “Abbiamo avuto discussioni proficue e compiuto progressi
in diversi ambiti. Vorrei iniziare con l’Ucraina. Stamattina abbiamo adottato
il 19° pacchetto di sanzioni, un pacchetto ampio e articolato che colpisce al
cuore l’economia di guerra russa. Parallelamente, gli Stati Uniti stanno
procedendo con la propria serie di sanzioni contro la Russia: insieme ai nostri
partner e alleati abbiamo un impatto maggiore. E continueremo a esercitare
pressioni sulla Russia per tutto il tempo necessario: sosterremo l’Ucraina per
tutto il tempo necessario a garantire la fine delle stragi e una pace giusta e
duratura. Questo è anche il nostro messaggio al Presidente Zelensky.
“Abbiamo avuto una
discussione proficua sul prestito di riparazione, da finanziare con i beni
russi immobilizzati”, gli asset. “Ci ha permesso di identificare i punti che
dobbiamo ancora chiarire”. Questione rimandata a dicembre per diversi nodi
giuridici e finanziari.
Sulla difesa: “Discussione
molto positiva sulla nostra Roadmap per la Prontezza 2030. In primo luogo, la
Roadmap individua le lacune in termini di capacità, nonché gli obiettivi e le
tappe per raggiungerli entro il 2030. Questo è ovviamente in stretto
coordinamento con la Nato. In secondo luogo, si tratta di un approccio a 360
gradi. Perché la nostra sicurezza riguarda la protezione dei confini. Oggi è a
est, domani potrebbe essere a sud. I progetti faro che abbiamo individuato ne
sono un chiaro esempio: la Drone Alliance, l’Eastern Flank Watch, la difesa
spaziale o lo scudo aereo europeo. In terzo luogo, la Roadmap prevede
un’impennata della spesa per la difesa. È quindi per noi molto importante che
questi investimenti nella difesa siano un motore di crescita. In altre parole,
vogliamo un ritorno sugli investimenti, che arriverà fino a 800 miliardi di
euro entro il 2030”.
“Passando ai
nostri obiettivi climatici. Siamo sulla buona strada per raggiungere
l’obiettivo del 2030. Naturalmente abbiamo concordato tutti su un obiettivo
chiaro di neutralità climatica entro il 2050. Ora abbiamo davanti a noi la fase
intermedia del 2040. Avevamo proposto un obiettivo del 90% e introdotto nuove
flessibilità. E oggi abbiamo assistito a un forte sostegno a un approccio
ambizioso e pragmatico. Abbiamo anche discusso delle flessibilità per
raggiungere questo obiettivo: sotto forma di crediti internazionali e
flessibilità tra i diversi settori economici. In breve: maggiore flessibilità
su come raggiungere gli obiettivi”.
Infine, per quanto
riguarda l’edilizia abitativa, “è e rimarrà una competenza nazionale, ma – ha
affermato Von der Leyen – alcune di queste sfide trarrebbero beneficio da un
approccio europeo coordinato. Pertanto, quest’anno presenterò un Piano europeo
per l’edilizia abitativa a prezzi accessibili. E poiché abbiamo discusso della
necessità di un forte coordinamento europeo, convocheremo il primo Vertice Ue
sull’edilizia abitativa nel 2026”. Sulle migrazioni e sul Patto per l’asilo e
la migrazione – tema all’ordine del giorno – nessuna novità.
Gianni Borsa sir
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L’Europa può cavarsela da sola?
Sotto la nuova
amministrazione del 2025, gli Stati Uniti hanno voltato le spalle in modo
dimostrativo alla promozione della democrazia internazionale, all’integrazione
euro-atlantica e al sostegno materiale diretto all’Ucraina. Di conseguenza, si
discute sempre più del nuovo ruolo dell’Europa, sia nella difesa dell’Ucraina
che nell’affrontare le autocrazie e altre sfide internazionali. Non solo i
partner europei della NATO dovranno assumersi maggiori responsabilità per la
propria sicurezza, ma l’Europa dovrà ora affrontare anche altre questioni
globali fondamentali senza il sostegno degli Stati Uniti, dalla tutela
dell’ambiente e dei diritti umani allo sviluppo politico e socioeconomico.
Il problema è che
“Europa” è un concetto vago quando si tratta di affari esteri e difesa.
Nonostante gli stretti legami e la vicinanza geografica, le nazioni europee
hanno culture strategiche e prospettive geopolitiche diverse. In molti paesi
europei, l’ascesa dei partiti radicali di destra e di sinistra ha portato a
un’estrema polarizzazione dell’opinione pubblica, non solo sugli affari interni
ma anche su quelli esteri.
L’attuale
pluralismo geostrategico del continente sta portando a formulazioni incoerenti
degli interessi nazionali e a punti di vista divergenti su questioni
transfrontaliere rilevanti tra le capitali europee. Le divisioni ideologiche
separano non solo l’UE dagli Stati europei illiberali al di fuori dell’Unione,
come la Bielorussia o la Serbia. La diversità normativa dell’Europa porta anche
a disaccordi all’interno dell’Unione su quali dovrebbero essere le priorità e
gli obiettivi della politica estera dell’UE.
Nonostante queste
complicazioni, le sfide e i rischi per la democrazia e la libertà globali
stanno aumentando. Oggi più che mai, l’UE sarebbe necessaria come aggregatore,
promotore e attuatore di una politica estera europea comune, proprio come
l’Unione determina le politiche commerciali europee. Per adempiere a questo
compito, gli Stati membri dell’UE dovrebbero tornare al loro precedente
consenso normativo relativo o adottare un nuovo trattato sull’Unione europea
che conferisca poteri sovranazionali più forti a Bruxelles o, nella migliore
delle ipotesi, fare entrambe le cose. Nulla di tutto ciò sembra probabile nel
prossimo futuro.
Senza un accordo
geostrategico tra gli Stati membri dell’UE e/o un nuovo trattato dell’Unione,
sono necessarie altre soluzioni istituzionali. Una possibile soluzione è la
creazione di alleanze ad hoc in materia di politica estera e di sicurezza tra
Stati membri dell’UE che condividono gli stessi principi e che uniscono le
forze per perseguire questo o quell’obiettivo. Il trattato di Lisbona consente
una cooperazione differenziata all’interno dell’Unione e quindi un’azione
congiunta da parte di gruppi di governi europei affini. Tuttavia, il principio
del consenso e il diritto di veto nazionale sulle decisioni fondamentali
limitano il ruolo potenziale del Consiglio dell’UE, della Commissione e del
Servizio europeo per l’azione esterna come veicoli istituzionali per una
politica estera consolidata delle democrazie europee impegnate.
In ogni caso, la
cooperazione intraeuropea può essere efficace solo fino a un certo punto. Da
sole, le democrazie europee sono troppo deboli per affermarsi nei conflitti
geopolitici, economici e militari globali. Per una cooperazione transeuropea
più ampia, sta attualmente emergendo un modello di pianificazione e
coordinamento interdemocratico con la Coalizione dei Volenterosi (COW)
sull’Ucraina, operativa dalla primavera del 2025.
Questa alleanza
informale di democrazie riunisce 33 paesi i cui governi concordano ampiamente
sui valori generali, gli interessi nazionali e gli obiettivi di politica
estera. La COW, finora certamente poco strutturata, comprende paesi europei non
membri dell’UE, come il Regno Unito e la Norvegia, e persino paesi lontani
dall’Europa, come l’Australia e il Giappone. Sebbene l’attuale COW si occupi
solo dell’Ucraina, in futuro potrebbe ampliare il proprio raggio d’azione ad
altre questioni importanti per il futuro della democrazia in tutto il mondo.
Il conflitto
globale principale di oggi ruota maggiormente, secondo i termini del professore
di Stanford Michael McFaul, attorno al contrasto tra autocrazie e democrazie e
meno attorno a uno “scontro di civiltà”, come lo definì più di trent’anni fa il
compianto professore di Harvard Samuel Huntington. La famosa tesi di Huntington
non spiega l’attuale cooperazione tra la Russia cristiano-ortodossa, l’Iran
fondamentalista islamico e la Corea del Nord paleocomunista nella guerra contro
l’Ucraina, anch’essa cristiano-ortodossa. La composizione dell’Organizzazione
per la cooperazione di Shanghai o del gruppo BRICS non corrisponde allo schema
di Huntington di collaborazione e conflitto internazionale determinato
culturalmente. Al contrario, il titolo del libro di prossima pubblicazione di
McFaul, ex ambasciatore degli Stati Uniti a Mosca, Autocrats vs. Democrats:
China, Russia, America, and the New Global Disorder (Autocrati contro
democratici: Cina, Russia, America e il nuovo disordine globale), coglie meglio
la dimensione chiave della futura cooperazione e del confronto tra Stati.
Lo sforzo
congiunto, nell’ambito della COW, di aiutare l’Ucraina da parte dei paesi
dell’UE e dei paesi extra-UE non è quindi una coincidenza, ma piuttosto
sintomatico. È parte integrante di una ridefinizione globale delle linee di
conflitto derivante dalla crescente contrapposizione mondiale tra ordini ad
accesso aperto e ordini ad accesso chiuso. Ciò dovrebbe avere implicazioni
istituzionali per le relazioni tra quelle democrazie europee e non europee
interessate a difendere e promuovere i valori e le regole della democrazia
liberale.
Oggi, gli
autocrati e i loro diplomatici, così come ideologi come il fascista russo
Aleksandr Dugin, sono impegnati nella creazione e nell’espansione di reti e
alleanze transcontinentali statali e non statali. I governi, i partiti e gli
intellettuali antiliberali di Asia, Europa, Americhe e Africa si sostengono e
si coordinano sempre più tra loro. Per ragioni di autoconservazione, gli Stati,
i partiti e le altre organizzazioni europee e non europee favorevoli alla
democrazia dovrebbero fare lo stesso. I governi e le società civili delle
democrazie liberali devono costruire coalizioni e istituzioni mondiali che
superino i confini geografici e culturali.
Il G7 e la NATO,
potenziali centri nevralgici della cooperazione interdemocratica globale, sono
attualmente ostacolati dall’impulso antiliberale, dall’improvvisazione
amministrativa e dalla confusione strategica della nuova amministrazione
statunitense. L’UE rimane afflitta dalle contraddizioni nazionali tra i suoi
Stati membri e dalle complicazioni strutturali nel suo processo decisionale. In
questo contesto, la COW, finora informale, sull’Ucraina potrebbe offrire una
soluzione. Insieme ad altre reti, la COW può servire da esempio o addirittura
da nucleo per una futura cooperazione generale tra civiltà tra governi e gruppi
democratici. Andreas Umland, Aff.Int.28
Frontiere in Movimento. L’emigrazione italiana in Germania a 70 anni
dall’Accordo italo-tedesco
Un convegno per
rileggere 70 anni di storia migratoria
Nel 1955 la firma
dell’Accordo bilaterale tra Italia e Repubblica Federale di Germania segnò
l’inizio di una delle esperienze migratorie più importanti dell’Europa
contemporanea. Migliaia di lavoratori e lavoratrici italiani attraversarono
allora le Alpi in cerca di un futuro migliore, portando con sé lingue,
tradizioni, culture e speranze che avrebbero profondamente inciso sul tessuto
sociale, economico e culturale tedesco.
A settant’anni da
quell’intesa, il convegno “Storia, società e prospettive dell’emigrazione
italiana in Germania – Frontiere in movimento”, svoltosi sabato, ha voluto
intrecciare memoria e attualità, riflettendo sulle trasformazioni
dell’esperienza migratoria italiana e sulle nuove sfide che essa pone oggi.
L’incontro ha
riunito studiosi, rappresentanti istituzionali, esponenti del mondo associativo
e delle nuove generazioni, in un dialogo che ha restituito la complessità di
una storia collettiva ancora in evoluzione.
A dare il
benvenuto ai partecipanti e al pubblico è stato Francesco Vizzarri, che ha
aperto ufficialmente i lavori del convegno, salutando gli ospiti e presentando
i diversi panel tematici. Vizzarri ha anche svolto il ruolo di moderatore,
accompagnando con competenza e sensibilità l’intero svolgimento della giornata,
favorendo il confronto tra i relatori e il pubblico in sala.
Un viaggio nella
memoria e nella storia sociale
A inaugurare le
relazioni è stato l’onorevole Toni Ricciardi, storico dell’emigrazione e
deputato, che ha ricostruito le tappe fondamentali dell’esodo italiano verso
l’Europa occidentale dopo il 1945. Nella sua relazione, Ricciardi ha
sottolineato come la migrazione italiana in Germania sia stata non solo una
vicenda economica, ma anche un potente motore di trasformazione sociale e
culturale.
È poi intervenuta
Licia Linardi, direttrice del Corriere d’Italia, che ha ripercorso la storia
del giornale e delle Missioni cattoliche italiane, strumenti centrali di
informazione e coesione per gli emigrati nel dopoguerra.
Il delegato delle
Missioni cattoliche italiane, don Gregorio Milone, ha aggiornato i presenti
sulla situazione attuale delle comunità, ricordando l’impegno pastorale e
sociale di questi centri, ancora oggi punti di riferimento per molti
connazionali.
Associazionismo e
sindacato: radici e futuro
Pino Tabbì,
presidente delle ACLI Germania, ha presentato la storia delle Acli Germania e
la sua attualità. Mentre il presidente nazionale delle ACLI, Emiliano
Manfredonia, ha affrontato il tema del futuro dell’associazionismo italiano
all’estero, ponendo l’accento sulla necessità di rinnovare linguaggi e
strumenti per rispondere ai bisogni delle nuove mobilità.
Nella sessione
dedicata a “Sindacati, diritti sociali, cittadinanza ed emigrazione attuale”,
moderata da Tabbì, sono intervenuti Rocco Artale, storico sindacalista e
testimone del lungo cammino degli italiani verso il riconoscimento dei diritti,
e la sociologa Edith Pichler (Università di Potsdam), che ha illustrato le
nuove forme di mobilità giovanile e precarietà.
Il giudice e
scrittore Alessandro Bellardita ha riflettuto sui “diritti in emigrazione”,
mentre Maria Chiara Prodi, segretaria generale del CGIE, è intervenuta online
sul tema della rappresentanza politica e della partecipazione civica degli
italiani all’estero.
Le voci delle
donne e delle nuove generazioni
Un momento
particolarmente significativo è stato l’intervento della dr. Lisa Mazzi,
scrittrice interculturale e docente all’Università del Saarland, che ha
raccontato la presenza femminile nell’emigrazione italiana “ieri e oggi”, tra
resilienza, invisibilità e protagonismo sociale.
La tavola rotonda
conclusiva, moderata da Licia Linardi, ha dato voce a esperienze dirette e
contemporanee di emigrazione: l’impreditore Giuseppe Fusco “Dolce momento” di
Francoforte, la psicologa Alessia De Carlo (Stoccarda) e Maurella Carbone,
insegnante e rappresentante del Coordinamento Donne Italiane di Francoforte.
Storie diverse, ma accomunate dal desiderio di partecipare attivamente alla
vita delle comunità locali senza rinunciare al legame con l’Italia.
Frontiere in
movimento: la migrazione come chiave del presente
Il convegno ha
ricordato come la storia dell’emigrazione italiana in Germania non appartenga
soltanto al passato. Le nuove generazioni di mobilità affrontano ancora oggi
questioni cruciali – precarietà lavorativa, parità di genere, accesso ai
servizi, rappresentanza politica – che rendono attuale la riflessione su quelle
“frontiere in movimento” che continuano a segnare la nostra Europa.
L’evento si è
chiuso con un messaggio condiviso da tutti i relatori: la memoria
dell’emigrazione è un patrimonio vivo, capace di illuminare le sfide del
presente e di costruire un futuro fondato su partecipazione, diritti e
solidarietà.
Le relazioni
complete dei singoli relatori saranno pubblicate prossimamente sul Corriere
d’Italia. CdI on 21
Il Pontefice:
"Chi patisce la fame non è un estraneo. È mio fratello e devo aiutarlo
senza indugio" - Di Marco Mancini
Roma. "Il
cuore del Papa, che non appartiene a sé stesso ma alla Chiesa, e, in un certo
senso, a tutta l’umanità, mantiene viva la fiducia che, se si sconfiggerà la
fame, la pace sarà il terreno fertile dal quale nascerà il bene comune di tutte
le nazioni". Lo ha detto il Papa, intervenendo oggi alla Sede della FAO in
occasione della Giornata Mondiale dell'Alimentazione e della Celebrazione
dell’80° Anniversario della fondazione dell'Organizzazione.
"La nostra
coscienza - ha ammonito - deve interpellarci ancora una volta di fronte al
dramma - sempre attuale - della fame e della malnutrizione. Porre fine a questi
mali non spetta solo a imprenditori, funzionari o responsabili politici. È un
problema alla cui soluzione tutti dobbiamo contribuire: agenzie internazionali,
governi, istituzioni pubbliche, Ong, entità accademiche e società civile, senza
dimenticare ogni persona in particolare, che deve vedere nella sofferenza
altrui qualcosa di suo. Chi patisce la fame non è un estraneo. È mio fratello e
devo aiutarlo senza indugio".
Si tratta - ha
precisato Papa Leone - di un obiettivo "tanto nobile quanto ineludibile:
mobilitare tutte le energie disponibili, in uno spirito di solidarietà,
affinché nel mondo a nessuno manchi il cibo necessario, sia in quantità sia in
qualità. In tal modo, si porrà fine a una situazione che nega la dignità umana,
compromette lo sviluppo auspicabile, costringe ingiustamente moltitudini di
persone ad abbandonare le proprie case e ostacola l’intesa tra i popoli".
"Dobbiamo
ricordare con forza - ha sottolineato ancora il Papa - che raggiungere
l’obiettivo Fame Zero sarà possibile solo se ci sarà una volontà reale di
farlo, e non soltanto dichiarazioni solenni. È necessario, ed estremamente
triste, ricordare che, nonostante i progressi tecnologici, scientifici e
produttivi, seicento settantatré milioni di persone nel mondo vanno a dormire
senza mangiare. E altri duemilatrecento milioni non possono permettersi
un’alimentazione adeguata dal punto di vista nutrizionale. Sono cifre che non
possiamo considerare mere statistiche. Forse il dato più toccante è quello dei
bambini che soffrono di malnutrizione, con le conseguenti malattie e il ritardo
nello sviluppo motorio e cognitivo. Non è un caso, bensì il segno evidente di
una insensibilità imperante, di un’economia senz’anima, di un modello di
sviluppo discutibile e di un sistema di distribuzione delle risorse ingiusto e
insostenibile. In un tempo in cui la scienza ha prolungato la speranza di vita,
la tecnologia ha avvicinato continenti e la conoscenza ha aperto orizzonti un
tempo inimmaginabili, permettere che milioni di esseri umani vivano - e muoiano
- vittime della fame è un fallimento collettivo, un’aberrazione etica, una
colpa storica".
Il Papa ha poi
ricordato come "gli scenari dei conflitti attuali hanno fatto riemergere
l’uso del cibo come arma da guerra. Sembra allontanarsi sempre più quel
consenso espresso dagli Stati che considera un crimine di guerra la fame
deliberata, come pure l’impedire intenzionalmente l’accesso al cibo a comunità
o interi popoli. Il diritto internazionale umanitario vieta senza eccezioni di
attaccare civili e beni essenziali per la sopravvivenza delle popolazioni. Con
dolore siamo testimoni dell’uso continuo di questa crudele strategia che
condanna uomini, donne e bambini alla fame negando loro il diritto più
elementare: il diritto alla vita. Tuttavia, il silenzio di quanti muoiono di
fame grida nella coscienza di tutti, anche se spesso ignorato, messo a tacere o
distorto. Non possiamo continuare così, poiché la fame non è il destino
dell’uomo ma la sua rovina. Rafforziamo, quindi, il nostro entusiasmo per porre
rimedio a questo scandalo! Non fermiamoci pensando che la fame è solo un
problema da risolvere. È molto di più. È un grido che sale al cielo e che esige
la rapida risposta di ogni nazione, di ogni organismo internazionale, di ogni
istanza regionale, locale o privata. Nessuno può restare al margine della
strenua lotta contro la fame. È una battaglia di tutti".
"Contemplando
l’attuale panorama mondiale - ha osservato il Pontefice - si ha l’impressione
che siamo diventati testimoni abulici di una violenza lacerante, quando, in
realtà, le tragedie umanitarie ben note a tutti dovrebbero spronarci a essere
artigiani di pace. Un’emorragia che dovrebbe attirare immediatamente la nostra
attenzione e che dovrebbe portarci a raddoppiare la nostra responsabilità
individuale e collettiva, risvegliandoci dal funesto letargo in cui siamo
immersi. Il mondo non può continuare ad assistere a spettacoli così macabri
come quelli in corso in numerose regioni della terra. Bisogna porvi fine il
prima possibile. Non possiamo limitarci a proclamare valori. Dobbiamo
incarnarli. Gli slogan non fanno uscire dalla miseria. È urgente superare un
paradigma politico tanto aspro, basandosi su una visione che prevalga sul
pragmatismo dominante che sostituisce la persona con il beneficio. Non basta
invocare la solidarietà: dobbiamo garantire la sicurezza alimentare, l’accesso
alle risorse e lo sviluppo rurale sostenibile".
"È giunta
l’ora - ha concluso Leone XIV - di assumere un rinnovato impegno, che incida
positivamente sulla vita di quanti hanno lo stomaco vuoto e si aspettano da noi
gesti concreti che li sollevino dalla loro prostrazione. Tale obiettivo può
essere raggiunto solo mediante la convergenza di politiche efficaci e
l’attuazione coordinata e sinergica degli interventi. L’esortazione a camminare
insieme, in concordia fraterna, deve diventare il principio guida che orienta
le politiche e gli investimenti, perché solo attraverso una cooperazione
sincera e costante si potrà costruire una sicurezza alimentare giusta e
accessibile a tutti. Solo unendo le nostre mani, potremo costruire un futuro
dignitoso,nel quale la sicurezza alimentare si riaffermi come un diritto e non
come un privilegio. Con questa convinzione, vorrei sottolineare che nella lotta
contro la fame e nella promozione di uno sviluppo integrale, il ruolo della
donna si configura come indispensabile, anche se non viene sempre
sufficientemente apprezzato. Desidero richiamare l’attenzione internazionale
sulle moltitudini che non hanno accesso all’acqua potabile, al cibo, alle cure
mediche essenziali, a un alloggio decente, all’istruzione di base o a un lavoro
dignitoso, affinché possiamo condividere il dolore di coloro che si nutrono
solo di disperazione, lacrime e miseria. Non possiamo aspirare a una vita
sociale più giusta se non siamo disposti a liberarci dall’apatia che giustifica
la fame come fosse una musica di sottofondo alla quale ci siamo abituati".
Aci 16
Una costante storica: guerre e prezzo dell’oro
La crescita del
valore dell'oro è sempre avvenuta in concomitanza con eventi bellici, più
raramente in seguito a crisi economiche. Questa la spiegazione che si trova nei
manuali di economia: l’oro viene cercato e quindi con l’aumento della domanda
si apprezza nei momenti di insicurezza (guerre o crisi) poiché è giustamente
considerato un bene “rifugio".
Ma esaminando
l’andamento del prezzo dell’oro in relazione al debito statale nelle varie
epoche storiche ci si rende facilmente conto che guerre e prezzo dell’oro non
sono causa le une dell'altro: le guerre si fanno quando i debiti statali non
sono più sostenibili e non si trovano altre vie per eliminarli. Ovviamente
eliminare i debiti significa la corsa all’oro per chi ha risparmi da mettere in
salvo mentre i crediti si dissolvono nel nulla.
Questa
correlazione la si comprende meglio capovolgendo il punto di vista: in realtà
non è il valore dell'oro che cresce ma sono le monete
cartacee ("fiat money") che si deprezzano.
Il deprezzamento
delle monete cartacee è a sua volta il meccanismo più semplice per diminuire il
debito, laddove a sua volta il deprezzamento delle monete altro non è che
un altro nome per "inflazione" che entro certi limiti è intrinseca al
sistema economico mercantilista-capitalistico (alta inflazione per brevi
periodi o limitata inflazione a lungo termine) ma per eventi straordinari può
divenire iperinflazione e azzerare sia i risparmi che i debiti ed i
crediti, laddove i risparmi depositati in banca sono a loro volta crediti
poiché il risparmiatore che deposita i propri risparmi su un conto
corrente stipula un contratto in base al quale diviene per la somma
depositata creditore della banca e la banca divenuta sua debitrice gli
conferisce un interesse per l’utilizzo della somma di cui diviene proprietaria
e della quale può liberamente disporre.
Se Karl Marx aveva
con grande acutezza ed acribia analizzato il sistema di produzione
capitalistico mostrandone con precisione il funzionamento, John Maynard Keynes
aveva a sua volta ben individuato ed illustrato le relazioni fra capitale,
moneta, investimenti, ruolo dello Stato, quindi disoccupazione/ piena
occupazione, inflazione/ deflazione e stabilità monetaria,
domanda /offerta, prestiti/ investimenti. Il tutto partendo dall’assioma
intuitivo secondo cui la crescita economica può essere realizzata unicamente
con investimenti e quindi con prestiti/ crediti (che sono appunto creazione di
moneta dal nulla da parte delle banche).
Forse per questo
Keynes, allargando il campo d’indagine, ebbe notevole successo nelle
speculazioni borsistiche, al contrario di Marx, che pare avesse avuto
prevalentemente risultati negativi speculando in borsa.
Base della teoria
keynesiana è l’equilibrio del reddito nazionale (Y) riassunto nella nota
formula Y = C (consumo) + I (investimenti) + G (spesa pubblica). Da
cui deriva che per rimanere a livelli compatibili coi profitti, il tasso
d'interesse e cioè il costo dei crediti richiede logicamente una adeguata
stabilità dei prezzi e quindi un controllo sia dell'inflazione (che
vanificherebbe i profitti) che della deflazione - da affrontare questa coi noti
interventi statali keynesiani - che a sua volta riducendo la domanda farebbe
aumentare la disoccupazione innescando cicli di recessione. Esiste anche il
fenomeno composito di stagnazione/inflazione, come appunto attualmente avviene
in Europa, ma qui entra in gioco la variante "energia" che ai tempi
di Bretton Wood e della teoria keynesiana non aveva ancora il ruolo decisivo
assunto nell'epoca attuale.
Alla base di tutto
il sistema tuttavia, allora come oggi, resta pur sempre l'oro.
Infatti a
Bretton Wood nel 1944 Keynes aveva chiamato la sua proposta
"BANCOR" (dal francese "banque or") cioè una unità
contabile che avrebbe dovuto regolare gli scambi economici internazionali.
Il Bancor era sí
basato sull'oro, aveva un limite che era anche una garanzia di
funzionamento: l'oro poteva essere scambiato con Bancor, ma con Bancor non si
poteva comprar oro, era quindi escluso che investitori o speculatori potessero
commerciare con oro/bancor ed era evitato l'inconveniente della convertibilità
fissa (che a Bretton Wood venne venne invece fissata col dollaro per poi venire
miseramente abolita nel 1971 quando le guerre USA avevano ridotto il dollaro a
carta straccia).
Inoltre il bancor
non era una moneta vera e propria ma appunto una unità contabile della ICU
(Unione di Compensazione Internazionale, International Clearing Union): Paesi
con surplus di esportazioni avrebbero ricevuto Bancor sul proprio conto presso
l'ICU e su questi avrebbero pagato interessi (5% fino al 10%): un meccanismo
per scoraggiare i surplus di esportazioni degli esportatori più aggressivi ed
obbligare i Paesi con bilancia commerciale negativa (surplus di importazioni
contro le esportazioni) a prendere provvedimenti per riequilibrare la propria
bilancia commerciale.
Dunque
una base aurea ma non speculativa, esattamente l'opposto dell'attuale
sistema in corso di disgregazione. Infatti anche se ancora il dollaro è in
apparenza la moneta di riferimento negli scambi internazionale, gran parte ed
in misura crescente il commercio viene regolato con altre monete come appunto
fanno i Paesi BRICS (yen, rupia, rublo, rand sudafricano e real brasiliano).
E non è per
capriccio o collezionismo che esattamente questi Paesi stanno da anni
incrementando le proprie riserve auree, bensí con lungimirante obiettivo di
de-dollarizzare gli scambi commerciali.
Dunque l'oro resta
di fatto e di diritto l'unica base stabile direttamente o indirettamente a
sostegno delle monete cartacee, mentre il binomio petrolio-dollaro si sta a sua
volta sgretolando: è un processo irreversibile anche se non privo di fortissime
resistenze.
Infatti i Paesi
colonialisti attaccano i movimenti di liberazione non solo quando essi cercano
di scacciare gli occupanti ma anche quando la lotta è ... monetaria. In Libia
il colonnello Gaddafi sperimentò sulla sua pelle pagando con la vita il
tentativo di utilizzare una moneta con base aurea (Dinaro Oro) per liberare
l'Africa dalla dominazione monetaria del dollaro e del franco francese. Al
popolo bue in Europa vennero raccontate le più false e ridicole menzogne su
Gaddafi, odiato in particolare dall'Inghilterra per aver sostenuto la lotta di
liberazione del Sudafrica contro l'apartheid.
Ma la vera ragione
della distruzione della Libia e dell’assassinio di Gaddafi fu appunto il timore
di USA e Paesi ex-colonialisti di diritto ma rimasti colonialisti di fatto
(USA,Inghilterra e Francia) di perdere il controllo economico dell'Africa,
processo peraltro inevitabile ed attualmente in corso di completamento grazie
agli investimenti cinesi e russi, cioè all'arrivo di capitali invece di
eserciti di occupazione e rapina.
Da quanto sopra si
possono trarre insegnamenti per comprendere quando si sta svolgendo sotto i
nostri occhi in Europa e dintorni: il prezzo dell'oro cresce
quotidianamente raggiungendo vette incredibili: se nel 2024 l'incremento in
euro era stato del 27 %, quest'anno è stato finora (inizio ottobre) già del
circa 50 %.
Ma allo stesso
tempo stagnano gli investimenti pubblici e diminuiscono quelli privati: un
fatto che non deve sorprendee nessuno poiché in tutta Europa ed in particolare
in Germania sia grandi che piccole ditte falliscono o ridimensionano il
personale, licenziamenti di decine di migliaia di addetti sono fatti correnti e
ovviamente non servono capitali se non si rinnovano gli impianti ma invece li
si chiude.
La pubblicità per
attirare i cittadini ad investire nel bene rifugio (oro e metalli preziosi) è
martellante, pareggiata unicamente dall'offerta di investimenti nel settore di
produzione bellico.
E se a ciò
aggiungiamo l'enorme debito pubblico in crescita per consentire all'industria
degli armamenti di assorbire almeno in parte il personale licenziato da altri
settori produttivi civili, ben si comprende che anche in questo caso ci si
trova dinanzi a una congiuntura di malefici effetti che preclude alla guerra.
Una guerra che
come era facilmente prevedibile è in corso ma anche già perduta dai vassalli
europei della NATO, spinti dagli USA contro la Russia, una ripetizione di
quella del 1941 (Operazione Barbarossa) iniziata dalla Germania e che
viene ancora una volta giocata in territorio ucraino.
Difficile valutare
il reale ruolo degli USA in questo momento poiché dietro i continui voltafaccia
del Presidente non si riescono ad individuare i veri centri di potere che
decideranno come chiudere la partita iniziata dal trio Obama/Biden/Hillary
Clinton nel 2013/14 e lasciata in eredità a Trump che evidentemente tutto può
fare meno che ammettere che cosí come l'allargamento della NATO, si è trattato
di un tradimento delle promesse e degli accordi per la stabilità e sicurezza
reciproca in Europa e che sarebbe cosa sensata per tutti ripetere quanto
avvenuto in Corea, Vietnam, Afganistan e cioè ammettere le maligne intenzioni,
accettare la sconfitta e risparmiare ulteriori massacri e distruzioni.
Ma essendo appunto
le ragioni di questo- come di tutti gli altri conflitti - di natura economica,
saranno coloro che detengono il potere finanziario ed economico a decidere ...
ed i malcapitati di tutte le parti coinvolte a subire le tragiche conseguenze...Europa
compresa.
Graziano Priotto,
Konstanz-Praga, de.it.press 9
A Berlino convegno sul futuro del progetto europeo
Berlino - In
un’epoca di grandi sfide per l’Europa, tornano al centro del dibattito due
figure fondamentali del secondo dopoguerra: Alcide De Gasperi e Konrad
Adenauer. A loro è stato dedicato il convegno “De Gasperi, Adenauer e il futuro
del progetto europeo”, organizzato congiuntamente dalla Fondazione De Gasperi e
la Fondazione Konrad Adenauer, in collaborazione con l’Ambasciata e l’Istituto
Italiano di Cultura di Berlino.
Presenti numerosi
rappresentanti di spicco del mondo diplomatico, accademico, culturale e
giornalistico, provenienti da Italia e Germania.
L’evento ha
rappresentato un momento di riflessione sull’eredità politica e umana di due
protagonisti della costruzione europea. È stato esplorato non solo il loro
comune impegno per l’integrazione del continente, ma anche la straordinaria
amicizia personale che li unì e che seppe gettare ponti duraturi tra Italia e
Germania.
A introdurre il
convegno, alla presenza dell’ambasciatore Fabrizio Bucci, il direttore
dell’Istituto Italiano di Cultura, Alessandro Turci, e la direttrice della
Fondazione De Gasperi, Martina Bacigalupi. La proiezione del cortometraggio “De
Gasperi, visionario e costruttore” è stata accompagnata dagli interventi del
presidente della Fondazione, Angelino Alfano, del policy advisor for Italy
della Konrad Adenauer Stiftung, Philipp Burkhardt, e dell’ambasciatore Luigi
Mattiolo, già ambasciatore a Berlino e consigliere diplomatico dell’ex
presidente del Consiglio Mario Draghi.
È seguita una
conversazione con Mara Gergolet, corrispondente in Germania del Corriere della
Sera, e Tobias Piller, ex corrispondente in Italia e attuale editorialista di
Frankfurter Allgemeine Zeitung, moderata da Martina Bacigalupi. Al centro del
dibattito l’attualità della visione di De Gasperi e Adenauer in un contesto
internazionale che mette alla prova la coesione politica e culturale
dell’Europa, un’occasione per riscoprire le radici dell’Europa unita e
interrogarsi sul futuro del suo cammino politico e ideale.
L’ambasciatore
Bucci, nella sua nota conclusiva, ha sottolineato come l’eredità del pensiero
pragmatico e visionario di De Gasperi e Adenauer non sia oggi solo un monumento
da celebrare, bensì anche un “compito da raccogliere”, rimarcando così la
rilevanza della loro lezione, che “ci invita a guardare oltre l’immediato, ad
avere il coraggio della visione”. Queste due figure fondamentali, ha aggiunto,
“ci mostrano che l’Europa si costruisce quando i leader hanno la forza di
pensare al bene comune europeo. Ci mostrano che la cooperazione tra Italia e
Germania, tra i nostri due popoli, è una condizione essenziale per far avanzare
l’intero progetto europeo”.
L’ambasciatore
Bucci ha inoltre ricordato come il Piano d’Azione italo-tedesco, firmato nel
novembre 2023 proprio a Berlino, sia una prova concreta della cooperazione tra
Italia e Germania nel contesto europeo. “Un documento che ha segnato un nuovo
capitolo della nostra relazione bilaterale, fondato su una visione chiara:
rafforzare la cooperazione in tutti i settori come contributo decisivo al
futuro dell’Unione Europea”, ha concluso.
Il convegno si
inserisce nel programma dell’Anno Degasperiano, promosso in occasione del 70°
anniversario della scomparsa di Alcide De Gasperi: uno statista lungimirante,
considerato tra i padri fondatori dell’Unione Europea e dell’Italia
democratica. (aise/dip 2)
Darmstadt, mostra sulla fotografia italiana, fino all’11 gennaio
Era ormai da più
di quarant’anni che la fotografia italiana contemporanea non trovava nei paesi
di lingua tedesca, ma anche in Europa, non solo uno spazio espositivo
prestigioso, ma soprattutto un’attenzione al mezzo di comunicazione più
rappresentativo e narrativo di una nazione come l’Italia che vanta grandi
maestri dietro l’obiettivo quali Franco Fontana, Luigi Ghirri, Gabriele
Basilico, Guido Guidi, solo per citarne alcuni. Così ci ha ricordato il
fotografo italiano William Guerrieri – in rappresentanza di ben 10 colleghe e
colleghi presenti all’inaugurazione, sabato 27 settembre a Darmstadt presso la
Kunsthalle – all’apertura di una ricca e ben articolata mostra dedicata
alla fotografia italiana dal 1980 ai giorni nostri, curata da Ralph Goertz
dell’Institut für Kunstdokumentation und Szenografie (Istituto per la
documentazione artistica e la scenografia) di Düsseldorf. Un’inaugurazione alla
quale erano presenti 150 visitatori, aperta dai saluti istituzionali del
Direttore della Kunsthalle León Krempel, del sindaco della città di Darmstadt
Hanno Benz e del Console Generale d’Italia Massimo Darchini.
La mostra – che
trova il pieno sostegno dell’Ufficio culturale del Consolato – è veramente
unica proprio per essere una retrospettiva che presenta 42 artisti italiani e
350 lavori esposti in prima assoluta in Germania e si sviluppa negli spazi
della Kunsthalle di Darmstadt in forma di dialogo tra i grandi maestri degli
anni ‘80 e‘90 e le nuove generazioni di fotografe e fotografi di questo primo
quarto di secolo. Nelle sette sale della Galleria d’arte di Darmstadt si apre
così al pubblico un panorama che spazia dagli esordi poetici della “Scuola
italiana” alle voci innovative del presente, dimostrando che in Italia la
fotografia è molto più che semplice documentazione: è un mezzo di dialogo,
riflessione e speranza.
Non è una mostra
sull’Italia meta turistica, luogo ideale di bellezza connotato dalle immagini
patinate e oleografiche del Bel Paese, ma uno spaccato della società,
dell’economia, dei territori, delle autorappresentazioni delle nuove
generazioni, uno specchio delle trasformazioni sociali e culturali di un paese
che si presenta nelle sue diverse dinamiche socio-economiche e culturali, nelle
atmosfere di assenza e presenza e di profonde trasformazioni urbane. In questa
esposizione i fotografi non sono solo cronisti, ma anche voci di un’epoca che
media tra passato e presente. Artisti che disvelano nuove prospettive
sull’identità, sull’appartenenza e sul plurale concetto di patria, temi che
stanno assumendo un’importanza crescente nel nostro mondo globalizzato. È la
fotografia che porta con sé l’insopprimibile testimonianza di un’identità, una
storia, uno spazio preciso e inaggirabile dove allo spettatore si chiede di
addentrarsi in quel frammento di un vissuto rintracciabile e narrabile.
Sono tutti
fotografi che hanno nobilitato lo sguardo sulla quotidianità, condensato
poeticamente lo spazio urbano e rurale e ripensato il rapporto tra immagine e
memoria, tra mezzo fotografico e capacità di rappresentazione di una nazione
che muta come paesaggio umano sia culturalmente che socialmente ed
economicamente, capace di mantenere tuttavia una sua vitalità anche nelle
differenze territoriali, nelle contraddizioni tra modernità e tradizione, nel
confronto tra le generazioni e la periferica presenza di giovani con retroterra
migratorio, in quel nuovo senso di estraniamento e solitudine dei luoghi.
Ciò è
particolarmente evidente nelle posizioni più recenti degli anni 2000: fotografe
e fotografi come Francesca Iovene, Giulia Iacolutti, Carmen Colombo, Michela
Palermo, Tomaso e Federico Clavarino, Piero Percoco, ed altri, affrontano
questioni quali la migrazione e la diversità, la cultura della memoria e le
nuove realtà sociali, l’intimità, l’adolescenza e le sue potenzialità e
incongruenze, il genere e l’identità collettiva. Le loro opere combinano
approcci concettuali con una forte impronta personale, ampliando così gli
orizzonti della fotografia italiana con nuove forme espressive.
Questo nuovo
viaggio in Italia, attraverso quattro decenni di fotografia italiana,
consentirà ai visitatori di entrare in contatto con dimensioni e sguardi altri
sull’Italia contemporanea, da una parte esplorando la varietà dell’arte
fotografica italiana e dall’altra riscoprendo attraverso la forza
dell’immagine fotografica, un tratto o le tracce di quei luoghi italiani che
narrano le incertezze e i mutamenti del quotidiano nonché i diversi spazi
urbani, o intimamente personali, pienamente vissuti e trasformati o viceversa
come spazi ed individui soggetti alla sottile e costante influenza di
quell’ambiente.
Questa quanto mai
suggestiva mostra fotografica – che rimarrà aperta fino al 11 gennaio – farà,
come esposto dal curatore Ralph Goertz, ulteriori due tappe in Germania nel
2026 e nel 2027 con focus espositivi diversi quali quello cronologico o
tematico, in attesa che anche in Italia trovi una sede espositiva che la
ospiti. Un prezioso catalogo (pubblicato dalla casa editrice Buchhandlung
Walter und Franz König), corredato da un’ampia scelta di foto ed interessanti
contributi esplicativi in tedesco e in inglese, completa questo progetto unico
ed alquanto originale nella sua varietà di temi, tecniche fotografiche,
modalità di esposizione, ed accenti che sa porre nel presentare la fotografia
italiana contemporanea.
Michele
Santoriello, de.it.press
Cosmo italiano, le recenti puntate
Gianaurelio
Cuniberti e le nanotecnologie che aiutano il mondo
(24.10) L’ospite
di questa puntata è professore e ricercatore a Dresda, dove tra scienza dei
materiali, biosensori e intelligenza artificiale sviluppa invenzioni che
trovano applicazione poi nell’industria. Ed è un’epoca splendida per essere
scienziati, assicura Gianaurelio Cuniberti chiacchierando con Cristina
Giordano, soprattutto in Germania. Ma cosa fa esattamente Cuniberti e come può
la sua ricerca migliorare il mondo in cui viviamo?
Più sanzioni,
pochi risparmi: il dibattito sul Bürgergeld
(23.10) Muove i
primi passi la discussa riforma del Bürgergeld, il sussidio tedesco simile al
reddito di cittadinanza. I risparmi miliardari promessi da Merz sono smentiti
dalle previsioni del Ministero del Lavoro. E molti percettori non possono
lavorare. Cristina Giordano dà uno sguardo ai dati con Enzo Savignano e con
Roland Preuß, giornalista esperto di mercato del lavoro per la
"Süddeutsche Zeitung". Konstanze Michelitsch è consulente in italiano
sul sussidio per il patronato INCA-CGIL a Monaco.
La difficilissima
ricerca di alloggio per chi studia in Germania
(22.10) Ogni
autunno la storia si ripete: in tutte le città universitarie tedesche parte la
ricerca frenetica di una stanza in affitto o di un posto in uno studentato da
parte delle matricole universitarie. E, di anno in anno, la caccia a un posto
letto a prezzi accettabili diventa più complicata. Enzo Savignano ci presenta i
numeri del fenomeno, uno studente italiano di Colonia ci racconta la sua
esperienza. E infine vi spieghiamo come gli ostelli della gioventù stiano
provando a dare una mano.
Quali
assicurazioni è importante avere - e quali no - in Germania?
(21.10) I tedeschi
hanno la fama di essere uno tra i popoli con più assicurazioni al mondo, quanto
c'è di vero in questo cliché? Con Enzo Savignano riepiloghiamo quali sono le
assicurazioni obbligatorie in Germania. Con l'assicuratore Michele Piccolo
vediamo, invece, quali sono le assicurazioni volontarie più importanti da
avere. Infine, con Elke Weidenbach della Verbraucherzentrale, chiariamo cosa si
deve fare per non cadere in trappole assicurative o uscire da una polizza che
non ci conviene.
Il dibattito sul
servizio militare infiamma la Germania
(20.10) Il
cancelliere Merz vuole trasformare la Bundeswehr nell'esercito con più uomini e
mezzi di tutta l'Ue. Per questo i soldati tedeschi dovrebbero passare da
180.000 a 260.000. In mancanza di volontari, però, questo comporta il ritorno
alla leva. Sui tempi e sui modi di questa operazione il dibattito è
accesissimo. Ce ne parla Enzo Savignano. Sentiamo poi le opinioni sul tema di
due italiani in Germania. E cerchiamo di capire se alla VW di Osnabrück in
futuro si produrranno carri armati.
Folio Verlag,
l'editore-pontiere tra mondo italiano e tedesco
(17.10) Ludwig
Paulmichl, sudtirolese classe 1960, è direttore e cofondatore di Folio Verlag,
casa editrice con sede a Bolzano e a Vienna che, dai primi anni '90, traduce i
migliori autori italiani per i lettori di lingua tedesca. Lo abbiamo raggiunto
alla Fiera del libro di Francoforte per parlare del suo lavoro di scopritore e
mediatore culturale, di gusti letterari… e di feste memorabili alla Buchmesse.
Campare d'arte in
Germania: si può?
(16.10) Siete
persone creative e vi chiedete se in Germania si può vivere lavorando nel campo
dell'arte? Agnese Franceschini ci parla della situazione degli artisti in
Germania, dei finanziamenti statali e delle agevolazioni previste per legge.
Lorenzo Pompa e Mattia Noal, artisti figurativi italiani che vivono in
Germania, ci raccontano le loro esperienze.
Stop dell'UE agli
hamburger vegetariani, ha senso?
(15.10) Il
parlamento europeo ha votato contro il “meat sounding”, cioè l’uso di termini
come bistecca, salsiccia o hamburger per definire prodotti che non contengono
carne. Dietro questo voto ci sono forti interessi economici: ce ne parla Enzo
Savignano. Ma questi prodotti vegetali cosa contengono e quanto sono veramente
preferibili alla carne? Lo abbiamo chiesto alla nutrizionista Silvia Soligon
Consigli su come
riscaldare casa senza spendere troppo
(14.10) Come ogni
anno di questi tempi, l'accensione del riscaldamento domestico è accompagnata
dal timore della bolletta che riceveremo a fine inverno. Quali sono i consigli
più utili per riscaldare in modo efficace, magari anche ecologico, e,
soprattutto, senza rimetterci un patrimonio? Ne parliamo con la collega Agnese
Franceschini, con Gerhild Loer della Verbraucherzentrale NRW e con il
progettista termotecnico, Simone Gualandi
Cannabis legale e
droghe pesanti: cosa è cambiato in Germania?
(13.10)A un anno e
mezzo dalla legalizzazione parziale della cannabis non si registra in Germania
un aumento significativo del consumo ma rimane il problema del mercato nero: i
dettagli da Agnese Franceschini. Quali droghe vengono consumate in Germania e
da chi? Lo abbiamo chiesto a Peter Raiser del Deutschen Hauptstelle für
Suchtfragen. Con Federico Varese, criminologo e docente all’Università di
Oxford, abbiamo parlato del ruolo della 'ndrangheta nel commercio illegale di
cocaina.
Parlando di storia
tedesca con Gianluca Falanga
(10.10) Gianluca
Falanga è un ricercatore specializzato in storia contemporanea tedesca. Ha
pubblicato diversi studi sia sulla DDR e le sue spie che sul
nazionalsocialismo. Originario di Salerno, Falanga vive da anni a Berlino dove
attualmente lavora presso il Museo della Stasi. In questo podcast Luciana
Caglioti e Falanga ripercorrono 80 anni di storia tedesca con uno sguardo
all'oggi e senza tralasciare vantaggi e svantaggi del vivere in una città come
Berlino.
Non solo pranzo
della domenica: mangiare insieme fa bene!
(09.10) Il pranzo
della domenica italiano è ora sulla bocca di tutti, come simbolo della cucina
italiana candidata a patrimonio immateriale dell'Unesco. E mangiare insieme fa
bene, dimostrano vari studi, ma cosa rimane di questo rituale quando andiamo a
vivere all'estero, lontani dalla famiglia? Luciana Caglioti ne parla con
Cristina Giordano e con Marinella Sammarco, chef di Stoccarda, per cui cibo,
convivialità, dialogo, sostenibilità e salute sono inscindibili.
Scopri la pensione
aziendale tedesca, la Betriebsrente
(08.10) È sempre
più importante integrare la pensione statale, anche in Germania: una buona
possibilità è la "Betriebsrente", pensione aziendale in cui investono
molti dipendenti con l'aiuto dei datori di lavoro.Per chi conviene e a cosa
fare attenzione? E se torniamo a vivere in Italia? Di quale riforma discute il
governo tedesco? Luciana Caglioti ne parla con le colleghe Luciana Mella e
Cristina Giordano e con l'esperto Klaus Stiefermann della Arbeitsgemeinschaft
für betriebliche Altersversorgung e.V.
Come funziona il
canone TV in Germania e perché è criticato?
(07.10) Il sistema
radiotelevisivo pubblico in Germania è molto sviluppato e solidamente
finanziato attraverso il "Rundfunkbeitrag". Questa vasta offerta però
è da tempo sotto attacco sia da parte di una parte del mondo politico che da
ricorsi di singoli che si rifiutano di pagare il canone. Con la collega Agnese
Franceschini e Diemut Roether di epd medien approfondiamo il tema. Mentre con
il ricercatore Luca Bagnariol parliamo dell'attuale stato di salute
dell'informazione in Italia.
Cresce la paura di
un attacco russo in Europa
(06.10) Cresce il
nervosismo in Europa per le ripetute violazioni dello spazio aereo ad opera di
droni non identificati e aerei russi, ce ne parla Agnese Franceschini. Come
dovrebbero reagire i paesi europei e quanto è realistica l'ipotesi di un
conflitto tra paesi NATO e Russia? Lo abbiamo chiesto a Vincenzo Camporini, ex
capo di stato maggiore dell'Aeronautica Militare.
Il passato nazista
di grandi aziende tedesche
(02.10) Non è un
capitolo chiuso, quello della collaborazione di grandi aziende tedesche con il
regime nazista: sia per loro dichiarata volontà, come emerge dall'appello
lanciato quest'anno in favore della democrazia, sia per il lavoro degli storici
che fa emergere nuovi dettagli. Ad esempio su una nota azienda cosmetica del
mondo Demeter, come racconta Giulio Galoppo a Francesco Marzano. Lo storico di
Berlino Tommaso Speccher ci parla dell'oscuro passato e dell'atteggiamento di
BMW, Bahlsen e altre.
Un'italiana guida
Deutsche Bahn, luce in fondo al tunnel?
(01.10) A Evelyn
Palla, altoatesina, il compito di risanare le ferrovie tedesche afflitte da
mille problemi, come ci racconta Giulio Galoppo. Per Andrea Giuricin, docente
di economia dei trasporti, solo l'ingresso di concorrenti privati sul mercato
tedesco può migliorare la qualità dei servizi. Intanto il prezzo del
Deutschlandticket sale a partire dal 2026.
Assistenza agli
anziani: mancano i posti ed esplodono i costi
(30.09) Anche in
Germania gli anziani bisognosi di cure ed assistenza sono in costante aumento,
ma mentre le strutture specializzate lamentano una cronica carenza di
personale, gli anziani e le loro famiglie si trovano spesso di fronte a costi
insostenibili per un posto in una casa di riposo e alla crescente difficoltà a
reperire un aiuto anche a domicilio. Ne parliamo col collega Giulio Galoppo,
con Irmelind Kirchner dell’AOK e con Gabriele Landolfo, esperto del settore.
Il cibo che non si
butta via
(29.09) In
occasione della Giornata mondiale contro lo spreco alimentare guardiamo da
vicino il fenomeno in Italia e in Germania con Giulio Galoppo. Giulia Riccio,
italiana che vive a Münster, è una delle attiviste della rete Foodsharing che
ha organizzato una campagna di sensibilizzazione contro gli sprechi alimentari.
Con il "professor antispreco" Andrea Segrè scopriamo perché alcuni
cibi possono essere consumati anche oltre la data di scadenza. Dip 24
Novembre 2025: cinque cambiamenti importanti
Il mese di
novembre 2025 porterà in Germania alcune novità significative che riguardano i
cittadini in vari ambiti: credito, burocrazia, tasse, assicurazioni e pensioni.
Ecco cosa cambia e cosa dovresti sapere per non farti trovare impreparato
Stop alla trappola
del “Compra ora, paga dopo”
I modelli di
pagamento “Buy Now, Pay Later”, che permettono di acquistare subito e pagare in
seguito senza interessi, sono sempre più diffusi, soprattutto tra i giovani.
Tuttavia, l’apparente semplicità può portare facilmente a ritrovarsi in
difficoltà finanziarie. Dal 20 novembre 2025 entreranno in vigore nuove regole
di protezione dei consumatori, basate sulla direttiva UE sul credito al
consumo. Anche i piccoli prestiti e i pagamenti rateali fino a 200 € saranno
soggetti a una verifica della solvibilità, e i fornitori dovranno informare
chiaramente i clienti sui costi e le conseguenze dei ritardi. In più, sarà
possibile stipulare i contratti di credito online, senza più necessità di
documenti cartacei o firme fisiche.
Meno burocrazia
grazie al registro digitale
Il 3 novembre 2025
segna una tappa importante nella modernizzazione della pubblica
amministrazione. Con il cosiddetto “Registermodernisierungsgesetz”, i dati
personali dovranno essere inseriti una sola volta e poi condivisi tra le
autorità competenti. Ciò significa meno moduli da compilare e meno visite agli
uffici. La novità principale riguarda l’utilizzo della numerazione fiscale
(ID-Nummer) nei registri dei documenti d’identità, che permetterà di aggiornare
automaticamente le informazioni, ad esempio in caso di cambio di residenza o
richiesta di nuovo passaporto o carta d’identità.
Più soldi in busta
paga grazie alla Lohnsteuermäßigung
Chi vuole ricevere
subito i vantaggi fiscali invece di aspettare la dichiarazione dei redditi può
presentare domanda per la riduzione dell’imposta sul reddito
(Lohnsteuermäßigung) entro il 30 novembre 2025. Il beneficio riguarda chi ha
almeno 1.830 € di spese pubblicitarie o 600 € di spese straordinarie o oneri
eccezionali nell’anno in corso. Il vantaggio fiscale sarà immediatamente
applicato sulla busta paga di dicembre, senza bisogno di allegare documenti,
anche se sarà comunque necessario presentare la dichiarazione dei redditi per
il 2025.
Attenzione alle
scadenze della Kfz-Versicherung
Se pensi di
cambiare assicurazione auto, il 30 novembre 2025 è il termine ultimo per la
normale disdetta dei contratti che si sarebbero rinnovati automaticamente dal
1° gennaio 2026. In caso di aumento dei premi, resta valido il diritto di
recesso speciale fino a un mese dalla ricezione della nuova tariffa. Anche se
decidi di restare con il tuo assicuratore, conviene chiedere una tariffa
aggiornata 2026, che spesso offre migliori condizioni senza il fastidio di un
cambio contratto.
Riforma del
supplemento pensionistico per l’invalidità
Dal 1° dicembre
2025, il supplemento alla pensione per chi riceve una rendita di invalidità
sarà integrato direttamente nella pensione mensile. La cifra sarà calcolata in
base ai punti retributivi al 30 novembre 2025. Eventuali aumenti saranno
corrisposti automaticamente e copriranno fino a 17 mesi di arretrati (da luglio
2024 a novembre 2025). Il nuovo calcolo influirà anche sul reddito considerato
per le pensioni ai superstiti. Controllare il proprio estratto conto
pensionistico potrebbe portare a sorprese piacevoli. CdI on 21
Questo Esecutivo
di centro/destra potrebbe anche presentare delle ”novità” politiche. Tramontate
le manovre d’apparentamento impossibili, la Penisola, ora, dovrà trovare i
parametri indispensabili per andare oltre. I partiti, “vecchi” o
“ringiovaniti”, sono destinati a un declino anche perché fagocitati
dall’apparato che loro stessi hanno incoraggiato. Il primo ministro donna nella
storia della Repubblica ne è un segnale.
Con la Meloni, la
politica sembra essere stata surrogata con un principio ancora tutto da
chiarire. Insomma, i maggiori “servizi” al popolo italiano dovrebbero essere
attivati già con l’inizio della primavera. I “tempi” per questa svolta
sembrano, quindi, assai prossimi. A patto che i politici di “nuova” generazione
accettino la lezione del passato sistema. Per evitare “ricadute”.
Non rilevando più
una diatriba tra Maggioranza e Opposizione, si dovrebbe uniformare una gestione
più funzionale dell’Azienda Italia. Rappresentare le necessità del Popolo
potrebbe tornare uno degli scopi del nostro Parlamento. Le premesse per una
“nuova arte di governare” non dovrebbero mancare. Non tanto per particolari
capacità politiche, ma per necessità che è stata intesa da chi amministra lo
Stato col capestro della ”fiducia”. Sembrano maturati anche i tempi per dare un
nuovo “spessore” politico per i Connazionali all’estero. Tanto da proporre una
struttura autonoma che abbiamo chiamato DIE (Dipartimento per gli Italiani
all’Estero).
Con l’auspicio di
“novità” socio/economiche degne di tale nome continua l’impegno informativo.
Sempre sperando che basti la capacità del nostro Primo Ministro per mettere in
“fila” la squadra dell’attuale maggioranza governativa. Sempre che
all’orizzonte politico non appaia “qualcuno” intenzionato a “correre da solo”.
Per ora, le nostre considerazioni, più che motivate, restano “in pectore”; come
il DIE. Giorgio Brignola, de.it.press
Settant’anni dall’accordo italo-tedesco sull’invio di manodopera
Gli anniversari
non si celebrano, si studiano
Breve premessa:
questo articolo è scritto senza ausilio dell’Intelligenza Artificiale. È
piuttosto frutto di un’Ignoranza Naturale, accompagnata dalla consapevolezza di
non sapere nulla e dalla perenne esigenza di volerne sapere di più.
Detto questo,
saltano agli occhi gli annunci e gli inviti di queste settimane e mesi per le
“celebrazioni”, in taluni casi per i “festeggiamenti” del settantesimo
anniversario dell’accordo italo-tedesco sul reclutamento di manodopera, noto
anche come „Anwerbevertrag“.
La domanda è
questa: ma cosa c’è da festeggiare e da celebrare? La triste ricorrenza di
quando due Stati trovarono un accordo sulla pelle dei lavoratori?
Nel 1955, Germania
e Italia sembrano essersi detto: “A me manca manodopera di scarso livello, dopo
che i miei uomini, tornati dalla guerra o ancora prigionieri in Russia, sono
pochi e mezzo sciancati. A me, invece, manca il lavoro e i disoccupati cominciano
a dare fastidio, buttandosi tra le braccia del Partito Comunista. Bene.
Facciamo l’accordo!”.
Ho letto da
qualche parte che “Gli anniversari non si celebrano, si studiano!”
E questa mia
interpretazione del pensiero socioeconomico, alla base dell’accordo del ’55,
non è certo frutto di studio e non sarà andata proprio così, ma il succo della
questione rimane: una Germania postbellica in crescita e con capitali bramosi
di espansione, che arrancavano nel trovare uomini e donne necessari per
mantenere in moto una colossale produzione, a fronte di un’Italia con un
meridione cronicamente ridotto con le pezze ai fondelli, afflitto da
analfabetismo, mortalità infantile, addirittura fame e … disoccupazione!
L’accordo sul
reclutamento della manodopera tra Italia e Germania si sarebbe dovuto chiamare
più onestamente “Accordo Italo-tedesco per il Meridione d’Italia e alcune zone
depresse del Settentrione”.
Non era trascorso
nemmeno un secolo dalla guerra tra Piemonte e Regno delle Due Sicilie, al cui
seguito il Mezzogiorno era ridotto letteralmente alla fame. Il risultato? La
prima emigrazione di massa! Tra il 1876 e il 1915 circa 14 milioni di italiani
lasciarono il Paese.
Poi la Prima
guerra mondiale, poi la Seconda e, non tanto stranamente, il fenomeno si
ripeteva inesorabilmente. L’Italia unita, e ora repubblicana, non era in grado
di sanare la sua parte più malata: il Meridione.
Nel 1955, anno
dell’Accordo Italo-tedesco sul reclutamento della manodopera, la Legge
fondamentale e fondativa della Repubblica italiana, la Costituzione,
approvata il 22 dicembre 1947, aveva appena otto anni e doveva essere ancora
accompagnata per mano prima di rendersi autonoma, accettata, normale per tutti.
I pericoli di quel
periodo? Gli estremismi. La fame del Meridione, e i gravi disagi in alcune zone
del Settentrione come il Friuli, creavano mostri pericolosi per la giovane
Italia Repubblicana. Il separatismo in Sicilia, la nostalgia del “Duce” da un
lato e il Marxismo Leninismo dall’altro, con un Partito Comunista Italiano
affascinato dal volto umano di Nikita Krusciov, dopo la morte del burattinaio
Mangiafuoco, in arte Josif Stalin.
Una pentola a
pressione senza valvola di sfogo. Ed è qui che il Governo dell’epoca,
democristiano fino al midollo e guidato dal siciliano Mario Scelba, fece un
atto esemplare di “Realpolitik”: questa gente deve uscire dal Paese prima che
salti tutto in aria.
Per salvare la
Costituzione, la Costituzione fu piegata quasi fino alla frattura.
L’articolo 1 della
Costituzione Italiana sancisce, infatti, che „L’Italia è una Repubblica
democratica, fondata sul lavoro“ e che „La sovranità appartiene al popolo, che
la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione“.
Con l’accordo fu
sancita la negazione del primo obbligo costituzionale che è la “fondazione sul
lavoro” di una nazione ora dichiaratamente incapace di offrire pane e lavoro a
buona parte dei propri cittadini.
La seconda, e
gravissima negazione costituzionale dell’accordo del ’55, toccava proprio la
base della Democrazia: la sovranità popolare.
Una volta mandati
all’estero, infatti, questi cittadini furono praticamente esclusi
dall’esercizio della “Sovranità popolare”. Chi andava più a votare? Quale
emigrato in Germania poteva mai più interessarsi della vita politica, civile,
amministrativa del proprio Paese? Lontano dagli occhi, lontano dal cuore e…
dalle urne elettorali della “Madre Patria” e così sia! Amen.
E, a proposito di
Amen. Furono i preti italiani a prendersi cura di questi uomini, soli ed
emarginati, appena arrivati in Germania. Nella mia pubblicazione del 2016
“Cinquant’anni della Missione Cattolica Italiana a Francoforte sul Meno” sono
raccolte le testimonianze dei primi missionari in Germania come Don Aldo
Casadei e Don Silvano Ridolfi. Racconti che fanno accapponare la pelle sulle
condizioni di vita di questa gente, di quelli che furono l’oggetto vivente di
questo Accordo Bilaterale.
Myriam Gigliotti
(L’accordo italo – tedesco del 20 dicembre 1955 – Progetto Radici) scrive:
„L’obiettivo della temporaneità? della permanenza in Germania dei
“Gastarbeiter”, in questo periodo, è palesemente quello di disincentivare lo
stabilizzarsi dei lavoratori italiani sul territorio germanico ed evitare di
conseguenza un incremento della comunità? italiana attraverso possibili
ricongiungimenti familiari. Si tratta di un’emigrazione italiana che
viene definita di tipo “fordista”, nella quale cioè? prevale una
concezione dell’immigrazione funzionalista, strettamente connessa ai fabbisogni
congiunturali di manodopera.”
E da qui
scaturisce il sentimento di tristezza, almeno quello mio personale, di fronte a
questo settantesimo anniversario. Non si può festeggiare e celebrare un
trattato che ha incoraggiato l’abbandono della propria terra, a scapito della
fascia più debole della società italiana.
E se questa
“emigrazione di massa studiata a tavolino” non è finita in dramma collettivo,
lo si deve alla Chiesa cattolica da un lato e ai Sindacati dei lavoratori
tedeschi dall’altro. Furono i sindacati tedeschi a dare una prima dignità ai
lavoratori italiani, definendoli “Kollegen” e non più “Gastarbeiter”,
soprattutto quando li accettarono alle urne per le elezioni dei Consigli di
fabbrica, indipendentemente dalla nazionalità di provenienza. Ora l’emigrato si
definiva come lavoratore tra i lavoratori.
I datori di
lavoro tedeschi considerarono anche questo. Con L’accordo italo-tedesco del 20
dicembre 1955,“Anwerbevertrag“, la Germania imponeva, infatti, il principio
della rotazione, negando fino all’ultimo di essere un Paese di immigrazione
“Einwanderungsland”, mentre l’Italia cedeva all’osceno baratto “uomini per
merci agevolate”, camuffato da trattato a favore di un’emigrazione “regolata e
protetta” e in nome di una “Realpolitik” tanto necessaria quanto cinica.
Quel trattato non
ha nulla da spartire con l’integrazione italiana in Germania.
Quella
integrazione se la sono conquistata uomini e donne emigrati sul posto di
lavoro, nel vicinato, a scuola solo ed esclusivamente grazie a infiniti
sacrifici e alla indomabile volontà di dare una vita dignitosa ai propri figli.
Non c’è niente da
festeggiare, non c’è niente da ringraziare ma tanto da riflettere, per esempio,
su quale sia oggi la posizione dello Stato italiano nei confronti di oltre
sette milioni d’Italiani sparsi per il mondo.
I figli dei figli
dei lavoratori del ’55 hanno perso il riconoscimento automatico della
cittadinanza italiana. I corsi di lingua e cultura italiana ai figli degli
emigrati sono, di fatto, aboliti, i servizi consolari azzoppati dalla spending
review -e non si sono mai più ripresi- con una brutale digitalizzazione che
mortifica gli anziani, proprio quelli che nel ’55 furono spediti in Germania.
Eravamo
scomoda zavorra per l’Italia di allora? Forse lo siamo ancora? Domande
polemiche? Sì! A volte bisogna anche esagerare per ottenere ascolto in una
pericolosa tendenza alla rimozione di tutto quello che fu alla base
dell’emigrazione. Fa male sentire che i propri nonni in Germania hanno anche
dormito nelle baracche con i pidocchi, ma negare la loro storia significa anche
negare la loro forza di volontà.
Per quanto mi
riguarda, faccio ogni sforzo per non dimenticare la faccia di mio padre, morto
a cinquantanove anni appena finito il turno di notte in una fabbrica tedesca.
Questa è la mia
cicatrice in pieno volto che mi brucia ogni volta che si alzano i calici,
brindando all’emigrazione con tarallucci e champagne. Pasquale Marino, CdI on.
13
Servizi per i cittadini e le imprese all'estero: iniziato l’esame dell’Aula
Roma - È iniziato
questa mattina nell’Aula di Montecitorio l’esame del disegno di legge
"Disposizioni per la revisione dei servizi per i cittadini e le
imprese". Di iniziativa governativa, il ddl è collegato alla manovra di
finanza pubblica per il 2025.
Ad illustrare il
testo ai colleghi è stato il relatore Andrea Orsini (Fi), il cui intervento è
stato seguito da quello di Toni Ricciardi (Pd), relatore di minoranza, e di
Fabio Porta (Pd), unico deputato iscritto a parlare.
Il provvedimento è
composto da sette articoli divisi in tre Capi, il primo dei quali “incide
profondamente sulle funzioni consolari”, ha detto Orsini, perchè “concentra le
risorse sulle attività prettamente di rappresentanza e di tutela dei
connazionali all'estero, sottraendo ai consolati le competenze burocratiche e
amministrative che non sono proprie della loro funzione: mi riferisco, nello
specifico, al riconoscimento della cittadinanza iure sanguinis”. Le pratiche
per il riconoscimento, infatti, saranno gestite “da un'apposita struttura
specializzata presso il Ministero degli Esteri”. Questo accadrà, in base ad un
emendamento approvato in Commissione, presumibilmente dal 2028, cioè “dal 1°
gennaio del terzo anno solare successivo a quello in corso alla data
dell'entrata in vigore della legge”.
Ai consolati
rimarrà la competenza di “accertare il mantenimento della cittadinanza da parte
di persone residenti nella circoscrizione e già riconosciute come cittadini, e
il conseguente riconoscimento del possesso della cittadinanza per i loro figli
minori”.
Le domande di
riconoscimento della cittadinanza che saranno presentate alla nuova struttura
del Maeci dovranno essere inviate “esclusivamente tramite servizio postale, in
deroga a quanto previsto dal codice dell'amministrazione digitale, corredate
dalla documentazione cartacea originale e della prova del versamento dei
servizi consolari”. La scelta del mezzo cartaceo, ha rivendicato il relatore,
“ha lo scopo di rendere più facile l'individuazione di anomalie, frodi o di
altre scorrettezze nella documentazione che proviene da Paesi molto diversi fra
loro sul piano sia della digitalizzazione stessa sia dei controlli di
regolarità antifrode. Naturalmente, le comunicazioni ufficiali fra il
richiedente e il MAECI si svolgeranno esclusivamente con posta elettronica, con
valore di notifica, anche se non certificata”.
L’iter del
provvedimento – grazie all’approvazione di un altro emendamento – dovrà
concludersi non in 48 mesi ma in 36.
L'articolo 2
“disciplina la legalizzazione di firme di atti da e per l'estero, ai fini di
superare alcune incertezze applicative”, l'articolo 3 tratta modifiche alla
legge sull'anagrafe e il censimento degli italiani all'estero per adeguarla ai
cambiamenti normativi avvenuti in materia di anagrafe – cioè l’Anpr -
l'articolo 4 introduce alcuni aggiornamenti alla normativa sui passaporti.
Quanto alla Carta
di identità elettronica, l'articolo 5 prevede che “la carta d'identità sia
titolo valido per l'espatrio, se non sussiste una condizione che legittima il
diniego al ritiro del passaporto”. Grazie ad un altro emendamento, ora gli
iscritti Aire potranno chiedere la Cie anche ai Comuni di residenza.
L'articolo 6
contiene alcune disposizioni organizzative relative all'ordinamento del
personale della Farnesina e l’ultimo, il 7, reca le coperture finanziarie.
Relatore di
minoranza e deputato eletto all'estero, Toni Ricciardi ha
riconosciuto le modifiche approvate in Commissione, sostenendo però che non
sono ancora sufficienti per tutelare i connazionali che, ha ricordato citando
il sottosegretario Silli, sono diventati 7.300.000.
Anche in questa
sede, Ricciardi ha ribadito le critiche delle opposizioni alla centralizzazione
delle pratiche di cittadinanza alla Farnesina – “ancora non è ben chiaro come
codesta organizzazione possa gestire una pletora di cittadinanze variegate e
variopinte e capire come intervenire dal punto di vista legislativo e
procedurale”; al tempo previsto per espletare le pratiche – 36 mesi sono
comunque più dei 24 previsti dalla legge sulla Pa; all’esclusività della
trasmissione della documentazione cartacea in un mondo che ha va verso la
digitalizzazione.
“Siete il Governo
che maggiormente ha sottratto agli italiani all'estero”, ha detto Ricciardi
citando le riforma sulla cittadinanza entrata in vigore a maggio.
“Anche durante la
trattazione in Aula, attraverso gli emendamenti che abbiamo ripresentato e
attraverso gli ordini del giorno, continueremo e cercheremo di attenuare la
penalizzazione crescente che, ahinoi, questo Governo sta adottando nei
confronti di un patrimonio che l'Italia ha e che sono gli italiani all'estero”,
ha annunciato il deputato eletto all’estero, secondo cui “nell'arco del
prossimo quinquennio, rischieremo di raggiungere quota 10 milioni di iscritti
all'AIRE”.
Unico iscritto a
parlare Fabio Porta, deputato Pd eletto in Sud America, che ha riconosciuto
“alcuni significativi miglioramenti” apportati in Commissione al ddl che
continua ad avere “un impianto che mantiene fortissime criticità che rischiano
di tradursi in nuovi oneri per i connazionali e in nuovi colli di bottiglia per
la stessa rete consolare, specialmente nella fase di transizione”. L’auspicio è
che “i lavori dell'Aula” possano “perfezionare questo provvedimento,
salvaguardando diritti, efficienza, sostenibilità finanziaria”.
Ribadite le
critiche alla nuova legge sulla cittadinanza, Porta, come Ricciardi, ha
reiterato le perplessità delle opposizioni per la gestione centralizzata delle
pratiche, la loro “cartacizzazione” e i tempi: perché, come detto, “è vero che,
grazie a un nostro emendamento accolto dal relatore, dal Governo, li abbiamo
ridotti da 48 a 36 mesi, ma ricordo che il tempo normale previsto dalla legge
di un iter amministrativo è di 24 mesi”. Secondo Porta, la nuova struttura “non
sarà adeguata a rispondere a un flusso che arriverà da tutto il mondo”. Quanto
ai flussi finanziari, “noi avevamo chiesto di introdurre il criterio secondo il
quale i consolati devono essere remunerati, retribuiti, sostanzialmente
rafforzati, in base a quanto incassano rispetto ai servizi, quindi passaporti,
cittadinanze e documenti anagrafici. Questo criterio non è stato recepito, gli
emendamenti volti ad evitare tagli al funzionamento della rete non sono stati
accolti, e anche questo danneggia, sostanzialmente, il provvedimento”. Il deputato
ha quindi elencato tutte le proposte delle opposizioni bocciate dalla
maggioranza, soffermandosi in particolare sul “no” all’emendamento che
“prevedeva una durata illimitata dei passaporti oltre il compimento dei 70
anni”, che avrebbe molto aiutato i connazionali più anziani. Porta – così come
Ricciardi - ha quindi il lavoro del relatore e la disponibilità del
sottosegretario Silli grazie alle quali nel passaggio in Commissione il testo è
stato migliorato: “siamo riusciti a fare slittare di 1 anno la decorrenza di
questo nuovo servizio, dal 1° gennaio 2027 al 1° gennaio 2028; abbiamo
approvato interventi significativi sui tempi dei procedimenti di riconoscimento
della cittadinanza; abbiamo rafforzato la tutela dei dati nel possibile
affidamento a operatori esterni delle fasi di spedizione, ricezione,
digitalizzazione delle istanze di cittadinanza, prevedendo la conformità alle
indicazioni del Garante per la protezione dei dati personali, come proposto in
un altro emendamento approvato in Commissione”. Il “risultato più importante”
per Porta risiede nell’aver introdotto la possibilità del rilascio della Cie
nei Comuni, una “richiesta storica delle comunità italiane all'estero”.
All’Aula
“chiediamo di completare la transizione digitale del procedimento di
cittadinanza con piattaforme sicure, integrate, prevedendo l'uso degli
originali solo quando strettamente indispensabili e con pre-verifiche digitali
certificate; di rimodulare i tetti transitori alle domande per nuovo ufficio e
consolati, legandoli a indicatori di performance e obiettivi di implementazione
tecnologica per evitare che i 36 mesi siano sistematici mentre dovrebbero
essere eccezionali; di rafforzare la rete con un incremento selettivo di
organico, fondi di funzionamento, ripristinando un equilibrio più favorevole
alle sedi all'estero nella riassegnazione dei proventi; di attuare la legge di
riforma dei patronati”. Sulla Cie “vogliamo che si stabilisca un cronoprogramma
vincolante per i comuni, affinché la carta d'identità elettronica venga
effettivamente concessa con un monitoraggio pubblico e supporto ai comuni.
Infine, occorre definire standard operativi tra MAECI e Viminale per assicurare
l'aggiornamento tempestivo dei registri, anche ai fini elettorali, dello stato
civile”. (aise/dip 14)
La tempesta sulle
tariffe doganali scatenate dall’Amministrazione Trump sottintende un forte
attacco al sistema commerciale internazionale. Si concretizza un sostanziale
disconoscimento dell’approccio multilaterale regolato dal World Trade
Organization (WTO) – al quale partecipano 166 Paesi –, sostituito da iniziative
unilaterali. Gli effetti intimidatori e coercitivi su singoli Paesi, non
compatibili con il WTO, mettono a rischio le regole del gioco consolidate.
Peraltro, già da qualche anno il WTO è indebolito a causa delle divergenze tra
i Paesi firmatari su argomenti fondamentali quali sviluppo, trattamento
speciale e differenziato, e necessità di riforme. Questa situazione ha ridotto
la rilevanza del WTO e causato il lento declino della sua missione, volta a
garantire condizioni eque e paritarie e la liberalizzazione degli scambi
commerciali.
Tutto ciò mette a
rischio la stabilità degli scambi e la funzione chiave del WTO, cioè il sistema
di risoluzione delle controversie, che prevede che un paese soccombente possa
ricorrere in appello. Questo sistema è stato bloccato dagli Stati Uniti: non approvando
la nomina dei giudici, hanno provocato la paralisi dell’organismo di appello
del WTO, che di fatto ha cessato la sua funzione. Tale blocco imposto dagli Usa
comporta che i Paesi membri non possano più ricorrere alla funzione che giudica
le controversie: un Paese che perde una disputa può ricorrere in appello, ma il
suo funzionamento è bloccato. Continue reiterazioni mettono in crisi il sistema
del WTO.
Le critiche –
peraltro giustificate – di inefficienza del WTO inducono ad affermazioni come
declino, collasso, disincanto per una sua riforma, mentre si assiste al
consolidarsi dell’anarchia e della frammentazione nel sistema commerciale
multilaterale che regola gli scambi. Il quadro è frammentato e
contrastato e solleva interrogativi.
I diversi approcci
Cina, USA e UE
Pechino considera
centrale il ruolo del WTO (ne è membro dal 2001) nell’ambito del
multilateralismo che intende cavalcare. Alla riunione della Shanghai
Cooperation Organisation (SCO) a Tianjin, con lo «Statement of the Council of
Heads of State of the SCO Member States in Support of the Multilateral Trading
System» è stata affermata l’importanza della cooperazione multilaterale in
contrapposizione a misure protezioniste e coercitive che violano la Carta delle
Nazioni Unite, i principi e le regole del WTO, del quale si favorisce una
riforma. Tuttavia, il ruolo della Cina è da tempo al centro delle controversie
riguardanti da un lato la capacità del WTO di garantire i propri standard, e
dall’altro pratiche commerciali scorrette come sussidi e prestiti non dichiarati,
dumping e furto di proprietà intellettuale.
Gli Stati Uniti,
accentuando le proprie politiche commerciali unilaterali, mettono in evidenza
le criticità del WTO. In pratica, Trump vuole fare piazza pulita del
multilateralismo che ha garantito per decadi stabilità e garanzie nella
regolamentazione degli scambi commerciali. Già nel 2019 gli Usa avevano
provocato una paralisi nel funzionamento del WTO per la risoluzione delle
controversie, non approvando la nomina di due dei tre giudici dell’Appellate
Body, che ha quindi cessato la sua funzione.
La critica
principale sollevata dagli Usa contro l’Appellate Body del WTO riguarda la sua
troppo estesa (judicial overreaching) interpretazione dei Trattati WTO, che
crea nuovi obblighi e impatta sulla creazione di precedenti legali. Secondo gli
Usa – che hanno perso il 90% dei casi anti-dumping – questi aspetti non
rientrerebbero tra le competenze dell’Appellate Body. È evidente che si vuole
libertà d’azione, considerando che la norma multilaterale prevale su tutte le
altre, ma non è comunque chiaro l’obiettivo americano: negoziare per riformare,
smontare il WTO o ritirarsi? Si osserva dunque un approccio ambiguo, di “va e
vieni”, a volte anche collaborativo. Trump ha nominato infatti un nuovo
ambasciatore presso il WTO e il Direttore Generale dell’organizzazione
Okonjo-Iweala ha nominato sua vice un’altra americana.
Eppure, per
salvaguardarsi da dazi unilaterali, Paesi come Brasile e Cina hanno comunque
fatto ricorso al WTO. Allo stesso tempo la Commissione Europea aveva minacciato
a sua volta la richiesta di consultazione, poi ritirata, preliminarmente a un
ricorso al WTO contro gli Usa, come deterrente per arrivare a una soluzione
diplomatica bilaterale. Ma anche se si fosse arrivati, in sede di contenzioso
WTO di ultima istanza, a una condanna degli Usa, come per esempio abolire o
ridurre le misure giudicate incompatibili che causano un “unfair advantage”,
l’impossibilità di appellarsi blocca il funzionamento del processo.
Il WTO
potrebbe funzionare?
Senza aderire a
posizioni fortemente critiche espresse dalla von der Leyen, che ha considerato
il WTO “defunct”, e dal Cancelliere Merz, che ha dichiarato che il WTO “non
funziona da anni”, si aprono questioni sull’efficacia dei ricorsi al WTO. In
realtà, il funzionamento del meccanismo per la risoluzione delle controversie a
un certo punto si inceppa ma non del tutto.
Per fronteggiare
le azioni unilaterali di Trump, i Paesi del WTO possono sempre minacciare
ricorsi all’organizzazione come deterrente, confermando così il suo
ruolo. Per rispondere alla crisi del sistema innescata dalla decisione
americana di impedire l’operatività del ricorso all’appello nelle controversie,
si è trovata una soluzione parziale ad interim (Multi-Party Interim Appeal
Arbitration Arrangement – MPIA), contemplata dal WTO, che ricorre alle stesse
procedure, preservandole. In pratica, i 26 Paesi partecipanti, tra i quali Ue e
Cina, accettano volontariamente di rinunciare a qualsiasi appello al WTO
Appellate Body per evitare situazioni di “void”, e si affidano a un arbitrato.
Sono previsti limiti, quali l’efficacia solo tra le parti in causa e la
competenza solo per quanto necessario, senza creare precedenti legali, né
interpretare le norme, né confermare, modificare o rigettare le conclusioni
adottate dal WTO Dispute Settlement Panel. I primi ricorsi hanno mostrato che
l’MPIA funziona.
Il WTO va
considerato marginale?
L’attivismo e il
crescente interesse dei Paesi per il WTO in questi anni mostrano un quadro
differente rispetto alle critiche. Dal 2024 a oggi infatti il numero di nuove
controversie portate al WTO è raddoppiato e la maggioranza dei Paesi rispetta
le regole dell’organizzazione. Tra le più note richieste di attivazione di
Panel o consultazioni, ci sono quelle sui dazi sulle auto elettriche cinesi o
sull’acciaio e l’alluminio. Come ricorda Angela Ellard, già vice Direttore
Generale del WTO, “si può dire che il sistema WTO è malconcio e poco
efficiente, ma continua a funzionare per la risoluzione delle controversie. Da
quando, sei anni fa, l’Appellate Body ha cessato di funzionare, si sono
registrati 28 casi di controversie risolte, 32 appelli “nel vuoto” del blocco
delle procedure e 13 i casi portati all’appello volontariamente dalle parti in
causa con l’accordo temporaneo ad interim MPIA”.
Accanto alle
controversie si presenta un quadro più ampio e dinamico del WTO, che include
varie iniziative: l’accordo multilaterale sui sussidi alla pesca del 2022 è
entrato in vigore il 15 settembre. È il primo che riguarda sostenibilità e
clima (protezione dei global commons e level playing field), la sospensione
vincolante circa i vaccini per il COVID-19, l’accordo Trade Facilitation, le
decisioni sulla sicurezza alimentare, la moratoria sui dazi per l’e-commerce e
l’avvio di negoziati per la riforma del WTO.
Lasciar passare la
tempesta, tra disillusioni e proposte di riforma del WTO
In questa
turbolenza globale si possono individuare alcune prospettive, sullo sfondo
della notevole capacità di tenuta del commercio internazionale nel primo
semestre di quest’anno, corrispondente all’annuncio delle tariffe “reciproche”
di Trump. Secondo l’Unctad, gli scambi globali sono aumentati di 300 miliardi
di dollari nello stesso periodo. Si tenta di superare lo stallo di Ginevra.
Von der Leyen ha
proposto agli 11 Paesi dell’accordo di partenariato CPTPP (Comprehensive and
Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership) – da cui la prima
Amministrazione Trump si era già ritirata nel 2016 – di elaborare proposte
comuni per una riforma. Si è anche dibattuta l’idea di un nuovo accordo
commerciale, una sorta di alternativa o “sostituto” del WTO, ma senza gli Stati
Uniti, che avrebbe una forza economica e un’ampiezza dell’area di libero
scambio sufficienti da imporsi e preoccupare grandi potenze con intenzioni
coercitive. Sarebbe una soluzione negoziata esterna al WTO.
I Paesi firmatari
del WTO, alla sua ultima Conferenza Ministeriale del 2024, hanno ribadito
l’impegno prioritario per una riforma di meccanismi e procedure per superare
l’impasse, ripristinando un sistema di risoluzione delle controversie che
funzioni pienamente e correttamente, senza tuttavia trovare un consenso.
L’attività è proseguita in luglio con un secondo round di consultazioni
informali coordinate dal Facilitator for WTO Reform e dal WTO General Council.
Ma c’è disaccordo perfino sul significato di WTO reform. È una situazione in
cui tra i Paesi rimane un sostanziale disaccordo sui temi di fondo del WTO,
insieme alla percezione che questo non costituisca una soluzione ai problemi
del commercio, e alla disillusione e perdita di fiducia nel multilateralismo.
Per superare questa sfiducia viene auspicato dal Facilitator un cambio
culturale e di comportamento.
In questo quadro è
degno di nota l’importante passo avanti per la rimozione di un ostacolo alla
riforma del WTO: il premier cinese Li Qiang ha annunciato, a margine
dell’Assemblea Generale dell’ONU, la rinuncia, riguardo ai negoziati per la
riforma, al “trattamento speciale e differenziato” in quanto paese in sviluppo,
sempre osteggiato dagli USA. La decisione riflette le nuove realtà economiche e
conferma l’impegno di Pechino per un sistema commerciale bilanciato ed equo.
Il Public Forum
organizzato a settembre dal WTO ha avuto in agenda anche la riforma
dell’Organizzazione, tema che coinvolge molti Paesi interessati a trovare una
soluzione. I tempi saranno lenti, ma proseguono lungo un percorso mentre il WTO
continua, bene o male, a funzionare, mentre incombe il rischio di passare da un
sistema di regole multilaterali “rules-based” al ritorno a un sistema
“powers-based” fondato sulla competizione tra grandi potenze.
Fabrizio Braghini,
Aff.Int. 28
Confsal-Unsa, un sindacato concentrato sui problemi del posto di lavoro
nella Farnesina
Si chiama
Confsal-Unsa e sta per Confederazione dei Sindacati Autonomi dei Lavoratori,
mentre UNSA sta per Unione Nazionale Sindacati Autonomi e il tre 3 ottobre
2025 non ha chiamato i propri iscritti al grande sciopero contro la politica
italiana verso la guerra nella Striscia di Gaza e per la solidarietà con il
popolo palestinese.
Sciopero politico,
quindi, indetto da vari sindacati, in capo a tutti La CGIL seguita da USB, Cib
Unicobas, SGB e CUB.
Cacio sui
maccheroni per organizzazioni sindacali che, tradizionalmente e
ideologicamente, con i partiti al governo hanno scarsissima identificazione?
Facciamo però una
premessa, prima di ragionare se sia giusto o no da parte di un sindacato
chiamare ufficialmente i propri iscritti a schierarsi pro o contro partiti
politici che formano un governo.
Lo sciopero
generale è certamente legittimo e spesso efficace. Lo insegna la storia. Chi
non ricorda lo sciopero generale in Polonia ai tempi di Lech Walesa con il suo
sindacato Solidarnosc? Fu l’inizio della caduta di un intero sistema politico,
la prima crepa che finì con il crollo del muro di Berlino. Ad onore del vero,
insieme al coraggio dei lavoratori dei cantieri di Danzica, capeggiati dal
futuro Presidente della Polonia Walesa, bisogna ricordare anche i milioni di
dollari che dal Vaticano arrivarono a Varsavia per sostenere la lotta e
lasciamo poi stare da dove venivano quei milioni maneggiati da un certo
Marcinkus molto noto alla Giustizia italiana.
Affermiamo
semplicemente che lo sciopero politico è legittimo, talvolta giusto e di tanto
in tanto anche efficace.
Ma se un sindacato
decide di non indirizzare i propri iscritti, e sotto la propria sigla, alla
mobilitazione politico-partitica è per questo un sindacato inerme e poco
sensibile alla questione, in questo caso, umanitaria in Palestina?
Conosco benissimo
quel Sindacato, ne conservo ancora la tessera tra le cose più care. E la cosa
che maggiormente ho ammirato in tanti anni di lotta per la difesa dei
lavoratori, all’interno del MAECI e sparsi per il mondo nella rete consolare,
era proprio la parola “autonomia” scritta a lettere cubitali sulla propria
bandiera.
E cosa s’intende
per autonomia? Coltivare l’orticello per gustare autonomamente i pomodorini
d’estate o accendere il fuocherello per rendersi autonomi dalle grandi
multinazionali del gas o del petrolio?
No di certo. Per
autonomia si intende libertà e indipendenza da correnti e partiti politici,
proprio mentre i grandi e storici sindacati legavano i propri interessi a
quelli dei partiti (CGIL uguale filocomunisti, UIL uguale filosocialisti CISL
uguale filodemocristiani) fino ad entrare in conflitto tra opportunità
partitica e interessi dei lavoratori.
Vi assicuro che
all’interno della Confsal-Unsa ho incontrato iscritti a quel sindacato convinti
che Giorgia Meloni sia come la Madonna di Lourdes capace, cioè, di lenire i
mali del mondo e ho incontrato iscritti che tutte le sere si leggono e si
rileggono il Capitale di Carlo Marx. Quello che ci univa e ci unisce?
L’incredibile capacità di pragmatica concentrazione sui problemi e sulle
difficoltà sul posto di lavoro.
Vi assicuro che il
tre ottobre, nelle piazze di quasi cento città italiane e in mezzo a più di due
milioni di persone, c’erano anche quelli della Confsal-Unsa Esteri per dare
forza alla giusta espressione di un’indignazione popolare. Sì, ma senza la bandiera
del Sindacato! Certo, senza la bandiera del Sindacato giacché in quel sindacato
non si danno ordini di squadra e in quel Sindacato è rispettata l’opinione
politica di ogni iscritto che, come il, voto, è personale e segreta. Pasquale
Marino, CdI on 20
Consolati: una riforma per i servizi agli italiani nel mondo
Roma – “Oggi
votiamo un provvedimento molto importante per la comunità italiana nel mondo:
una riforma concreta dei servizi consolari, dell’AIRE, delle procedure di
cittadinanza e dei documenti d’identità per gli italiani all’estero.
Basti pensare alla
possibilità di rinnovare la Carta d’Identità Elettronica (CIE) nei comuni in
Italia anche per noi italiani all’estero e all’integrazione dell’AIRE
nell’Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente, che finalmente unifica i
dati tra Comuni, Farnesina e consolati, rendendo l’amministrazione più vicina
ai cittadini nel mondo.
Le procedure per
la cittadinanza saranno gestite centralmente a Roma, trattandosi di pratiche
particolarmente complesse e impegnative, in modo da snellire l’iter e
alleggerire il lavoro dei consolati all’estero.
Il termine per la
conclusione delle pratiche di cittadinanza scende da 48 a 36 mesi, grazie a un
nostro emendamento riformulato: un passo importante per rendere più rapida e
concreta la procedura e venire incontro alle legittime aspettative dei nuovi
italiani.
L’AIRE diventa
parte integrante dell’Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente, un passo
fondamentale che consente finalmente un collegamento diretto e automatico tra
Comuni, Farnesina e consolati, rendendo i dati più aggiornati e i servizi più
efficienti.
È fondamentale
prevedere un adeguamento salariale per il personale dei nostri consolati e
introdurre un sistema equo di valutazione delle performance individuali dei
contrattisti, soprattutto nei Paesi dove il costo della vita è elevato: penso,
ad esempio, alla Svizzera e al Regno Unito, dove gli stipendi attuali risultano
spesso troppo bassi rispetto al contesto locale.
Rivendico con
orgoglio una parte del merito di queste riforme, alle quali ho lavorato con
convinzione e perseveranza da anni, attraverso proposte, incontri e
interlocuzioni costanti con le comunità italiane all’estero, con la Farnesina e
con i ministeri competenti [vedi comunicati allegati]. Una riforma concreta,
che questo governo di centrodestra ha saputo realizzare, dimostrando con i
fatti di lavorare davvero nell’interesse degli italiani nel mondo.
Nelle precedenti
legislature la sinistra è stata quasi sempre al governo, ma questi
provvedimenti li ha portati a compimento il centrodestra, con serietà e senso
di responsabilità.
Un ringraziamento
ai ministeri e ai ministri coinvolti, in particolare al Ministro degli Esteri
Antonio Tajani di Forza Italia, al Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi
della Lega, al Sottosegretario all’Interno Nicola Molteni, sempre della Lega, e
al Sottosegretario agli Esteri con delega agli italiani nel mondo Giorgio
Silli, per l’impegno e la collaborazione istituzionale durante questi anni di
lavoro.
Un ringraziamento
particolare va a tutta la rete consolare e diplomatica nel mondo per l’impegno
quotidiano e la professionalità con cui opera, pur in condizioni non sempre
facili.
Ringrazio anche le
opposizioni per il contributo costruttivo offerto durante l’esame del
provvedimento.
C’è ancora molto
da fare, ma dopo decenni di immobilismo, il centrodestra, al governo da tre
anni, ha imboccato con decisione la strada giusta per dare finalmente risposte
concrete agli italiani all’estero” – lo ha dichiarato l’On. Simone Billi,
capogruppo della Lega Salvini Premier in Commissione Esteri e presidente del
Comitato sugli Italiani nel Mondo, intervenendo nell’Aula di Montecitorio.
“Questo è il
governo più avverso nei confronti degli italiani all’estero nella storia
repubblicana, e la legge approvata oggi ne è un’ulteriore conferma. Siamo di
fronte al secondo atto di un percorso che abbiamo già fortemente contrastato
nell’ambito della legge sulla cittadinanza”. Lo ha detto in Aula alla Camera
Toni Ricciardi, vicepresidente del Gruppo PD durante le dichiarazioni di voto
finali al ddl sulla revisione dei servizi per i cittadini e le imprese
all'estero, approvato dall'Aula.
“In questa
legislatura - ha aggiunto l'esponente dem, che questa mattina ha svolto la
relazione di minoranza - l’esecutivo ha operato tagli ai finanziamenti, sospeso
l’adeguamento degli assegni pensionistici esteri, annullato le agevolazioni per
chi decide di rientrare in patria e approvato una normativa sulla cittadinanza
che rischia di recidere i legami con le nostre comunità sparse nel mondo”.
“Riteniamo
sconcertante – ha aggiunto – che questo governo neghi diritti a chi ha profonde
radici italiane, per poi concederli facilmente a soggetti vicini politicamente.
In commissione ci siamo impegnati a fondo per migliorare il testo attraverso
una serie di proposte emendative, alcune delle quali sono state accolte, come
la riduzione dei tempi per la definizione delle pratiche da 48 a 36 mesi,
l’obbligo di confronto sindacale per la ridefinizione dei contratti del
personale e l’emissione della CIE nei comuni italiani a partire dal 1° giugno
2026, mentre molte altre sono state purtroppo respinte".
"La legge
sulla revisione dei servizi per i cittadini e le imprese all'estero - ha
concluso Ricciardi - non solo non risolve le criticità esistenti, ma finisce
per esasperarle e amplificarle, come spesso accade, con i provvedimenti votati
da questa maggioranza. Il ritorno alla modulistica cartacea, le difficoltà
operative riscontrate nei consolati e la volontà di affidare ai privati la
gestione dei servizi consolari sono scelte che hanno il solo scopo di
danneggiare i cittadini, non di aiutarli. Il Partito Democratico continuerà a
battersi per la tutela dei diritti degli italiani nel mondo, un patrimonio
umano prezioso da difendere e valorizzare, e non da penalizzare".
Un importante
momento di confronto su strumenti e strategie per affrontare le sfide della
vita tra più luoghi e culture, con la partecipazione di esperte ed esperti
della psicologia d’espatrio: l’Ambasciata italiana a Berlino, in collaborazione
con il Comites, ha organizzato il 13 ottobre, un incontro dedicato alla
tematica “Promuovere il benessere psicologico degli italiani in Germania”.
“In Germania vive
la seconda comunità italiana più numerosa al mondo: una comunità ben integrata
e attiva costituita oggi da professionisti, giovani, ricercatori, imprenditori,
artisti, che si muovono all’interno di uno spazio di cittadinanza europea”, ha
ricordato l’Ambasciatore Fabrizio Bucci. “Si tratta di una presenza importante,
che facilita la costruzione di ponti per una migliore comprensione reciproca
fra popoli. L’Ambasciata e la rete consolare rappresentano il punto di
riferimento degli Italiani all’estero, in modo sinergico con la rete
dell’associazionismo e con il COMITES”.
Tra i temi
affrontati durante l’incontro vi sono stati i rapporti con le radici e i luoghi
di origine, la promozione del benessere psicologico durante la mobilità,
l’adattamento culturale e l’integrazione personale nei nuovi contesti e la
costruzione di una rete di professionisti per la salute mentale.
L’incontro ha
offerto ai numerosi presenti un utile spazio di dialogo grazie alla
partecipazione degli esperti Anna Pisterzi, psicologa e presidente di Transiti
– Psicologia d’espatrio; di Giona Chiovetto, psicologo e membro della medesima
associazione; di Giulia Borriello, psicologa e presidente dell’associazione
Salutare e.V.; e di Luciana Degano-Kieser, medico psichiatra. L’incontro,
moderato da Federico Quadrelli, presidente del COMITES di Berlino, è stato
seguito da un dibattito molto partecipato con il pubblico intervenuto
all’evento.
L’iniziativa si è
inserita nell’ambito del progetto “Traiettorie in Europa”, promosso con il
sostegno del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale,
che mira a promuovere il benessere psicologico delle persone italiane
all’estero. Aise/De.it.press 14
Una proposta: l’italiano come lingua di lavoro nell’UE
Alla cortese
attenzione di
* S.E. il
Presidente della Repubblica Italiana
* Il Presidente
del Consiglio dei Ministri
* Il Ministro
degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale
* Il Ministro
della Cultura
Egregi Signori,
mi permetto, in
qualità di cittadino italiano ed europeo, di sottoporre alla Vostra attenzione
una proposta di grande valore culturale, politico e simbolico: l’iniziativa
affinché la lingua italiana divenga lingua di lavoro dell’Unione Europea.
L’Italia è tra i
fondatori dell’Unione e la lingua italiana rappresenta uno dei pilastri della
civiltà europea: è veicolo di arte, scienza, filosofia, musica e diritto, ed è
tuttora una delle lingue più studiate al mondo. La sua presenza attiva nelle
istituzioni europee non solo renderebbe più equa la rappresentanza linguistica,
ma contribuirebbe anche a rafforzare il principio di diversità culturale che è
alla base del progetto europeo.
Oggi le lingue di
lavoro prevalenti dell’UE sono l’inglese, il francese e il tedesco. Tuttavia,
l’uso dell’italiano come lingua di lavoro — oltre che ufficiale — darebbe
maggiore visibilità all’Italia e al suo contributo storico e contemporaneo alla
cultura europea. Ciò favorirebbe, inoltre, una partecipazione più diretta e
consapevole dei cittadini italiani nei processi decisionali europei.
Con questa
proposta, chiedo che il Governo della Repubblica Italiana:
1. Valuti la
possibilità di presentare in sede di Consiglio dell’Unione Europea una
richiesta formale per l’inserimento della lingua italiana tra le lingue di
lavoro;
2. Promuova, in
collaborazione con gli altri Paesi di cultura neolatina, una iniziativa
diplomatica comune per sostenere la diversità linguistica europea;
3. Sostenga la
diffusione dell’italiano presso le istituzioni e le agenzie europee, anche
attraverso programmi culturali e formativi dedicati.
Sono consapevole
che un tale percorso richiede tempo, consenso e impegno diplomatico; tuttavia,
ritengo che il riconoscimento della lingua italiana come lingua di lavoro
rappresenti un passo importante per riaffermare il ruolo dell’Italia nel cuore
dell’Europa.
Confidando nella
sensibilità e nell’attenzione delle Alte Istituzioni destinatarie, porgo i miei
più deferenti saluti.
Con osservanza,
Giuseppe Tizza, dip 13
Con l’accordo
Trump-Netanyahu accade qualcosa di storico che va al di là del conflitto
mediorientale. Per la prima volta, infatti, un’amministrazione repubblicana
lega a sé stessa e alla destra globale l’idea di pace, diplomazia e mediazione:
concetti tradizionalmente associati alle amministrazioni democratiche negli
Stati Uniti e al mondo progressista.
Lo scambio di
ostaggi e l’incertezza del futuro
Vediamo quali sono
i chiaroscuri dell’accordo, uno per uno. L’accordo ha giustamente suscitato
speranze da entrambe le parti del conflitto, soprattutto perché vi sono alte
probabilità che la prima parte dell’intesa, riguardante lo scambio di ostaggi
israeliani contro prigionieri palestinesi, possa effettivamente essere attuata.
Il coinvolgimento di Trump nell’accordo crea le condizioni necessarie affinché
lo scambio avvenga. Ciò che accadrà successivamente rimane però del tutto
incerto e rischia di creare le condizioni per una continuazione del conflitto
o, in alternativa, di ridefinire come “pace” un’occupazione o una futura
dipendenza della Striscia di Gaza da parte di Israele.
Nonostante i venti
punti del piano prevedano il ritiro delle forze israeliane dalla Striscia,
questo avverrà solo in modo graduale, controllando inizialmente il 52% del
territorio, successivamente ridotto al 40% e poi al 15%. La gradualità del
ritiro è già di per sé problematica, se si considera la difficoltà di arrivare
a un disarmo totale di Hamas e alla rinuncia del movimento a far parte di
qualsiasi entità di governance della Striscia. In concreto, così com’è, il
piano potrebbe di fatto facilitare una presenza di lungo periodo delle forze
israeliane a Gaza. Anche se concentrate esclusivamente in corridoi strategici
che garantiscono alla Striscia accesso alla ricostruzione e agli aiuti
umanitari, tale presenza militare potrebbe comunque essere sufficiente a
determinare un ruolo dominante di Israele nel definire il futuro politico ed
economico della Striscia e dei suoi abitanti.
Un piano senza
Stato palestinese: i limiti dell’accordo
A questo si
aggiunge l’assenza di qualsiasi riferimento al riconoscimento dello Stato di
Palestina, la mancanza di garanzie sul futuro della Cisgiordania — dove
l’annessione di territori da parte dei coloni continua — e la negazione di
qualunque autorità all’Autorità Palestinese sul futuro della Striscia. Non
esistono piani perfetti: i negoziati producono sempre compromessi imperfetti.
Tuttavia, sebbene il piano abbia il merito di salvare vite umane da entrambe le
parti, rischia allo stesso tempo di porre le basi per un effettivo
consolidamento del progetto di annessione territoriale di Israele, riconoscendo
ai civili palestinesi un semplice “diritto” a esistere.
Le modalità di
negoziazione del piano hanno poi ridefinito i concetti di diplomazia e
mediazione. Tradizionalmente concepiti come dialogo, concessione e ascolto tra
le parti, il piano per Gaza è di tutto ciò proprio l’opposto. Redatto da
pochissimi, circolato tra pochissimi e con minime revisioni, il piano è il più
perfetto risultato della cosiddetta diplomazia della forza. Si tratta, in
sostanza, di utilizzare tutte le forme di pressione — militare ed economica —
sugli avversari per costringerli ad acconsentire a un accordo vantaggioso solo
per la parte più forte, ma comunque definito come “processo negoziale”.
Pressione e incentivi — più che consultazioni — permettono di assicurare
sostegno e approvazione da parte di altri attori regionali, Turchia, Qatar e
Egitto — anche se fondamentalmente esclusi dal negoziato.
La diplomazia
della forza: negoziare senza negoziare
Per alcuni la
diplomazia alla Trump è oggi la sola possibile per placare i venti di guerra.
Ma in controbattuta a questo facile argomento vi è il fatto che la diplomazia
di Trump ad oggi ha solo prodotto risultati di breve periodo (cessate il fuoco
alcuni addirittura conclusi dopo guerre iniziate proprio durante
l’Amministrazione Trump o, al meglio, accordi temporanei) senza aver di fatto
risolto nessun conflitto. Nel caso dell’accordo su Gaza, come in quello del
cessate il fuoco di dodici giorni tra Israele e Iran, la diplomazia della forza
produce accordi fragili che si presentano come successi, ma che in realtà
posticipano il negoziato, congelano il conflitto e non lo risolvono, anzi lo
allungano.
Accordi frutto
della diplomazia della forza non sembrano che approfondire le ingiustizie che
sono alla base dell’azione violenta, creando di fatto le condizioni perché
queste si ripetano. Si ricordi poi che l’utilizzo della forza che
successivamente “apre la strada” alla diplomazia è esercitato indistintamente
su tutti — avversari e popolazione civile, bambini inclusi. In questo senso, la
nuova diplomazia proposta da Trump è una diplomazia che non solo viola il
diritto internazionale umanitario, ma che risulta essenzialmente incompatibile
con esso. Facendo ciò svela e approfondisce le contraddizioni dell’Occidente —
Europa inclusa — mettendo a nudo l’egoismo dei singoli governi sempre più
inclini a celebrare fugaci successi di tregue e cessate il fuoco, sempre meno
capaci di lavorare in contesti multilaterali per una risoluzione del conflitto,
e sempre più preoccupati di frenare le critiche della propria opinione
pubblica.
Una pace senza
giustizia
Nella concezione
di Trump, la pace è un accordo commerciale di successo, raggiunto con ogni
mezzo possibile, vantaggioso per alcuni e meno per altri. Quello che Trump ci
promette con questo accordo è che può esserci pace anche senza giustizia. Parte
del problema è che i responsabili del fallimento della diplomazia, intesa in
senso più tradizionale, sono proprio le forze progressiste che, nel corso degli
anni, non hanno saputo darle sostanza. L’amministrazione Biden, di fatto, ha
rinunciato a dare sostanza a questi concetti attraverso azione, diplomazia e
principi. I conservatori sono invece riusciti ad appropriarsi delle nozioni di
pace, negoziato e accordo, ripensandole in termini meramente transazionali e
privandole di qualsiasi valore etico a esse connesso.
Maria Luisa
Fantappie, Aff.Int. 14
Case vuote in Italia, emergenza abitativa all’estero: il paradosso degli
emigranti dimenticati
Per decenni,
migliaia di emigranti italiani hanno investito i risparmi di una vita nella
costruzione di case nei paesi d’origine. Spinti dalla nostalgia e dal desiderio
di mantenere un legame con la propria terra, molti di loro hanno edificato
abitazioni che sognavano di abitare al momento del ritorno in patria. Oggi,
tuttavia, quelle stesse case sono spesso vuote, chiuse o in rovina, mentre nei
paesi esteri dove la presenza italiana è ancora forte — Germania, Svizzera,
Belgio e Francia in primis — si registra una crescente carenza di alloggi a
prezzi accessibili.
Il risultato è un
paradosso tutto italiano: migliaia di abitazioni inutilizzate nei borghi e
nelle periferie del Sud e delle isole, a fronte di una forte domanda abitativa
nei paesi dove la comunità italiana è ormai radicata. Gli esperti parlano di
“investimenti affettivi” più che economici, dettati dal desiderio di mantenere
un punto di riferimento nella terra natale. Ma dietro questa realtà si nasconde
anche un vuoto istituzionale.
Le istituzioni
italiane, infatti, non hanno mai affrontato in modo organico la questione. Né
in passato si è cercato di orientare gli emigranti verso forme d’investimento
più sostenibili o produttive, né oggi si adottano politiche capaci di
valorizzare il patrimonio immobiliare lasciato inutilizzato. I governi locali e
nazionali hanno spesso ignorato il problema, lasciando che interi quartieri
costruiti con sacrifici e rimesse finissero nel degrado.
Oggi il fenomeno
continua, sebbene in forma minore. Molti nuovi emigranti, spesso giovani e
altamente qualificati, preferiscono investire all’estero piuttosto che in
patria, consapevoli della mancanza di prospettive concrete in molte aree
interne italiane. Nel frattempo, i paesi d’origine restano custodi silenziosi
di un patrimonio immobiliare che rappresenta la memoria di un’emigrazione
passata ma anche il simbolo di un’occasione mancata.
Giuseppe Tizza,
de.it.press 18
Non ghettizzare gli italiani all'estero: la nuova visione del CGIE
Roma - È stata una
settimana ricca e intensa quella che si chiude oggi, venerdì 3 ottobre, per il
Comitato di Presidenza del Consiglio Generale degli Italiani all'Estero - CGIE,
riunitosi a Roma. Una settimana fatta di incontri istituzionali, politici
e interni al Consiglio. E fatta anche di "concretezza". Il
tutto, sempre con un tema al centro: gli italiani all'estero.
Un "lavoro
sistematico" ha contraddistinto la settimana. Un lavoro volto a far
"cambiare lo sguardo" verso gli italiani all'estero e alle
possibilità che il mondo dell'emigrazione può offrire all'Italia. Uno sguardo
che deve rimodellarsi pensando a quella "miniera d'oro" che
rappresentano le comunità tricolori nel mondo, come spiegato dalla Segretaria
Generale del CGIE, Maria Chiara Prodi, nel punto stampa del CdP a conclusione
dei lavori alla Farnesina.
Prodi ha quindi
spiegato come il CdP in questa settimana abbia incontrato le Commissioni Affari
Esteri di Camera e Senato e la Commissione Bilancio del Senato, per parlare
degli investimenti che si possono prevedere nella prossima legge finanziaria e chiedendo
con forza la calendarizzazione della prossima Conferenza Permanente
Stato-Regioni- Province Autonome-CGIE, per la quale Prodi ha spiegato che il
CdP "si è battuta. Altrimenti perderemo risorse umane ed economiche".
Poi c'è stata anche l'interlocuzione con tutti i gruppi parlamentari oltre che
con tutte le Commissioni Tematiche del CGIE. In queste discussioni, il CdP ha
fatto emergere la volontà di non "ghettizzare" il mondo
dell'emigrazione: "tutto il Paese deve avere un rapporto con gli italiani
all'estero e capire la miniera d'oro che sono questi". Ma "non tutti
gli interlocutori sono risultati sensibili al tema".
Oltre agli
incontri parlamentari e politici, il CdP ha incontrato anche i rappresentanti
delle Regioni e il Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro - CNEL. Anche
con loro è emersa la "visione precisa" e "concreta"
del CdP, come spiegato sia dalla Segretaria Generale Prodi che dal
Vicesegretario Generale per l’Europa e l’Africa del Nord, Giuseppe Stabile.
Come temi sono stati dunque trattati il bilancio, le modifiche sulla legge di
cittadinanza, la messa in sicurezza del voto all'estero, la riforma del CGIE,
la necessità di promuovere all'estero lingua e cultura italiane e la volontà di
creare una "cultura della migrazione" attraverso lo studio della
storia dell'emigrazione italiana.
Sulla cittadinanza
Prodi ha sottolineato con fermezza: "non abbiamo cambiato la nostra
valutazione dal parere espresso a giugno e votato in larghissima maggioranza
durante la plenaria". Il Vicesegretario Generale per l’America Latina,
Mariano Gazzola, è stato più duro sul tema che è "particolarmente sentito
in America Latina": "Siamo preoccupati dalla criminalizzazione della
doppia cittadinanza. Seguiamo con attenzione i lavori in Senato e la vicenda
giudiziaria mentre attendiamo il pronunciamento della Corte
Costituzionale". Gazzola ha poi aggiunto: "questa è una legge che ha
introdotto lo ius soli in Italia. Chi l'ha proposta se ne deve fare carico,
trovando soluzioni ai problemi che ha creato". Dello stesso avviso il
Componente di Nomina Governativa, Ricardo Merlo, secondo cui "l'Italia è
diventata una plutocrazia. All'estero diventerà italiano solo chi ha i soldi
per pagare gli avvocati. Qualcosa si doveva da fare per modificare la legge, ma
non con questa assurda legge nata da Tajani".
Prodi ha dunque
informato che il CGIE chiederà una proroga riguardo alla cittadinanza dei
minori, figli di italiani all'estero, poiché con il termine di un anno non è
possibile completare l'iter. Inoltre, ha spiegato di aver consegnato, specie
dopo l'apertura del Presidente Mattarella ("che è ancora particolarmente
sentita dalla comunità italiana all'estero"), "i nostri lavori a
tutti gli interlocutori". "Ad oggi, gli italiani residenti all'estero
sono ufficialmente 7 milioni e 300 mila. Un dato impressionante per la velocità
con cui aumenta. Davanti a queste cifre serve un lavoro congiunto per far
fronte alle problematiche che sorgono".
"Grande
attenzione" è stata poi dedicata agli incentivi di rientro mentre per
quanto concerne la riforma del CGIE "abbiamo iniziato un ragionamento più
approfondito e nel 2026 (ano del 40esimo compleanno del CGIE) ne continueremo a
parlare ricordando chi sono le comunità italiane all'estero e la loro storia
della migrazione".
CdP molto
soddisfatto, come riportato dalla SG Prodi, per l'accordo, che è "un punto
di arrivo ma anche di partenza" con il CNEL. Un accordo che "ci darà
strumenti nuovi per esseri più inseriti nei gangli delle istituzioni".
Soddisfazione è
stata espressa anche per la creazione della comunità dell'italofonia, anche se
Prodi ha voluto evidenziare che "non ci può essere questa comunità senza
gli italiani all'estero".
Nei prossimi mesi,
il CGIE vorrà chiedere la proroga per l'iscrizione dei minori per l'ottenimento
della cittadinanza e porteranno "i bisogni degli italiani all'estero in
bilancio". Sono in programma anche diversi webinar tematici al riguardo.
Infine, anche su
Marcinelle la Segretaria Generale ha espresso le sue sensazioni positive:
"Marcinelle è un luogo che ha dato un impulso all'Europa. Sarà un punto di
arrivo avere questa giornata riconosciuta dall'Ue. Ma sarà anche un punto per
pensare al futuro e alla capacità di fare rete".
Parlando
dell'incontro con Silli, invece, si è discusso sulla problematica della
tempistica, ma il CGIE ha voluto ribadire la volontà di creare "una nuova
narrativa più rispettosa degli italiani all'estero".
Intervenendo a
seguire, la Vicesegretaria Generale per i Paesi Anglofoni extraeuropei, Silvana
Mangione, ha spiegato di aver chiesto un investimento ai gruppi di Camera e
Senato sulla lingua e la cultura e per "il mantenimento
dell'italianità". Secondo lei, infatti, "esiste una nuova emigrazione
in cui l'italiano si sta perdendo. Stiamo intervenendo in questi luoghi con
idee ludiche. Ma l'italofonia è un investimento che l'Italia deve fare".
La risposta ottenuta, però, non è stata "entusiastica" poiché
"la coperta è troppo corta".
Anche il
Vicesegretario Stabile ha rimarcato la necessità di una "nuova
narrativa", così come è necessario, secondo lui, "potenziare il
rientro" degli italiani all'estero con "misure ad hoc". "Ma
fino ad oggi non c'è stato un interlocutore unico", e per questo
"abbiamo pensato di raccogliere queste misure e renderle conoscibili anche
all'estero: agevolazione alle imprese, regime agevolato agli impatriati, flat
tax per neo residenti". "Vogliamo fare un lavoro interistituzionale -
ha concluso Stabile che ha puntato molto sulla "concretezza" -,
coinvolgendo tutto il Sistema Paese in Italia e all'estero. Sono convinto che
se ognuno di noi facesse il proprio, in pochissimo tempo il Paese
cambierebbe".
Tommaso Conte,
Componente per l’Europa e l’Africa del Nord, ha invece espresso dubbi sulla
doppia cittadinanza: "molti ci hanno detto che siamo i veri ambasciatori
d'Italia, ma oggi gli enti gestori storici hanno chiuso o stanno chiudendo e
questo significa che c'è un problema".
Per Gianluca
Lodetti, Vicesegretario Generale di Nomina governativa, è molto importante ora
fare uno "sforzo supplementare nell'ambito informativo. Abbiamo bisogno di
informazione ma anche di una crescita culturale del paese, perché sennò non
riusciremo a mettere insieme l'Italia e l'Italia fuori dall'Italia". Per
questo, a suo modo di vedere, è "importante insegnare ai nostri figli
quello che è stato il nostro percorso migratorio e sentire vicina la diaspora
che finora è sempre stata lontana".
"Siamo in
attesa di riscontri sulle modifiche alla legge che abbiamo proposto - ha
ricordato in conclusione della Conferenza Stampa la SG Prodi -. Ma nel
frattempo c'è una legge vigente ed è necessario che gli italiani all'estero lo
sappiano".
(l.m. aise/dip 3)
A Francoforte la mostra “Anatomia della fragilità”, sul corpo
Francoforte/M. Da
giovedì 2 ottobre al Frankfurter Kunstverein di Francoforte è aperta al
pubblico – e sarà accessibile fino al 1 marzo 2026 – la nuova esposizione di
arte contemporanea e scienza in dialogo, dal titolo “Anatomie der Fragilität
– Anatomia della fragilità. Immagini del corpo nell’arte e nella
scienza”. La mostra presenta e mette a confronto modelli anatomici
storici, arte greca arcaica, ex voto etruschi, protesi bioniche, con opere
artistiche contemporanee di due artiste italiane, Chiara Enzo e Agnes
Questionmark, in un percorso di scoperta via via successivo della fragilità del
nostro corpo in diverse dimensioni, fino ad una trasformazione morfologica
finale umana rappresentata da nuove corporeità a mo’ di figure acquatiche ed
iper fantastiche che occupano tutto il salone al terzo piano e che sono state
realizzate appositamente per questa mostra dall’artista romana Questionmark.
Punto di partenza nell’androne della Galleria-Museo è la statua di un
Kouros greco, alta due metri, una replica del 530 a.C., che riflette gli
standard di bellezza dell’epoca; eroizzazione eterna tra i vivi in cui
l’aristocratico veniva commemorato al culmine della sua bellezza e virtù.
Questa rappresentazione idealizzata di un corpo muscoloso, compatto e eretto, con
un sorriso arcaico, – sostituti di persone reali che in questa forma scultorea
trovavano rifugio dall’incertezza e mutevolezza della vita – viene messa
in discussione già nel primo piano nella mostra. Al primo piano troviamo
infatti un contesto di prima fragilità, dove la perdita di parti del corpo o la
deformazione di tessuti a causa di malattie dermatologiche – sono quest’ultimi
i modelli anatomici provenienti dalla collezione di calchi in cera delle
malattie della pelle dell’Università di Medicina di Francoforte – ci
avvicinano rispettivamente alla dimensione della privazione permanente o delle
trasformazioni che lasciano il loro segno tangibile e visibile sull’epidermide.
Dal corpo idealizzato infatti si passa al lavoro della protesista Sophia de Oliveira,
che con l’Alternative Limb Project realizza protesi che non si limitano a
sostituire parti del corpo, ma interpretano e ampliano artisticamente l’aspetto
di queste e la loro funzione. L’obiettivo non è quello di riparare o
standardizzare il corpo, ma piuttosto di offrire la possibilità di un
progetto-rappresentazione individuale di sé attraverso questi arti artificiali
polifunzionali. Come l’immagine e la riproduzione del corpo sia cambiata nel
corso dei secoli è dimostrato dalla quanto mai stupefacente sala delle
ceroplastiche provenienti dai musei Luigi Cattaneo e di Palazzo Poggi
dell’Università di Bologna, per la prima volta in assoluto esposti all’estero.
Ben 10 preziosi e delicati manufatti in ceroplastica tra cui anche un
prezioso artefatto della prima donna anatomista, docente e abile modellista in
cera Anna Morandi Manzolini e la statua di donna giacente (la Venerina), creata
da Clemente Susini nel 1782 a Firenze. La figura, il cui torso ed addome,
aperto e svelato, lascia intravedere gli organi interni, giace su un cuscino
con la testa reclinata all’indietro, come fosse una Venere del Tiziano. Oltre
alla perfetta riproduzione degli organi interni ed anche di un feto, non
possono non sorprendere il visitatore la presenza di una chioma creata con
capelli veri ed una collana di perle che cinge il collo, il tutto chiaramente
disposto in modo erotico, ma anche perfettamente didascalico ed anatomicamente
sorprendente per precisione ed estetica raffinatezza. Il contrasto con
l’esperienza immersiva di realtà virtuale che si trova proprio di fronte alle
teche delle ceroplastiche è ancora più evidente: i visitatori possono esplorare
virtualmente l’interno del corpo. Il collettivo londinese “Marshmallow Laser
Feast”, in collaborazione con il Fraunhofer Institute for Digital Medicine, ha
esaminato ed elaborato artisticamente materiale grezzo come scansioni
tomografiche, esami e dati sul flusso sanguigno. Sono inoltre esposti nella
sala contenente gli ex voto etruschi – oggetti in terracotta che riproducono
parti anatomiche malate che si portavano alle divinità per l’intercessione col
divino con la speranza di una guarigione auspicata – piccoli quadri
iperrealistici di Chiara Enzo elaborati con una tecnica particolare che illude
lo spettatore, il quale immagina siano fotografie, mentre al contrario sono
superfici dipinte e stratificate, a tempera o acquerello, di patologie
organiche, che obbligano i presenti ad avvicinarsi al quadro con l’intento di
creare un rapporto personalizzato ed una particolare attenzione del visitatore
verso l’affezione dell’organismo. La mostra “Anatomia della fragilità” è stata
curata dalla direttrice italiana del Kunstverein Franziska Nori e dalle tre
giovani assistenti Anita Lavorano, Pia Seifüßl e Angel Moya Garcia che hanno pensato
un percorso che progressivamente spiazza lo spettatore, lo invita a immergersi
nelle varie declinazioni della corporeità. Per questa esposizione il
Frankfurter Kunstverein ha creato una collaborazione intensa con molte
istituzioni pubbliche ed anche private, sia tedesche che italiane, tra cui la
collezione di antichità e la sala delle sculture antiche dell’Università Johann
Wolfgang Goethe di Francoforte, nonché con la collezione di antichità
dell’Università Justus Liebig di Giessen e grazie al patrocinio e sostegno del
Consolato Generale d’Italia a Francoforte anche con la Soprintendenza della
città di Bologna ed il Ministero della Cultura che hanno in tempi
eccezionalmente brevi dato tutte le autorizzazioni al trasporto e
all’esposizione dei delicatissimi ma quanto mai incredibili pezzi provenienti
dai due musei bolognesi. Un’esposizione che prevede inoltre nei prossimi
mesi visite guidate e confronti-dialoghi tra specialisti di settore e
l’uditorio per sollecitare sia il pubblico internazionale di Francoforte che le
nuove generazioni a confrontarsi con la riproduzione, idealizzazione, gli
aspetti storici e sociali nonché le nuove tendenze di rappresentazione del
corpo umano, non solo come elemento estetico e autocelebrativo, ma come entità
complessa che nel mutamento narra e scopre la sua dimensione pienamente umana.
Michele Santoriello, dip 7
Brevi di politica e cronaca tedesca
Merz e il
dibattito sullo "Stadtbild": quando l’architettura diventa politica
Martedì 14
ottobre, durante una conferenza stampa a Potsdam, rispondendo a una domanda
sulla strategia adottata contro l'AfD sulla politica migratoria, Merz ha
affermato che si è “molto avanti” su questo fronte, aggiungendo: “Ma
naturalmente abbiamo ancora questo problema nel panorama urbano (Stadtbild) ed
è per questo che il ministro federale dell'Interno Alexander Dobrindt (CSU) sta
lavorando per consentire rimpatri su larga scala”.
La dichiarazione è
stata criticata sui social network perché interpretata come un rifiuto dei
migranti dando vita ad una vivace – e polarizzata – discussione pubblica in
Germania sul significato di “Stadtbild (panorama urbano)”, sul cosa si voglia
intendere con “problema”, e sulle implicazioni politiche. Il dibattito ha
sollevato la domanda se e come la presenza di persone straniere modifichi il
volto delle città.
Il Portavoce del
Cancelliere, Stefan Kornelius, ha respinto ogni accusa. Non si può accusare il
Cancelliere di razzismo, ha affermato. Merz ha sempre chiarito “che, a suo
avviso, la politica migratoria non deve riguardare l'esclusione, ma
un'immigrazione regolamentata in modo uniforme”, ha aggiunto. Kornelius ha
anche sostenuto di non credere “che il Cancelliere federale abbia un problema
con il panorama urbano”.
Sachsen-Anhalt:
AfD contro la campagna nelle scuole per combattere il razzismo
Nel Land del
Sachsen-Anhalt, che tra un anno andrà al voto regionale e che secondo i
sondaggi vede attualmente Alternative für Deutschland (AfD) al 39% dei
consensi, la campagna scolastica contro il razzismo è diventata oggetto di
forte scontro politico. L'AfD, partito di estrema destra, si è schierato
apertamente contro l’iniziativa, chiedendo che venga revocata la promozione
nelle scuole sul tema della diversità.
Il vicesegretario
dell'AfD, Hans‑Thomas Tillschneider, ha chiesto che "ogni tentativo
da parte degli insegnanti di presentare un'opinione politica anche solo come
attraente o di tendenza" venga proibito; e ha aggiunto che «l'antirazzismo
è diretto in primo luogo contro l'“opposizione patriottica”» e che la
«penetrante propaganda della diversità» avrebbe lo scopo di «distruggere la
normalità eterosessuale».
Le Filippine Paese
ospite della 77esima Buchmesse di Francoforte
Dal 15 al 19
ottobre si è svolta la 77ª edizione della Frankfurter Buchmesse a Francoforte
sul Meno alla presenza di circa 238.000 visitatori totali, di cui 120.000
provenienti dal pubblico generale e circa 4.350 editori/espositori, provenienti
da moltissimi Paesi, a conferma del ruolo centrale della Buchmesse come hub
internazionale dell’editoria. Paese ospite d’onore le Filippine che ha
presentato la propria cultura letteraria con un ampio programma nazionale e
internazionale.
Fra gli autori
protagonisti dell’evento, figurano nomi internazionali come Maja Lunde, Lea
Ypi, Kamel Daoud e V.E. Schwab, che hanno partecipato a incontri e firmacopie
nell’ambito del ricco palinsesto della manifestazione.
L’evento ha dunque
confermato la sua importanza non solo per il mercato del libro, ma anche come
momento di dialogo culturale internazionale, grazie alla combinazione di
industria editoriale e festival aperto al pubblico con una grande presenza di
giovani.
Da Malta
Alex Borg, è stato
eletto leader del Partito Nazionalista di centro-destra maltese, diventando
ufficialmente capo dell’opposizione lo scorso 10 settembre. A 30 anni è il più
giovane capo dell’opposizione nella storia di Malta.
Borg ha rivolto un
appello all’unità nazionale: «Questo è un momento cruciale. Un momento che deve
unire e non dividere. Dobbiamo superare le differenze, dimenticare i colori blu
e rosso e ricordarci soltanto del bianco e del rosso, i colori che ci uniscono
come popolo». Il nuovo capo dell’opposizione ha inoltre assicurato che la sua
azione politica sarà rivolta «a tutti coloro che aspirano ad un Paese
migliore».
Dalla KAS...
Dal 16 al 18
ottobre l'isola di S. Servolo ha ospitato la IV edizione della Conferenza
internazionale "Global governance of climate change and
Sustainability" promossa dal Think Tank Vision, diretto dal Prof.
Francesco Grillo, Bocconi, in collaborazione con la Fondazione-Konrad-Adenauer,
la Fondazione Giorgio Cini, Venice Sustainability Foundation, l'Università
Bocconi, Politecnico Milano, LUISS, Istituto Universitario di Architettura di
Venezia (IUAV), Venice International University (VIU) e Università Ca' Foscari
di Venezia.
Esperti,
imprenditori internazionali, studenti provenienti dalle più prestigiose
università internazionali hanno discusso sulle strategie per combattere il
cambiamento climatico e la riduzione dell'effetto serra a salvaguardia del
nostro pianeta.
Droni
sull'areoporto di Monaco: allarme sicurezza
Il traffico aereo
tedesco ha vissuto momenti di forte tensione a causa della presenza non
autorizzata di droni. L’aeroporto di Monaco di Baviera, uno dei principali hub
del Paese e snodo cruciale per i collegamenti europei, è stato costretto alla
chiusura. Centinaia di passeggeri sono rimasti bloccati a terra, mentre le
autorità di sicurezza hanno avviato immediatamente indagini per individuare i
responsabili. Secondo la Polizia federale, si è trattato di una grave
violazione delle norme sulla sicurezza aerea. Gli avvistamenti di droni
nell’area di decollo e atterraggio hanno portato alla sospensione dei voli per
oltre un’ora, con ritardi a catena anche su altri scali, tra cui Francoforte e
Stoccarda. Nonostante l’episodio si sia concluso senza incidenti, l’allerta
rimane alta. Il ministero dei Trasporti e della Digitalizzazione, in stretto
coordinamento con il ministero dell’Interno, ha annunciato un rafforzamento
immediato dei controlli negli aeroporti e l’adozione di tecnologie anti-drone
più avanzate.
Tra le misure in
discussione: l’estensione dei sistemi radar dedicati alla rilevazione di
piccoli velivoli non identificati; una rete di risposta rapida con l’intervento
coordinato di polizia, aviazione civile e forze armate; sanzioni più severe per
i voli non autorizzati in prossimità delle infrastrutture critiche. “La
sicurezza dei cittadini e delle nostre infrastrutture deve restare una priorità
assoluta”, ha dichiarato il ministro dei Trasporti, Patrick Schnieder (CDU),
sottolineando che: “Gli aeroporti tedeschi devono poter contare su strumenti
moderni di difesa anche contro minacce di nuova generazione”. L’episodio ha
riacceso un ampio dibattito pubblico sulla sicurezza interna e sull’uso dei
droni civili. La CDU/CSU ha chiesto un’azione più decisa a livello federale,
ricordando che episodi simili si sono già verificati in altri Paesi europei.
Dal fronte
dell’opposizione, i Verdi hanno espresso sostegno alle misure di emergenza, ma
hanno invitato a non limitare eccessivamente l’uso civile dei droni per scopi
commerciali o scientifici. L’estrema destra AfD, invece, ha sfruttato
l’occasione per criticare il governo federale, accusandolo di “ritardi
strutturali” nella modernizzazione delle forze di sicurezza. L’incidente di
Monaco conferma quanto la sicurezza tecnologica e quella fisica siano ormai
strettamente intrecciate. Come ha ricordato il cancelliere Friedrich Merz: “La
libertà e la modernità devono andare di pari passo con la sicurezza. È nostro
dovere assicurare che nessuno possa mettere a rischio la fiducia dei cittadini
nelle infrastrutture del Paese”.
Festa dell’Unità
Tedesca, Merz: “La Germania pensa e agisce nel segno dell’Europa”
Nel suo intervento
per la Festa dell’Unità Tedesca, il 3 ottobre, il Cancelliere tedesco Friedrich
Merz (CDU/CSU) ha richiamato i valori fondanti della Repubblica Federale e il
ruolo centrale della Germania in Europa e nel mondo. “Vogliamo essere un Paese
europeo aperto al mondo. La Germania pensa e agisce nel segno dell’Europa”, ha
dichiarato Merz, sottolineando come l’unità nazionale e quella europea siano
oggi più che mai legate da una responsabilità comune.
Il Cancelliere ha
inoltre richiamato l’attenzione sui profondi mutamenti dell’ordine globale e
sulla necessità per la Germania e per l’Europa di rafforzare la propria
capacità di difesa: “Dobbiamo di nuovo imparare a difenderci. L’asse del potere
nel mondo cambia. Le autocrazie ci sfidano, perciò dobbiamo essere in grado di
difenderci. Noi assumiamo questa responsabilità.” Merz ha espresso gratitudine
alle donne e agli uomini della Bundeswehr, riconoscendo il valore del loro
servizio per la sicurezza del Paese e dell’Europa: “Dobbiamo già oggi alle
nostre soldatesse e ai nostri soldati gratitudine per il fatto di essere pronti
a svolgere questo servizio per il nostro Paese. Vogliamo poter difendere la
nostra libertà in modo che non siamo costretti a difenderla”. Con queste
parole, Merz ha ribadito il principio guida della CDU: una Germania forte
in un’Europa unita, capace di affrontare le sfide globali con determinazione,
apertura e senso di responsabilità.
Elezioni locali in
Renania Settentrionale-Vestfalia: la CDU conferma la leadership
Nel secondo turno
delle elezioni locali del Land più popoloso della Germania, il Nordreno
Vestfalia (NRW), nel cuore della Ruhr segnata dalla deindustrializzazione, la
CDU ha consolidato la sua posizione. Mentre la SPD ha registrato una perdita
netta di consenso, l'estrema destra AfD non sfonda pur ottenendo un incremento
di consensi ed i Verdi subiscono un significativo arretramento: anche se
conquistano la cittadina universitaria di Münster passano dal 20% nel 2020 al
13,5% nel 2025.
La CDU ha ottenuto
il 33,3% dei voti, confermandosi come il principale partito della regione.
Questa performance è stata accompagnata da una serie di vittorie significative,
tra cui quella storica di Alexander Khalouti a Dortmund, che ha posto fine a 79
anni di governo della SPD nella roccaforte rossa. Anche in altre città
importanti come Leverkusen e Bielefeld, la CDU ha prevalso, consolidando la sua
influenza politica in NRW.
L'Alternative für
Deutschland (AfD), passando dal 5,1% nel 2020 al 14,5% nel 2025, diviene la
terza forza politica nella regione senza però ottenere alcun sindaco al secondo
turno in città come Duisburg, Gelsenkirchen e Hagen. La SPD ha subito un calo
significativo dei suoi consensi, scendendo al 22,1% dei voti.
La sconfitta a
Dortmund, una roccaforte storica del partito socialdemocratico, rappresenta un
duro colpo per la sua leadership regionale. La presidente della SPD NRW, Sarah
Philipp, ha riconosciuto la grave sconfitta dichiarando: "Questo fa male".
Deutsche Bahn:
Evelyn Palla nuova CEO
Dal primo ottobre
l'altoatesina Evelyn Palla è la nuova amministratrice delegata di Deutsche
Bahn, le ferrovie tedesche, succedendo a Richard Lutz, che lascia dopo quasi un
decennio la guida del gruppo. La decisione, approvata dal Consiglio di
Sorveglianza, segna un cambio di passo atteso da tempo, in un momento in cui il
sistema ferroviario tedesco affronta difficoltà strutturali e richieste di
riforma.
Con la sua nomina,
Palla diventa la prima donna alla guida di Deutsche Bahn nella storia
dell’azienda. Il contesto in cui assume la leadership è complesso. Le ferrovie
tedesche soffrono da anni di ritardi, inefficienze e infrastrutture
deteriorate. La puntualità dei treni a lunga percorrenza è ai minimi storici,
mentre cantieri e guasti tecnici creano disagi tra i pendolari. Al tempo
stesso, il governo federale è chiamato a dare un segnale di serietà nella
gestione di un settore cruciale per la transizione ecologica e per la
competitività economica del Paese.
Nel suo primo
intervento da CEO designata, Evelyn Palla ha parlato di “un giorno di nuovo
inizio” per i clienti e per i dipendenti di Deutsche Bahn. Ha promesso una
riorganizzazione più snella, meno burocrazia e più efficienza, con investimenti
concentrati sulle infrastrutture ferroviarie e sul miglioramento della qualità
del servizio. Il suo obiettivo dichiarato è restituire ai cittadini un sistema
ferroviario affidabile e competitivo, capace di riconquistare la fiducia
perduta. Se Evelyn Palla riuscirà a tradurre le sue intenzioni in risultati
concreti – treni più puntuali, infrastrutture più moderne, un servizio più
vicino ai cittadini – la sua nomina potrà essere ricordata come il punto di
svolta per Deutsche Bahn e, più in generale, per la mobilità tedesca. Kas 10 e 24
Il primo ricordo e la costruzione del sé: la memoria come colonna portante
della vita
C’è una domanda
che, nella sua apparente semplicità, racchiude un’intera filosofia dell’essere:
“Qual è il tuo primo ricordo?”
Non è un esercizio
di nostalgia, né un gioco della mente. È, piuttosto, un atto di scavo nelle
fondamenta stesse dell’identità. Il primo ricordo è la radice più profonda
dell’albero della memoria, e da quella radice si diramano rami, foglie e frutti
che danno forma alla personalità, alle paure, ai desideri e alle scelte di una
vita intera.
Il primo ricordo
non è mai casuale. È un frammento di tempo che la mente ha scelto — o forse è
stata costretta — a conservare come testimonianza originaria del proprio
esistere. Spesso è un evento emotivamente intenso: una gioia improvvisa, una
paura, una perdita, uno stupore infantile di fronte al mondo. Quel momento,
impresso nella memoria, è come una prima firma del destino sul foglio ancora
bianco dell’esperienza.
Gli psicologi
sostengono che il primo ricordo sia il punto di incontro tra memoria e
identità. Non ricordiamo soltanto ciò che è accaduto, ma il modo in cui abbiamo
sentito ciò che è accaduto. E quel sentire plasma il nostro modo di percepire
la realtà. Chi conserva come primo ricordo un momento di calore e protezione
tenderà, nella vita, a cercare relazioni fiduciose e a credere nella bontà del
mondo. Chi, invece, ricorda un episodio di paura o abbandono, costruirà la
propria personalità attorno al bisogno di sicurezza, di controllo, o di
riscatto.
Il primo ricordo,
dunque, agisce come una lente. Attraverso di esso vediamo tutto il resto, anche
se non ne siamo consapevoli. È una bussola emotiva che orienta la direzione
della vita, un piccolo seme che contiene già, in potenza, l’intera pianta del
carattere. Anche se il tempo passa e la memoria si stratifica, quel nucleo
originario resta presente, nascosto ma attivo, come il battito costante di un
cuore invisibile.
C’è poi un’altra
dimensione più sottile: il primo ricordo non appartiene solo al passato, ma
anche al presente. Ogni volta che lo evochiamo, lo ricostruiamo. Ogni volta che
lo raccontiamo, lo riscriviamo. In questo senso, la memoria è una forma di
creazione continua: non solo ricordiamo ciò che è stato, ma lo reinventiamo
secondo ciò che siamo diventati. È per questo che il primo ricordo parla non
soltanto del bambino che fummo, ma dell’adulto che siamo oggi.
E forse, alla
fine, il primo ricordo non è tanto un’immagine quanto un sentimento originario
— la prima volta che abbiamo sentito di esistere. Che sia il calore di una
mano, il colore di un tramonto o la paura del buio, quel momento segna il
passaggio dall’indistinto al consapevole. Da lì comincia tutto: la storia, la
voce interiore, il senso della vita.
Per questo,
chiedere a qualcuno qual è il suo primo ricordo non è un gesto di curiosità, ma
un atto di conoscenza profonda. In quella risposta — magari breve, incerta, o
raccontata con un sorriso — c’è racchiuso il disegno di un’intera esistenza.
Perché ogni vita, in fondo, non è altro che il lungo eco del suo primo ricordo.
Giuseppe Tizza, de.it.press 17
La parlamentare Manuela Ripa a Mezz’Ora Italiana
È l’unica
parlamentare europea del Saarland, ed ha il passaporto italiano!
È sotto gli occhi
di tutti che le carriere politiche italiane in Germania sono molto rare. A
differenza degli amici turchi e di altre nazionalità extraeuropee, gli italiani
hanno mostrato scarsa ambizione nel seguire percorsi partitici ed elettorali,
fino ad ottenere un posto saldo nel parlamento federale, nei parlamenti
regionali ed in quello europeo.
Salta tanto più
all’occhio il percorso politico della giurista Manuela Ripa, con alle spalle
una biografia da manuale.
In piena
generazione Erasmus, nasce a Saarbrücken, figlia di un funzionario del
Consolato italiano in quella città e di un’insegnante di ruolo dei corsi di
lingua e cultura italiana.
Un percorso di
studi eccellente con soggiorni di specializzazione a Londra e Oxford e i primi
passi professionali al Ministero degli Affari Esteri tedesco, alla Corte
Europea in Lussemburgo e come assistente allo stesso Parlamento europeo.
Poi i primi
approcci con la politica con la “P” dei partiti, quando è referente personale
del Ministro federale dell’Ambiente, il liberale Philipp Rösler.
Probabilmente è
qui che la nostra connazionale parlamentare europea trova nel tema ambientale,
nella salute pubblica e nella tutela delle fasce deboli una sua missione
professionale.
Si iscrive al
partito ÖDP, Ökologisch-Demokratische Partei, una sorta di costola verde della
Democrazia Cristiana. Alla domanda: cosa vi distingue dai Verdi, la risposta è
immediata: non accettiamo finanziamenti dall’industria!
La ÖDP si propone
come movimento sociale e ambientalista, fermamente ancorato in alcuni principi
conservatori ed etici. Proprio alcuni di quei principi che i Verdi sembrano
aver spesso relativizzato e talvolta anche tradito.
Comunque sia,
mentre vari connazionali con la tessera del partito dei Verdi, SPD, CDU o FDP
sono stati messi in fila, anzi in fine coda di lunghissime liste elettorali, la
Ripa, proprio grazie all’appartenenza a un partito minore è entrata nel
Parlamento europeo per la seconda legislatura consecutiva.
Una biografia
politica italiana che nel Saarland diventa importante, oltre le individuali
convinzioni politiche, giacché Manuela Ripa rappresenta l’unica candidata del
Saarland ad aver raggiunto un mandato europeo.
Alla
domanda: quanto Saarland troviamo nell’attività quotidiana, la parlamentare
risponde che tutto il suo sguardo politico è filtrato da occhiali saarlandesi.
Se si
considera che in questo Saarland, con meno di un milione di abitanti, risiedono
oltre trentamila potenziali elettori italiani e di origine italiana, è quasi
scontato che questi occhiali si colorino di tanto in tanto anche di bianco,
rosso e verde. CdI on 8
Nell’ undicesimo
mese del venticinquesimo anno del nuovo Millennio, ci chiediamo cosa ci
riserverà il futuro. Ovviamente, memori del nostro tribolato passato.
Sotto un profilo politico, magari non
pienamente condivisibile, anche questa Terza Repubblica è in ambascia. Per
ridare fiducia al Paese, è indispensabile una seria riforma socio/economica. Da
noi, prima di tutto, hanno da essere rassicurati i cittadini. Quindi, c’è da
auspicare un profilo politico che consenta una più ampia realtà operativa per
chi ancora crede nel futuro nazionale.
Di Promesse ne sono state fatte parecchie.
Vedremo se saranno realizzate. La Prima Repubblica è crollata per effetto “mani
pulite”. La Seconda è tramontata, magari con meno clamore, per l’apatia
politica di una Maggioranza che, non a caso, s’è rivelata anche Opposizione. E’
inutile tergiversare. Altri nodi verranno al pettine.
I nostri dubbi politici restano. Insomma,
l’Italia può essere rappresentata in ogni parte del mondo. Chi conta sono gli
italiani. A questo punto, riflettendo, poco rilievo ha questionare sul “sesso”
degli angeli. Ciò che preme è da garantire, nel modo migliore, la sovranità
popolare. Il passato, nel bene, come nel male, non ritorna e il futuro è tutto
da costruire. Almeno, lo dovrebbe.
Basta, però, che
non venga meno la volontà di migliorare. Ora, dovrebbe essere il Parlamento a
dare al Paese un assetto politico praticabile. Per cambiare, bisogna avere idee
chiare ed evitare il vittimismo che è alleato dei tempi “lunghi” e delle giustificazioni”brevi”.
Del resto, non è ancora sicuro che tra le macerie della Prima e Seconda
Repubblica non ci siano “mattoni” ancora utilizzabili per risistemare un nuovo
modello politico nazionale. Del quale, però, si sente la necessità. Giorgio
Brignola, de.it.press
Saarbrücken: ricordato il contributo dei connazionali
Saarbrücken.
Sabato 20 settembre, il Centro VHS di Saarbrücken si è trasformato in un luogo
di memoria, riconoscimento e visione del futuro. Con il titolo “Imparare dalla
storia – da lavoratori ospiti a protagonisti della società nel Saarland”, il
Comites Saar ha tenuto una cerimonia commemorativa in occasione del 70°
anniversario dell’accordo bilaterale di reclutamento tra Germania e Italia. Il
programma articolato, composto da una tavola rotonda, una mostra e una
cerimonia di premiazione solenne, ha reso omaggio al contributo storico delle
migranti e dei migranti italiani – mostrando come dalla privazione sia nata la
partecipazione.
Al centro
dell’evento c’è stata una tavola rotonda di alto livello con rappresentanti
della politica, dei sindacati e della società civile. Insieme hanno ripercorso
un’epoca in cui le lavoratrici e i lavoratori italiani giungevano nel Saarland
in condizioni estremamente difficili – senza alloggio, senza corsi di lingua,
senza strutture di accoglienza. Vivevano in baracche, guardati con sospetto,
spesso emarginati. Nulla fu loro regalato. Eppure hanno saputo affermarsi,
conquistare il proprio spazio e prendere in mano la propria vita: con lavoro
instancabile, con cuore, con la ferma volontà di diventare parte integrante
della società. Hanno fondato famiglie, si sono impegnati in associazioni e
sindacati, hanno plasmato i quartieri – gettando così le basi per una comunità
italo-saarlandese oggi ricca, solidale e profondamente radicata.
“Oggi siamo
orgogliosi di ciò che è nato da tutto questo”, ha dichiarato Patrizio Nicola
Maci, Presidente del Comites Saar. “Questa storia non è solo il nostro passato
– è la nostra identità, la nostra responsabilità e il nostro futuro condiviso”.
“L’evento ha unito
l’elaborazione storica a formati partecipativi e alla formazione culturale – ha
commentato il Presidente del Comites, Patrizio Maci -. Le testimonianze dirette
e i racconti personali del pubblico hanno reso evidente: la storia della migrazione
italiana è una storia di coraggio, sradicamento e nuovi inizi – ma anche di
integrazione, costruzione identitaria e solidarietà europea. I figli e i nipoti
della prima generazione partecipano oggi attivamente alla vita sociale –
bilingui, con due cuori nel petto. Questa doppia appartenenza non è una
contraddizione, ma una ricchezza che mostra come dalla migrazione nasca la
cittadinanza, e come dai percorsi individuali emerga una memoria collettiva che
ci unisce tutti”.
L’iniziativa si
inserisce in un progetto a lungo termine di comprensione e dialogo tra Italia e
Germania, che non si limita a conservare la memoria, ma la rende viva. In
stretta collaborazione con il DGB, la IG Metall, la VHS Saarbrücken e altri
partner, si sta costruendo una rete articolata che integra le esperienze della
prima generazione nel discorso pubblico. Attraverso interviste, formati
educativi e eventi aperti, le storie di vita vengono rese visibili e portate
nella quotidianità di scuole, associazioni e istituzioni. Nasce così uno spazio
per il dialogo interculturale, per l’incontro tra generazioni e per una
riflessione condivisa sull’appartenenza, la partecipazione e l’identità europea
– non come concetti astratti, ma come realtà vissuta.
Il Comites Saar ha
quindi voluto lanciare un segnale forte per la memoria, per il riconoscimento e
per un futuro in cui la diversità non sia solo accettata, ma riconosciuta come
fondamento di una società aperta e orientata al dialogo.
La comunità
italiana incontra le istituzioni
Nella serata di
mercoledì, 1 ottobre, si è svolto a Saarbrücken un incontro di grande rilievo,
organizzato dal Comites su invito del suo Presidente, Patrizio Maci.
L’iniziativa ha visto la partecipazione di autorevoli rappresentanti
istituzionali italiani e di numerosi protagonisti della vita culturale,
associativa ed economica del territorio.
Ospiti d’onore
della serata sono stati l’Ambasciatore d’Italia a Berlino, Fabrizio Bucci, e il
Console Generale d’Italia a Francoforte, Massimo Darchini, che hanno incontrato
connazionali appartenenti sia alla prima ondata migratoria – quella degli anni ’50
e ’60 seguita al patto italo-tedesco sulla manodopera – sia alle nuove
generazioni di italiani che oggi vivono, studiano e lavorano in Saarland,
portando innovazione e contribuendo alla vita della società tedesca.
Tra le presenze di
rilievo, l’eurodeputata tedesca di origini italiane Manuela Ripa, il conduttore
radiofonico della storica trasmissione La mezz’ora italiana Pasquale Marino,
già dipendente del Consolato, che ha ripercorso con intensità la storia
dell’emigrazione italiana nella regione e che, proprio in questa occasione, ha
ricevuto un premio dal Comites come riconoscimento del suo impegno per la
comunità. Presente anche il Cavaliere della Repubblica Italiana, Giuseppe
Nardi, imprenditore farmaceutico calabrese e co-proprietario della nota azienda
tedesca Dr. Theiss Naturwaren. A rappresentare il mondo dell’arte, il ballerino
italiano Gaetano Franzese, per anni protagonista al Teatro Statale di
Saarbrücken.
Ha partecipato
all’incontro anche il Consultore della Regione Calabria in Germania, Silvestro
Parise, Presidente dell’associazione Kalabria Italiae Mundi e.V., che con il
suo impegno testimonia la vivacità delle radici calabresi in Germania. Al
tavolo degli ospiti figuravano anche il Presidente del Saarbrücken FC, Salvo
Vitino, e numerosi rappresentanti di associazioni, enti e realtà locali. Nel
Saarbrücken FC militano anche giocatori italiani, un segnale ulteriore della
presenza attiva e apprezzata dei nostri connazionali nel mondo sportivo della
regione.
Durante il suo
intervento, l’Ambasciatore Bucci ha sostenuto che “le istituzioni italiane
devono essere di strada, vicine agli italiani che vivono nei territori”,
sottolineando il valore di momenti di incontro come quello di Saarbrucken.
Parole ribadite anche dal Console Generale Darchini, che ha rimarcato la
solidità dei rapporti tra Italia e Germania, non solo dal punto di vista
economico – con l’Italia tra i primi partner commerciali della Germania – ma
anche sul piano culturale, sociale e istituzionale.
L’incontro ha
rappresentato non solo un’occasione di celebrazione dei 70 anni dal patto
italo-tedesco sulla manodopera, ma anche un momento per guardare al futuro e
rafforzare ulteriormente quel ponte tra i due Paesi che oggi è più vivo che
mai. In questo contesto, è stata ricordata con particolare rilievo la prossima
visita del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in Germania – la
seconda nel giro di un anno – segnale forte della centralità di questo legame
bilaterale.
La serata si è
conclusa in un clima di unità e collaborazione: istituzioni, associazioni e
cittadini italiani uniti dall’impegno di portare avanti i valori
dell’italianità e di continuare a scrivere nuove pagine di amicizia tra Italia
e Saarland. (s.pa. aise/dip 30/3.10.25)
Cittadinanza italiana per i figli degli italiani all’estero
Un recente e più
accurato chiarimento del D. Lgs n. 36/2025, che riforma i criteri di
riconoscimento della cittadinanza italiana per i figli degli italiani
all’estero, prevede la possibilità di chiedere la cittadinanza italiana per i
figli nati all’estero da genitori che sono cittadini italiani per nascita,
anche quando hanno altra cittadinanza al momento della nascita del figlio.
Questa precisazione normativa è particolarmente rilevante per le famiglie della
comunità italiana residente all’estero. Durante questi primi mesi
dall’emanazione della legge, si era ritenuto che il possesso di una seconda
cittadinanza potesse costituire un ostacolo al mantenimento o al riconoscimento
di quella italiana. L’interpretazione chiarisce invece che il vincolo
originario con l’Italia resta valido, purché almeno uno dei due genitori sia
italiano per nascita.
Quello che di
fatto cambia è il procedimento amministrativo di riconoscimento della
cittadinanza per i figli nati all’estero di cittadini italiani per nascita che
al momento della nascita del figlio detengono anche un’altra cittadinanza e non
rientrano nelle eccezioni previste dalla normativa all’art. 1 comma 1: prima
della nuova legge, si trattava di un mero atto di trascrizione della nascita
effettuato dall’ufficiale di stato civile. Dopo la legge, per coloro che non
soddisfano uno dei casi dell’art. 1 comma 1 ma sono cittadini italiani per
nascita è ancora possibile trasmettere la cittadinanza italiana ai propri figli
nati all’estero facendo una domanda di cittadinanza per beneficio di legge,
secondo quanto previsto dall’art 1 bis e ter della nuova norma. Le ricerche e
le analisi giuridiche che hanno portato a questa conclusione sono state
condotte dal Consigliere del CGIE (Consiglio Generale degli Italiani
all’Estero), Carmelo Vaccaro, di concerto l’On. Toni Ricciardi, con i
Consiglieri del CGIE Svizzera e in collaborazione con l’avv. Alessandra
Testaguzza. Si è trattato di un lavoro lungo, complesso e basato sul confronto
con esperti del settore, volto a eliminare le incertezze interpretative della
Legge.
Da un quesito
inoltrato al MAECI la risposta qui di seguito è inequivocabile:
“Nel merito,
tenuto conto che la normativa citata nella sua lettera riguarda segnatamente
l’acquisto della cittadinanza dei minori per beneficio di legge ( articolo 1,
commi 1-bis e 1-ter del decreto-legge n. 36/2025), Le segnalo che i requisiti
che la normativa prevede per le istanze relative a tale fattispecie, sono la
cittadinanza straniera o l’apolidia del minore, la cittadinanza per nascita del
padre o della madre ( che deve essere posseduta, a prescindere dalla
naturalizzazione) e la dichiarazione di volontà dell’acquisto di cittadinanza,
resa dai genitori o dal tutore.” “La relativa domanda deve essere
presentata al consolato di competenza, richiedendo il formulario e la
documentazione da allegare, entro e non oltre il 31 maggio 2026.”
La Legge rimane
comunque uno strappo inatteso e una negazione degli sforzi fatti dagli italiani
emigrati, per quanto questo chiarimento ne contenga parzialmente gli effetti
negativi e la delusione degli italiani di seconda e terza generazione, che fino
al 1992 hanno dovuto affrontare procedure lunghe e incerte per vivere e
lavorare all’estero senza perdere la cittadinanza italiana. La novità
riguarda dunque la possibilità, per i figli di cittadini italiani per nascita,
di poter trasmettere ai propri figli la cittadinanza italiana anche se,
per motivi di integrazione nel Paese di residenza, hanno acquisito
successivamente un’altra nazionalità. Di seguito verranno illustrati i punti
principali.
Acquisto della
cittadinanza da parte del minore straniero nato all’estero
Secondo la nuova
norma, i genitori di un bambino nato all’estero possono chiedere la
trascrizione della nascita all’ufficio di stato civile del consolato nei
seguenti casi:
* se uno dei
genitori o uno dei nonni piede esclusivamente la cittadinanza italiana al
momento della nascita del bambino
* oppure se uno
dei genitori ha avuto la residenza legale continuativa in Italia per almeno 2
anni dopo aver acquisito la cittadinanza italiana e prima della nascita (o
adozione) del figlio.
Quando il bambino
nato all’estero invece non rientra nei due casi sopra, può acquisire la
cittadinanza mediante dichiarazione dei genitori (o tutore) se almeno uno dei
genitori è cittadino italiano per nascita. In questo caso non serve che la
cittadinanza italiana del genitore sia esclusiva.
In sede di
conversione in legge del decreto-legge n. 36/2025, infatti, sono state
introdotte le Disposizioni per favorire il recupero delle radici italiane degli
oriundi e il conseguente acquisto della cittadinanza italiana.
L’Art. 1-bis
prevede che il minore, straniero o apolide, del quale il padre o la madre sono
cittadini per nascita, diviene cittadino se i genitori o il tutore dichiarano
la volontà dell’acquisto della cittadinanza e la dichiarazione è
presentata entro un anno dalla nascita del minore o dalla data successiva
in cui è stabilita la filiazione, anche adottiva, da cittadino italiano.
(“Art 1-bis. Il
minore straniero o apolide, del quale il padre o la madre sono cittadini per
nascita, diviene cittadino se i genitori o il tutore dichiarano la volontà
dell’acquisto della cittadinanza e ricorre uno dei seguenti requisiti:
1. successivamente
alla dichiarazione, il minore risiede legalmente per almeno due anni
continuativi in Italia;
la
dichiarazione è presentata entro un anno dalla nascita del minore o dalla data
successiva in cui è stabilita la filiazione, anche adottiva, da cittadino
italiano. )
E’ stata inoltre
prevista una norma transitoria (comma 1-ter dell’articolo 1 del decreto-legge
n. 36/2025) per i minori di età alla data di entrata in vigore del decreto (che
non avevano cioè compiuto i 18 anni al 24 maggio 2025) e che non avevano presentato
la suddetta dichiarazione all’autorità consolare prima del 27 marzo 2025.
1-ter. ((Per i
minorenni alla data di entrata in vigore della legge di conversione del
presente decreto, figli di cittadini per nascita di cui all’articolo 3-bis,
comma 1, lettere a), a-bis) e b), della legge 5 febbraio 1992, n. 91, la
dichiarazione prevista dall’articolo 4, comma 1-bis, lettera b), della medesima
legge può essere presentata entro le 23:59, ora di Roma, del 31 maggio 2026.))
Quindi in
tali casi il minore, straniero o apolide, del quale il padre o la madre sono
cittadini per nascita, anche se possiedono altre cittadinanze, diviene
cittadina/o se i genitori o il tutore dichiarano la volontà dell’acquisto della
cittadinanza e la dichiarazione è presentata all’Ufficio consolare entro
il 31 maggio 2026 per i bambini già nati prima dell’entrata in vigore della
legge oppure entro un anno dalla nascita del bambino stesso.
Questo implica che
la cittadinanza sarà riconosciuta da quando viene fatta la dichiarazione e non
al momento della nascita.
I documenti
richiesti per presentare la domanda e ottenere il riconoscimento.
– L’estratto
dell’atto di nascita in originale in formato CIEC, ai fini della successiva
trascrizione in Italia.
– Una copia dei
documenti di identità e il certificato di residenza dei genitori e del minore.
– Di norma, lo
status di cittadino per nascita del genitore risulta direttamente dalla
documentazione già agli atti della sede consolare. Qualora ciò non fosse
possibile, sarà necessario presentare anche un estratto per riassunto dell’atto
di nascita del genitore, rilasciato dal Comune italiano di nascita o di
trascrizione, e/o altra documentazione integrativa idonea ad accertarne la
cittadinanza per nascita.
– In alcuni casi
potrà essere richiesto anche l’estratto dell’atto di matrimonio dei genitori
(se non ancora trascritto in Italia), oppure la dichiarazione di riconoscimento
di paternità, nel caso di figli nati fuori dal vincolo matrimoniale.
Per maggiori
informazioni, rivolgersi all’Ufficio cittadinanza del proprio Consolato di
competenza. Carmelo Vaccaro, La Notizia di Ginevra/dip
Israele celebra l’anniversario del 7 ottobre
Israele commemora
il secondo anniversario dell’attacco del 7 ottobre 2023, mentre Hamas e i
negoziatori israeliani conducono colloqui indiretti per porre fine ai due anni
di guerra a Gaza nell’ambito di un piano di pace proposto dagli Stati Uniti.
Due anni fa, alla
fine della festa ebraica di Sukkot, i militanti guidati da Hamas hanno lanciato
un attacco a sorpresa contro Israele, rendendolo il giorno più sanguinoso nella
storia del Paese. I combattenti palestinesi hanno violato il confine tra Gaza e
Israele, assaltando le comunità del sud di Israele e un festival musicale nel
deserto con armi da fuoco, razzi e granate. L’attacco ha causato la morte di
1.219 persone sul fronte israeliano, per lo più civili, secondo un conteggio
dell’AFP basato sui dati ufficiali israeliani. I militanti hanno anche rapito
251 ostaggi portandoli a Gaza, 47 dei quali rimangono prigionieri, tra cui 25
che secondo l’esercito israeliano sono morti.
Nella giornata di
martedì 7 ottobre, in Israele sono state organizzate cerimonie commemorative
per ricordare l’anniversario. Decine di parenti e amici delle vittime del
festival musicale Nova hanno acceso candele e osservato un minuto di silenzio
sul luogo dell’attacco nel sud di Israele, dove i militanti palestinesi hanno
ucciso più di 370 persone e preso in ostaggio decine di altre.
Lunedì 6 ottobre
molti israeliani si sono recati sul luogo dove si è svolto il festival Nova.
“Quello che è successo qui è stato un evento molto difficile e grave”, ha
dichiarato all’AFP Elad Gancz, un insegnante, mentre piangeva i morti. “Ma noi
vogliamo vivere e, nonostante tutto, andare avanti con le nostre vite,
ricordando coloro che erano qui e che, purtroppo, non sono più con noi”.
Un’altra cerimonia
è prevista a Tel Aviv, in piazza degli Ostaggi, dove ogni settimana si tengono
manifestazioni per chiedere il rilascio dei prigionieri.
Una commemorazione
ufficiale organizzata dallo Stato è prevista per il 16 ottobre.
La campagna
militare di rappresaglia di Israele a Gaza, per via aerea, terrestre e
marittima, continua senza sosta, causando decine di migliaia di morti tra i
palestinesi e vaste distruzioni. Il ministero della sanità gestito da Hamas
afferma che almeno 67.160 persone sono state uccise, cifre che le Nazioni Unite
considerano attendibili. I loro dati non distinguono tra civili e combattenti,
ma indicano che oltre la metà dei morti sono donne e bambini.
Interi quartieri
sono stati rasi al suolo, con case, ospedali, scuole e reti idriche in rovina.
Centinaia di migliaia di abitanti di Gaza rimasti senza tetto sono ora
rifugiati in campi sovraffollati e aree aperte con scarso accesso a cibo, acqua
e servizi igienici. “Abbiamo perso tutto in questa guerra: le nostre case, i
nostri familiari, i nostri amici, i nostri vicini”, ha detto Hanan Mohammed, 36
anni, sfollata dalla sua casa a Jabalia. “Non vedo l’ora che venga annunciato
il cessate il fuoco e che questo spargimento di sangue e questa morte senza
fine finiscano… non è rimasto altro che distruzione”.
Dopo due anni di
conflitto, il 72% della popolazione israeliana si è dichiarato insoddisfatto
della gestione della guerra da parte del governo, secondo un recente sondaggio
dell’Istituto per gli studi sulla sicurezza nazionale.
Un compito
titanico
Nel corso della
guerra Israele ha ampliato la propria influenza militare, colpendo obiettivi in
cinque capitali regionali, tra cui Teheran, e uccidendo diverse figure di
spicco di Hamas e il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah.
Israele e Hamas
devono ora affrontare una crescente pressione internazionale affinché pongano
fine alla guerra, con un’indagine delle Nazioni Unite che il mese scorso ha
accusato Israele di genocidio a Gaza e gruppi per i diritti umani che accusano
Hamas di crimini di guerra nell’attacco del 7 ottobre. Entrambe le parti
respingono le accuse.
La scorsa
settimana, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha presentato un piano
in 20 punti che chiede un cessate il fuoco immediato una volta che Hamas avrà
rilasciato tutti gli ostaggi, il disarmo del gruppo e un graduale ritiro
israeliano da Gaza.
I colloqui
indiretti sono iniziati lunedì 6 ottobre nella località turistica egiziana di
Sharm el-Sheikh, con i mediatori che fanno la spola tra le delegazioni sotto
stretta sorveglianza. Al-Qahera News, legata ai servizi segreti egiziani, ha
affermato che le discussioni si sono concentrate sulla “preparazione delle
condizioni sul terreno” per uno scambio di ostaggi e prigionieri secondo il
piano di Trump. Una fonte palestinese vicina ai negoziatori di Hamas ha
affermato che i colloqui, avviati alla vigilia dell’anniversario del 7 ottobre,
potrebbero durare diversi giorni.
Trump ha esortato
i negoziatori ad “agire rapidamente” per porre fine alla guerra a Gaza, dove
lunedì sono proseguiti gli attacchi israeliani. Il presidente degli Stati Uniti
ha dichiarato a Newsmax TV: “Penso che siamo molto, molto vicini a un accordo…
Credo che ora ci sia molta buona volontà. In realtà è piuttosto sorprendente”.
Sebbene entrambe
le parti abbiano accolto con favore la proposta di Trump, raggiungere un
accordo sui dettagli si preannuncia come un compito titanico. La guerra ha già
visto due tregue che hanno permesso il rilascio di decine di ostaggi. Tuttavia,
il capo dell’esercito israeliano, il tenente generale Eyal Zamir, ha avvertito
che se questi negoziati dovessero fallire, l’esercito “tornerà a combattere” a
Gaza. Di Jay Deshmukh e Chloe Rouveyrolles-Bazire, A. F.-P.
L’Italia avrebbe
bisogno di un quadro istituzionale più responsabile; ma non solo di quello. Del
resto, questo Governo, ovviamente, dovrà fare fronte a specifiche attribuzioni.
Di fatto, però, gli eventuali errori resterebbero a carico del Popolo italiano.
Non riusciamo, infatti, a scorgere vera coesione politica. Questo Esecutivo,
che dovrebbe sostenere un nuovo assetto della Penisola, ha, ancora, da meglio
qualificarsi. Del resto, il tempo non gli manca.
Intanto, se siamo
in ambascia, la responsabilità di qualcuno sarà. Il tramonto del potere alla
vecchia maniera preoccupa chi ritiene d’essere ancora politicamente utile.
L’Italia dovrebbe disfarsi di tante “figure” che hanno fatto il loro tempo.
Ritirarsi avrebbe ancora una sua dignità. Soprattutto se lo facesse per il bene
nazionale. Oggi non ci sono punti di riferimento nel firmamento dei tanti,
troppi, partiti italiani. Amministrare le leggi è sempre una grande
responsabilità. Applicarle appare sempre complesso. Ma, per i problemi
nazionali, non ci sono le premesse per garantire una razionale ripresa.
Se il Potere
Legislativo continuerà a mantenere la “fiducia” a questo Esecutivo, il quadro
nazionale potrebbe essere meno condizionato. Il 2026 potrebbe essere l’anno per
una possibile presa d’atto politica rinnovata. Lo scacchiere del “sistema”
resta, tuttavia, incerto e i nostri pronostici restano, tutti, da verificare.
Anche perché la “fiducia”, una volta ottenuta, bisogna sapere conservarla.
Giorgio Brignola,
de.it.press
I giovani di
origine straniera, nati o cresciuti in Italia, sono di fatto i protagonisti
silenziosi della trasformazione del Paese. Non solo destinatari di interventi,
ma generatori di speranza, portatori di identità plurali e di un futuro da
costruire insieme. È il messaggio al centro della XXXIV edizione del “Rapporto
Immigrazione”, realizzato da Caritas Italiana e Fondazione Migrantes,
intitolato in quest’anno giubilare «Giovani, testimoni di speranza».
Il Rapporto
Il volume – 392
pagine, con la firma di 48 tra curatori e collaboratori – dopo la consueta
premessa sul contesto internazionale, offre una rappresentazione della
situazione degli immigrati residenti in Italia secondo 8 ambiti di vita
quotidiana: cittadinanza, economia, scuola, sanità, disagio sociale, sport,
comunicazione e appartenenza religiosa. La sfida raccolta dal Rapporto è quella
di provare a fare dei tanti volti della mobilità il volto composito di un
Paese.
I numeri
dell’immigrazione in Italia e nel mondo.
In Italia, gli
stranieri regolarmente residenti sono oltre 5,4 milioni, pari al 9,2% della
popolazione. Nel 2024, più del 21% dei nuovi nati ha almeno un genitore
straniero. I principali Paesi di origine dei cittadini stranieri in Italia
restano i medesimi, ma negli ultimi anni si osserva una crescita significativa
di nuovi arrivi dal Perù e Bangladesh. Tutto questo si registra in un contesto
globale in cui, nel 2025, nel mondo si contano 304 milioni di migranti
internazionali, il doppio rispetto al 1990, e oltre 123 milioni di profughi e
sfollati.
Giovani di origine
straniera: potenziali protagonisti della trasformazione del Paese
Il Rapporto 2025
pone al centro i giovani con background migratorio, che rappresentano una
risorsa vitale per la società italiana. Molti di loro affrontano difficoltà nel
riconoscimento e nella partecipazione, ma la loro esperienza è una narrazione
vivente di speranza e cambiamento. «Dare loro spazio – sottolineano Caritas
Italiana e Fondazione Migrantes nell’introduzione al volume – non è un favore,
ma un investimento per il futuro dell’Italia, che si costruisce anche – e
soprattutto – con chi ha il coraggio di sognarlo, da dentro e da fuori».
Lavoro, casa e
povertà: le sfide dell’inclusione
Nel 2024 gli
occupati in Italia sono 24 milioni, di cui oltre 2,5 milioni stranieri (10,5%).
Crescono i rapporti di lavoro attivati con cittadini stranieri (+5,8% in un
anno), ma persistono disuguaglianze e sfruttamento, soprattutto nel settore
agricolo e in quello dei servizi.
Le difficoltà
abitative restano un nodo cruciale: l’indagine Caritas-Migrantes evidenzia
forti discriminazioni e barriere di accesso alla casa per le famiglie
straniere. Sul fronte economico, mentre l’incidenza della povertà tra i
cittadini italiani si attesta al 7,4%, tra gli stranieri raggiunge il 35,1%
(sono 1.727.000 i cittadini stranieri in condizione di povertà assoluta).
«Investire in
strategie di inclusione e in percorsi legali – ha detto nel suo intervento S.E.
mons. Carlo Maria Redaelli, arcivescovo metropolita di Gorizia e presidente di
Caritas Italiana – non è un favore, ma un atto di responsabilità verso il
futuro delle nostre comunità e di quelle che arrivano: si può e si deve fare
meglio di quanto fatto finora».
Scuola, sport e
religione: spazi di cittadinanza e futuro
Nell’anno
scolastico 2023/2024 si registra la presenza di oltre 900 mila alunni con
cittadinanza non italiana, con un’incidenza pari all’11,5%, segno di una
società sempre più multiculturale. Lo sport si conferma terreno fertile di
inclusione e cittadinanza attiva: tuttavia, solo il 35% delle ragazze straniere
pratica attività sportiva, contro il 62% delle coetanee italiane, e merita
attenzione il fenomeno dello sport trafficking. Sul piano della appartenenza
religiosa, tassello fondamentale nella comprensione del senso di partecipazione
alla comunità, si stima che all’inizio del 2025 il totale dei cristiani superi
ancora la maggioranza assoluta degli stranieri residenti in Italia,
raggiungendo il 51,7%, seppure in netto calo rispetto al 53,0% stimato per il
2024. «Il Rapporto conferma – ha detto il direttore generale della Fondazione
Migrantes, mons. Pierpaolo Felicolo – che dopo la prima accoglienza è
fondamentale l’accompagnamento costante a una esistenza dignitosa e alla
partecipazione diretta alla vita del Paese. Diamo meno spazio a ciò che
facciamo e diciamo noi per loro, e più alla voce, alla testimonianza e allo
sguardo sul Paese dei cittadini immigrati».
Baturi (CEI): «Una
trasformazione silenziosa, ma radicale»
L’Italia vive una
trasformazione – afferma il segretario generale della Conferenza episcopale
italiana, S.E. mons. Giuseppe Baturi, nella sua Prefazione al volume –, che
passa attraverso i volti, le storie e i sogni di giovani ragazze e ragazzi che
«frequentano le stesse scuole dei loro coetanei italiani, parlano i dialetti
locali, tifano per le squadre del cuore, ma spesso continuano a sentirsi – e a
essere percepiti – come “ospiti permanenti”, non pienamente parte della
comunità». In questo senso «le comunità cristiane in Italia hanno oggi la
possibilità di essere laboratori privilegiati di convivenza, luoghi in cui si
sperimenta in piccolo ciò che il Paese intero fatica a realizzare». Nella
situazione fotografata dal Rapporto, scrive mons. Baturi, la cittadinanza si
conferma uno dei «passaggi sempre più indispensabili». Migrantes on.14
I lavori del Comitato di Presidenza del Cgie
Roma – Si sono
conclusi alla Farnesina i lavori del Comitato di Presidenza del Cgie. I
risultati di questa settimana, ricca di incontri e di impegni, sono stati
illustrati alla stampa dalla Segretaria Generale del Cgie Maria Chiara Prodi e
dagli altri componenti del Comitato di Presidenza. “Il tema degli italiani
all’estero – ha esordito Prodi – non può essere confinato, abbiamo bisogno che
tutto il Paese riesca a comprendere, sia la necessità di mantenere un rapporto
con le comunità all’estero, con i dovuti investimenti, sia la miniera d’oro che
sono italiani all’estero, una realtà disponibile ad aiutare la crescita del
nostro paese”. “In questa settimana – ha proseguito la Segretaria Generale – ci
siamo concentrati sugli incontri con le Commissioni in Parlamento, ma
abbiamo anche firmato un accordo interistituzionale con il CNEL e scritto a
tutte le regioni, per intrattenere un rapporto più ordinario. Stiamo cioè
facendo un lavoro sistematico per fare in modo che lo sguardo verso gli
italiani all’estero cambi grazie al nostro lavoro di rappresentanza, in fondo è
questo che ci viene chiesto”. Prodi ha poi rilevato come il Cgie stia lavorando
su specifiche tematiche: promozione della lingua e cultura, insegnamento
della storia dell’emigrazione e riforma del Consiglio Generale. Un punto,
quest’ultimo, su cui si tornerà a dicembre anche in considerazione del fatto
che il 2026 sarà l’anno che festeggerà i quarant’anni dall’insediamento dei
Comites, ricordando quanto è stato ottenuto negli anni passati, come ad esempio
la creazione dello stesso Cgie e della circoscrizione Estero.
“Abbiamo avuto in questi giorni la conferma – ha poi aggiunto
la Segretaria Generale – che gli italiani all’estero iscritti all’AIRE
sono ad oggi 7 milioni 300mila, è un dato impressionante e soprattutto per la
velocità con cui questo numero aumenta. Noi siamo convinti che di fronte a
queste cifre l’unica risposta possibile sia un lavoro congiunto con le
istituzioni, al fronte a tutte le problematiche che questa realtà comporta”.
Prodi ha poi ricordato sia l’accordo siglato con il Cnel, che darà al
Cgie strumenti nuovi, sia la necessità convocare la Conferenza Stato, Regioni,
Province autonome e Cgie, che ha una programmazione triennale, nonché
l’esigenza di fornire al Consiglio Generale risorse adeguate per il suo
funzionamento dettato dalla legge istitutiva. La Segretaria Generale ha anche
rilevato che il Cgie parteciperà al lavoro portato avanti dalla Farnesina per
la nascita di una comunità sull’italofonia, in quanto “non ci può essere
una comunità dell’italofonia senza le comunità degli italiani all’estero”
“Nei prossimi mesi – ha sottolineato Prodi – continueremo ad insistere
per avere attenzione sulle modifiche della legge sulla cittadinanza, la più
urgente è ovviamente la richiesta di proroga sui termini della prescrizione dei
minori, termine che per ora è definito al 31 maggio del 2026”. Dopo aver
ricordato l’importanza dei pareri obbligatori ma non vincolanti espressi dal
Cgie, la Segretaria Generale ha sottolineato come, mentre l’Europa vede nella
nostra forma di rappresentanza uno strumento innovativo di contatto con le
diaspore, “si stia lavorando per celebrare i settant’anni di Marcinelle, la
tragedia dell’8 agosto del 2026, non solo come l’immagine della sacrificio
italiano nel mondo, ma anche come luogo che ha dato l’impulso alla nascita
dell’Unione Europea attraverso il lavoro”.
Ha poi preso la
parola la Vice Segretaria Generale per i Paesi Anglofoni extraeuropei Silvana
Mangione che ha sottolineato la necessità di portare avanti adeguati
investimenti per la promozione dell’italofonia, sottolineando come in Paesi di
lingua non romanza i figli della nuova emigrazione ,quando giungono all’asilo o
alla scuola, si allontanino dall’italiano, preferendo la lingua locale. “Per
quanto riguarda gli Stati Uniti una delle cose che ci preoccupano – ha
poi rilevato Mangione – sono l’applicazione dei dazi e la delocalizzazione
delle imprese italiane, perché questa potrebbe portare a delle conseguenze e
cioè che venga considerato come prodotto Made in italy, qualcosa che in realtà
sia prodotto altrove, laddove le maestranze siano totalmente locali. Quindi ci
si troverebbe di fronte ad una imperfezione nel portare avanti lo stile
inconfondibile della produzione italiana”. Segnalata dalla Vice Segretaria
Generale anche la totale mancanza di presenza nella rappresentanza sia
dell’Africa, sia dell’Asia, un continente, quest’ultimo, dove stanno crescendo
micro comunità italiane. A seguire è intervenuto il Vice Segretario per
l’Europa e l’Africa del Nord Giuseppe Stabile che si è soffermato sull’esigenza
di potenziare le politiche economiche e fiscali miranti al rientro dei nostri
connazionali in patria. Per Stabile bisogna far sapere agli italiani all’estero
che sono state emanate dall’Italia varie misure specifiche per favorire il
rientro in Italia. “ Il problema – ha spiegato Stabile – è che fino ad oggi non
c’è stato un interlocutore unico che raccogliesse tutte quelle misure poste in
essere dalle varie articolazioni dello Stato. Vi sono i comuni, le regioni, i
vari ministeri interessati e così le varie iniziative si disperdono. Noi
abbiano pensato di raccogliere tutte queste misure e di renderle conoscibili in
maniera capillare anche all’estero”. In partica un’iniziativa informativa che
coinvolga le componenti del nostro sistema Paese nel mondo, come i consolati ,
le ambasciate, le camere di commercio, le associazioni e i Comites. Stabile ha
anche precisato che tutte le proposte volte a migliorare il sistema delle
politiche economiche e fiscali atte a incentivare il rientro sono a costo zero.
Da segnalare anche
l’intervento del componente del CdP per l’Europa e l’Africa del Nord Tommaso
Conte che ha rilevato come il decreto legge approvato quest’anno vada ad
incidere negativamente sulla possibilità di trasmettere la cittadinanza da
parte dei possessori di doppia cittadinanza. Una fattispecie che in Europa è
molto diffusa. Conte ha inoltre rilevato le difficoltà incontrate dagli Enti
Gestori che in Germania si stanno riducendo di numero. Alla luce di ciò per il
consigliere si corre il rischio che rimangano senza corsi di lingua italiana
aree dove la presenza delle comunità italiane è ancora numerosa e dinamica, con
molti nuovi arrivi ogni anno. Anche il Vice Segretario Generale per l’America
Latina Mariano Gazzola ha parlato del problema della doppia cittadinanza,
sottolineando come con la nuova legge sulla cittadinanza rischi di aumentare
ulteriormente l’uso delle vie legali. Gazzola ha anche rilevato come dal
decreto flussi siano esclusi oriundi italiani provenienti da alcuni paesi. Una
interpretazione che, per Gazzola, andrebbe ampliata aumentando il numero dei
paesi di provenienza. Dal canto suo il Vice Segretario Generale di Nomina
governativa Gianluca Lodetti ha sottolineato come grazie all’accordo con il
Cnel, un ente molto propositivo in campo normativo, il Consiglio Generale
voglia sviluppare anche propria la possibilità di proposta legislativa verso il
Governo. “Vi sono vari ambiti – ha poi spiegato Lodetti – nei quali abbiamo
ritenuto importante lavorare con il Cnel. Il primo è quello della crescita
economica del sistema paese, quindi la valorizzazione del contributo delle
collettività all’estero, ma vi è anche il problema della tutela dei lavoratori
italiani all’estero, le politiche di rientro e di incentivazione. Vi è poi la
politica studentesca e universitaria con la necessita a creare quella mobilità
circolare che facciamo difficoltà a portare avanti, nonché la diffusione della
lingua italiana, la ricerca scientifica e l’innovazione, con la valorizzazione
dei ricercatori italiani all’estero. Infine la partecipazione e
l’associazionismo all’estero”. Lodetti ha anche evidenziato l’esigenza di
una informazione strutturata e sistematica per gli italiani all’estero, ad
esempio sulla cittadinanza e gli incentivo di rientro. “L’insegnamento
della storia dell’emigrazione – ha infine rilevato Lodetti – non ha solo un
intento educativo per identificare il percorso dell’emigrazione italiana, ma ha
anche quello di insegnare ai nostri figli quello che è stato il percorso
migratorio, affinché loro abbiano gli strumenti per comprendere i processi
migratori del mondo e sentire vicina una diaspora che fino ad oggi è stata
vista come lontana”. A seguire l’intervento di Walter Petruziello, componente
del CdP per l’America Latina, che ha evidenziato il costante lavoro svolto dal
Comitato di Presidenza sulla questione della nuova legge di cittadinanza e la
necessità di una proroga per il termine di registrazione dei minori all’estero
nati prima dell’entrata in vigore di questa norma. A infine preso la
parola il componente di nomina governativa del CdP Ricardo Merlo che ha
criticato la nuova legge sulla cittadinanza, auspicando un cambiamento della
norma, anche alla luce del prossimo pronunciamento della Corte Costituzionale. (G.M.-
Inform/dip)
Fare una
considerazione sull’attuale politica italiana,pure se inserita a livello UE,
sarebbe ostinarsi su un ingannevole problema. Quindi, ci sembra più opportuno
tralasciare i suoi molteplici seguiti. Intanto, vedremo quali nuovi
accorgimenti saprà propinarci questo Esecutivo di Centro/Destra. Non a caso, ma
con nostro stupore, già ci si riferisce di un “terzo polo” di centro che
dovrebbe compattare gli incerti e delusi dell’area mediana del nostro
Parlamento. Se si volesse realmente voltare pagina, la “Vecchia Guardia” non
dovrebbe essere mobilitata. Basta con le garanzie per affrontare una nuova via.
La nostra politica sa di vecchio. Anche per gli aspiranti Parlamentari ci
dovrebbe essere un limite d’età per partecipare, come candidati, alle elezioni.
Sotto questo profilo, gli ultimi anni della
Repubblica, non sono stati dissimili da quelli che potrebbero ripresentarsi.
L’onestà politica è l’unico parametro che realmente dovrebbe contare; anche per
il futuro. Se si troverà un “accordo”, serio, il Parlamento dovrebbe assumersi
il compito di concretare quelle premesse che dovrebbero traghettare l’Italia
dal “passato” al “futuro”. Con più logicità e meno parole e compromessi. Il
tutto senza compromessi.
Pur con questi presupposti, non siamo però
nelle condizioni d’assicurare atteggiamenti che incoraggino le nostre tesi.
L’arcano da sbrogliare è, e rimane, quello della tenuta politica non solo di
“facciata”. Non siamo nuovi a queste considerazioni, ma i risultati, nostro
malgrado, ci hanno dato, purtroppo, sempre ragione. Anche se, per coerenza,
avremmo voluto non averla.
Giorgio Brignola,
de.it.press
C’è un muro nel
Mediterraneo. Invisibile, eppure invalicabile. Non è fatto di cemento, ma di
paure, diseguaglianze e silenzi. Divide il Nord dal Sud, l’Europa dall’Africa,
il benessere dalla miseria, la speranza dalla disperazione. È il muro che
impedisce ai popoli delle due sponde di riconoscersi ancora parte di una stessa
storia.
Un tempo, quel
mare era il grande ponte tra le civiltà. Da una costa all’altra viaggiavano
idee, merci, religioni, conoscenze. Il Mediterraneo era la culla del dialogo e
dell’incontro. Oggi è diventato il teatro di una frattura profonda, il confine
più sorvegliato del pianeta. Migliaia di persone ogni anno cercano di
attraversarlo e non tornano più. Non c’è bisogno di muri visibili quando il
mare stesso è diventato un confine mortale.
Questo muro non
nasce solo dalla politica, ma da un atteggiamento collettivo: l’indifferenza.
Abbiamo imparato a convivere con le tragedie quotidiane del mare nostrum come
se fossero un fenomeno naturale, inevitabile. Abbiamo costruito un linguaggio
che disumanizza: “flussi”, “sbarchi”, “quote”, come se parlassimo di numeri e
non di persone. È questa la vera barriera: quella che separa la nostra
coscienza dalla realtà.
Eppure, il
Mediterraneo non è soltanto dolore. È ancora il luogo dove il dialogo può
rinascere. Ci sono porti che accolgono, città che cooperano, scuole e
università che costruiscono scambi culturali tra giovani del Nord e del Sud. Ci
sono artisti, scienziati e cittadini che vedono nel mare non una linea di
separazione, ma un orizzonte comune.
La sfida è
ricostruire il Mediterraneo come spazio di incontro. Non serve abbattere un
muro di pietra, ma aprire un varco nei cuori e nelle politiche. Serve una
visione nuova, capace di vedere nell’altro non un pericolo ma una risorsa, non
un estraneo ma un vicino.
Quel muro
invisibile potrà cadere, se torneremo a considerare il Mediterraneo per ciò che
è sempre stato: una casa condivisa da popoli diversi, un mare di vita e di
speranza.
Il giorno in cui
guarderemo di nuovo l’altra sponda come parte di noi, il Mediterraneo tornerà a
unire. E quel muro, lentamente, scomparirà.
Giuseppe Tizza,
de.it.press 5
Da “clandestini” a cittadini. La lunga strada in salita
Sempre più Md.
(Mohammad) e Inaya, mentre Amira e Laurentiu cedono il passo a Sofia e Matteo.
È nelle storie e nei volti dei cittadini stranieri in Italia che emerge con più
evidenza il cambiamento intercorso nelle caratteristiche nell’immigrazione
nell’ultimo quarto di secolo. Da un lato, la conferma di alcuni scenari
storici, come la forte presenza numerica di cittadine e cittadini romeni (oltre
1 milione nel 2024, in maggioranza donne) e albanesi (400 mila); dall’altro, il
lento, graduale ma sostanziale cambiamento nella loro partecipazione al
contesto italiano.
Questa si
evidenzia non soltanto nel crescente radicamento socio-economico sul
territorio, ma anche nel sentimento di inclusione culturale del quale – come
metteva in luce l’Istat nel 2023 – una scelta di nomi per i nuovi nati e nate
del tutto comune a quella dei cittadini italiani autoctoni è soltanto uno dei
tratti più emblematici; infine, il delinearsi di nuove, consistenti, dinamiche
di mobilità, come l’aumento degli ingressi dal Bangladesh, che negli ultimi
anni ha condotto l’Italia a essere una delle mete europee privilegiate per gli
emigranti di tale nazionalità, insieme al Regno Unito (cfr. lo studio di
Morad-Sacchetto pubblicato per l’Organizzazione internazionale per le
migrazioni nel 2020).
Guardare agli
ultimi 25 anni dell’immigrazione in Italia non è soltanto un esercizio
simbolico: alla fine degli anni Novanta il numero di cittadini stranieri
residenti superava la soglia storica del primo milione, oggi quintuplicata. Un
cambiamento di scenario che ha coinvolto tanto la composizione dei flussi e le
ragioni delle partenze quanto le nazionalità di provenienza, insieme allo stile
di presenza sui territori e all’atteggiamento della società e della politica.
Al volgere del
secondo millennio, gli stranieri residenti in Italia si stimavano essere poco
meno di un milione e mezzo (2,5% della popolazione totale), prevalentemente di
sesso maschile e di età compresa fra i 19 e i 40 anni. Le nazionalità più
rappresentate erano quella marocchina (146 mila persone), albanese (115 mila) e
filippina (61 mila), mentre si assisteva già a una contrazione
dell’immigrazione dall’Asia e dal continente americano, in special modo
settentrionale, a fronte di un aumento degli arrivi dall’Europa dell’ex blocco
sovietico (Jugoslavia, con 55 mila presenze, e Romania, con poco più di 51
mila).
A leggerla oggi,
colpisce la sesta posizione per numerosità dei cittadini statunitensi (47 mila)
e la decima dei tedeschi (35 mila), segno di un’immigrazione di differente
tipologia, contesto e storia, che progressivamente è stata soppiantata dai
nuovi flussi in ingresso, sostenuti anche dalla crescente economia informale
italiana, di lavoratori impiegati per lo più nell’agricoltura, nell’edilizia e
nel lavoro domestico.
25 anni dopo la
situazione è molto cambiata. La presenza di oltre 1 milione di cittadini romeni
– comunitari – regolarmente residenti in Italia dice di una crescita dal ritmo
incalzante, almeno nei primi anni Duemila, che ha condotto il totale dei
cittadini stranieri in Italia a superare oggi i 5,2 milioni (poco meno del 9%
della popolazione complessiva). Numericamente più arretrati, ma non meno
consistenti nell’aumento delle presenze, sono anche le comunità albanese (416
mila) e marocchina (412 mila), seguite da quelle cinese (308 mila) e ucraina
(273 mila). Significativa è però soprattutto la definizione di nuove direttrici
migratorie dal Sudest asiatico – Bangladesh (192 mila), India (171 mila) e
Pakistan (159 mila), su tutti – segno dei nuovi caratteri dell’immigrazione.
Al cambiare della
mobilità umana, è cambiata infatti l’Italia. Se l’ultimo decennio degli anni
Novanta ha coinciso con la presa di coscienza – sociale, politica ed ecclesiale
– della nuova mobilità che coinvolgeva la Penisola, non più soltanto in uscita,
all’inizio del nuovo millennio la crescita della popolazione straniera in
Italia si accompagnava a un inasprimento della crisi economica globale e alla
paura della cosiddetta “invasione”.
L’approccio
securitario ai fenomeni migratori ha polarizzato il campo politico e, con esso,
il dibattito sociale. L’attenzione mediatica su Lampedusa e, emblematicamente,
sugli “sbarchi” di migranti dopo le traversate del Mediterraneo centrale ha
sostenuto la narrazione di un “loro” contrapposto a un “noi”, suggerendo
aspirazioni divergenti e interessi contrapposti.
Gli ingenti
movimenti migratori originati dalle numerose crisi internazionali, a partire
dalle Primavere arabe fino ai tragici conflitti in area mediorientale, hanno
scosso le coscienze, insieme alle frequenti tragedie in mare, su tutte la morte
di quasi 400 persone al largo di Lampedusa il 3 ottobre 2013. D’altro canto, si
è trattato di un’empatia di breve durata, che ha attraversato rapidamente le
maglie larghe dell’indifferenza mediatica, politica e sociale.
In pochi anni la
strumentalizzazione elettorale, sostenuta da una narrazione mediatica troppo
spesso miope, hanno fatto dei “clandestini” il capro espiatorio delle
inquietudini, delle contraddizioni e delle ineguaglianze della società
italiana, europea e mondiale. Il risultato è stato un progressivo
disinvestimento nelle politiche a sostegno dell’inclusione dei cittadini
stranieri, a favore di presunte soluzioni di chiusura.
L’approccio
nazionale alla mobilità umana in ingresso è divenuto sempre più un riflesso
delle politiche europee, orientate al contenimento dei flussi più che a un
lungimirante programma di gestione strutturale del fenomeno, che promuova vie
legali di ingresso, accoglienza e inclusione.
A farne le spese
sono anzitutto i minori stranieri, inseriti in un sistema di accoglienza e poi
in un sistema scolastico spesso tutt’altro che attenti alle loro esigenze; i
lavoratori immigrati, ostaggio di contesti produttivi che sovente li sfruttano,
fino a casi estremi di riduzione in schiavitù; i cittadini stranieri che, pur
vivendo e lavorando da molti anni in Italia, faticano a regolarizzare la
propria presenza a causa di un sistema normativo irrealistico; i milioni di
giovani con background migratorio nati in Italia, che vedono disattese le
speranze e le opportunità di una piena partecipazione civile, anche attraverso
la cittadinanza.
Fra il Grande
Giubileo del 2000, il primo «per tutte le culture», come qualcuno allora lo ha
definito, e l’Anno Santo che stiamo vivendo accanto ai «migranti, missionari di
speranza», è avvenuta una metamorfosi che sotto lo stimolo della mobilità umana
ha rimodellato la società, l’economia, la politica, la scuola, le famiglie, la
cultura, il tessuto urbano e il panorama religioso della Penisola.
Un volto
multiculturale nuovo e insieme antico, che sarà tanto più valorizzato quanto
l’Italia saprà rafforzare i canali legali per l’ingresso dei lavoratori e i
ricongiungimenti familiari; snellire una burocrazia che genera esclusione,
irregolarità e abusi; promuovere programmi di inclusione a livello nazionale e
locale; cooperare con l’Unione europea per una politica migratoria condivisa,
che sappia fare dei tanti volti della mobilità il volto composito di un
continente in cammino. (Simone Varisco | Migranti Press 7/8 2025)
Camera. Andrea Riccardi sui Comitati della Dante
Roma – Ha avuto
luogo, presso la Commissione Affari Esteri della Camera, l’audizione del
Presidente della Società Dante Alighieri Andrea Riccardi. Si è parlato delle
attività svolte e sulle iniziative avviate dalla Dante per la promozione della
lingua e della cultura italiana nel mondo. Nel suo intervento Riccardi ha
ricordato come la Dante Alighieri sia stata istituita alla fine dell’800 su
impulso di Giosuè Carducci, con lo scopo di promuovere la diffusione della
lingua italiana all’estero soprattutto tra gli emigranti. Ad oggi i comitati
nel mondo sono oltre 400 e la Dante è presente in 80 Paesi: solo in Argentina
ci sono 80 Comitati su un totale di 120 nell’intera America Latina. Riccardi ha
anche segnalato le difficoltà affrontate dalla Dante negli anni passati sia per
quanto riguarda la sede centrale di Roma che i diversi comitati sparsi fuori
dall’Italia. “La rete dei Comitati era ed è la ricchezza della Dante e si basa
sui principi di rappresentatività democratica”, ha rilevato il Presidente definendo
importante questa autonomia periferica ma anche la capacità di tessitura della
sede centrale. Per quanto riguarda i soci della Dante, è stato evidenziato che
nella maggior parte dei casi si tratta di persone di origine italiana o
comunque simpatizzanti della nostra lingua e cultura. Riccardi ha anche parlato
degli importanti investimenti sulla lingua fatti da vari Paesi: ad esempio
nella vicina Spagna solo la ‘corona’ versa al Cervantes 70 milioni annui,
risorse superiori a quanto impegnato dall’Italia. Il Presidente ha poi
sottolineato come in questi anni si sia lavorato per rafforzare i Comitati
all’estero e portare avanti la formazione ai docenti. La Dante ha anche
sviluppato la piattaforma online Dante Lab per l’apprendimento dell’italiano a
distanza. Ci sono poi le scuole italiane nel mondo e una di queste, sulle quali
si sta investendo molto, è quella di Tirana. “Nel secondo Paese italofono nel
mondo non esisteva l’insegnamento della lingua italiana”, ha precisato Riccardi
spiegando così l’impegno su Tirana dove in passato questa materia era presente
solo in ambito accademico. Tuttavia il centro nevralgico dell’insegnamento
dell’italiano nel mondo resta l’America Latina con i suoi 26 istituti
scolastici. In proposito Riccardi ha segnalato la chiusura di alcune scuole di
italiano, come ad esempio quella in Eritrea, Ad Asmara vi era infatti una delle
scuole italiane più antiche. Un luogo dove l’insegnamento dell’italiano, ha
spiegato il Presidente, è stato recentemente e almeno in parte ripristinato presso
la Casa degli Italiani: il tutto è stato possibile recuperando parte del corpo
docente della soppressa scuola italiana. Riccardi ha poi rilevato come in
generale la Dante Alighieri sia orientata a valorizzare le ragioni che portano
all’avvicinamento all’italiano passando “da nostalgia a simpatia”. Il
Presidente ha anche ricordato che il prossimo 19 novembre si terrà a Roma un
meeting dedicato all’italofonia. Svizzera, Albania, San Marino e America
Latina: questi i Paesi menzionati da Riccardi per evidenziare come l’italiano
sia parlato e diffuso anche al di fuori dei confini nazionali pur non essendo
allo stesso livello di diffusione di altre lingue europee come inglese o
spagnolo. La lingua resta comunque un tassello importante per veicolare anche
elementi associati alla cultura in senso più ampio fino ad arrivare all’export
o al turismo. Ha poi preso la parola il deputato del Pd Fabio Porta, eletto
nella ripartizione America Meridionale, che ha criticato la nuova legge sulla
cittadinanza sottolineando come l’inserimento nella norma della conoscenza
della lingua italiana avrebbe sicuramente aiutato a sviluppare risorse
straordinarie. Il deputato ha poi elogiato quanto fatto dalla Dante in alcuni
Paesi del Sudamerica o in Australia. Porta ha inoltre spiegato come molto
spesso la domanda di italiano nel mondo provenga dai discendenti dei nostri
connazionali all’estero storici e debba essere anche supportata da politiche
pubbliche. Il deputato ha poi segnalato l’importanza di formare
linguisticamente e professionalmente i flussi di manodopera verso l’Italia a
partire dalle nostre comunità di italo discendenti. Il deputato del Pd
Christian Di Sanzo, eletto America Settentrionale e Centrale), ha chiesto
quanto sia l’ammontare di finanziamenti attuali per la Dante, anche in
previsione dell’avvicinarsi della legge di bilancio. In sede di replica
Riccardi ha rilevato che si sta lavorando ad una proposta volta a creare un
Albo dei docenti di lingua italiana. Sulle questione dell’acquisto della
cittadinanza e per l’inserimento in Italia dei lavoratori provenienti dalle
nostre comunità all’estero e da altri Paesi il Presidente ha auspicato un
modello basato sull’apprendimento dell’italiano con il supporto, ove
necessario, di un mediatore culturale. Riccardi ha anche parlato di un
insegnamento basico dell’italiano per coloro che vengono dall’africa. Il
Presidente si è infine soffermato sulle risorse a disposizione della Dante: vi
sono finanziamenti pubblici, con l’ammontare di 11 milioni nel 2024 e uno
stanziamento che risulterebbe confermato nella proiezione per il 2025; i
proventi delle tasse pagate per ottenere il PLIDA (il certificato di competenza
della lingua italiana); e poi gli incassi delle diverse scuole. (Inform/dip 5.10)
“Voci d’Italofonia” alla XXV Settimana della lingua italiana nel mondo
Nell'ambito della
XXV Settimana della Lingua Italiana nel Mondo, principale evento istituzionale
dedicato alla promozione della lingua, il Consiglio Generale degli Italiani
all'Estero (CGIE), in collaborazione con la Società Dante Alighieri del
Venezuela e l'Istituto Italiano di Cultura di Caracas, presenta il progetto
audiovisivo “Voci d'Italofonia”: Una celebrazione giovanile della lingua
italiana in Venezuela, un'iniziativa volta a coglierne lo spirito globale, in
collaborazione con il COM.it.ES di Caracas, Oriente e Occidente.
La venticinquesima
edizione, organizzata dalla rete culturale e diplomatica del Ministero degli
Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI), si terrà dal 13 al
19 ottobre 2025, con il tema “Italofonia: lingua oltre i confini”. La Settimana
della Lingua Italiana nel Mondo, che riunisce istituzioni e società civile,
costituisce uno spazio privilegiato per riflettere sul ruolo della cultura
italiana all'estero. Si configura inoltre come una piattaforma strategica in
vista della Prima Conferenza Internazionale delle Lingue Italiane, che si terrà
a Roma il 19 novembre 2025.
L'italiano: un
ponte globale e uno strumento di crescita
Il tema di
quest'anno si concentra sulla diffusione globale dell'italiano, cercando di
evidenziare la sua capacità di superare i confini geografici e affermarsi come
lingua della cultura, dell'arte, della scienza e del pensiero. Questo concetto,
ispirato all'eredità di Dante Alighieri, parte da una realtà: l'italiano ha
smesso di essere solo una lingua di tradizione orale per affermarsi come lingua
contemporanea e dinamica.
In questo
contesto, l'italofonia definisce l'insieme dei paesi, delle comunità e delle
persone che parlano italiano o lo mantengono come parte della loro identità
culturale, sia per eredità, migrazione o affinità. Non si limita a un
territorio, ma costituisce una rete globale in cui la lingua funge da ponte tra
generazioni e culture. L'italofonia esprime l'espansione dell'italiano oltre i
confini nazionali e la sua capacità di adattarsi a nuovi contesti, riflettendo
una lingua che evolve senza perdere la sua essenza.
Come ha affermato
il consigliere del CGIE per il Venezuela, Antonio Iachini: "L'italiano è
il ponte più solido tra la nostra eredità e il prossimo obiettivo globale.
Dando voce a questa nuova generazione attraverso questa proposta, il CGIE
celebra il fatto che la nostra identità non è un ricordo, ma una risorsa per
conquistare il futuro.
Come ha affermato
Andrea Riccardi, presidente della Società Dante Alighieri: «Esiste una comunità
più grande della penisola che ama e parla italiano». Questa consapevolezza
globale dimostra che l'italofonia è un potente strumento strategico per la
diplomazia della crescita, obiettivo chiave del MAECI.
A questo
proposito, Mariano Palazzo, presidente della Società Dante Alighieri del
Venezuela, ha sottolineato il ruolo dei giovani in questo fenomeno globale:
«Italsimpatia si è evoluta da un affetto latente a un'espressione attiva. I
nostri giovani, attraverso questa proposta, stanno utilizzando l'italiano non
solo per preservare un'eredità, ma anche per creare arte, umorismo e
connessione, dimostrando che la rete della Dante Alighieri è un motore della
cultura globale contemporanea».
“Voci
d’Italofonia”: la sfida delle nuove generazioni
Il bando, lanciato
dal CGIE e dalla Dante Venezuela, è un progetto audiovisivo ideato per
celebrare la lingua italiana dando voce ai giovani studenti delle scuole
italiane e dei centri di insegnamento della lingua in Venezuela. L'obiettivo
principale è quello di consentire ai partecipanti di esprimere, attraverso
micro video, la ricchezza dell'italofonia come identità dinamica, patrimonio
culturale e strumento di proiezione verso il futuro. La partecipazione è
rigorosamente regolamentata: ogni video deve avere una durata massima di 60
secondi, essere registrato esclusivamente in italiano e in formato verticale
(9:16) per i social network, con una qualità minima di 1080 x 1920px e un audio
chiaro. Tutte le regole sono disponibili su www.cgievenezuela.com www.iiccaracas.esteri.it/es/
Per quanto
riguarda il contenuto, ogni studente deve selezionare una delle diverse
categorie proposte per garantire la varietà e cogliere la ricchezza
multidimensionale del legame con la lingua e la cultura italiana. Questa
diversità assicura che ogni studente possa trovare un punto di vista unico e
personale per esprimersi, il che si traduce in una raccolta di video variegata
e vivace, con messaggi che devono essere personali, originali e spontanei,
evitando la lettura di testi lunghi. La struttura consigliata include una breve
presentazione, il messaggio centrale della categoria scelta e una conclusione
positiva.
Le categorie
esplorano l'italofonia da una vasta gamma di prospettive. Per gli studenti più
riflessivi o linguisticamente curiosi, ci sono opzioni come “Una parola, un
mondo”, dove approfondiscono il significato emotivo di una parola, o “La mia
eredità”, che permette loro di immergersi nella loro storia familiare
attraverso proverbi ed espressioni ereditate. Coloro che preferiscono
l'espressione corporea e la comunicazione non verbale possono optare per “Un
gesto italiano”, che spiega il linguaggio silenzioso ma eloquente della cultura
italiana, o per “Italiano in azione”, per drammatizzare una situazione
quotidiana.
La creatività
artistica trova spazio in categorie come “Cinema in un minuto”, che invita a
rendere omaggio al cinema italiano con una breve rielaborazione, “Una canzone
nel cuore”, per condividere un frammento musicale ricco di significato
personale, e “Creatività libera”, un contenitore eterogeneo per rap, poesia,
umorismo o disegno. Il legame emotivo e sensoriale è rappresentato anche
attraverso il palato in “Un sapore, un ricordo”, dove un semplice piatto può
evocare un universo di ricordi familiari.
Il legame con il
contesto locale e la vita quotidiana si manifesta in “L'italiano nella mia
città”, che incoraggia i partecipanti a cercare e mostrare le tracce
dell'Italia nella loro città venezuelana. Guardando al futuro, categorie come
“Futuro in italiano” e “Il futuro è...” sfidano gli studenti a immaginare come
la lingua plasmerà i loro studi, le loro carriere e i loro sogni. Infine, per
incoraggiare l'originalità e il gioco linguistico, “La mia parola inventata”
invita a creare neologismi con spirito italiano, mentre “Emoji d'italiano” e
“Italiano in viaggio” offrono formati moderni e concisi per esprimere concetti
complessi. Nel complesso, questa struttura attentamente pianificata assicura
che l'“italofonia” non sia presentata come un concetto unico, ma come un
mosaico ricco di colori, sapori, gesti, parole e sogni personali.
La partecipazione
avviene tramite gli istituti scolastici, che devono inviare almeno 20
microvideo selezionati tra quelli realizzati dai propri studenti. Gli
insegnanti di italiano sono responsabili della supervisione della correttezza
linguistica, della conformità al tema e del formato tecnico. I video finali
devono essere inviati in formato digitale tramite piattaforme come Google Drive
o WeTransfer entro la scadenza del 15 ottobre 2025 all'indirizzo e-mail:
eventi@cgievenezuela.com.Clicchi su questo link per scaricare il regolamento di
partecipazione: https://bit.ly/48WIN4x
Conferenza online:
Dante Alighieri: il ribelle creatore dell'italiano globale
Lunedì 13 ottobre
2025, alle ore 18:00, la comunità è invitata alla conferenza online “Dante
Alighieri: il ribelle creatore dell'italiano globale”, tenuta da Mariano
Palazzo, presidente della Società Dante Alighieri del Venezuela, e accessibile
tramite il seguente link https://forms.gle/EGNWgsfXfV2oScFz9
Questa conferenza
esplorerà il genio di Dante, la cui decisione di utilizzare il dialetto
fiorentino nella Divina Commedia fu un atto radicale che forgiò una lingua con
una proiezione universale. Palazzo collegherà questa eredità storica al
concetto contemporaneo di italofonia, dimostrando che l'italiano è stato
concepito fin dalle sue origini per essere una lingua senza confini, un motore
culturale vibrante ed essenziale per le nuove generazioni.
“Voci
d’Italofonia” ci invita a scoprire che parlare italiano oggi è più che imparare
una lingua: è aprire una finestra sulla cultura, sull'innovazione e sulla
memoria viva delle nostre radici. Immergersi in questa esperienza significa
riconoscersi in una rete culturale condivisa che unisce generazioni e territori
e che continua a proiettare l'italiano come lingua del futuro.
La Sua voce è la
prova più evidente che la simpatia per l'Italia è un fenomeno globale. Il
futuro è italiano. La invitiamo a seguirci sui nostri social network per
ulteriori informazioni: @cgievenezuela @dantevenezuela @dante.global
@societadantealighieri @iiccaracas @comitescaracas @comites_oriente_po
@comites_mcbo @italymfa. Patricia Aloy, dip 9
Al Cgie il duro attacco di Merlo (Maie) al Governo: Legge Tajani inutile e
ingrata
Roma - Ricardo
Merlo attacca con forza il governo Meloni, colpevole – a suo dire – di aver
fatto una pessima riforma della legge sulla cittadinanza ius sanguinis,
rischiando in questo modo di uccidere l’italianità oltre confine.
In occasione della
riunione del Comitato di Presidenza del Consiglio Generale degli Italiani
all’Estero, alla presenza del governo, rappresentato dal Sottosegretario agli
Esteri con delega agli italiani nel mondo Giorgio Silli, il presidente del MAIE
e membro del Cdp ha definito la legge Tajani “sbagliata, inutile e ingrata”.
Merlo – riporta il
Maie in una nota – è entrato anche nel merito della riforma, sottolineando come
l’errore di Tajani sia stato talmente evidente e grave da produrre l’effetto
opposto rispetto all’obiettivo dichiarato dal ministro. Invece di ridurre i ricorsi
giudiziari per la cittadinanza che già intasavano i tribunali, la misura
rischia infatti di moltiplicarli in maniera esponenziale.
Merlo si è anche
detto “confortato” dalle voci raccolte in Parlamento, secondo cui il periodo
per richiedere l’iscrizione dei figli minori nati prima dell’entrata in vigore
della riforma potrebbe essere prolungato in sede di approvazione del decreto
cosiddetto “Milleproroghe”; al riguardo ha espresso l’auspicio che sia prevista
una proroga di almeno due anni, essendosi il Legislatore reso conto che un anno
è un periodo troppo breve, anche a causa della scarsa informazione.
In molti Paesi
latinoamericani gli- ha riferito il consigliere – avvocati prosperano anche
grazie alla confusione che si è creata in merito alle carte d’identità
elettroniche, dal momento che è stato fatto credere ai connazionali che per
recarsi in Italia fosse necessaria la CIE.
“Occorre che
l’Esecutivo o l’Amministrazione degli Esteri chiariscano che è possibile
recarsi in tutti i Paesi europei con il passaporto italiano”, ha sottolineato
Merlo. “A causa della mancanza di informazione, infatti, si corre il rischio
che molti cittadini italiani che hanno richiesto il passaporto, ma non lo hanno
ancora ottenuto, sovraccarichino di lavoro i Consolati richiedendo anche la
carta d’identità elettronica”.
Secondo l’ex
Sottosegretario agli Esteri, la riforma della cittadinanza voluta dal ministro
Tajani ha comportato l’effetto di beneficiare considerevolmente gli avvocati:
“una riforma che sembra essere fatta a misura degli avvocati. Attraverso i
mezzi di comunicazione della maggior parte dei Paesi latinoamericani, essi
stanno offrendo la possibilità di intentare cause grazie al principio di non
retroattività delle leggi. Tutti i nati precedentemente al 27 marzo del
corrente anno, dunque, soprattutto gli appartenenti a quella classe media che
possono permettersi di pagare gli avvocati, stanno rivolgendosi ai Tribunali
per ottenere il riconoscimento della cittadinanza italiana sulla base della non
retroattività della norma. Dunque, oltre alle numerose ingiustizie introdotte
da questa riforma, si è generato un vero e proprio sistema di tipo
plutocratico, che finisce per subordinare il diritto alla cittadinanza italiana
alla disponibilità economica”.
Sulla stessa
linea, sono intervenuti il Consigliere Walter Petruzziello e il Vicesegretario
Mariano Gazzola, entrambi esponenti del MAIE nel CDP del CGIE.
“Tutto quello che
sta accadendo – ha commentato Gazzola - dimostra una volta di più come la
riforma sia completamente sbagliata e che attraverso strade diverse si
sarebbero conseguiti risultati migliori”. Per esempio, ha sostenuto, “seguendo
quanto fatto proprio quando Merlo era Sottosegretario alla Farnesina, ovvero
quando è stata richiesta la certificazione di conoscenza dell’italiano B1 per
il riconoscimento della cittadinanza per matrimonio e le richieste sono scese
tantissimo: senza tagliare, senza togliere, senza violentare la nostra storia.
Solo aggiungendo un requisito".
Concludendo, Merlo
si è detto “convinto che la Corte Costituzionale farà giustizia eliminando la
retroattività della norma; in tal caso, il ministro Tajani si renderà conto
dell’assoluto errore strategico e politico commesso, poiché si verificherà una
enorme corsa amministrativa e legale alla richiesta di cittadinanza”.
(aise/dip 1.10.)
Fare una
considerazione sull’attuale politica italiana, pure se inserita a livello UE,
sarebbe ostinarsi su un ingannevole problema. Quindi, ci sembra più opportuno
tralasciare i suoi molteplici seguiti. Intanto, vedremo quali nuovi
accorgimenti saprà propinarci questo Esecutivo di Centro/Destra. Non a caso, ma
con nostro stupore, già ci si riferisce di un “terzo polo” di centro che
dovrebbe compattare gli incerti e delusi dell’area mediana del nostro
Parlamento. Se si volesse realmente voltare pagina, la “Vecchia Guardia” non
dovrebbe essere mobilitata. Basta con le garanzie per affrontare una nuova via.
La nostra politica sa di vecchio. Anche per gli aspiranti Parlamentari ci
dovrebbe essere un limite d’età per partecipare, come candidati, alle elezioni.
Sotto questo
profilo, gli ultimi anni della Repubblica, non sono stati dissimili da quelli
che potrebbero ripresentarsi. L’onestà politica è l’unico parametro che
realmente dovrebbe contare; anche per il futuro. Se si troverà un “accordo”,
serio, il Parlamento dovrebbe assumersi il compito di concretare quelle
premesse che dovrebbero traghettare l’Italia dal “passato” al “futuro”. Con più
logicità e meno parole e compromessi. Il tutto senza compromessi.
Pur con questi
presupposti, non siamo però nelle condizioni d’assicurare atteggiamenti che
incoraggino le nostre tesi. L’arcano da sbrogliare è, e rimane, quello della
tenuta politica non solo di “facciata”. Non siamo nuovi a queste
considerazioni, ma i risultati, nostro malgrado, ci hanno dato, purtroppo,
sempre ragione. Anche se, per coerenza, avremmo voluto non averla.
Giorgio Brignola,
de.it.press
Accoltellata Iris Stalzer, la neosindaca dell'Spd è in fin di vita
Era stata eletta
al ballottaggio del 28 settembre. Secondo Spiegel, questa estate la figlia
adottiva di 17 anni aveva aggredito la donna con un coltello. La polizia: «Non
può essere escluso un movente familiare»
Tredici coltellate
all'addome e alla schiena hanno colpito la neo-sindaca socialdemocratica Iris
Stalzer di fronte alla porta di casa sua, nel paesino Herdecke-Herrentisch
nella zona della Ruhr. Prima di perdere i sensi ed essere ricoverata in
ospedale, dove i medici combattono per salvarle la vita, è riuscita a dire a
suo figlio che erano stati in tanti ad aggredirla. Secondo il quotidiano
tedesco Bild, i due figli adottivi avrebbero chiamato le forze dell’ordine. I
due figli della sindaca sono stati presi in custodia dalla polizia per essere
interrogati e raccogliere prove. «Non può essere escluso un movente familiare»
afferma la polizia e la procura di Hagen in un comunicato congiunto. Secondo
Welt, al momento non ci sono altri testimoni che abbiano visto un gruppo di
uomini sulla scena del crimine, così come comunicato inizialmente dai due
adolescenti - un ragazzo di 15 anni e una ragazza di 17 anni - quando hanno
allertato i servizi di emergenza. Secondo quanto riportato da Spiegel, questa
estate la figlia maggiore adottiva aveva aggredito la donna con un coltello.
Iris Staltzer di
professione avvocatessa aveva vinto le elezioni da poco più di una settimana,
dopo il ballottaggio del 28 settembre scorso. Sarebbe entrata in carica a
partire dal prossimo 4 novembre. Ha vinto le elezioni con il 52,2% di voti
favorevoli contro il candidato della Cdu Fabian Conrad Haas, che ha avuto il
47,8%. L'Afd è arrivata al quinto posto al primo turno elettorale, con il 13,5%
(+9%), non un ottimo risultato nel paese che conta diciannovemila aventi
diritto al voto. La squadra omicidi ha già preso in carica il caso e sta
indagando.
Secondo
Frankfurter Allgemeine Zeitung (Faz), l'aggressione potrebbe essere legata a
motivi personali, ma l’indagine resta aperta. Iris Stalzer era stata appena
eletta sindaco della città della Ruhr al ballottaggio del 28 settembre. «Ci
giunge notizia di un atto efferato compiuto a Herdecke. È necessario fare
rapidamente chiarezza su quanto accaduto». È quello che ha scritto il
cancelliere tedesco Friedrich Merz, reagendo su X alle prime notizie trapelate
sull'accoltellamento della sindaca socialdemocratica. «Temiamo per la vita
della sindaca designata Iris Stalzer e speriamo in una sua completa guarigione.
Il mio pensiero va alla sua famiglia e ai suoi cari», conclude Merz. LS 7
Le strategie di promozione dell’italiano all’estero
Roma. Nel
corso dell’evento di presentazione della XXV Settimana della Lingua Italiana
nel Mondo si è svolto un panel dedicato alle strategie di promozione
dell’italiano all’estero. La tavola rotonda, moderata dal giornalista Zouhir
Louassini, ha visto alternarsi interventi di esperti e intellettuali stranieri
e italiani: Nabila Abid (giornalista della Radio Nationale Tunisienne),
Giuseppe Antonelli (professore di Storia della lingua italiana all’Università
di Pavia), Innocenzo Cipolletta (Presidente dell’Associazione Italiana
Editori), Paolo D’Achille (presidente dell’Accademia della Crusca), Cristina Di
Giorgio (direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura di Santiago). Nel suo
intervento introduttivo il moderatore Louassini ha evidenziato la musicalità della
lingua italiana che colpisce sicuramente anche chi parla altri idiomi. Nabila
Abid ha parlato della lingua italiana come di una storia d’amore e una
questione legata alla sua vita fin da bambina, perché nel suo Paese d’origine
era possibile guardare le trasmissioni della Rai. “Mi considero una cittadina
del mondo”, ha sostenuto Abid che vede nella lingua italiana un ponte per
connettere culture differenti. “Sono orgogliosa di essere italo-tunisina”, ha
aggiunto Abid precisando che l’italiano è una lingua d’arte, di musica e di
cinema: “la più bella lingua al mondo”. Dal canto suo Giuseppe Antonelli ha
evidenziato come la diffusione o il prestigio di una lingua normalmente segua
ragioni geopolitiche; tuttavia per l’italiano può valere una sorta di “eccezione
storica” per via di “un prestigio culturale che va oltre i confini”, ha
precisato Antonelli invitando a difendere l’italiano che pure ha saputo
resistere nel corso della storia allo spagnolismo, al francesismo e infine
all’influenza anglofona, per quanto obiettivamente ci siano ormai molti termini
inglesi nella nostra lingua. “La comunità italofona oggi potrebbe essere
definita come il luogo dove il ‘ciao’ suona”, ha rilevato in una battuta
Antonelli volendo dire con questo che il ‘ciao’ italiano, nato da un termine
dialettale veneziano, si è ormai diffuso a diverse latitudini. Per Innocenzo
Cipolletta l’italiano è alla base dei libri che rappresentano un modo per
esportare la nostra lingua, anche se spesso i testi vengono tradotti in altri
idiomi. “Noi esportiamo cultura”, ha ribadito Cipolletta precisando che la
cultura italiana non si è fermata al passato ma ha saputo modernizzarsi. “La
nostra è una cultura che non ha paura di usare parole straniere: tutti i Paesi
lo fanno”, ha aggiunto Cipolletta ricordando il supporto che l’AIE riceve dalla
rete diplomatica e consolare per la diffusione dell’italiano nel mondo. Secondo
Cipolletta, tuttavia, è importante anche l’importazione di libri e di autori
dall’estero. Cipolletta ha infine rimarcato come l’Italia sia stata
recentemente ospite d’onore nelle principali fiere letterarie del mondo,
sottolineando l’importanza della collaborazione tra pubblico e privato per
ottenere questi risultati. Paolo D’Achille ha definito la cultura italiana come
un’eccellenza del Paese, soprattutto in certi settori e con un pensiero
particolare alla lunga tradizione letteraria anche legata alle esplorazioni
marittime. D’Achille ha poi precisato che la grandezza dell’italiano è stata
sostanzialmente quella di non essersi quasi mai diffuso in modo aggressivo. A
sua volta D’Achille ha rimarcato come alla diffusione della nostra lingua nel
mondo contribuisca in maniera importante la rete all’estero della Farnesina.
Sul termine ‘italofonia’, D’Achille ha poi ricordato che si tratta di una
parola inventata dal noto linguista Tullio De Mauro. Cristina Di Giorgio ha
invece parlato dell’importanza dell’influenza dell’immigrazione italiana in
America Latina a livello linguistico: una parte del mondo dove le due lingue
predominanti sono naturalmente lo spagnolo e il portoghese e dove in sostanza
gli italiani, che giunsero nel secolo scorso, parlavano per lo più i dialetti
regionali e non tanto l’italiano. Tuttavia gli italiani hanno superato questa
barriera, unendosi a livello sovra regionale e riuscendo a fondare le prime
scuole d’italiano. “Dovremmo guardare l’Italia con gli occhi dei
latinoamericani per renderci conto fino in fondo del prestigio che abbiamo e
dell’amore che c’è nei nostri confronti”, ha aggiunto Di Giorgio evidenziando
che gli Istituto Italiani di Cultura contribuiscono a portare cultura e
innovazione. (Inform/dip 6)
In Germania dal prossimo anno la “Aktivrente”
Fino a 2.000 euro
al mese esentasse per chi lavora anche dopo la pensione
Un nuovo incentivo
per rafforzare il mercato del lavoro e sostenere le casse sociali, ma non
mancano le critiche.
Chi, una volta
raggiunta l’età pensionabile, sceglierà di continuare a lavorare, potrà presto
guadagnare fino a 2.000 euro al mese senza pagare tasse. Lo prevede la nuova
proposta di legge sulla cosiddetta “Aktivrente” (pensione attiva), approvata
mercoledì dal Consiglio dei Ministri tedesco. L’obiettivo dichiarato del
governo è duplice: affrontare il problema del finanziamento del sistema
pensionistico e contrastare la carenza di manodopera qualificata.
Il disegno di
legge passerà ora all’esame del Bundestag, con l’introduzione prevista
all’inizio del nuovo anno.
Ma vediamo come
funziona la “Aktivrente”
Il provvedimento
stabilisce che chi lavora dopo aver raggiunto l’età della pensione possa
guadagnare fino a 24.000 euro all’anno (2.000 euro al mese) da lavoro
dipendente senza pagare imposte. Restano però dovuti i contributi
previdenziali: sia lavoratori sia datori di lavoro continueranno a versare
quelli per assicurazione sanitaria e assistenza, mentre solo il datore di
lavoro dovrà contribuire anche a pensione e disoccupazione.
Importante è anche
l’esclusione dal “Progressionsvorbehalt”, il meccanismo che avrebbe potuto
aumentare l’aliquota fiscale complessiva in base al reddito totale. In pratica,
il guadagno extra non farà salire l’imposta sulla pensione.
L’iniziativa
riguarda solo i lavoratori dipendenti: sono esclusi autonomi, agricoltori e
funzionari pubblici.
«Vogliamo dare
nuovi impulsi alla crescita economica in Germania. L’economia ha bisogno anche
delle competenze e dell’esperienza dei lavoratori più anziani», ha dichiarato
il ministro delle Finanze Lars Klingbeil (SPD).
Secondo il
Ministero, la misura non solo incoraggia gli anziani a restare attivi, ma
rafforza anche le casse sociali, grazie ai contributi previdenziali che
continueranno a essere versati. «Alla fine ne beneficeranno tutti – si legge
nella nota –: i sistemi sociali saranno alleggeriti, il mercato del lavoro
rafforzato e la competitività della Germania aumenterà».
Ma chi potrà
avvalersi di questa „Aktivrente“
Il Ministero delle
Finanze prevede che circa 168.000 persone – ovvero un quarto degli aventi
diritto – approfitteranno dell’opportunità già nel primo anno. Le mancate
entrate fiscali sono stimate in circa 890 milioni di euro l’anno, da ripartire
tra Stato federale, Länder e Comuni.
Nonostante questo
costo, il governo punta su un effetto positivo sul PIL: più lavoratori attivi,
anche se pensionati, potrebbero generare nuova crescita e quindi maggiori
entrate fiscali nel medio periodo.
Il mondo politico
ed economico però si divide sull’efficacia del provvedimento
I sostenitori
vedono nella “Aktivrente” un incentivo concreto per chi vuole o deve continuare
a lavorare, oltre a un aiuto immediato per i settori in crisi di personale,
come sanità, istruzione, artigianato e ristorazione.
Ma non mancano le
critiche. Molti osservano che proprio in questi comparti le condizioni fisiche
e mentali di lavoro sono troppo gravose perché la maggior parte dei dipendenti
possa prolungare l’attività oltre l’età pensionabile.
Altri sottolineano
una disparità tra dipendenti e autonomi: artigiani e lavoratori indipendenti,
spesso colpiti da un forte fabbisogno di reddito supplementare, non potranno
usufruire della misura. Anche agricoltori e funzionari pubblici restano
esclusi.
La “Aktivrente”
rappresenta un tentativo pragmatico di rendere più flessibile il sistema
pensionistico tedesco, premiando chi desidera rimanere attivo e contribuire
ancora all’economia. Tuttavia, resta il dubbio se questo basterà davvero a
compensare la carenza strutturale di lavoratori qualificati o se, al contrario,
si tratti solo di un sollievo temporaneo per un mercato del lavoro sotto
pressione.
In sintesi dal
prossimo anno, chi in Germania vorrà continuare a lavorare dopo la pensione
potrà farlo con un importante vantaggio fiscale. Ma la “pensione attiva”
rischia di restare un’opportunità per pochi, se non si affronteranno anche le
cause più profonde della carenza di personale e della fatica del lavoro in età
avanzata. L.L.D, CdI on. 16
La nuova legge sulle comunità abruzzesi nel mondo
Pescara - Il
Consiglio regionale dell’Abruzzo, nella seduta di martedì pomeriggio, ha
approvato la legge che riforma la disciplina delle relazioni tra la Regione
Abruzzo e le Comunità di Abruzzesi nel Mondo. Il voto favorevole è stato
assicurato dai consiglieri di centrodestra, mentre le opposizioni si sono
astenute. La proposta di riscrittura della precedente normativa, voluta dalla
Giunta regionale, è nata con l’obiettivo di prendere atto, come descritto nella
relazione dei proponenti, che “le comunità abruzzesi all’estero sono soggette –
come le altre comunità regionali – ad una profonda trasformazione che interessa
sia gli aspetti strutturali di carattere socio-economico sia gli aspetti
linguistico-culturali”.
La nuova norma
semplifica la struttura e alcuni aspetti burocratici prevedendo una
programmazione periodica delle attività e iniziative, da proporre alla Giunta
regionale, che le valuta e ne dispone annualmente l’approvazione definendo
criteri, modalità e linee di intervento sulla base delle disponibilità di
bilancio.
Sono destinatari
degli interventi i cittadini di origine abruzzese, per nascita o residenza da
almeno due anni; le associazioni degli abruzzesi nel mondo e le associazioni
degli abruzzesi in Italia fuori Regione; gli enti locali della Regione, le
associazioni di promozione sociale e le organizzazioni di volontariato che
hanno una sede permanente nel territorio regionale e che operano da almeno tre
anni nel settore dell’emigrazione, iscritti al Registro unico nazionale del
Terzo settore, organizzazioni e associazioni culturali, sindacali e di
categoria, camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, consorzi,
fondazioni a partecipazione pubblica, centri di formazione, università,
istituti scolastici che hanno sede in Abruzzo e che, in collaborazione con i
soggetti suddetti, attuano iniziative per la valorizzazione del ruolo delle
comunità abruzzesi all’estero o fuori regione.
La nuova legge
prevede poi che la Regione, per coordinare una politica complessiva per gli
abruzzesi nel mondo, si avvale del Consiglio regionale degli Abruzzesi nel
Mondo (CRAM), del Consiglio direttivo del CRAM e dell’Osservatorio per
l’Emigrazione. È istituito, inoltre, presso il Servizio competente, l’Albo
regionale CRAM delle associazioni, federazioni e confederazioni degli abruzzesi
nel mondo e in Italia fuori Regione.
La Giunta
regionale, infine, in occasione della “Giornata degli Abruzzesi nel mondo”
prevista dalla legge regionale 21 febbraio 2011, n. 4, (Istituzione della
Giornata degli Abruzzesi nel Mondo), promuove su proposta del CRAM, per il
tramite del Servizio competente per materia e in raccordo con il Consiglio
Regionale dell’Abruzzo, l’organizzazione di eventi e cerimonie commemorative
per ricordare il fenomeno dell’emigrazione abruzzese, per celebrare gli
abruzzesi emigrati e per mantenere saldi i rapporti fra le comunità di origine
abruzzese esistenti fuori dai confini regionali e la terra d’origine. (aise/dip
2.10.)
Legge sull’obesità, la prima al mondo, su prevenzione e cura
La legge
sull'obesità, attesa da tempo, "rappresenta un passo storico e un deciso
passo avanti per la salute pubblica, considerata l'allarmante crescita dei
numeri e delle complicanze dell'obesità in Italia e nel mondo". Così la
Società italiana dell'obesità (Sio) in una nota, commentando l'approvazione
della prima normativa al mondo sulla prevenzione e la cura di questa
patrologia. L'assemblea del Senato, questa mattina, ha infatti votato il Ddl
contenuto nell'atto della Camera dei deputati n.741 della XIX Legislatura del
28 dicembre 2022, riguardante 'Disposizioni per la prevenzione e la cura
dell'obesità', in precedenza approvata dalla Camera, che ha come promotore e
primo firmatario l'onorevole Roberto Pella, capogruppo di Forza Italia in
Commissione Bilancio e presidente dell'Intergruppo parlamentare Obesità,
diabete e malattie croniche non trasmissibili. L'atto legislativo prevede un
approccio integrato nella lotta all'obesità che include prevenzione, cura e
sensibilizzazione sociale.
Il World Obesity
Atlas prevede che l’impatto economico globale del sovrappeso e dell'obesità
raggiungerà 4,32 trilioni di dollari all'anno entro il 2035, se le misura di
prevenzione e cura non miglioreranno, ricorda la società scientifica.
L'approvazione della prima legge al mondo volta a contrastare l'obesità è
arrivata in coincidenza con l'apertura, a Trieste, del XII Congresso nazionale
Sio, che vede riuniti i maggiori esperti italiani e internazionali.
"La Società
italiana dell'obesità è molto felice per l'approvazione della legge
Pella", commenta Rocco Barazzoni, presidente Sio. Si tratta di "un
passaggio storico che conferma in maniera definitiva, per la prima volta al
mondo, una legislazione specifica e sistematica dell'obesità come malattia, un
punto di non ritorno e motivo di orgoglio per l'Italia. Siamo soddisfatti anche
perché la nostra società scientifica ha contribuito alla realizzazione di
questo importante passo avanti", evidenzia. Nel ringraziare l'onorevole
Pella e tutti i parlamentari, Barazzoni osserva che "ci attende ancora
molto lavoro per portare nella pratica clinica quotidiana e tra i pazienti la
possibilità di accedere alla prevenzione e alle cure che sono centrali nella
legge, ma ancora non sono disponibili per tutti i cittadini".
Zani (pazienti),
'non un traguardo ma l'inizio di un percorso'
Anche le
associazioni dei pazienti hanno giocato un ruolo importante, insieme al mondo
scientifico e accademico, nel raggiungimento di questo traguardo. "Siamo
molto soddisfatti di vedere finalmente approvata la legge che riconosce
l'obesità come patologia - afferma Iris Zani, presidente associazione Amici
obesi - Abbiamo aspettato a lungo questo momento, è un passo importante verso
il superamento dello stigma e della piena tutela dei diritti dei pazienti
italiani con obesità. Pur trattandosi di un momento storico, la prima legge
sull'obesità a livello mondiale per noi non rappresenta un traguardo, ma
l'inizio di un percorso", precisa. "E' ora necessario che le
istituzioni competenti si attivino con urgenza per garantire ai pazienti tutele
reali e percorsi di cura adeguati. In particolare, attendiamo l'approvazione e
l'attuazione del Piano nazionale cronicità, per vederne l'efficacia sulla presa
in carico delle persone con obesità e, ancor di più, attendiamo l'aggiornamento
dei Lea", livelli essenziali di assistenza, "con l'inclusione di
prestazioni per la diagnosi, la presa in carico e il trattamento dei pazienti
con obesità. Ogni giorno senza interventi concreti è un giorno in cui migliaia
di cittadini restano privi di risposte, cure e dignità. La salute delle persone
con obesità non può più aspettare".
I 6 articoli di
cui si compone la legge Pella - ricorda la nota - tracciano i punti cardine
della lotta contro l'obesità: la definizione ufficiale dell'obesità come
malattia cronica progressiva e recidivante; l'inserimento delle prestazioni nei
Lea erogati dal Ssn; il finanziamento di programmi nazionali per la
prevenzione, l'educazione, la formazione e la cura; la costituzione di un
Osservatorio presso il ministero della Salute per lo studio dell'obesità e il
suo monitoraggio. Infine, il valore delle campagne di sensibilizzazione.
Adnkronos 1
L’Italia conduce
da tempo una battaglia contro la dispersione scolastica e la povertà
educativa lungo una strada sulla quale, più di recente, s’è registrato un
lieve miglioramento. I minori che abbandonano precocemente l’istruzione o la
formazione sono all’incirca il 10,5% del totale. Nel confronto con gli altri
paesi dell’Unione europea il nostro è ai primi posti per il numero di ragazzi
che lasciano l’istruzione troppo presto. Il fenomeno è alto in particolare al
Sud, nelle grandi città, ma non solo; specialmente tra i maschi e soprattutto
tra quelli d’origine straniera rischiando di vanificare la spinta
all’integrazione. Per quanto ridimensionato, il fenomeno resta molto grave,
perché la mancanza di un titolo di studio condannerà chi ha lasciato la scuola
ad avere meno opportunità, perpetuando le disuguaglianze. Si tratta di una vera
e propria spada di Damocle sospesa su una parte cospicua di intere generazioni,
un danno alla crescita civile, culturale, economica del Paese, un ostacolo al
raggiungimento di quella pienezza formativa necessaria al futuro dei nostri
giovani. Sono vari i fattori che contribuiscono alla dispersione e ne fanno un
fenomeno decisamente complesso, che non si può pensare di contrastare solo con
l’abnegazione dei docenti.
I bambini e i
ragazzi che lasciano la scuola non sono da considerare “dispersi”. La
definizione è fuorviante. In realtà, sono persone comunque iscritte alle nostre
scuole, che dopo numerose assenze non ci sono andate più o ci vanno male o
imparano pochissimo. Hanno un nome, un cognome, una paternità, una maternità,
un indirizzo... Si tratta, allora, – ed è bene cominciare a chiamarlo col
proprio nome – di un vero e proprio fallimento formativo. Lessicalmente, anche
psicologicamente, chiamarli “dispersi” significa quasi dire che “se ne sono
voluti andare”. Dire che è un fallimento formativo chiama invece in causa tutti
noi, non solo la scuola. È la società nella sua interezza, che deve sentire il
bruciore di un’opportunità sottratta ai nostri figli, di un futuro rubato.
Ciò di cui c’è
bisogno, allora, è un’azione sinergica che non lasci sola l’istituzione
scolastica. Un’azione fatta di investimenti, ma anche di idee, di
implementazione delle migliori pratiche già avviate per andare a cercare quanti
si sono allontanati. Una di queste, iniziata nel gennaio 2022 dalla Comunità di
Sant’Egidio, è il Programma “W la Scuola”, per combattere la dispersione
esplicita e implicita, particolarmente – ma non solo – nelle periferie delle
grandi città.
Gli operatori del
Programma, che abbiamo chiamato i “facilitatori scolastici”, sono la chiave di
volta dell’azione. Si tratta di una figura innovativa, incarnazione della
prossimità, da sempre cifra peculiare di Sant’Egidio nella sua presenza
solidale in situazioni difficili o marginali. In contatto con alcune scuole di
Roma, Napoli e Genova, i “facilitatori” instaurano un rapporto di
collaborazione con gli istituti, i dirigenti e i docenti offrendo supporto a
quei bambini e ragazzi che avevano smesso di frequentare o la cui frequenza a
singhiozzo fa temere l’abbandono. L’intervento mira a ritessere il rapporto tra
il minore, la sua famiglia, l’istituzione scolastica e ad affrontare i problemi
nuovi, insorti dopo la pandemia, nonché quelli legati alla dipendenza dai
social e dai device di ultima generazione, puntando a prevenire l’abbandono.
I “facilitatori
scolastici” di “W la Scuola” si concentrano sulla storia di ciascun bambino o
ragazzo segnalato dagli istituti scolastici, dalla famiglia o dai servizi
sociali. L’intervento è supportato – se necessario – anche dalla presenza di un
“mediatore linguistico” che, nei primi tempi, affianca in classe il bambino o
il ragazzo straniero appena arrivato in Italia. Questo, spesso, fa la
differenza tra la percezione di un fallimento e il sogno di un futuro
promettente. Il “facilitatore scolastico”, inoltre, ricerca risorse sul
territorio che possano essere di aiuto, ascolta la famiglia, dialoga con gli
insegnanti e si attiva per rispondere alle diverse esigenze del minore che ha
di fronte.
Il Programma offre
anche ai ragazzi più fragili, gratuitamente, un sostegno psicologico con un
servizio di consulenze di professionisti volontari. Cerca, però, anche di
costruire attorno a ogni ragazzo la possibilità di vincere quell’isolamento
che, a volte, sigilla in una bolla di impossibilità, favorendo l’inserimento
dei giovani in attività di volontariato o convocandoli in momenti di
socializzazione.
Tutto questo fa
emergere, gradualmente, nuove prospettive. Ognuno di questi ragazzi, se ha
un’altra opportunità, ritrova le motivazioni per riprendere a studiare. Mettere
insieme una serie di figure educative con una forte alleanza, come accade nel
Programma “W la Scuola”, tra famiglia, società civile e istituti scolastici,
vuol dire creare comunità educanti. E quando c’è attorno a un bambino o a un
ragazzo in difficoltà una comunità educante possono succedere dei miracoli: la
frequenza già alle elementari aumenta, il rendimento migliora, i genitori sono
fieri dei propri figli e si “attivano” per far continuare gli studi. Ha scritto
Massimo Recalcati: «Non possiamo sganciare l’istruzione dal processo educativo,
cioè dell’umanizzazione della vita. La parola è la via di umanizzazione della
vita».
L’obiettivo
dell’educazione è l’umanizzazione della vita ed il Programma “W la Scuola”
vuole contribuire a questo processo al cui centro c’è la necessità di ascoltare
e di parlare con i bambini e i ragazzi per comprenderne le difficoltà e
aiutarli a superarle. Marco Impagliazzo, Vita Pastorale ottobre
“Lingua oltre i confini”: il 19 novembre la Prima Conferenza Internazionale
dell’Italofonia
ROMA - Una delle
arie più toccanti dell’Ave Maria eseguita dai giovanissimi allievi
dell’Accademia del Teatro alla Scala ha introdotto la presentazione della
Settimana della Lingua Italiana nel Mondo 2025. A ospitare l’evento, come già
l’ultima edizione degli Stati Generali della Lingua italiana nel mondo, la
prestigiosa sede del MAXXI di Roma con la presidente Emanuela Bruni a dare il
benvenuto ai presenti.
Giunta alla XXV
edizione, la Settimana della Lingua Italiana nel Mondo, principale appuntamento
istituzionale sulla promozione della lingua italiana all’estero, si terrà dal
13 al 19 ottobre e sarà dedicata quest’anno al tema “Italofonia: lingua oltre i
confini”. Una scelta, questa, come ha tenuto a sottolineare il ministro degli
Affari Esteri Antonio Tajani aprendo l’incontro, in qualche modo anticipatrice
della Prima Conferenza Internazionale dell’Italofonia, in programma prossimo il
19 novembre.
La conferenza,
organizzata, come la SLIM, in collaborazione con la Società Dante Alighieri e
il governo elvetico, sarà un “momento di incontro” e di “sviluppo dei rapporti”
tra Paesi che hanno l’italiano come lingua ufficiale, ma anche in cui vi è una
forte presenza di comunità italiane. L’obiettivo è rendere la lingua italiana
“ponte” tra questi Paese, confermando la volontà della Farnesina di usare
sempre più la promozione di lingua e cultura come strumento strategico di
“diplomazia della crescita”. Prima, però, ha osservato il ministro Tajani,
occorre fare un passo indietro e iniziare a sposare una “scelta culturale”:
quella di apprezzare, conoscere e promuovere la nostra lingua e cultura in
Italia prima ancora che all’estero. Non si tratta di “malcelato nazionalismo”,
ha voluto precisare Tajani, bensì di “affermazione della propria identità”,
senza peccare di “provincialismo” e nella consapevolezza che “la nostra lingua
è elemento di pace, dialogo e confronto”, non si è mai imposta e anche per
questo è “amata e apprezzata nel mondo”. La lingua italiana e la cultura che
rappresenta, ha proseguito il ministro, “non è soltanto specchio del nostro
passato”, ma “guarda al futuro” accompagnando le nostre eccellenze nel mondo e
accogliendo quelle straniere, come nel caso degli studenti e dei ricercatori
palestinesi giunti ieri a Roma, ha ricordato Tajani. Ringraziando infine la
rete diplomatico-consolare e degli Istituti Italiani di Cultura che
organizzeranno numerosi eventi nel corso della SLIM, il ministro Tajani ha
concluso augurandosi che “la lingua possa essere la bandiera della nostra
presenza nel mondo”.
Che l’italiano e
l’italianità che rappresenta vengano “da lontano”, ma non abbiano “paura di
confrontarsi con la contemporaneità” lo ha sottolineato anche Andrea Riccardi,
presidente della Società Dante Alighieri che da sempre affianca il Ministero
degli Affari Esteri e l’Accademia della Crusca nella realizzazione della
Settimana della Lingua Italiana nel Mondo. Riccardi ha espresso il proprio
“convinto sostegno all’idea di una comunità globale dell’italofonia”, perché,
ha ribadito, “esiste una comunità più grande della penisola che ama l’italiano
e parla italiano”, grazie anche alla nostra storia migratoria all’estero.
“L’italiano non è una lingua imperiale”, ma neanche “provinciale”, ha
continuato il presidente della Dante, d’accordo con Tajani, “ha una sua forza
non politica, ma intrinseca alla lingua stessa, storica, connessa a tanti
patrimoni” come quello culturale e quello manifatturiero, ed è oggi “viva e
creatrice”, “proiettata verso il futuro”. Andrea Riccardi si è detto lieto che
sia stato oggi superato quel “timore di essere considerati nazionalisti” che
per decenni ha penalizzato la nostra lingua. Oggi si assiste alla “volontà di
recupero dell’identità e della lingua italiana” da parte dei discendenti degli
italiani emigrati all’estero e, allo stesso tempo, ad un “aumento della domanda
di apprendimento anche in ambienti non italiani”, interessati al modo di vivere
e di essere italiano. “Il mondo è percorso da correnti di italsimpatia”, come
dimostrano i 700 scrittori non italiani che hanno scelto la nostra lingua per
esprimersi: tra loro il premio Pulitzer Juhmpa Lahiri e il premio Campiello
Edith Bruck. A ciò si aggiunga la realtà degli immigrati in Italia, dove si
assiste alla sempre maggiore “diffusione della lingua in famiglie binazionali”.
Per Riccardi c’è ormai “consapevolezza” che “l’italiano non è solo una lingua
domestica, ma vive fuori dai confini nazionali”: è tempo che la comunità
globale dell’italofonia raccolga “questa sfida”.
È cresciuto vicino
alla frontiera, che per lui però “non è mai stata tale”, è straniero, ma parla
italiano come il suo ministro degli Affari Esteri Cassis. È l’ambasciatore
della Svizzera in Italia, Roberto Balzaretti, per il quale la lingua italiana è
un “pilastro essenziale” della ricchezza elvetica e della “convivenza tra
diverse tradizioni”. Nonostante sia lingua ufficiale del Ticino e nonostante si
parli anche in altri Grigioni grazie alla presenza di immigrati italiani, però,
l’italiano è oggi “sotto pressione”: a parlarlo è circa l’8% della popolazione,
parti a 1 milione di persone su 9, contro il 70% circa di tedesco e il 22% di
francese. Anche per questa ragione, “la Settimana della Lingua Italiana nel
Mondo è per noi un momento prezioso e utilissimo per rimettere al centro della
politica l’importanza dell’italiano per il nostro essere svizzeri”, ha
affermato Balzaretti, assicurando: “saremo sempre al fianco dell’Italia quando
si tratterà di difendere la nostra lingua”.
Agli interventi
istituzionali sono seguiti la proiezione del video promozionale della SLIM e
due tavole rotonde di approfondimento.
La prima, dedicata
alla promozione della cultura italiana all’estero, è stata moderata dalla
giornalista Laura Pizzino, per la quale “la lingua è un essere vivo che
riflette storia e identità di un Paese” e “un veicolo con cui esperire la
cultura”. Ecco dunque alcuni dei protagonisti della vita culturale italiana
portare il loro contributo al dibattito: lo scrittore e poeta Andrea Bajani, il
direttore generale di Treccani Massimo Bray e l’artista visivo Pietro Ruffo.
Vincitore del
Premio Strega 2005 con “L’anniversario”, i suoi romanzi tradotti in 17 Paesi
del mondo, Andrea Bajani è attualmente insegnante di scrittura creativa presso
l’università di Houston, in Texas, quindi è egli stesso “parte di una comunità
linguistica”. Quando è negli Stati Uniti per Bajani “la lingua è casa”, quindi
identità, quella stessa che lo scrittore cerca di trasmettere ai suoi studenti,
trasmettendo loro registri linguistici e vocabolario, ma anche una “visione del
mondo” che deve essere priva di “stereotipi”. Compito degli scrittori oggi, per
Bajani, è proprio quello di “forzare gli stereotipi, essere un po’
insubordinati, mettere in discussione, creando anche qualche piccolo disagio”,
ma “ampliando la capacità polmonare” di chi legge e dai libri apprende la
nostra cultura.
Se si parla di
cultura, “Treccani è la cultura italiana”. A 100 anni dalla sua fondazione,
Treccani è l’ultimo “grande presidio della cultura” sopravvissuto ai tempi e
questo perché, ha rivendicato Massimo Bray “l’Enciclopedia è stato uno
strumento capace di raccontare il passato e il presente, ma anche di
proiettarsi verso il futuro”. Non a caso è stata la prima a sbarcare on line
nel 1995, dimostrando la propria “capacità di interpretare una cultura che
cambia”. Come ha sottolineato Bray, “virtuose” sono ormai da tempo le
collaborazione con la Farnesina, ma la cultura in Italia e all’estero ha
bisogno oggi di fare ancor più “sistema”.
Con la Farnesina
collabora da lungo tempo anche Pietro Ruffo, artista visivo le cui architetture
di carta fanno oggi parte della Collezione Farnesina, oltre che di altre
istituzioni museali italiane ed estere. Premio Cairo 2009, Premio New York
2010, Ruffo ha al suo attivo diversi progetti di ricerca, mostre e
partecipazioni a Biennali d’arte nel mondo. “Spesso l’arte accompagna la
politica” raccontando la storia, gli scambi, le migrazioni, le grandi questioni
di attualità come quella ambientale, le guerre; i lavori di Ruffo però non
esprimono giudizi. “I miei lavori”, ha spiegato l’artista, “vogliono essere un
punto di domanda”, voglio “accendere delle scintille, dei momenti di
discussione”. In questo senso l’arte può essere d’aiuto per aprire un confronto,
capire come interpretare la contemporaneità e agire nel futuro. “Avamposti
eccezionali” dell’arte italiana all’estero sono gli Istituti Italiani di
Cultura, le Ambasciate e i Consolati, ha riconosciuto Ruffo, dicendosi grato
per la “nuova formula” adottata dagli IIC che invitano sempre più spesso gli
artisti a esporre fuori dalle sale dell’Istituto e dentro le istituzioni dei
Paesi ospitanti. Resta da lavorare sulla “stratificazione”, ha chiosato Ruffo:
“ogni artista del passato è stato un contemporaneo del suo tempo”, con le
stesse paure, difficoltà e soddisfazioni che hanno gli artisti oggi. Sono
questi ultimi i “nuovi custodi del passato” e, insieme, i “nuovi costruttori di
cultura”, cui però è ancora riservata “poca attenzione”. La “scelta è anche politica”,
ha concluso.
Un intermezzo
della poetessa italo-somala Rahma Nur e si è aperta la seconda tavola rotonda,
moderata dal giornalista Rai di origini marocchine Zouir Louassini. Vi hanno
preso parte: la giornalista della Radio Nazionale Tunisina Nabila Abid, per la
quale “la lingua italiana è storia di vita e di amore, che dura ben oltre una
settimana”; Giuseppe Antonelli, docente di Storia della lingua italiana
all’Università di Pavia; il presidente dell’AIE, Innocenzo Cipolletta; il
presidente dell’Accademia della Crusca, Paolo D’Achille; e Cristina Di Giorgio,
direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura di Santiago del Cile.
Se Nabila Abid ha
sottolineato il “ruolo importantissimo” dei media nella diffusione della lingua
italiana all’estero, Giuseppe Antonelli si è soffermato sulla forza
dell’italiano: “la diffusione di una lingua segue motivi geopolitici”, ha
detto, “ma la lingua italiana ha sempre avuto un prestigio culturale che non ha
avuto confini”. Oggi come ieri, “l’italiano non è da proteggere, ma da
diffondere”, avendo noi stessi “fiducia” nella nostra lingua. Antonelli ha
ricordato infatti che già Manzoni lamentava nel 1600 il diffondersi di
“spagnolismi”, seguiti nel 1700 dai “francesismi”; oggi si fa la guerra agli
inglesismi, senza contare i linguaggi di internet e dei social: “la lingua
italiana ha sempre superato queste prove, grazie a una tradizione culturale che
dobbiamo rinnovare”, ha detto Antonelli, suggerendo anche l’uso di quegli
strumenti dal “grande potenziale” che abbiamo a disposizione. Come è stato
fatto con il MuLTI, il museo multimediale della lingua italiana, realizzato
dalle tre Università italiane di Pavia, della Tuscia e L’Orientale di Napoli
per “incuriosire e avvicinare la gente alla lingua italiana” in modo semplice e
interattivo.
“La nostra è una
cultura moderna, che cambia, che non ha paura di usare lingue straniere”, ha
confermato, prendendo la parola, il presidente dell’AIE Cipolletta. “La lingua
è fatta per comunicare, evolve e noi, come esportatori di libri, stiamo facendo
un buon lavoro“, ha aggiunto ringraziando tutte le istituzioni che sostengono
il libro italiano nel mondo: la Farnesina, con gli IIC e la rete
diplomatico-consolare, il MiC con il Cepell e l’Agenzia Ice. Grazie alle
risorse erogate in favore della traduzioni dei libri, in 25 anni i titoli
italiani esportati all’estero sono passati da 1800 a 5.300 l’anno. La
traduzione consente di conoscere una cultura e la alimenta: Cipolletta ha
dunque invitato a coltivare le “infrastrutture culturali in Italia e all’estero”
e a puntare sui nuovi autori contemporanei a cui è sempre riservata una
“accoglienza calorosa”. Non a caso l’Italia è stata invitata come Ospite
d’Onore nelle più prestigiose fiere del libro del mondo: da Parigi a
Francoforte, da Taipei a Lima, aspettando il prossimo anno di approdare a
Guadalajara.
L’Italia è un
Paese piccolo, ma ha sempre avuto una grande influenza nel mondo: per Paolo
D’Achille, a capo dell’Accademia che 25 anni fa ideò la SLIM, “il segreto è
nella cultura italiana”. La nostra lingua “non si è mai diffusa in modo
aggressivo, ma ha acquistato prestigio anche all’estero per la sua grande
tradizione culturale” e perché si è dimostrata ideale “luogo di incontro”.
Nonostante ciò “quello che manca in Italia è un po’ di fiducia”, ha lamentato
D’Achille. “Pensiamo di avere una lingua di nicchia, ma ci vorrebbe un po’ più
di convinzione e difesa dell’italiano all’interno del Paese”.
Intanto fuori
dall’Italia a darsi da fare sono gli Istituti Italiani di Cultura, che,
sfruttando tanto i fondi delle istituzioni pubbliche italiane quanto i
contributi provenienti dalle realtà locali, “portano nei Paesi in cui operano
la cultura italiana in tutti i suoi aspetti”: dalla “modernità” alla ricerca
delle “proprie radici”. A rivendicare l’importantissimo ruolo degli IIC oggi in
sala Cristina Di Giorgio, direttrice a Santiago del Cile la quale ha
sottolineato la particolarità dell’America Latina, caratterizzata da una forte
presenza migratoria per la quale l’italiano fu strumento di aggregazione
identitaria. In America Latina, poi, come in tutto il mondo, è innegabile “il
prestigio di cui gode l’Italia, giudicata nazione di cultura, bellezza e innovazione”.
(r.aronica, aise/dip 3)
I giovani di
origine straniera, nati o cresciuti in Italia, sono di fatto i protagonisti
silenziosi della trasformazione del Paese. Non solo destinatari di interventi,
ma generatori di speranza, portatori di identità plurali e di un futuro da
costruire insieme. È il messaggio al centro della XXXIV edizione del “Rapporto
Immigrazione”, realizzato da Caritas Italiana e Fondazione Migrantes,
intitolato in quest’anno giubilare «Giovani, testimoni di speranza».
Il Rapporto
Il volume – 392
pagine, con la firma di 48 tra curatori e collaboratori – dopo la consueta
premessa sul contesto internazionale, offre una rappresentazione della
situazione degli immigrati residenti in Italia secondo 8 ambiti di vita
quotidiana: cittadinanza, economia, scuola, sanità, disagio sociale, sport,
comunicazione e appartenenza religiosa. La sfida raccolta dal Rapporto è quella
di provare a fare dei tanti volti della mobilità il volto composito di un
Paese.
I numeri
dell’immigrazione in Italia e nel mondo.
In Italia, gli
stranieri regolarmente residenti sono oltre 5,4 milioni, pari al 9,2% della
popolazione. Nel 2024, più del 21% dei nuovi nati ha almeno un genitore
straniero. I principali Paesi di origine dei cittadini stranieri in Italia
restano i medesimi, ma negli ultimi anni si osserva una crescita significativa
di nuovi arrivi dal Perù e Bangladesh. Tutto questo si registra in un contesto
globale in cui, nel 2025, nel mondo si contano 304 milioni di migranti
internazionali, il doppio rispetto al 1990, e oltre 123 milioni di profughi e
sfollati.
Giovani di origine
straniera: potenziali protagonisti della trasformazione del Paese
Il Rapporto 2025
pone al centro i giovani con background migratorio, che rappresentano una
risorsa vitale per la società italiana. Molti di loro affrontano difficoltà nel
riconoscimento e nella partecipazione, ma la loro esperienza è una narrazione
vivente di speranza e cambiamento. «Dare loro spazio – sottolineano Caritas
Italiana e Fondazione Migrantes nell’introduzione al volume – non è un favore,
ma un investimento per il futuro dell’Italia, che si costruisce anche – e
soprattutto – con chi ha il coraggio di sognarlo, da dentro e da fuori».
Lavoro, casa e
povertà: le sfide dell’inclusione
Nel 2024 gli
occupati in Italia sono 24 milioni, di cui oltre 2,5 milioni stranieri (10,5%).
Crescono i rapporti di lavoro attivati con cittadini stranieri (+5,8% in un
anno), ma persistono disuguaglianze e sfruttamento, soprattutto nel settore
agricolo e in quello dei servizi.
Le difficoltà
abitative restano un nodo cruciale: l’indagine Caritas-Migrantes evidenzia
forti discriminazioni e barriere di accesso alla casa per le famiglie
straniere. Sul fronte economico, mentre l’incidenza della povertà tra i
cittadini italiani si attesta al 7,4%, tra gli stranieri raggiunge il 35,1%
(sono 1.727.000 i cittadini stranieri in condizione di povertà assoluta).
«Investire in
strategie di inclusione e in percorsi legali – ha detto nel suo intervento S.E.
mons. Carlo Maria Redaelli, arcivescovo metropolita di Gorizia e presidente di
Caritas Italiana – non è un favore, ma un atto di responsabilità verso il
futuro delle nostre comunità e di quelle che arrivano: si può e si deve fare
meglio di quanto fatto finora».
Scuola, sport e
religione: spazi di cittadinanza e futuro
Nell’anno
scolastico 2023/2024 si registra la presenza di oltre 900 mila alunni con
cittadinanza non italiana, con un’incidenza pari all’11,5%, segno di una
società sempre più multiculturale. Lo sport si conferma terreno fertile di
inclusione e cittadinanza attiva: tuttavia, solo il 35% delle ragazze straniere
pratica attività sportiva, contro il 62% delle coetanee italiane, e merita
attenzione il fenomeno dello sport trafficking. Sul piano della appartenenza
religiosa, tassello fondamentale nella comprensione del senso di partecipazione
alla comunità, si stima che all’inizio del 2025 il totale dei cristiani superi
ancora la maggioranza assoluta degli stranieri residenti in Italia,
raggiungendo il 51,7%, seppure in netto calo rispetto al 53,0% stimato per il
2024. «Il Rapporto conferma – ha detto il direttore generale della Fondazione
Migrantes, mons. Pierpaolo Felicolo – che dopo la prima accoglienza è
fondamentale l’accompagnamento costante a una esistenza dignitosa e alla
partecipazione diretta alla vita del Paese. Diamo meno spazio a ciò che
facciamo e diciamo noi per loro, e più alla voce, alla testimonianza e allo
sguardo sul Paese dei cittadini immigrati».
Baturi (CEI): «Una
trasformazione silenziosa, ma radicale»
L’Italia vive una
trasformazione – afferma il segretario generale della Conferenza episcopale
italiana, S.E. mons. Giuseppe Baturi, nella sua Prefazione al volume –, che
passa attraverso i volti, le storie e i sogni di giovani ragazze e ragazzi che
«frequentano le stesse scuole dei loro coetanei italiani, parlano i dialetti
locali, tifano per le squadre del cuore, ma spesso continuano a sentirsi – e a
essere percepiti – come “ospiti permanenti”, non pienamente parte della
comunità». In questo senso «le comunità cristiane in Italia hanno oggi la
possibilità di essere laboratori privilegiati di convivenza, luoghi in cui si
sperimenta in piccolo ciò che il Paese intero fatica a realizzare». Nella
situazione fotografata dal Rapporto, scrive mons. Baturi, la cittadinanza si
conferma uno dei «passaggi sempre più indispensabili». Migr.on. 14
Al Senato l’audizione del Comitato di Presidenza del Cgie
ROMA – Si svolta
presso la Commissione Esteri – Difesa del Senato l’audizione del Comitato di
Presidenza del Cgie. L’incontro è stato moderato dalla Presidente della III
Commissione Stefania Craxi. Ha in primo luogo preso la parola la Segretaria
Generale del Cgie Maria Chiara Prodi. “I punti fermi su cui abbiamo basato i
nostri dibattiti nel primo semestre del 2025 erano: la legge di cittadinanza,
la messa in sicurezza del voto all’estero e gli incentivi di rientro. Su questi
3 temi noi abbiamo lavorato chiedendo anche il supporto dei Comites e dei
territori”, ha esordito Prodi che ha poi approfondito il tema della
cittadinanza. “In particolare – ha spiegato la Segretaria Generale – ci preme
ragionare sulla temporalità dei limiti della trasmissione della cittadinanza
italiana per i residenti all’estero, perché chi è cittadino italiano deve
rimanerlo. E anche l’approccio alla doppia cittadinanza che è stato voluto da
questa legge per noi va modificato. Chiaramente abbiamo evidenziato anche la
positività del riacquisto della cittadinanza, per coloro che la avevano perduta
in passato… Per noi – ha aggiunto _ è anche importante sottolineare la
centralità della lingua italiana all’estero nella trasmissione e l’acquisizione
della cittadinanza italiana”.
Sempre per quanto
riguarda la cittadinanza Prodi, oltre a ricordare alcune aperture da parte
delle istituzioni, ha poi segnalato la questione della tempistica per la
registrazione dei minori e l’attesa per il pronunciamento della Corte
Costituzionale sulla materia. “Sul tema della messa in sicurezza del voto degli
italiani all’estero, – ha poi ha rilevato la Segretaria Generale – abbiamo
cercato anche qui di dare consigli attuali su vari temi: trasparenza nella
stampa delle schede, invio dei plichi elettorali, condizione dei plichi
elettorali, tracciabilità e il corretto indirizzo dell’elettore, spedizione
delle schede votate e scrutinio. Su questo siamo arrivati ad una constatazione,
e cioè che i miglioramenti sono possibili al sistema vigente, con una messa in
sicurezza che garantisca la partecipazione e possa essere qualcosa su cui
lavorare in sinergia tra rappresentanze degli italiani all’estero e
legislatore”.
La Segretaria
Generale ha poi evidenziato come per la promozione della lingua e della cultura
italiana, che rappresentano per gli italiani all’estero il primo legame
effettivo con la nostra comunità nazionale, sia necessario sviluppare delle
proposte di accompagnamento che tengano conto delle esigenze che provengano dai
vari territori. “Per noi è fondamentale – ha continuato Prodi – affrontando la
questione dell’insegnamento nelle scuole della storia della nostra diaspora –
riconnettere l’Italia alla storia dell’emigrazione, perché più il cittadino è
consapevole della comunità nazionale dentro e fuori i confini, più è un
cittadino consapevole e capace di accompagnare decisioni collettive e
significative”.
“Il tema della
riforma del Cgie ci è caro- Ha continuato la Segretaria Generale-
Crediamo che il 2026, l’anno in cui i nostri Comites festeggeranno
i 40 anni del loro insediamento, possa essere davvero fondamentale per parlare
di partecipazione per far appello ai nostri numerosi connazionali al di fuori
dell’Italia, per parte in maniera attiva ad un dialogo tra l’associazionismo e
le realtà diversificate delle comunità italiane all’estero, ma che trovano
nelle nostre rappresentanze una filiera di dialogo con il Paese”. Prodi ha
infine sollecitato il rispetto della legge istitutiva del Cgie e quindi lo
stanziamento in sede di bilancio di risorse adeguate che consentano al
Consiglio Generale di svolgere il proprio lavoro e potare avanti la necessaria
programmazione della Conferenza Stato -Regioni – Province Autonome e Cgie.
E’ poi intervenuta
la senatrice del Pd Francesca La Marca, eletta nella Ripartizione America
settentrionale e centrale, che ha sottolineato la necessità di lavorare per
cambiare la nuova legge sulla cittadinanza, ad esempio per quanto riguarda un
aspetto della riapertura dei termini per il riacquisto della cittadinanza.
Infatti, secondo la nuova norma, ch riacquisisce la nazionalità di origine, non
può trasmettere la cittadinanza ai figli. Una questione che per la senatrice va
risolta. La Marca ha anche segnalato problematiche sia per quanto riguarda
l’uso del portale Prenotami, un sito che va migliorato, sia per quanto concerne
l’attivazione della Carta d’Identità elettronica nei Paese extra UE.
Sollecitata dalla senatrice anche l’adozione, tra i vari consolati, di
procedure uniformi per gli appuntamenti sulla cittadinanza. Rilevate infine da
La Marca anche le difficoltà burocratiche incontrate dagli enti gestori,
promotori della lingua italiana, che intendono accedere ai fondi pubblici.
Dal canto suo il senatore del Pd Francesco Giacobbe, eletto nella
ripartizione Africa, Asia, Oceania e Antartide, ha sottolineato l’importanza di
insegnare la storia della nostra emigrazione nelle scuole italiane, anche per
far conoscere al nostro Paese, che oggi accoglie molti immigrati, i percorsi
d’integrazione che si sono sviluppati all’estero.
Anche Giacobbe ha
evidenziato l’esigenza di migliorare il servizio offerto da Prenotami, anche
per il fatto che con questo sistema si devono confrontare molte persone ormai
avanti con gli anni. Il senatore, dopo aver auspicato procedure uniformi fra i
vari consolati per la riacquisizione della cittadinanza, ha auspicato una
capillare campagna informativa che faccia conoscere alle comunità all’estero la
necessità di registrare coloro che erano minorenni, alla data dell’entrata in
vigore della nuova legge sulla cittadinanza, entro il 31 maggio 2026.
E poi intervenuta
la vice Segretaria Generale per i Paesi Anglofoni extraeuropei Silvana Mangione
che ha rilevato come ormai gli italiani all’estero si attestino a quota
7milioni e trecentomila. Anche alla luce di questi numeri crescenti Mangione ha
auspicato l’impegno di maggiori risorse in sede di bilancio, ad esempio per
l’insegnamento dell’italiano nei Paesi di lingua inglese, dove vi è il rischio
che i figli delle nuove generazioni abbandonino l’italiano non appena arrivati
all’asilo.
La Vice Segretaria
Generale ha anche parlato della possibilità che vengano ridisegnate totalmente
le circoscrizione elettorali con il rischio che, con una legge basata solo sui
numeri e non sulla reale importanza anche economiche delle comunità, rimangano
esclusi dalla rappresentanza aree importanti del mondo, come ad esempio il nord
e centro America o l’Australia. Dopo aver segnalato che il Consiglio Generale
sta continuando a lavorare a una proposta per una riforma della legge
istitutiva del Cgie, Magione ha rilevato come il mandato di cinque anni dei
Comites, eletti nel 2021, si avvii a conclusione e quindi, visto che il Cgie è
stato nominato in ritardo, vi sia il rischio di non poter rispettare le
naturali scadenze della leggi istitutive dei Comites e del Cgie. “Il Cgie – ha
spiegato la Vice Segretaria – si è insediato una anno e mezzo dopo, quindi se
si mantiene la scadenza normale dei Comites noi ci troveremmo ad avere una
consigliatura del Consiglio Generale che non consentirebbe di completare le programma
su cui stiamo lavorando, e prima di tutto di convocare la Conferenza –
Stato – Regioni- Provincie autonome – Cgie che dovrebbe svolgersi entro
la fine del 2026”.
A seguire ha preso
la parola il senatore del Pd Andrea Crisanti, eletto nella ripartizione Europa,
che ha evidenziato l’esigenza, in vista delle prossime elezioni, di modificare
la legge sui Comites, superando ad esempio l’opzione inversa del voto che, insieme
ad altri fattori, limita la rappresentatività degli italiani all’estero.
Il senatore ha anche auspicato lo stanziamento di adeguati fondi per lo
svolgimento della tornata elettorale dei Comites. Fra gli altri
interventi segnaliamo quello del membro del Comitato di Presidenza Walter
Pretruzziello (America Latina) che ha ribadito la necessità di migliorare la
prenotazione dei posti sul portale Prenotami e ha chiesto di prorogare oltre al
termine del 31 maggio 2026 la registrazione dei minori all’estero.
“Il mondo – ha esordito il Vice Segretario Generale per
l’Europa e l’Africa del Nord Giuseppe Stabile – è in mano alla matematica. I
numeri reggono la logica dell’universo, ordinano il caos e danno misura a ciò
che altrimenti resterebbe incomprensibile. Parto da questo presupposto della
Matematica per enfatizzare il numero 7milioni e 300.000 residenti all’estero.
Questo significa che ogni giorno in più l’Italia perde connazionali. Questo
significa in termini matematici che l’economia dello Stato soffre”. Per cercare
di contrastare questa situazione, secondo Stabile, occorre concentrare le forze
su una politica economica e fiscale che permetta il ripopolamento. In tal senso
dal sottocomitato del CdP, che si occupa di questa tematica, sono state avanzate
varie iniziative . In proposito Stabile segnala la proposta della creazione di
un portale dedicato, che coinvolga tutti i ministeri interessati, l’Anci e
l’intero sistema Paese, e che fornisca una capillare informazione su tutte le
misure di incentivo in atto volte a favorire chi intenda tornare in Italia
dall’estero.
Dal componente del
Comitato di Presidenza Tommaso Conte (Europa e Africa del Nord) è stato
rilevata la necessità di mettere mano alla nuova legge sulla cittadinanza per
superare i limiti imposti ai possessori della doppia cittadinanza. Conte ha
inoltre segnalato come, nel capo dell’attività scolastico culturale, i piccoli
enti gestori stiano incontrando difficoltà nel proseguire la loro attività, con
il rischio che non si riesca a mantenere la propria identità culturale. E’
infine intervenuto il Vice Segretario Generale di Nomina governativa Gianluca
Lodetti che ha sottolineato come, a fronte di una comunità all’estero in
costante crescita, vi sia la necessità di rafforzare il sistema informativo
all’estero, per far conoscere la legislazione di rientro, accompagnare le
persone verso l’estero e di rientro in Italia e spiegare le nuove norme sulla
cittadinanza. Una esigenza che potrebbe essere affrontata sviluppando strumenti
si sussidiarietà, utilizzando le reti associative e i patronati. Lodetti ha
anche segnalato l’esigenza di migliorare il reclutamento degli insegnanti per
le scuole italiane nel mondo, anche attraverso sistemi incentivanti che
invoglino gli inseganti a recarsi all’estero.
Lorenzo Morgia,
Inform/dip 30.9.
Patenti europee, la svolta digitale e le nuove regole: cosa cambia
Validità di 15
anni, patente digitale su smartphone e sanzioni estese oltre confine: l’Ue
ridisegna le regole per centrare l’obiettivo “zero vittime” entro il 2050
A quasi vent’anni
dall’ultima revisione, Bruxelles riscrive le regole sulle patenti di guida con
l’obiettivo più ambizioso e più difficile: ridurre drasticamente i 20mila morti
che ogni anno si registrano sulle strade europee e avvicinarsi all’obiettivo “zero
vittime” entro il 2050.
Il Parlamento
europeo ha approvato in via definitiva la nuova direttiva sulle patenti di
guida e quella parallela sulle decisioni di ritiro e sospensione
transfrontaliera. Due testi che, insieme, ridisegnano il modo in cui si
ottiene, si conserva e, nei casi più gravi, si perde il diritto di guidare in
tutta l’Unione.
La revisione nasce
da una constatazione semplice ma impietosa: nonostante decenni di politiche di
sicurezza, l’andamento delle vittime da incidente si è fermato. Dopo il crollo
registrato negli anni 2000, negli ultimi dieci anni la curva è piatta. Secondo
la Commissione, “ogni giorno più di cinquanta persone perdono la vita sulle
strade europee”, con costi economici stimati in 120 miliardi di euro l’anno.
Troppo per restare fermi.
Da qui un
pacchetto che interviene su formazione, controlli, digitalizzazione e
coordinamento giudiziario tra Stati membri. “L’introduzione di criteri più
chiari e tempestivi per la sospensione della patente in caso di gravi
infrazioni contribuisce a proteggere non solo i conducenti responsabili, ma
l’intera collettività”, ha dichiarato Matteo Ricci (S&D, Italia), relatore
del Parlamento per la direttiva sulle decisioni di ritiro.
L’idea è quella di
un sistema armonizzato, più severo con chi sbaglia ma anche più equo per chi si
sposta tra un Paese e l’altro. Perché finora, come ammettono gli stessi
eurodeputati, troppe sanzioni si perdevano nei confini.
La nuova direttiva
entra in vigore venti giorni dopo la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale e
gli Stati membri avranno tre anni per recepirla, più un altro anno per adeguare
le procedure. Un tempo breve per una riforma che tocca milioni di cittadini europei,
ma necessario per centrare il traguardo di metà secolo: “zero vittime nel
trasporto stradale dell’Ue entro il 2050”.
1.
Patente digitale e nuovi controlli
È il cambiamento
più visibile e, allo stesso tempo, il più simbolico: nasce la patente di guida
digitale europea.
Un documento
unico, valido in tutti gli Stati membri, che potrà essere archiviato e mostrato
direttamente dal telefono. Nel linguaggio di Bruxelles, un “driving licence in
digital format”, accessibile tramite app e interoperabile con i sistemi
nazionali.
La versione
digitale sarà progressivamente affiancata a quella fisica, che i cittadini
avranno comunque diritto a richiedere. L’obiettivo è semplificare i controlli e
ridurre la burocrazia. La direttiva prevede che il rilascio della patente —
anche cartacea — avvenga “senza indebiti ritardi e, in genere, entro tre
settimane”.
La
digitalizzazione non è solo una questione di praticità. Significa poter
verificare in tempo reale la validità del documento, la categoria di veicolo,
eventuali limitazioni o sospensioni. Significa anche poter trasferire in modo
automatico i dati tra Stati, condizione fondamentale per far funzionare le
nuove regole sul riconoscimento reciproco delle sanzioni.
La patente
digitale potrà includere un codice QR o elementi di autenticazione elettronica
integrati nel sistema EU Login, gli stessi utilizzati per accedere ai portali
istituzionali europei. Sarà inoltre compatibile con l’app EU Digital Wallet,
che la Commissione sta sviluppando come contenitore unico per documenti
d’identità e titoli professionali.
La sicurezza
informatica resta un punto sensibile: i dati personali saranno conservati nei
database nazionali, ma sincronizzati attraverso un’interfaccia comune. Ogni
Stato dovrà adottare standard di cifratura e protezione equivalenti a quelli
previsti per il sistema d’identità elettronica europeo (eIDAS 2.0).
Una trasformazione
che, nei piani dell’Unione, deve rendere più difficile la falsificazione e più
rapido il recupero della patente in caso di smarrimento o rinnovo.
Accanto alla
dimensione digitale, arrivano anche nuovi obblighi medici.
Chi richiede la
patente — o un rinnovo — dovrà sottoporsi a una visita che includa esami della
vista e delle condizioni cardiovascolari. Gli Stati potranno decidere se
sostituire la visita con moduli di autovalutazione, ma Bruxelles suggerisce
prudenza: la valutazione medica, scrive la direttiva, “contribuisce a prevenire
incidenti legati a malori o deficit sensoriali non diagnosticati”.
Infine, la
validità: 15 anni per auto e moto, 5 per autobus e autocarri. Gli Stati
potranno ridurre la durata a 10 anni se la patente vale anche come documento
d’identità nazionale. Sopra i 65 anni, gli Stati membri potranno introdurre
controlli medici più frequenti o corsi di aggiornamento obbligatori.
Una misura che,
secondo i legislatori, non mira a discriminare per età ma a garantire che
l’idoneità alla guida resti proporzionata ai rischi.
2.
Neopatentati e guida accompagnata
La riforma tocca
da vicino milioni di giovani europei: per la prima volta, l’Unione introduce un
periodo di prova obbligatorio di almeno due anni per i neopatentati.
Un vincolo
uniforme che ogni Paese potrà rendere più lungo, ma non più breve. Durante
questo periodo, chi sarà sorpreso a guidare in stato di ebbrezza, senza cintura
o utilizzando lo smartphone potrà incorrere in sanzioni più severe, fino alla
sospensione immediata della patente.
L’esame stesso
cambia volto. Le nuove linee guida prevedono che i test includano domande sugli
angoli ciechi, sui sistemi di assistenza alla guida (ADAS), sull’apertura
sicura delle porte e sull’uso corretto del cellulare.
“L’addestramento
alla guida includerà più elementi dedicati alla sicurezza di pedoni e
ciclisti”, ha spiegato Jutta Paulus (Verdi/ALE, Germania), relatrice della
direttiva sulle patenti. L’obiettivo è sviluppare consapevolezza dei rischi per
gli utenti più vulnerabili, un tema cruciale nei contesti urbani.
La novità forse
più attesa riguarda l’età minima: sarà possibile ottenere la patente B già a 17
anni, ma solo se si guida accompagnati da un conducente esperto fino al
compimento dei 18.
Un modello già
diffuso in Germania e nei Paesi Bassi, che punta a migliorare l’esperienza
pratica senza abbassare i livelli di sicurezza.
Sul fronte dei
professionisti, invece, si cerca di contrastare la carenza di autisti in
settori chiave. I diciottenni potranno guidare autocarri (categoria C) e i
ventunenni autobus (categoria D), purché abbiano ottenuto il certificato di
abilitazione professionale (CQC). Senza tale qualifica, l’età minima resta
rispettivamente 21 e 24 anni. Una misura che, secondo Bruxelles, mira a rendere
le professioni del trasporto più accessibili e attrattive, mantenendo standard
di formazione elevati.
In parallelo, si
rafforza la cooperazione per il riconoscimento reciproco dei titoli di guida
professionale: un conducente formato in un Paese UE potrà vedersi riconosciuta
la propria qualifica in un altro senza dover ripetere l’intero percorso. Un
passo importante in un mercato del lavoro che si muove sempre di più oltre i
confini nazionali.
3.
Sospensioni e sanzioni oltrefrontiera
Fino a oggi, un
autista sorpreso a guidare in stato di ebbrezza in Francia o in Spagna poteva
tornare in Italia e continuare a guidare come se nulla fosse. Con la nuova
direttiva sulle decisioni di ritiro della patente, questo non sarà più
possibile. Le autorità del Paese in cui è avvenuta l’infrazione dovranno
notificare la sanzione a quelle dello Stato che ha emesso la patente, che sarà
obbligato a riconoscerla e ad applicarla.
Si tratta di una
delle innovazioni più incisive del pacchetto: la fine delle “zone franche” di
impunità transfrontaliera. Le decisioni di sospensione, ritiro o limitazione
della patente verranno comunicate attraverso una piattaforma europea, con tempi
stringenti e procedure uniformi.
Ogni Stato dovrà
informare gli altri “senza indebiti ritardi” in caso di infrazioni gravi: guida
in stato di ebbrezza o sotto effetto di droghe, eccesso di velocità superiore
di 50 km/h rispetto al limite, incidenti mortali o fughe dal luogo del sinistro.
Il sistema dovrà
essere operativo entro quattro anni. In pratica, un cittadino europeo
sanzionato in un Paese non potrà evitare la sospensione semplicemente tornando
nel proprio. È un passaggio cruciale verso una vera “giustizia stradale
europea”, che fino a oggi restava frammentata.
La riforma prevede
inoltre un rafforzamento della cooperazione tra autorità giudiziarie e
amministrative, con l’obiettivo di evitare duplicazioni o vuoti. Sarà compito
della Commissione creare un registro elettronico comune dove confluiranno i
dati relativi alle sospensioni, consultabile dalle forze di polizia e dalle
amministrazioni nazionali.
Per i cittadini,
questo significa regole più uniformi e meno arbitrarie. Per chi viaggia per
lavoro — dai camionisti ai lavoratori transfrontalieri — significa anche poter
contare su un sistema chiaro, con procedure di ricorso allineate.
Matteo Ricci lo ha
definito “un passo importante verso una maggiore sicurezza stradale e una
tutela uniforme per tutti gli utenti”. L’idea è che la responsabilità non si
fermi al confine: chi guida in Europa, guida sotto un’unica legge.
Verso un nuovo
patto europeo sulla mobilità
La riforma delle
patenti è un tassello di una strategia più ampia: quella della mobilità
sostenibile e sicura.
Bruxelles punta a
integrare i nuovi standard di formazione con la transizione tecnologica —
veicoli elettrici, guida assistita, intelligenza artificiale nei sistemi di
sicurezza. La futura patente digitale potrà dialogare con i veicoli connessi,
aggiornarsi in tempo reale sulle scadenze, segnalare il superamento di limiti o
l’attivazione di dispositivi di assistenza.
Un cambio di
paradigma: dalla patente come documento, alla patente come interfaccia.
E nel frattempo,
l’Europa prova a costruire un linguaggio comune della sicurezza: più
formazione, più trasparenza, meno scorciatoie. La strada verso lo “zero
vittime” è lunga, ma da oggi ha regole più chiare. Adnkronos 23
Vecchiaia: la saggezza del tempo
Attualmente ho
settantatré anni e sento di camminare su una strada fatta solo per andare
avanti — un sentiero che ha soltanto un’uscita e nessuna inversione di marcia.
Eppure, questo cammino è pieno di profondità, di contemplazione e di
percezione. La vita non mi consuma più; il ritmo si è rallentato, e con esso è
svanito anche il bisogno disperato di dimostrare qualcosa o di essere visto.
È rimasta soltanto
una felicità tranquilla, una semplicità interiore, una consapevolezza
conquistata a caro prezzo nel vedere la vita così com’è — nella sua bellezza,
transitorietà e complessità. Ho capito, col tempo, che ciò che conta non è
quanto realizziamo o guadagniamo, ma come viviamo ogni istante. Ogni secondo
può essere speso con saggezza — per restare presenti, dare e ricevere amore,
coltivare relazioni, e camminare dolcemente verso i propri obiettivi. Quelle
piccole cose — una parola gentile, un sorriso condiviso, un orecchio che
ascolta — sono i veri gioielli della vita, più preziosi di qualsiasi guadagno
materiale.
Per molti, la
vecchiaia è paura, ansia o perdita; per me, invece, è una profonda liberazione.
Ogni giorno ci offre il privilegio di rivolgerci all’interno, di osservare i
sentimenti, di contemplare i pensieri, e di vivere con la saggezza che nasce
dall’esperienza. Il corpo invecchia, ma il cuore e la mente respirano una nuova
aria — una seconda giovinezza che cerca piaceri più sottili. L’ambizione e la
vittoria della gioventù, la ricerca di approvazione e di successo, perdono
piano piano ogni significato. Resta soltanto la serenità di una vita vissuta
con sincerità, comprensione e autenticità. È qui che impariamo l’arte di essere
pienamente umani.
La vecchiaia
insegna a donare senza aspettative, ad amare senza ricompense. Impara a
valorizzare le piccole cose: la prima luce del mattino, il fruscio delle
foglie, la risata dei nipoti, la dolcezza della mano di un amico. Pazienza,
bontà e compassione — queste sono le vere ricchezze che si accumulano anno dopo
anno. Essere qui non richiede prestazioni o apparenze, ma presenza: una
presenza consapevole, che guarisce e che è reale. La vecchiaia, in verità, non
è un morire lento, ma un approfondirsi dell’essere — il momento in cui il vero
sé diventa più importante, più sensibile, più sintonizzato con le sfumature
della vita.
Arriva poi un
momento in cui il rumore del mondo si attenua, quando la corsa, la
competizione, l’affanno, iniziano a dissolversi. Si comincia a guardare dentro,
non più fuori. Questa svolta interiore è il segreto dell’età: non la perdita
della vita, ma la sua maturazione. Tutte le cose cercate con tanta frenesia —
successo, approvazione, riconoscimento — diventano nulla, o quasi. La pace, si
scopre, non era mai altrove; era sempre dentro di noi, nascosta sotto il rumore
dell’ambizione e della mancanza. Arriva un balsamo, una pace che nessun trionfo
giovanile può dare. È la comprensione che la vita ci ha dato ciò di cui avevamo
bisogno, che ogni perdita, ogni esperienza, ogni vittoria ha temprato l’anima.
Guarda il volto di
un anziano. Ogni ruga racconta una storia: di una risata vissuta, di un dolore
sopportato, di una speranza inseguita. Non sono segni di decadenza, ma medaglie
di coraggio. I loro silenzi sono più forti delle parole, perché gli anziani non
devono più dimostrare né competere. Hanno capito che la vita non deve nulla
alla certezza, e che la verità ama nascondersi nei momenti di osservazione
silenziosa. I giovani vivono di domande; gli anziani, di significato. Durante
la gioventù, pensiamo di plasmare la vita; nella vecchiaia, comprendiamo che è
stata la vita a plasmare noi. Ogni dolore, ogni vittoria, ogni perdita è stato
uno scalpello gentile del carattere, un’opera invisibile del tempo.
La società moderna
ignora gli anziani. La vita moderna corre troppo in fretta, ossessionata dalla
novità e dall’urgenza. Eppure, negli occhi degli anziani si trova tutta la
storia dell’umanità. Sono biblioteche viventi, non piene di libri, ma di
sentimenti e ricordi. Raccontano d’amore, di lotta, di vittoria, di fede e di
resistenza — storie che attraversano le generazioni. La loro conoscenza non è
teorica, ma vissuta, esperienziale, profondamente umana. Stare accanto a un
anziano è come leggere un intero volume sulla vita. Ascoltandoli, comprendiamo
ancora una volta le lezioni eterne: perdonare, perseverare, amare anche nella
perdita, e trovare bellezza anche nella fragilità.
La tristezza della
vecchiaia non è nel sopravvivere, ma nel saper cedere; non nella debolezza, ma
nella tenerezza che nasce dalla consapevolezza di ciò che davvero conta. Gli
anziani non corrono più contro il tempo; camminano al suo fianco, sapendo che la
vita non si misura in anni, ma in esperienze vissute. Non interrogano più la
vita; la accolgono, nella sua misteriosa interezza. Le rughe non sono segni
della brutalità del tempo, ma della sua grazia. I capelli grigi non sono
sconfitta, ma una corona di esperienza. Il corpo cede, ma l’anima si espande,
come il cielo della sera che si apre al tramonto. È una bellezza dolce,
delicata, una grazia nata dall’accettazione e dalla saggezza.
L’età non è una
fine, è un ritorno a casa — il cerchio che si chiude dolcemente. Il bambino che
guardava il mondo con meraviglia ora incontra lo sguardo dell’uomo saggio che
lo contempla con serenità. Tra i due si distende l’intera vita: meraviglia,
scoperta, errore, apprendimento, felicità, dolore, e infine saggezza. Quando il
cerchio si completa, non resta tristezza, ma gratitudine — per la vita
ricevuta, vissuta, e compresa. Chi sa invecchiare insegna la più grande delle
lezioni: per vivere meravigliosamente, bisogna imparare a lasciar andare con
grazia. L’invecchiare è l’arte dell’accettazione — accogliere la vita con
dolcezza e lasciarla andare senza paura.
Forse la saggezza
della vecchiaia è proprio questa: spogliare l’inutile per toccare l’eterno. E
negli occhi quieti degli anziani, forse, ritroviamo quella luce tenue, quella
verità silenziosa, quell’armonia ultima tra essere e divenire. La vita, alla
fine, non si indebolisce con l’età. Matura. Si radica. Si fa essenza. E in
quella profondità, in quella quiete della mente, la vecchiaia ci offre il suo
dono più prezioso: una vita osservata, amata e compresa.
Krishan Chand
Sethi, dip 20
Il CGIE verso una nuova centralità nelle istituzioni
Il Comitato di
Presidenza, riunito a Roma, rafforza il dialogo con Parlamento e Governo
invitandoli a investire sugli italiani all’estero. Siglato l’accordo con il
CNEL per gli incentivi al rientro e la valorizzazione del contributo dei
connazionali nel mondo al sistema Paese. Attese risposte alle richieste di
modifica della legge sulla cittadinanza
ROMA – Il Comitato
di Presidenza del Consiglio Generale degli Italiani all’Estero, riunito alla
Farnesina dal 29 settembre al 3 ottobre, ha segnato un ulteriore progresso
nello sforzo sistematico di riportare l’organismo al centro delle istituzioni e
di far sì che il tema della diaspora nazionale non sia considerato marginale,
dal momento che i connazionali nel mondo sono ormai 7,3 milioni, ma si radichi
nell’opinione pubblica la convinzione che rappresenta una miniera d’oro per lo
sviluppo del Paese. Durante la proficua settimana di lavori il CdP-
informa la nota del Cgie – ha incontrato le Commissioni Esteri di Camera
e Senato e la Commissione Bilancio di Palazzo Madama – dalla quale prenderà
avvio l’esame della manovra finanziaria – oltre a esponenti dell’intero arco
parlamentare, per assicurarsi che gli ordini del giorno sulla cittadinanza e
sulla messa in sicurezza del voto all’estero approvati dall’Assemblea plenaria
dello scorso giugno vengano recepiti e abbiano un seguito, e che siano garantite
alla rappresentanza degli italiani all’estero le risorse necessarie a svolgere
le attività assegnate dalla legge. Temi su cui il CdP tornerà a confrontare la
politica a Roma il 18 e 19 novembre prossimi. È stata inoltre sollecitata
ancora una volta la convocazione della V Assemblea plenaria della Conferenza
permanente Stato-Regioni-PA-CGIE.
In particolare
sulla riforma della cittadinanza, in Parlamento e durante l’incontro con il
sottosegretario Giorgio Silli (con il quale, fra l’altro si è dibattuto della
riforma del MAECI), è stata segnalata l’esigenza di prorogare il termine
di un anno per la registrazione dei figli minori, tema sul quale sembra
registrarsi un’apertura, e la necessità di abbandonare il limite della doppia
cittadinanza. Si guarda inoltre con attenzione al prossimo pronunciamento della
Corte costituzionale sulla retroattività prevista dalla riforma. Con la DGDP
del MAECI si è affrontato il delicatissimo tema della diffusione della lingua e
della cultura che, insieme alla riforma del Consiglio Generale e alla
promozione dell’insegnamento della storia dell’emigrazione, fa parte
dell’agenda dei lavori del secondo semestre dell’anno. Nel corso dell’incontro
si è fatto presente che molti enti gestori nel mondo versano in gravi
difficoltà per quanto riguarda la circolare ministeriale che regola
l’erogazione dei contributi per i corsi all’estero. È stata anche rivendicata
la necessità di confrontarsi sulle trasformazioni del settore coinvolgendo il
CGIE nei tavoli di lavoro in materia, analogamente a quanto è avvenuto in
preparazione della Conferenza internazionale dell’italofonia, in programma il
19 novembre prossimo; evento dal quale dovrebbe scaturire il segretariato
dell’italofonia, cui il Consiglio Generale ha chiesto di partecipare.
Imprescindibile, poi, l’insegnamento della storia della diaspora italiana nelle
scuole, obiettivo da raggiungere nel 2026, anno in cui ricorrono i quarant’anni
dall’istituzione della rappresentanza di base delle comunità italiane
all’estero e i settant’anni dalla tragedia mineraria di Marcinelle.
Unanime
soddisfazione ha suscitato la firma dell’accordo interistituzionale con il
CNEL, che costituisce un salto di qualità rispetto al previsto protocollo
d’intesa e rappresenta un passaggio emblematico dell’impegno del Consiglio
Generale in materia di nuova mobilità, di incentivi al rientro e per il
riconoscimento e la valorizzazione del contributo al sistema Paese delle
collettività di connazionali nel mondo. L’accordo fornisce inoltre al CGIE
l’opportunità di compiere un ulteriore passo in avanti nel suo percorso di
incardinamento nei corpi intermedi, fornendogli nuovi strumenti di azione. Il
Consiglio Generale si associa inoltre con convinzione all’iniziativa
dell’Italia in accordo con il Parlamento europeo, promossa dal presidente
Renato Brunetta, di istituire una giornata europea in ricordo delle vittime di
Marcinelle, che costituisce un passaggio importante per la valorizzazione della
storia dell’emigrazione. Sempre in materia di incentivi al rientro, si segnala
che, in conseguenza del protocollo d’intesa con il Commissario straordinario
per la ricostruzione delle zone colpite dal sisma del 2016 siglato lo scorso
aprile, è stato istituito un sottocomitato ad hoc all’interno del CdP. La
settimana di lavori ha fornito anche l’occasione per organizzare l’attività
interna del Consiglio Generale: si è stabilito di elaborare una proposta di
riforma della legge istitutiva del CGIE, da sottoporre all’approvazione della
prossima Assemblea plenaria, per adeguarlo alle mutate esigenze dell’attuale
diaspora, non senza aver definito le fondamentali questioni relative alla
natura giuridica dell’organismo e alla durata del mandato rispetto a quello del
Com.It.Es. Non meno importanti, la programmazione delle prossime assemblee
continentali sui territori e il coordinamento con i Presidenti delle
Commissioni tematiche, con i quali si è delineata l’operatività futura, che tra
le altre cose vedrà la realizzazione di webinar specifici sulle materie di
competenza, con il coinvolgimento della rappresentanza di base. (Inform/dip 8)
Incontro online dello CSER “Migrazioni a fumetti”
ROMA – Si è
svolto online l’incontro del Centro Studi Emigrazione (CSER) “Migrazioni a
fumetti, esperienze editoriali e progetti culturali sulla mobilità umana”. Tra
i vari ospiti intervenuti durante l’incontro, ha preso parola anche il
Consigliere del Maeci Giovanni Maria De Vita, coordinatore del Progetto Turismo
delle Radici. “Attraverso il fumetto – ha esordito De Vita – noi abbiamo
pensato di stimolare l’attenzione del pubblico sull’emigrazione italiana
attraverso un linguaggio nuovo, che è vicino ai giovani, e che richiede
un’attenzione minore rispetto a leggere i meravigliosi volumi della storia
dell’emigrazione italiana”. In proposito il Consigliere ha ricordato il lavoro
realizzato anni fa sulla storia degli italiani in Belgio: “una iniziativa che
ci è pervenuta dal Comites di Bruxelles, che ci ha chiesto un finanziamento per
questo progetto, progetto che è stato poi condiviso finanziariamente dalle
amministrazioni delle Fiandre e dalla Wallonia. Così nasce la storia degli
italiani in Belgio, una storia importante, che parla di questa odissea dei
nostri italiani, tra l’altro, con un’attenzione a quello che gli italiani hanno
dovuto patire e con riferimento anche ai molti gruppi etnici che stanno
arrivando oggi in Italia. Devo dire – ha aggiunto De Vita – che la bellezza di
questo fumetto è quella di raccontare una storia davvero significativa, cioè
quella degli italiani in Belgio, che ha portato ed una accettazione della
comunità e all’ottenimento di successi attraverso l’impegno ed il sacrificio”.
“Vi è stata poi – ha proseguito De Vita – l’iniziativa del Comites di Parigi,
con un libro a fumetti dedicato alla storia degli italiani famosi sepolti nel
cimitero Père-Lachaise. Dopo di che abbiamo avuto il Comites di Zurigo,
che ha realizzato una storia su un fenomeno molto drammatico dell’emigrazione
italiana, che è quella dei bambini nascosti. Nel libro si parla di questa
bambina immaginaria ma nel contesto di una storia vera. Dopo di che hanno
abbiamo avuto le esperienze di Buenos Aires e Belo Horizonte, ed ora siamo in
attesa di New York”. Ha poi preso la parola la illustratrice e fumettista
Simona Binni che collabora con il Maeci nell’Ambito del Progetto del Turismo
delle Radici. “Io penso – ha rilevato Binni – che il fumetto sia
importantissimo come strumento di divulgazione, ed è un modo per sensibilizzare
in particolar modo le nuove generazioni e avvicinarle a temi come quello
dell’emigrazione. Di sicuro il fumetto si serve della potenza dell’immagine, io
da disegnatrice passo molto tempo a cercare di immedesimarmi nei personaggi che
poi vado a raccontare, quindi spesso e volentieri entro nelle espressioni di
dolore, di gioia delle loro vite attraverso la mia matita. Ma io credo che – ha
proseguito la fumettista – che la cosa straordinaria del fumetto sia quella di
riuscire a mettere insieme la potenza dell’immagine, con quella della parola.
Allo stesso tempo il fumetto consente di soffermarsi su ciò che si legge dando
anche la possibilità di poter tornare indietro. In una epoca in cui è tutto tanto
veloce, poter tornare a riflettere sulle cose, poter voltare nuovamente la
pagina, io credo che sia un recupero del nostro tempo estremamente importante”.
Binni si è poi soffermata sulla sua storia a fumetti intitolata “Sotto lo
stesso cielo”, in cui si parla della storia di una ragazza argentina di nome
Cynthia, con dei nonni italiani, che si sono trasferiti in Argentina. Nel
fumetto la protagonista della storia parte per l’Italia alla ricerca delle
proprie origini e dei luoghi da dove proviene la sua famiglia. Ma quando è
giunto il momento di ritornare in Argentina la protagonista capisce – spiega
Binni – che “il nostro posto è dove resta il nostro cuore”. (Lorenzo Morgia-
Inform/dip 12)
Incentivi al rientro, la proposta del CGIE: “Un portale unico nazionale”
ROMA – Garantire
la diffusione sistematica di tutti i provvedimenti riguardanti il rientro e
l’attrattività dei territori, rafforzando e sviluppando il lavoro già impostato
dalle Commissioni tematiche del Consiglio Generale degli Italiani all’Estero: è
questo l’impegno assunto dal sottocomitato per gli incentivi al rientro,
interno al Comitato di Presidenza, promosso e coordinato dal vicesegretario
generale per l’Europa e l’Africa del Nord Giuseppe Stabile, che è stato
costituito a seguito della recente firma del protocollo d’intesa con il
Commissario straordinario della Presidenza del Consiglio dei Ministri per la
ricostruzione delle aree colpite dal sisma del 2016. Tra gli obiettivi
principali figurano, spiega il Cgie : la diffusione coordinata e capillare
delle informazioni sugli incentivi al rientro; la creazione di un meccanismo
organico di monitoraggio e aggiornamento; il rafforzamento della capacità del
sistema Italia di attrarre capitale umano e investimenti. Il sottocomitato
intende coinvolgere all’estero le autorità diplomatico-consolari, le Camere di
Commercio, l’ICE e le associazioni affinché veicolino attraverso i propri
canali istituzionali e con eventi dedicati le misure statali, regionali e
locali in essere, anche attraverso un bollettino informativo digitale dedicato,
redatto con un linguaggio semplice e mirato alle diverse categorie interessate
(pensionati, giovani, ricercatori, professionisti, imprese).
Allo scopo si
propone, precisa il Cgie, l’istituzione di un osservatorio permanente che
si avvalga del contributo dei Ministeri competenti (MAECI, Turismo, MIMIT,
Affari Europei/PNRR, MEF), delle Regioni e dell’ANCI, cui sono state
indirizzate missive in merito, nonché delle Associazioni e dei Com.It.Es. con
il compito di mappare e aggiornare periodicamente le misure disponibili,
rilevare il numero di italiani che hanno beneficiato degli incentivi, elaborare
proposte di miglioramento e nuove misure in base ai dati raccolti, che dovranno
essere convogliati in un Portale unico nazionale multilingue sugli incentivi
(aggiornato e facilmente navigabile, con schede sintetiche per ogni misura e
guide pratiche per l’accesso), collegato ai siti istituzionali competenti, che
raccolga in maniera organica tutte le misure esistenti. Tali iniziative,
attuabili senza oneri per lo Stato, rafforzano, sottolinea il Cgie, politiche
economiche e fiscali di attrattività e favoriscono il rientro di competenze,
imprese e famiglie, contribuendo al ripopolamento delle aree interne e al
potenziamento dei servizi consolari e territoriali. (Inform/dip 13)
Was Migranten über Merz‘
„Stadtbild“ sagen
Wie kommt die „Stadtbild“-Debatte bei Migranten an? Viele
sind nicht wirklich überrascht, denn sie kennen solche Aussagen aus dem Alltag.
Und haben interessante Techniken entwickelt, damit umzugehen. Von Christoph
Driessen
Cossu (36) ist eigentlich so deutsch, wie man sein kann. Er
ist geboren und aufgewachsen im Schwarzwald, in Haslach im Kinzigtal. Dennoch
wurde er ziemlich oft gefragt: „Wem gheastn?“ Das ist Badisch und bedeutet:
„Wem gehörst du?“ – „Woher kommst du?“ Die Frage nach der Zugehörigkeit also.
Seine Antwort war immer: „Ussem Schwarzwald.“ Das meinten die Leute aber nicht.
Sie meinten, wo er ursprünglich herkommt. Denn Cossu ist Schwarz.
Die „Stadtbild“-Äußerung von Bundeskanzler Friedrich Merz
(CDU) hat Cossu deshalb nicht wirklich überrascht. „Dadurch dass ich schon mein
ganzes Leben lang mit solchen Sprüchen konfrontiert bin, war ich jetzt nicht
irgendwie empört oder schockiert.“ Wobei es „schon nochmal ’ne andere Nummer“
sei, dass das jetzt ein Bundeskanzler so raushaue. Merz hatte unter anderem
gesagt, die Bundesregierung korrigiere frühere Versäumnisse in der
Migrationspolitik. „Aber wir haben natürlich immer im Stadtbild noch dieses Problem,
und deswegen ist der Bundesinnenminister ja auch dabei, jetzt in sehr großem
Umfang auch Rückführungen zu ermöglichen und durchzuführen.“
Am Montag war er bei seiner Haltung geblieben und hatte
nachgelegt: „Fragen Sie mal Ihre Töchter, was ich damit gemeint haben könnte.“
Am Mittwoch konkretisierte er, Probleme würden diejenigen Migranten machen, die
keinen dauerhaften Aufenthaltsstatus hätten, die nicht arbeiteten und die sich
nicht an die in Deutschland geltenden Regeln hielten.
Die Debatte, die Merz’ Äußerungen auslösten, ist so groß wie
schon lange keine mehr. In vielen deutschen Städten gab es Demonstrationen, im
Netz wird heftig diskutiert. Der Rapper Eko Fresh hat sogar einen Song dazu
rausgebracht, Titel „Friedrich“. Darin singt er: „Lieber Friedrich, du hast
echt bezaubernde Töchter. Wir auch – aber unsere hausen in Löchern. Junkies im
Flur, Hochhaus mit Verbrechern, aber nicht, dass du denkst, dass wir Ausländer
meckern.“
Was ist es, was die Äußerung von Merz so brisant macht?
Haci-Halil Uslucan, Professor für Türkeistudien an der Universität
Duisburg-Essen, sieht die Ursache in dem Wort „Stadtbild“. „Stadtbild“ zielt
auf etwas Unveränderliches ab. „Wenn man sagt ‚Die Migranten müssen besser
Deutsch lernen‘, dann ist das etwas, was man ändern, kann. Beim Stadtbild aber
geht es darum, wie jemand aussieht. Und das kann man nicht ändern.“
Badischer Dialekt als Brücke zur Mehrheitsgesellschaft
Cossu – mit bürgerlichem Namen Lukas Staier – hat seinen aus
dem Kongo stammenden Vater nie kennengelernt. Seine Mutter ist Deutsche. „Ich
bin quasi weiß sozialisiert“, erzählt er der Deutschen Presse-Agentur. Und doch
merkte er schon als kleiner Junge, dass er anders wahrgenommen wurde. Nicht
voll dazugehörte. „Für Familie und Freunde gilt das nicht, aber wenn ich Leute
getroffen habe, die mich nicht kannten, dann kamen da erstmal fragende Blicke –
eben wegen der Optik.“
Er hat sich dann schon früh etwas ausgedacht, um dem zu
begegnen: Er sprach bewusst badisch. „Da habe ich richtig so mein Steckenpferd
draus gemacht, weil ich Wege gesucht habe, Zugang zu anderen zu bekommen, ihnen
ihre Ängste zu nehmen.“ Visuell mochte er vielleicht nicht als typischer
Deutscher wahrgenommen werden, aber dieser Eindruck wurde durch die Akustik
gleichsam korrigiert. Im Laufe der Zeit entwickelte Cossu ein richtiges Faible
für deutsche Dialekte. Irgendwann postete er auf Social Media erste Dialekt-Videos,
die solche Renner wurden, dass er mittlerweile hauptberuflicher Comedian ist.
In seinem neuesten Video setzt er sich mit der
„Stadtbild“-Äußerung von Merz auseinander: „Was kann ich denn noch machen?“,
fragt er schulterzuckend – ein Gefühl, das er derzeit mit vielen Menschen mit
Migrationsgeschichte teilt. „Es irritiert Zuwanderer enorm, dass sie sich
einerseits integrieren sollen, aber doch nie voll als Teil der Gesellschaft
anerkannt werden“, erläutert Uslucan. „‘Integrier dich – aber dazu gehörst du
nicht‘ – das ist eine widersinnige Botschaft.“
Türkischstämmiger Berliner gibt Friedrich Merz recht
CDU-Politiker verteidigen Merz damit, dass er gerade auch
vielen Migranten aus der Seele spreche. Auch die seien nämlich mit dem
Verhalten vieler Neuankömmlinge und besonders krimineller Ausländer ohne
Bleiberecht nicht einverstanden.
Einer, der tatsächlich so denkt und das auch offen
ausspricht, ist Burak I??kda?l?o?lu (38), Urberliner, Sohn türkischer
Einwanderer und zweiter Vorsitzender des Fußballclubs BAK. Er macht dort die
Jugendarbeit, hat ein Flüchtlingsprojekt für Afghanen und Syrer betreut. Die
Entwicklung der vergangenen Jahre sieht er aber negativ: „Wir zum Beispiel als
Sportvereine sagen: Wenn in einer Fußballmannschaft 100 Prozent der Spieler mit
Migrationshintergrund sind, kann da keine Integration funktionieren. Wir brauchen
eine gesunde Mischung.“
Die sei aber auch nicht mehr gegeben, wenn in manchen
Straßen nur noch Läden aus einer Kultur zu finden seien. „Vielfalt bedeutet für
mich den türkischen Imbiss, aber auch den Griechen und den deutschen Bäcker und
Metzger.“ I??kda?l?o?lu bemerkt ein Unsicherheitsgefühl sowohl bei
alteingesessenen Deutschen als auch bei Migranten, die in Deutschland geboren
seien: „Die fragen sich: Was passiert eigentlich mit unserem Land?“
Tatsache ist, dass Zuwanderer ähnlich wählen wie der
Durchschnitt. „Wir haben ein bisschen weniger Grün, ein bisschen weniger
CDU/CSU und dafür mehr SPD“, sagt der Politikwissenschaftler Andreas Wüst von
der Hochschule München. Auch die AfD werde gewählt, besonders von
Russlanddeutschen. Auch bei den Einstellungen ergäben sich keine großen
Unterschiede, so sei ein ähnlich hoher Anteil der Wahlberechtigten mit
Migrationshintergrund für eine Begrenzung von Migration und halte sowohl das
Beherrschen der deutschen Sprache als auch den Erhalt von Traditionen in
Deutschland für wichtig.
„Für diese Leute sind und bleiben wir die Ausländer“
Integrationsforscher Uslucan weist noch auf einen anderen
Aspekt hin: „Die Erfahrung der Zuwanderer, die schon lange hier leben – zweite,
dritte, vierte Generation -, ist, dass die Mehrheitsgesellschaft zwischen ihnen
und den neu dazugekommenen Geflüchteten etwa aus Syrien nicht unterscheidet. Es
wird eben nicht gesagt: ;Du bist schon seit 30 Jahren hier, du gehörst dazu –
und du nicht;, sondern es werden alle über einen Kamm geschert. Und das löst
ein Bedürfnis nach Abgrenzung aus.“
Cossu unterstellt Merz keinen Rassismus. „Aber er befördert
Rassismus. Denn viele Leute hören das, denken sich ihren Teil – und das kriegen
Menschen wie ich dann auf der Straße zu spüren. Denn für diese Leute sind und
bleiben wir ‚die Ausländer‘.“ Cossu weiß deshalb schon genau, was er Merz sagen
würde, wenn er ihn mal treffen würde. Das wäre: „Schwätz mir kei‘ Roscht ans
Mofa.“
(dpa/mig 29)
Studie offenbart tiefe Vorurteile. Jeder
Zweite glaubt an „Islamisierung“ Deutschlands
Fast die Hälfte der Deutschen meint, der Islam unterwandere
die Gesellschaft. Noch mehr sind überzeugt, man dürfe „nichts Schlechtes über
Ausländer sagen“. Eine neue Studie zeigt, wie weit rechtspopulistische
Denkmuster in der Mitte der Gesellschaft verankert sind.
Der Anteil der Deutschen mit einem rechtspopulistischen
Weltbild ist laut einer Studie der Universität Hohenheim konstant. Er liege bei
17 Prozent, in der AfD-Anhängerschaft bei 84 Prozent, teilte die Universität in
Stuttgart mit. Für die jährliche Erhebung befragte das
Meinungsforschungsinstitut Forsa im Auftrag der Forscher im August und
September 4.057 Bundesbürger ab 16 Jahren. Den Befragten wurden 18 Aussagen
vorgelegt. Sie sollten angeben, wie stark sie diesen Aussagen zustimmen oder
wie stark sie diese ablehnen.
„Rechtspopulisten verwenden immer wieder die gleichen
Erzähl-Elemente“, beobachtet der Kommunikations- und Politikwissenschaftler
Prof. Dr. Frank Brettschneider und zählt auf: „1. Es gibt einen einheitlichen
‚Volkswillen‘. 2. Dieser wird von inneren und äußeren Mächten unterdrückt. 3.
Zu den inneren Mächten zählen die politischen Eliten und die Massenmedien. 4.
Zu den äußeren Mächten zählen die EU, die Globalisierung und der Islam.“
Islam und Ausländer – tiefe Vorurteile
Zur Einstellung gegenüber dem Islam gibt die Studie weitere
Einblicke. Danach stimmt knapp jeder Zweite (49 Prozent) der Aussage ganz oder
teilweise zu, die deutsche Gesellschaft werde durch den Islam unterwandert. In
Ostdeutschland (57 Prozent) erntet diese Aussage deutlich mehr Zustimmung als
in Westdeutschland (48 Prozent).
Deutlicher fällt das Meinungsbild der Befragten zu folgender
Aussage aus: „In Deutschland darf man nichts Schlechtes über Ausländer sagen,
ohne gleich als Rassist zu gelten.“ Hier stimmten 64 Prozent der Befragten der
Aussage voll oder eingeschränkt zu. Ähnliches Bild auch im Ost-West-Vergleich:
72 bzw. 63 Prozent.
Geheime Organisationen, Medienlügen, Volksbetrug
Wie aus der Studie weiter hervorgeht, glaubt gut ein Viertel
der Befragten, dass geheime Organisationen großen Einfluss auf politische
Entscheidungen haben. Ein Fünftel sei davon überzeugt, Massenmedien würden die
Bevölkerung „systematisch belügen“. Knapp ein Viertel meine, die Regierenden
„betrügen das Volk“. In Ostdeutschland stimmten sogar 35 Prozent dieser Aussage
zu. 25 Prozent der Befragten meinten: „Die Regierung verschweigt der
Bevölkerung die Wahrheit.“ In Ostdeutschland lieg der Anteil bei 37 Prozent.
Im Osten Deutschlands sei der Anteil der Befragten mit einem
solchen Weltbild höher (28 Prozent) als im Westen (15 Prozent). Je höher die
formale Bildung der Befragten, desto geringer sei der Anteil derjenigen, die
über ein populistisches Weltbild verfügen. Am höchsten sei der Anteil bei den
45- bis 59-jährigen Männern (23 Prozent), am niedrigsten bei den über
60-jährigen Frauen (9 Prozent).
Größte Unterschiede zwischen Grüne- und AfD-Wählern
„Der größte Unterschied besteht zwischen der Anhängerschaft
der Grünen und der Anhängerschaft der AfD: 84 Prozent der AfD-Anhängerschaft
haben ein populistisches Weltbild. Bei der Anhängerschaft der Grünen ist es
noch nicht einmal ein Prozent“, so Prof. Brettschneider. Es sei gerechtfertigt,
überwiegend von „Rechtspopulismus“ zu sprechen. Denn unter den Befragten, die
sich politisch selbst als stark rechts einstufen, beträgt der Populismus-Anteil
68 Prozent. Unter den Befragten, die sich politisch selbst als stark links
einstufen, liegt der Anteil bei sechs Prozent.
Bemerkenswert findet der Politikwissenschaftler ein weiteres
Ergebnis: „Menschen mit einem populistischen Weltbild beurteilen die
Lebensqualität in ihrem Bundesland deutlich schlechter als in allen anderen.
Sie blicken auch weniger optimistisch in ihre persönliche Zukunft. Und sie
glauben überdurchschnittlich oft, dass früher alles viel besser war.“ Es läge
nahe, hier auch eine Verbindung zur häufigen Nutzung von
Social-Media-Plattformen zu ziehen. „Auf einigen Social-Media-Kanälen
überwiegen negative Meldungen. Sie verbreiten Weltuntergangs-Stimmung. Und wer
sich dann – durch Algorithmen gesteuert – dem Doomscrolling hingibt, glaubt
irgendwann, die Welt sei dem Untergang geweiht“, so der Experte. (epd/mig 28)
Atomwaffen erleben ein gefährliches Comeback. Ohne neue
Rüstungskontrolle droht der Welt ein atomares Armageddon. Von Rolf Mützenich
Der kürzlich in den Kinos und auf Netflix erschienene
Thriller A House of Dynamite greift auf eindringliche Weise ein Thema auf,
das nach dem Ende des Kalten Kriegs lange Zeit als überwunden galt: die Gefahr
eines atomaren Armageddons. In dem Film von Kathryn Bigelow entdeckt das
US-Militär plötzlich eine Interkontinentalrakete über dem Pazifik, die
innerhalb weniger Minuten das US-Festland erreichen könnte. Aus
unterschiedlichen Perspektiven erzählt der Film, wie politische und
militärische Entscheidungsträger versuchen, auf die Krise zu reagieren. Dabei
wird deutlich, wie verwundbar wir trotz hoch entwickelter Abwehrsysteme und
strategischer Planspiele sind und wie rasch ein einzelner Angriff mit
Atomwaffen binnen Minuten in eine globale Katastrophe eskalieren könnte.
Der Film ist kein fernes Gedankenspiel, sondern spiegelt ein
zunehmend realistisches Szenario unserer Gegenwart wider. Die Zeiten, in denen
der damalige US-Präsident Barack Obama 2009 in Prag die Vision einer
atomwaffenfreien Welt vorantrieb, wirken heute wie aus einer längst vergangenen
Epoche. Stattdessen erleben wir, wie atomare Drohungen wieder offen
ausgesprochen werden, wie taktische Nuklearschläge in den strategischen
Überlegungen der Großmächte als ernsthafte militärische Option diskutiert werden,
wie Abrüstungs- und Rüstungskontrollverträge auslaufen oder aufgekündigt
werden, wie nukleare Arsenale modernisiert und neue Trägersysteme entwickelt
werden. Die bittere Wahrheit ist: Die Gefahr eines atomaren Konflikts ist heute
wohl so groß wie noch nie zuvor. Wir stehen an der Schwelle eines neuen
nuklearen Zeitalters, das noch komplexer, unberechenbarer und unsicherer ist
als das sogenannte „Gleichgewicht des Schreckens“ während des Kalten Kriegs.
Der geopolitische Kontext hat sich in den vergangenen Jahren
dramatisch verändert. Seit dem russischen Angriff auf die Ukraine hat Moskau
seine Nukleardoktrin verschärft und wiederholt mit einem Einsatz atomarer
Waffen gedroht. Gleichzeitig baut China sein Atomwaffenarsenal massiv aus.
Bei einer Militärparade zur Feier des 80. Jahrestags des Siegs im Zweiten
Weltkrieg präsentierte Peking im September erstmals seine vollständige nukleare
Triade. Nach Angaben des Stockholmer Friedensinstituts SIPRI verfügt die
Volksrepublik inzwischen über mindestens 600 Atomwaffensprengköpfe. Experten
gehen davon aus, dass diese Zahl bis 2035 auf 1 500 Sprengköpfe ansteigen und
damit das Niveau des amerikanischen und des russischen Nukleararsenals
erreichen könnte.
Die Welt bewegt sich derzeit auf ein neues tri- oder gar
multipolares nukleares Zeitalter zu. Gegenwärtig verfügen neun Staaten über
Atomwaffen, darunter die fünf ständigen Mitglieder des UN-Sicherheitsrats sowie
Israel, Indien, Pakistan und Nordkorea. Doch angesichts wachsender globaler
Unsicherheiten und geopolitischer Spannungen erwägen immer mehr Länder, eigene
nukleare Fähigkeiten zu entwickeln. Erst am 17. September 2025 unterzeichneten
Saudi-Arabien und die Atommacht Pakistan ein neues Verteidigungsabkommen, das
eine gegenseitige Beistandsklausel enthält. Der Pakt ist nicht nur ein Signal
an potenzielle regionale Rivalen, sondern verdeutlicht auch die sich wandelnde
Machtordnung im Nahen Osten, in der die USA nicht mehr als zuverlässiger
Sicherheitsgarant wahrgenommen werden.
Diese regionalen Verschiebungen sind zugleich Teil einer
weitreichenderen globalen Entwicklung: Die Pax Americana weicht allmählich
einer multipolaren Weltordnung, in der die USA nicht länger willens oder in der
Lage sind, die internationale Stabilität allein zu gewährleisten. Das
schwindende Vertrauen in die amerikanischen Sicherheitsgarantien führt dazu,
dass inzwischen nicht mehr nur Gegner des Westens, sondern selbst enge
Verbündete der USA wie Japan und Südkorea im Indopazifik und auch europäische Staaten
offen über eigene nukleare Kapazitäten nachdenken. Vor dem Hintergrund dieser
Entwicklungen warnte jüngst der Generaldirektor der Internationalen
Atomenergie-Organisation (IAEO), Rafael Grossi, in einem Interview mit
Repubblica vor einer Welt mit 20 bis 25 Nuklearwaffenstaaten.
Es ist allerdings höchst fraglich, ob eine multipolare Welt
mit über 20 Atomwaffenstaaten tatsächlich zu größerer Sicherheit beitragen
würde. Das Konzept der Abschreckung setzt eine gewisse Rationalität und
Berechenbarkeit der handelnden Akteure voraus. Doch je mehr Akteure über
Atomwaffen verfügen, desto größer wird das Risiko von irrationalem Verhalten,
von Fehleinschätzungen, Missverständnissen, technischen Unfällen und
Eskalationsdynamiken. Zugleich erschwert eine wachsende Zahl nuklearer Akteure
die Schaffung verbindlicher Regeln für Abrüstung und Rüstungskontrolle
erheblich.
Das bestehende System der Abrüstung und der
Rüstungskontrolle steht ohnehin am Rand des Zusammenbruchs. Sowohl Russland als
auch die USA haben in den vergangenen Jahren den
Mittelstrecken-Nuklearstreitkräfte-Vertrag INF wie auch den Vertrag über den
offenen Himmel aufgekündigt. Mit dem Auslaufen des New START-Vertrags im
Februar 2026 droht schließlich der Verlust des letzten verbliebenen
Rüstungskontrollabkommens zwischen den beiden größten Nuklearmächten. Zwar hat
Putin kürzlich eine einjährige Verlängerung des Vertrags vorgeschlagen, doch
ist weiterhin ungewiss, ob diese oder gar ein Nachfolgeabkommen tatsächlich
zustande kommen.
Sollten Putin und Trump jedoch zu einer Verständigung über
New START kommen, wären auch Deutschland und Europa gefragt, konkrete
Vorschläge für den Erhalt der multilateralen Rüstungskontrolle und einer
künftigen europäischen Sicherheitsordnung zu machen. So könnte man etwa die in
Deutschland geplante Stationierung amerikanischer Mittelstreckenraketen im
kommenden Jahr in ein Angebot zur Rüstungskontrolle einbetten, falls Moskau im
Gegenzug seine landgestützten Atomraketen zurückzieht.
Gleichzeitig ist jedoch klar, dass substanzielle
Fortschritte im Bereich der Abrüstung und der Rüstungskontrolle bis zum Ende
des Kriegs in der Ukraine nicht zu erwarten sind. Hinzu kommt, dass sich China
bislang weigert, an Gesprächen über nukleare Rüstungskontrolle und
Risikominimierung teilzunehmen. Peking betont, dass sein nukleares Arsenal nach
wie vor wesentlich kleiner als das der USA und Russlands sei. Für Washington
ist Chinas atomare Aufrüstung allerdings längst zu einer strategischen Priorität
geworden. Damit wächst die Gefahr, dass die Welt in eine Phase eintritt, in der
mehr als 20 Staaten über Atomwaffen verfügen, ohne dass verbindliche
Rüstungskontrollverträge oder Abkommen zur Risikominimierung existieren.
Es ist daher höchste Zeit, die zum Stillstand gekommenen
Bemühungen zur Abrüstung und Rüstungskontrolle mit neuem Leben zu füllen. Im
Fokus sollten dabei die Begrenzung der strategischen Nuklearwaffenarsenale und
der Erhalt der noch existierenden Verträge stehen. Ebenso notwendig ist es,
auch Peking und andere aufstrebende Nuklearmächte in eine neu zu schaffende
internationale Rüstungskontrollarchitektur einzubinden und die weitere
Proliferation von Kernwaffen zu verhindern. Der Atomwaffensperrvertrag ist hierfür
unentbehrlich. Die Überprüfungskonferenz im kommenden Jahr muss dazu beitragen,
die Nichtverbreitung wieder zu stärken. Ein gemeinsames Schlussdokument wäre in
der gegenwärtigen internationalen Lage ein wichtiges Signal. Zugleich bleibt
die UN unverzichtbar für eine Nichtverbreitungspolitik und muss endlich
finanziell, personell und strukturell so ausgestattet werden, dass sie ihre
Aufgaben wirksam erfüllen kann. Dabei können wir auf Partner aus dem Globalen
Süden zählen, die sich bereits lange für Abrüstung einsetzen und zukünftig die
internationale Ordnung stärker mitgestalten wollen. Brasilien, Indonesien und
Südafrika sind beispielsweise Mitglieder regionaler Verträge über
kernwaffenfreie Zonen. Hier gilt es Rückhalt zu schaffen.
Darüber hinaus benötigen wir Maßnahmen zur Risikoreduzierung
und Transparenz. Dazu gehören direkte militärische Kontakte, die Ankündigung
und Beobachtung von Manövern sowie gemeinsame Kommunikationskanäle zur
Krisenprävention. Künftige Rüstungskontrollabkommen müssen zudem auch neue
Risiken, die durch künstliche Intelligenz oder Hyperschallwaffen und im Cyber-
und Weltraum entstehen, berücksichtigen.
In den vergangenen Jahrzehnten ist es der internationalen
Gemeinschaft gelungen, die Gefahr eines nuklearen Armageddons durch Kooperation
und Vertrauensbildung bei der Abrüstung und Rüstungskontrolle zu mindern. Dies
ist auch weiterhin möglich und notwendig. Voraussetzung dafür ist und bleibt
allerdings der politische Wille der relevanten Akteure, an dem es in den
vergangenen Jahren ganz offensichtlich gemangelt hat. IPG 28
Deutlich mehr Abschiebungen im
laufenden Jahr
Im laufenden Jahr wurden bisher deutlich mehr Menschen
abgeschoben als im Vorjahr. Die meisten von ihnen wurden in die Türkei und nach
Georgien geflogen. Zugleich sinkt die Zahl neuer Asylanträge. Die Linke
kritisiert die Entwicklung.
Die Zahl der Abschiebungen aus Deutschland ist in den ersten
drei Quartalen 2025 gegenüber dem Vorjahreszeitraum gestiegen. Von Januar bis
einschließlich September dieses Jahres gab es 17.651 Abschiebungen im Vergleich
zu 14.706 Abschiebungen 2024, wie aus der Antwort des Bundesinnenministeriums
auf eine Anfrage der Linksfraktion hervorgeht, die dem MiGAZIN vorliegt. Zuerst
hatte die „Neue Osnabrücker Zeitung“ berichtet.
Die meisten Betroffenen wurden der Statistik zufolge in die
Türkei (1.614) und nach Georgien (1.379) abgeschoben. Zu den zwölf häufigsten
Zielländern gehören außerdem europäische Staaten sowie Marokko. Bei fast jeder
fünften Person (3.095) handelte es sich um ein Kind oder Jugendlichen. 275
Personen waren zwischen 60 und 70 Jahre alt, 54 Menschen älter als 70 Jahre.
Weniger Asylanträge
Unterdessen beantragten im laufenden Jahr bisher 87.787
Menschen erstmals Asyl, wie aus Zahlen des Bundesamts für Migration und
Flüchtlinge hervorgeht. 2024 wurden 229.751 Erstanträge registriert. Ebenfalls
im Gesamtjahr 2024 wurden laut Bundesregierung mehr als 20.000 Menschen
abgeschoben. Die Zahl der Rückführungen näherte sich damit erstmals wieder dem
Niveau von 2015 bis 2019. Im Jahr 2020 war sie auf 10.800 gefallen.
Die innenpolitische Sprecherin der Linksfraktion im
Bundestag, Clara Bünger, kritisierte die Entwicklung scharf. „Wenn es darum
geht, die Zahl der Abschiebungen in die Höhe zu treiben, kennen die Behörden
kaum noch Tabus“, sagte sie der Zeitung. Auch vor Abschiebungen von
Kindern oder alter und kranker Menschen schreckten die Verantwortlichen nicht
zurück. „Diese Politik verletzt die Menschenwürde der Betroffenen, sorgt für
Angst und Schrecken unter Personen mit unsicherem Aufenthaltsrecht, und sie
macht das Leben der Menschen in Deutschland kein Stück besser oder sicherer“,
betonte Bünger. (epd/dpa/mig 27)
Vatikan-Vertreter bei der UNO:
Aufrüstung ist eine Illusion
Der Ständige Beobachter des Heiligen Stuhls bei den
Vereinten Nationen, Erzbischof Gabriele Caccia, hat die internationale
Gemeinschaft dringend dazu aufgerufen, von der „Illusion der Sicherheit durch
Waffen“ abzulassen. In einer thematischen Diskussion zu konventionellen Waffen
vor dem Ersten Ausschuss der 80. Sitzung der UN-Generalversammlung am Freitag
kritisierte der Nuntius die unkontrollierte Verbreitung von Rüstungsgütern
scharf. Von Mario Galgano
Der Erzbischof bezeichnete die anhaltende Proliferation und
den Missbrauch konventioneller Waffen als ein erhebliches Hindernis für die
Erreichung von Frieden und Vertrauen in den internationalen Beziehungen.
„Anstatt Stabilität zu fördern, nährt ihre ungezügelte
Verbreitung Misstrauen, befeuert Gewalt und untergräbt den Dialog zwischen
Staaten.“
Militärausgaben als „zutiefst beunruhigend“
Besonders besorgniserregend sei der dramatische Anstieg der
weltweiten Militärausgaben, die im vergangenen Jahr die „schwindelerregende“
Summe von 2,7 Billionen US-Dollar erreicht hätten. Solch eine enorme Zuteilung
von Ressourcen widerspreche dem Streben nach dem Gemeinwohl. Erzbischof Caccia
zitierte Papst Leo XIV. dazu mit deutlichen Worten:
„Wie können wir weiterhin den Wunsch der Völker der Welt
nach Frieden mit der Propaganda der Aufrüstung verraten, als ob militärische
Überlegenheit Probleme lösen würde, anstatt noch größeren Hass und Rachegelüste
zu schüren?“
Anstatt essenzielle humanitäre Bedürfnisse und die
ganzheitliche menschliche Entwicklung zu unterstützen, verewigten diese
Ressourcen Muster der Angst und Spaltung.
Forderung nach Verbot autonomer Waffensysteme
Der Heilige Stuhl äußerte tiefe Besorgnis über die jüngsten
Rückzüge von der Ottawa-Konvention über Antipersonenminen. Diese Waffen fügten
Einzelpersonen, Gemeinschaften und der Umwelt wahllosen und dauerhaften Schaden
zu.
Caccia forderte die gleichen Bedenken für alle
Waffensysteme, die ohne sinnvolle menschliche Kontrolle und Aufsicht operieren.
Er betonte, dass Entscheidungen über Leben und Tod nicht an Maschinen
abgetreten werden dürften. Daher unterstütze der Heilige Stuhl nachdrücklich
den Aufruf des UN-Generalsekretärs zur Aushandlung eines rechtsverbindlichen
Instruments zum Verbot tödlicher autonomer Waffensysteme bis zum nächsten Jahr.
Bis dahin müssten alle Staaten auf deren Entwicklung und Einsatz verzichten.
Zudem forderte der Vatikan ein dringendes Ende des Einsatzes
von explosiven Waffen in besiedelten Gebieten, wozu auch Streumunition gehöre.
Solche Einsätze hätten unterschiedslose Auswirkungen, indem sie Schulen,
Krankenhäuser und Gotteshäuser zerstören.
Illegale Verbreitung von Kleinwaffen
Ebenso dringlich sei das Problem des illegalen Handels mit
Kleinwaffen und leichten Waffen (SALW). Die unrechtmäßige Verbreitung dieser
Waffen fordere einen hohen Tribut von den Schwächsten der Gesellschaft,
insbesondere von Kindern. Diese würden allzu oft in kriminelle oder
terroristische Gruppen rekrutiert, ihrer Unschuld und Bildung beraubt und ihnen
werde eine Zukunft verwehrt.
Die vatikanische Delegation rief die internationale
Gemeinschaft dazu auf, die bestehenden Rahmenwerke vollständig umzusetzen, und
äußerte die Hoffnung auf konkrete Fortschritte bei der Neunten Zweijährlichen
Tagung der Staaten zu Kleinwaffen und leichten Waffen im Juni.
Zum Abschluss appellierte Erzbischof Caccia an die UN,
unaufhörlich einen Frieden anzustreben, der auf Dialog, Gerechtigkeit und der
Würde jedes menschlichen Lebens gründe. (vn 25)
80 Jahre UN-Charta. Die
regelbasierte Weltordnung zerbröselt
Die aggressive Politik der Großmächte drängt die Vereinten
Nationen 80 Jahre nach ihrer Gründung ins politische Abseits. Bei der Lösung
von Konflikten spielt die Weltorganisation kaum noch eine Rolle – es gilt immer
mehr das Recht des Stärkeren. Von Jan Dirk Herbermann
Die Vereinten Nationen sind in die Jahre gekommen: Die
Weltorganisation feiert 2025 ihren 80. Geburtstag. Und der Jubilar befindet
sich in keinem guten Zustand. Vor allem die USA drängen die UN politisch ins
Abseits und lassen sie finanziell ausbluten. US-Präsident Donald Trump hält
nichts von gleichberechtigter Kooperation der 193 Staaten und macht aus seiner
Verachtung für die internationale Organisation keinen Hehl. Die UN liefere nur
„leere Worte“, höhnte Trump im September in der Vollversammlung. Die Organisation
schaffe sogar „allzu oft neue Probleme, die wir lösen müssen“.
In seiner Rede verwies Trump auch auf eine Rolltreppe und
einen Teleprompter, für deren Versagen er die UN verantwortlich machte. Trump
ist ausgerechnet Präsident des Landes, das 80 Jahren entscheidend auf die
Gründung der UN pochte und noch immer das wichtigste Mitglied ist. Richard
Gowan, UN-Direktor der International Crisis Group, betont: „Insgesamt
betrachtet die Trump-Regierung die UN als links und israelfeindlich, sie wird
der UN auch in den kommenden Jahren großen finanziellen und politischen Schaden
zufügen.“
Andere Großmächte wie Russland scheren sich ebenso nicht um
die Prinzipien der UN, deren Kerngeschäft die Schaffung und Sicherung des
Friedens ist. Die Präsidentin der UN-Vollversammlung und ehemalige deutsche
Außenministerin, Annalena Baerbock (Grüne), sagte: „In ihrem achtzigsten Jahr
gehen die UN durch eine Zeit existenzieller Herausforderungen.“
Acht Dekaden später
Als die Staatenvertreter im Frühjahr 1945 in San Francisco
zur UN-Gründung eintrafen, war der Zweite Weltkrieg noch nicht zu Ende. Nach
mehreren Wochen einigte sich die Delegationen auf ein UN-Modell, das neben den
USA, auch die Sowjetunion und Großbritannien entworfen hatten. Am 26. Juni 1945
unterzeichneten die Gesandten aus 50 Ländern die Charta der Vereinten Nationen.
Am 24. Oktober desselben Jahres trat sie in Kraft – am Freitag vor 80 Jahren.
Im Artikel 1 der Charta gelobten die Gründungsmitglieder, „Bedrohungen des
Friedens zu verhüten und zu beseitigen, Angriffshandlungen und andere
Friedensbrüche zu unterdrücken“. Den Begriff des Friedens schrieben die
Verfasser an 52 Stellen in die Charta.
Doch acht Dekaden später zerbröselt die regelbasierte
Weltordnung mit den UN im Mittelpunkt – die hehren Versprechen der UN-Charta
sind gebrochen. Es sind auch die USA, die ein neues Zeitalter durchdrücken: In
dieser Ära gilt das Recht des Stärkeren. „Was Trump will, ist eine Welt, die
von mächtigen Männern gemanagt wird“, schreibt die Politikwissenschaftlerin
Stacie E. Goddard. Die Folge: die UN haben bei der Lösung der bewaffneten
Konflikte und Krisen kaum noch etwas zu sagen – weder als Vermittler noch durch
Entscheide des UN-Sicherheitsrats. „Die UNO zeichnet sich durch ihre
Abwesenheit als Friedensstifter aus“, erläutert Experte Gowan.
Kaum Einfluss, weniger Geld
Beispiel Krieg Israel gegen den Iran im Juni 2024: Die UN
standen im Abseits. Es war der US-Präsident, der einen Waffenstillstand
verkündete. Beispiel Gaza-Krieg: Schon vor dem gewaltsamen Terrorüberfall der
Hamas auf Israel am 7. Oktober 2023 und dem Zurückschlagen des jüdischen
Staates hatten die Vereinten Nationen im Nahost-Konflikt kaum etwas zu melden.
Die USA setzten die Waffenruhe durch. Israel erklärte UN-Generalsekretär
António Guterres zur „Persona non grata“ und verbot das Palästinenserhilfswerk der
UNRWA auf seinem Staatsgebiet. Beispiel Russlands Angriffskrieg gegen die
Ukraine: Die Gesandten des russischen Präsidenten Wladimir Putin blockieren
alle Versuche im Sicherheitsrat, den imperialistischen Raubzug zu beenden.
Ausgerechnet in einer Zeit, in der Gewalt und Krieg immer
mehr Menschen ins Elend stürzen, muss die gesamte Organisation mit deutlich
weniger Geld auskommen und sich reformieren. Bis Mitte Oktober hatten erst 141
der 193 Mitgliedsländer ihre vollen Beiträge für das reguläre UN-Budget 2025
entrichtet. Unter den säumigen Staaten befanden sich auch die USA, der
traditionell größte Beitragszahler. Darüber hinaus strich das Trump-Team einen
Großteil der Milliarden-Überweisungen an humanitäre Hilfsorganisationen der UN.
Die Folge: Die UN müssen in diesem Jahr die Versorgung für mehr als 60
Millionen bedürftige Menschen einstellen. Die meisten von ihnen sind Opfer der
Kriege und Konflikte, die nicht enden wollen. (epd/mig 24)
Merz rudert zurück. Können auf
Menschen mit Migrationserfahrung nicht verzichten
Wegen seiner „Stadtbild“-Äußerung steht Bundeskanzler Merz
seit Tagen in der Kritik. Nach anfänglicher Verweigerung hat er seine Aussage
nun doch konkretisiert – und betont, dass es auch in Zukunft Einwanderung
brauche. Sprachwissenschaftler sehen bei Merz ein Muster, Experten warnen vor
verbaler Zuspitzung. Davon profitiere nur die AfD.
Nach der teils scharfen Kritik an der „Stadtbild-Äußerung“
hat Bundeskanzler Friedrich Merz (CDU) seine Aussage konkretisiert. Es brauche
auch in Zukunft Einwanderung, sagte Merz am Mittwochabend bei einem Besuch in
London: „Das gilt ebenso für Deutschland wie für alle Länder der Europäischen
Union.“
Bereits heute seien viele Menschen mit Migrationshintergrund
„unverzichtbarer Bestandteil unseres Arbeitsmarktes“, sagte der Kanzler und
betonte: „Wir können auf sie gar nicht mehr verzichten, ganz gleich, woher sie
kommen, welcher Hautfarbe sie sind und ob sie erst in erster oder schon in
zweiter, dritter oder vierter Generation in Deutschland leben und arbeiten.“
„Die meisten von ihnen sind auch schon Staatsbürger unserer Länder“,
unterstrich Merz: „Das gilt auch für Deutschland.“
Merz konkretisiert „Problem“
Zugleich sagte Merz, Probleme machten diejenigen, „die
keinen dauerhaften Aufenthaltsstatus haben, nicht arbeiten und sich auch nicht
an unsere Regeln halten“. Viele von ihnen bestimmten das öffentliche Bild in
den Städten. „Deshalb haben mittlerweile so viele Menschen in Deutschland und
in anderen Ländern der Europäischen Union – das gilt nicht nur für Deutschland
– einfach Angst, sich im öffentlichen Raum zu bewegen.“
Der CDU-Politiker hatte vergangene Woche im Zusammenhang mit
Migration von einem „Problem im Stadtbild“ gesprochen und als Lösung auf
Rückführungen „im großen Umfang“ verwiesen. Die Aussage wurde sowohl in den
sozialen Medien als auch von Vertreterinnen und Vertretern aus Politik und
Wirtschaft als diskriminierend und teilweise als rassistisch kritisiert.
Rückendeckung bekam Merz hingegen unter anderem vom bayerischen
Ministerpräsidenten Markus Söder (CSU).
Sprachwissenschaftlerin kritisiert scharf
Auch die Sprachwissenschaftlerin Constanze Spieß kritisierte
„Stadtbild“-Äußerung von Merz scharf. „Mit der Äußerung macht sich Merz
sprachliche Muster der extremen Rechten zu eigen“, sagte die Sprecherin der
Jury für das „Unwort des Jahres“ dem Evangelischen Pressedienst. Merz stärke
mit solchen Äußerungen die AfD, statt Wählerinnen und Wähler zurückzugewinnen.
Besonders problematisch sei, dass Merz Migration pauschal
mit Rückführungen verknüpfe, kritisierte Spieß. Damit stelle er Migration in
einen bestimmten Rahmen, nämlich als nicht rechtmäßig. „Das ist ein Muster, das
Merz auch schon im Wahlkampf bedient hat, indem er oft Illegalität und
Kriminalität verknüpft hat“, sagte Spieß. Die „Stadtbild“-Äußerung reihe sich
in eine ganze Serie problematischer Aussagen von Merz ein. So habe der
Bundeskanzler 2023 von „kleinen Paschas“ gesprochen oder behauptet, abgelehnte
Asylbewerber würden deutschen Bürgern die Zahnarzttermine wegnehmen.
Demokratieforscher: Merz bedient Ressentiments
Der Leipziger Demokratieforscher Oliver Decker vermutet
hinter der umstrittenen Äußerung von Merz keinen verbalen Ausrutscher, sondern
ein bewusstes Manöver. „Herr Merz bewegt sich mit Absicht an eine Grenzlinie“,
sagte Decker der Deutschen Presse-Agentur. Der Kanzler spreche bestimmte
Ressentiments selbst nicht offen aus, „aber er weiß, dass die Hinweise
verstanden werden und er damit gleichzeitig die Ressentiments bedient, ohne den
Teil der CDU vor den Kopf zu stoßen, die sie nicht teilen“.
Hintergrund sei, dass sich die CDU derzeit in einer
Zwickmühle befinde, sagte Decker, der das an der Universität Leipzig
angesiedelte Else-Frenkel-Brunswik-Institut leitet. „Es gibt Kräfte in ihr, die
es zur AfD hinzieht, und ebensolche, für die die AfD-Programmatik mit den
CDU-Werten nicht vereinbar ist.“ Zwischen diesen Polen versuche Merz mit seinen
„eher geraunten als ausgesprochenen Ressentiments zu manövrieren“.
Politologe: So gewinnt die AfD
Demokratieforscher Hans Vorländer warnt hat vor einem
Bedeutungsverlust konservativer Parteien durch die Übernahme
rechtspopulistischer Positionen. Wer beim Thema Migration explizit zuspitze,
„kann damit nicht gewinnen“, sagte der Direktor des Zentrums für Verfassungs-
und Demokratieforschung an der Technischen Universität Dresden der in Berlin
erscheinenden „tageszeitung“: „Das gilt gerade für Mitte-rechts-Parteien, die
glauben, sie müssten die AfD rechts überholen. Das geht nicht gut.“
Erfahrungen aus anderen Ländern zeigten, „dass dann
konservative Parteien zerrieben werden zwischen einer demokratischen Mitte und
den Rechtspopulisten und Rechtsextremen“. Trotz eines harten Kurses in der
Migrationsfrage wachse die Zustimmung für die AfD weiter. Konservative Parteien
sollten vielmehr zeigen, „dass sie die politischen Probleme besser lösen
können“. Sie müssten klarmachen, „dass die Rechtsradikalen keine Lösungen
anbieten, nur Stimmungen erzeugen und Ressentiments mobilisieren“, sagte Vorländer.
Klingbeil: „Nicht Menschen verlieren, die dazugehören“
Merz hatte in den vergangenen Tagen viel Kritik vor allem
aus der Opposition, aber auch vom Koalitionspartner SPD und selbst aus der
eigenen Partei einstecken müssen. Vor seinem Statement in London schaltet sich
sein Vizekanzler Lars Klingbeil ein. „Ich möchte in einem Land leben, in dem
Politik Brücken baut und Gesellschaft zusammenführt, statt mit Sprache zu
spalten“, hielt der SPD-Chef dem CDU-Vorsitzenden auf einem
Gewerkschaftskongress in Hannover entgegen. „Und ich sage euch auch: Ich möchte
in einem Land leben, bei dem nicht das Aussehen darüber entscheidet, ob man ins
Stadtbild passt oder nicht.“
Man müsse in der Politik „höllisch aufpassen, welche
Diskussion wir anstoßen, wenn wir auf einmal wieder in ‚wir‘ und ‚die‘
unterteilen, in Menschen mit Migrationsgeschichte und ohne“. Bei einem
Bürgergespräch in Potsdam ergänzte er: „Wir müssen aufpassen, dass wir an
dieser Stelle nicht Menschen verlieren, die dazugehören.“ Der SPD-Chef sagte:
„Ich würde dem Kanzler nie was Schlechtes unterstellen, weil ich ihn kenne. (…)
Aber trotzdem sage ich als SPD-Vorsitzender meine Meinung.“
Demonstrationen gehen weiter: 1.500 Teilnehmer in Kiel
Die Demonstrationen als Reaktion auf die Äußerungen des
Kanzlers gingen unterdessen weiter. Nach einer Kundgebung in Berlin am Dienstag
unter dem Motto „Wir sind die Töchter!“ mit mehreren Tausend Teilnehmerinnen
und Teilnehmern demonstrierten am Mittwoch in Kiel 1.500 Menschen. In Köln ist
am Donnerstag eine weitere Demonstration geplant. Das Bündnis „Solidarisches
Magdeburg“ rief ebenfalls zu einer Demo auf. Die Organisatoren wollen ein
Zeichen für Vielfalt und Offenheit setzen.
Außerdem stieß die Initiative „Radikale Töchter“ eine
Online-Petition an, die nach Angaben der Plattform innn.it innerhalb von 24
Stunden von etwa 100.000 Menschen unterzeichnet wurde. In dem Aufruf heißt es:
„Wir sind die Töchter, die keine Angst vor Vielfalt haben – aber vor Ihrer
Politik. Wir sind die Töchter, die sich für Ihren Rassismus nicht einspannen
lassen. (epd/dpa/mig 24)
Papst: Migranten werden wie Müll
behandelt und Völker ausgeraubt
Mit ungewohnt scharfen Worten hat Papst Leo XIV. soziale
Ungerechtigkeiten angeprangert und zu einem Wandel aufgerufen. Es brauche mehr
Gerechtigkeit und Solidarität, so das Kirchenoberhaupt bei einer Begegnung mit
Vertretern Sozialer Bewegungen im Vatikan. Im Fokus hat er auch die
„Kollateralschäden“ durch neue Technologien, die unmenschliche Behandlung von
Migranten und die Ausbreitung neuer synthetischer Drogen wie Fentanyl, das
besonders in den USA verheerend wirkt. Von Salvatore Cernuzio und Christine Seuss
Ausgeraubte, bestohlene, geplünderte Völker, in Armut
gezwungen; verletzliche Migranten, Opfer von Missbrauch und behandelt wie
„Müll“. Dann alte und neue Drogen (wie Fentanyl), die sich ungehindert
ausbreiten; Überschwemmungen, Tsunamis, Erdbeben, die die Klimakrise sichtbar
machen; der Profit, der immer mehr zur Götzenverehrung wird, ebenso wie der
Kult des Körpers und des körperlichen Wohlbefindens.
Die Gerechtigkeit scheine zu versagen, machtlos angesichts
neuer Technologien, die den Fortschritt ebenso fördern wie die Ungleichheit;
Arbeitslosigkeit, Ausgrenzung, Ausbeutung; eine allgemeine „entmenschlichende“
Tendenz sozialer Ungerechtigkeiten und die exponentielle Vergrößerung der Kluft
zwischen einer „kleinen Minderheit“ – dem berühmten einen Prozent der
Weltbevölkerung – also den Reichen und der überwältigenden Mehrheit der Armen.
Verweise auf Franziskus und Leo XIII.
Diese und andere scharfe Anklagen sind in der Ansprache von
Papst Leo enthalten, die er an die Vertreter von Volksbewegungen gerichtet hat,
die sich zu ihrem 5. Welttreffen im Vatikan versammelt haben. Vielleicht hart
wie nie zuvor in seinem Pontifikat zeichnet Papst Leo XIV. ein düsteres Bild
der heutigen Epoche, in einer langen – knapp 19 Seiten umfassenden – Rede, die
mit Verweisen auf das Lehramt seines Vorgängers Papst Franziskus durchsetzt
ist. Dieser hatte die Treffen der Sozialen Bewegungen ins Leben gerufen.
Ähnlich bedeutsame Verweise finden sich auch auf den Papst, der die erste
Sozialenzyklika verfasste und Leo XIV. eigener Aussage nach zu seiner
Namenswahl inspirierte, nämlich Leo XIII. und seine Rerum Novarum.
Doch über Anklagen und Appelle hinaus ermutigt Papst Leo
auch zur Tat, zur Prophetie, zur „Poesie“ und vor allem zur Hoffnung: auf
Veränderung, auf einen erneuerten Weg der „Gerechtigkeit, der Liebe und des
Friedens“, auf „neue Dinge“ – Rerum novarum eben, wie der Titel der berühmten
Enzyklika seines Vorgängers von der Schwelle zwischen dem 19. und dem 20.
Jahrhundert. Und auf seinen direkten Vorgänger Franziskus gehen die „neuen“
Welttreffen der Menschen zurück, die sich an der Basis für eine soziale Veränderung
einsetzen, unter der Überschrift „Tierra, techo, trabajo“ – „Erde, Haus und
Arbeit“:
„Im Einklang mit den Forderungen von Franziskus sage ich
heute: Erde, Haus und Arbeit sind heilige Rechte. Es lohnt sich, für sie zu
kämpfen, und ich will, dass ihr mich sagen hört: ‚Ich bin dabei! Ich bin mit
euch!‘“, so das Versprechen von Leo XIV..
Prophetische Bedeutung
Etwa zweitausend Menschen hatten sich in der Aula Paolo VI.
versammelt, um den Papst zu treffen und seinen ermutigenden Worten zu lauschen.
Vertreten waren Aktionisten aus den „Peripherien“ aller Kontinente: Arme,
Migranten, Landarbeiter, Müllsammler. Sie sind in einer „Prozession“ gekommen –
aus dem ,Spin Time Lab', dem Gebäude im römischen Stadtteil Esquilino, das von
etwa 400 Menschen in Not zu Wohn- und Sozialzwecken besetzt und zum
Hauptquartier der Sozialen Bewegungen in Rom geworden ist.
Am Freitag werden sie ihre Jubiläumsfeier in Rom
durchführen, begleitet von Bischöfen oder anderen Vertretern ihrer Diözesen,
mitten im Herzen der Weltkirche, wie von Franziskus erträumt. Diesen Weg, so
erklärt Papst Leo in seiner Ansprache, wolle er nun fortsetzen; den Weg eines
Papstes, der „in diesen Jahren oft mit eurer Realität im Dialog stand und ihre
prophetische Bedeutung in einer von vielfältigen Problemen gezeichneten Welt
hervorgehoben hat“.
Misshandlungen und Unmenschlichkeit gegenüber Migranten
Dabei sieht man sich allerdings dramatischen Problemen
gegenüber – angefangen mit dem der Migranten: „Die Staaten haben das Recht und
die Pflicht, ihre Grenzen zu schützen, doch dies sollte im Gleichgewicht stehen
mit der moralischen Verpflichtung, Zuflucht zu gewähren“, erklärt Leo XIV. in
diesem Zusammenhang.
Er verurteilt den „Missbrauch der verletzlichen Migranten“,
vor dem „wir nicht den legitimen Gebrauch nationaler Souveränität erleben,
sondern vielmehr schwere Verbrechen, die vom Staat begangen oder geduldet
werden“: „Es werden zunehmend unmenschliche Maßnahmen ergriffen – sogar
politisch gefeiert – um diese ‚Unerwünschten‘ zu behandeln, als wären sie Müll
und keine Menschen.“
Ungestillte Grundbedürfnisse
Mit gleicher Schärfe richtet Leo XIV. den Finger auf die
negativen Auswirkungen der technologischen Entwicklung auf Gesundheit, Bildung,
Arbeit, Verkehr, Urbanisierung, Kommunikation, Sicherheit und Verteidigung.
Dabei weist er zunächst auf das „Paradox“ hin, dass
Millionen Menschen keinen Zugang zu Land, Nahrung, Wohnung und Arbeit haben,
während „Mobiltelefone, soziale Netzwerke und sogar künstliche Intelligenz
Millionen von Menschen zugänglich sind“ – auch den Armen.
„Sorgen wir dafür, dass, wenn raffiniertere Bedürfnisse
befriedigt werden, die grundlegenden nicht vernachlässigt werden“, so der
eindringliche Appell des Kirchenoberhauptes.
Klimakrise und „virtuelle“ Krise
Kurzum, der Papst spricht von einer „schlechten Verwaltung“,
die „unter dem Vorwand des Fortschritts Ungleichheiten erzeugt und vergrößert.
Und weil sie nicht die Menschenwürde ins Zentrum stellt, versagt das System
auch in der Gerechtigkeit.“
Einen nach dem anderen zählt der Papst die
„Kollateralschäden“ auf; an erster Stelle die Klimakrise, vielleicht das
deutlichste Beispiel, mit ihren extremen Wetterereignissen. „Wer leidet am
meisten darunter? Immer die Ärmsten“, so die Antwort des Papstes auf eine auch
von seinem Vorgänger oft aufgeworfene – rhetorische – Frage.
Sowohl diejenigen, deren spärliches Hab und Gut vom Wasser
weggeschwemmt wird, als auch „Bauern, Landwirte und indigene Bevölkerungen“,
die ihre Ländereien, Identität und lokale Produktion durch die fortschreitende
Verwüstung verlieren.
Soziale Netzwerke befeuern Unsicherheiten
Dann folgt der Gedankensprung hin zur Krise, die von den
sozialen Netzwerken genährt wird:
„Wie kann ein armer junger Mensch hoffnungsvoll und ohne
Angst leben, wenn die sozialen Medien ständig hemmungslosen Konsum und
wirtschaftlichen Erfolg verherrlichen, die völlig unerreichbar sind?“
Und wie könnte man die Abhängigkeit vom digitalen
Glücksspiel vergessen, mit Plattformen, die darauf ausgelegt sind,
„Zwangsabhängigkeit“ und „Gewöhnung“ zu erzeugen, gibt Leo in seinem
Rundumschlag gegen die Auswüchse der modernen Zivilisation zu bedenken.
Die Verwüstung durch alte und neue Drogen
Der Bischof von Rom schweigt auch nicht über die „Neuheit“
oder besser gesagt „Mehrdeutigkeit“ der Pharmaindustrie:
„In der heutigen Kultur, nicht ohne die Hilfe bestimmter
Werbekampagnen, wird eine Art Kult des körperlichen Wohlbefindens propagiert,
fast eine Vergötzung des Körpers. Und in dieser Sichtweise wird das Geheimnis
des Leidens verkürzt interpretiert; das kann auch zur Abhängigkeit von
Schmerzmitteln führen, deren Verkauf natürlich die Gewinne derselben Hersteller
steigert.“
Insbesondere richtet der Papst den Blick auf seine Heimat,
die Vereinigten Staaten, die von der Opioidabhängigkeit verwüstet werden:
„Man denke zum Beispiel an Fentanyl, die Droge des Todes,
die dort die zweithäufigste Todesursache unter den Armen ist.“
„Die Ausbreitung neuer synthetischer Drogen, immer
tödlicher, ist nicht nur ein Verbrechen der Drogenhändler, sondern eine
Realität, die mit der Medikamentenproduktion und ihrem gewinnorientierten
System zu tun hat – ohne globale Ethik“, betont Leo XIV.
Die Ausbeutung von Bodenschätzen in armen Ländern
Er kritisiert weiter die Entwicklung der neuen Informations-
und Kommunikationstechnologien, die auf der Förderung von Mineralien aus den
Minen armer Länder basiert. Das Coltan in der Demokratischen Republik Kongo zum
Beispiel, dessen Abbau „von paramilitärischer Gewalt, Kinderarbeit und der
Vertreibung von Bevölkerungen abhängt“. Oder Lithium, das „weiße Gold“, das den
Wettbewerb zwischen Großmächten und Unternehmen anheizt und „eine ernste
Bedrohung für die Souveränität und Stabilität armer Staaten“ darstellt – mit
Unternehmern und Politikern, die „sich rühmen, Staatsstreiche und andere Formen
politischer Destabilisierung zu fördern“, um sich dieser Ressourcen zu
bemächtigen.
Soziale Dichter
Das aktuelle Panorama ist also schon verheerend, ohne dabei
überhaupt die aktuellen bewaffneten Konflikte angesprochen zu haben – und doch
zeigt sich Papst Leo nicht hoffnungslos: Ermutigt durch den Anblick der
Sozialen Bewegungen, der Zivilgesellschaft und der Kirche, die diese neuen
Formen der Entmenschlichung frontal angehen und unablässig bezeugen, dass der
Bedürftige unser Nächster, unser Bruder und unsere Schwester ist.
„Das macht euch zu Champions der Menschlichkeit, zu Zeugen
der Gerechtigkeit, zu Dichtern der Solidarität“, zu „Baumeistern der
Solidarität in der Vielfalt“, unterstreicht Leo:
„Die Kirche muss mit euch sein: eine arme Kirche für die
Armen, eine Kirche, die sich beugt, eine Kirche, die Risiken eingeht, eine
mutige, prophetische und freudige Kirche!“
Keine Ideologie, sondern Evangelium
Wichtig sei jedoch, dass der Dienst stets von der Liebe
beseelt sei, „der größten aller Tugenden“.
Denn, so sagt der Papst, auch aus seiner missionarischen
Erfahrung in Peru schöpfend:
„Wenn Genossenschaften und Arbeitsgruppen gebildet werden,
um die Hungrigen zu speisen, Obdachlosen Schutz zu bieten, Schiffbrüchige zu
retten, sich um Kinder zu kümmern, Arbeitsplätze zu schaffen, Zugang zu Land zu
ermöglichen und Häuser zu bauen, dann dürfen wir nicht vergessen: das ist keine
Ideologie – das ist das gelebte Evangelium.“
Im Zentrum des Evangeliums stehe nämlich „das Gebot der
Liebe“:
„Und so müssen die Sozialen Bewegungen, noch vor dem Streben
nach Gerechtigkeit, vom Verlangen nach Liebe bewegt sein – gegen jeden
Individualismus und jedes Vorurteil.“
Die „Globalisierung der Ohnmacht“ bekämpfen
All das, betont der Papst, „ist ein Gegengift gegen eine
strukturelle Gleichgültigkeit, die sich immer weiter ausbreitet“. Wo Franziskus
von der „Globalisierung der Gleichgültigkeit“ sprach, erkennt Leo nun eine –
vielleicht auch schlimmere - „Globalisierung der Ohnmacht“. Diese müsse mit
einer „Kultur der Versöhnung und des Engagements“ bekämpft werden.
„Die Volksbewegungen füllen diese Leere, die aus Mangel an
Liebe entstanden ist, mit dem großen Wunder der Solidarität – gegründet auf die
Fürsorge für den Nächsten und auf die Versöhnung.“
Blick von den Peripherien her
Leo XIV. ermutigt angesichts dieses Panoramas zur Arbeit und
zum Handeln: „Heute möchte ich mit euch auf die ‚neuen Dinge‘ blicken –
ausgehend von der Peripherie.“ Denn von den Peripherien aus „erscheinen die
Dinge anders“, während „vom Zentrum aus wenig Bewusstsein für die Probleme der
Ausgeschlossenen besteht; und wenn darüber in politischen oder wirtschaftlichen
Diskussionen gesprochen wird, hat man den Eindruck, es handle sich um eine
Nebensache.“
Die Peripherien riefen „oft nach Gerechtigkeit, und ihr
schreit nicht aus Verzweiflung, sondern aus Sehnsucht“, fügt der Papst hinzu.
„Euer Schrei sucht Lösungen in einer Gesellschaft, die von ungerechten Systemen
beherrscht wird. Und ihr tut das nicht mit Mikroprozessoren oder
Biotechnologien, sondern auf der elementarsten Ebene – mit der Schönheit des
Handwerks.“: „Und das ist Poesie …“, so Leo XIV. eindringlich.
Ethische Leere
Darüber hinaus, so der Papst, stehe man „einer ethischen
Leere gegenüber“, hervorgerufen durch die Krise der Gewerkschaften des 20.
Jahrhunderts, die immer weniger werden, und durch den Zusammenbruch der
sozialen Sicherungssysteme, die die Armen noch „verwundbarer und weniger
geschützt“ gemacht haben.
„Die sozialen Institutionen der Vergangenheit waren nicht
perfekt, aber indem man den Großteil von ihnen zerstört und das, was bleibt,
mit unwirksamen Gesetzen und nicht umgesetzten Abkommen schmückt, macht das
System die Menschen verwundbarer als zuvor“, merkt der Papst an.
Deshalb, so Leone XIV, seien die Volksbewegungen, zusammen
mit Gläubigen und Regierungen, „dringend aufgerufen, diese Leere zu füllen,
Prozesse der Gerechtigkeit und Solidarität einzuleiten, die sich in der
gesamten Gesellschaft ausbreiten“.
Die Kirche an der Seite
„So wie die Kirche in der Vergangenheit die Entstehung der
Gewerkschaften begleitet hat, müssen wir heute die Sozialen Bewegungen
begleiten!“, versichert der Nachfolger Petri.
„Die Kirche unterstützt euren gerechten Kampf für Erde, Haus
und Arbeit. Wie mein Vorgänger Franziskus glaube auch ich, dass die richtigen
Wege von unten und von der Peripherie zum Zentrum führen. Eure zahlreichen und
kreativen Initiativen können sich in neue öffentliche Politiken und soziale
Rechte verwandeln.“ (vn 23)
Wie Künstliche Intelligenz und Automatisierung die Schere
zwischen Arm und Reich vergrößert – und was wir dagegen tun können. Von Branko
Milanovic
Wie jeder technologische Fortschritt seit der industriellen
Revolution zielen die neuen Technologien darauf ab, menschliche Arbeit durch
Maschinen zu ersetzen. Auch die Künstliche Intelligenz steht in dieser
Tradition. So gesehen unterscheidet sie sich nicht von der selbsttätigen
Spinnmaschine, die in den 1820er Jahren die Baumwollindustrie veränderte: Sie
ersetzt menschliche Arbeitskraft, wobei dies heute auf einem deutlich höheren
Niveau menschlicher Fähigkeiten geschieht. Diese Entwicklung war in vielerlei
Hinsicht vorhersehbar. Denn historisch betrachtet, stieg das
Qualifikationsniveau der Arbeitskräfte, die durch Maschinen verdrängt wurden,
kontinuierlich an – beginnend mit einfachen, monotonen Tätigkeiten, wie sie
einst von Sklaven verrichtet wurden, bis hin zu immer anspruchsvolleren Formen
menschlicher Arbeit.
Aus Verteilungssicht ergibt sich das Problem, dass mit der
Substitution von Arbeit durch Kapital auch ein immer größerer Anteil des
Nationaleinkommens dem Kapital zufließt. Übertragen auf die realen Personen,
die diese Einkünfte erhalten, bedeutet das: Diejenigen, die neue Maschinen
entwickeln, sie zum Einsatz bringen oder die in neue Technologien investieren,
profitieren überproportional. Investoren sind per definitionem Menschen, die
Kapital besitzen und die damit zur obersten Schicht der Einkommensverteilung
zählen. Wenn der Anteil des Kapitals zunimmt, nimmt nahezu zwangsläufig auch
die Einkommensungleichheit insgesamt zu.
Das wirft natürlich die Frage auf, mit welchen politischen
Instrumenten den wachsenden Einkommensunterschieden Einhalt geboten werden
könnte – oder wie sie zumindest abgeschwächt werden könnten. Im Wesentlichen
gibt es drei Möglichkeiten: Erstens könnte das Kapitaleigentum breiter verteilt
werden, damit der wachsende Kapitalanteil sich nicht nur an der Spitze der
Gesellschaft bemerkbar macht. Zweitens ließen sich besonders hohe
Kapitaleinkünfte stärker besteuern als bisher. Und drittens könnte man bestimmte
neue Finanzaktivitäten verbieten, die Gewinne für die Beteiligten abwerfen,
aber keinen direkten wirtschaftlichen Nutzen bringen. Mit diesen drei
Möglichkeiten befasse ich mich im Folgenden.
Erstens: Kapitaleigentum breiter verteilen. Die
Kapitalkonzentration ist außerordentlich hoch. In Volkswirtschaften mit hohen
und mittleren Einkommen beziehen durchschnittlich 77 Prozent der Haushalte
keine oder fast keine zahlungswirksamen Erträge aus Kapital – wobei mit
„fast keine“ definitionsgemäß Erträge bis 100 Dollar pro Person und Jahr
gemeint sind. Kapital umfasst in diesem Zusammenhang nur – und das
sollte mitgedacht werden – Finanz- oder Produktionskapital, das seinem
Eigentümer zahlungswirksame Erträge einbringt. Es ist nicht gleichzusetzen mit
dem Vermögen von Haushalten, zu dem etwa selbst genutztes Wohneigentum,
Schmuck, Gemälde und Möbel gehören. Die Länder mit der breitesten Streuung von
Kapitaleinkünften – also mit dem geringsten Anteil an „Haushalten ohne
Kapital“ – sind Norwegen, Südkorea und interessanterweise China. Doch selbst
dort bezieht rund die Hälfte der Haushalte keine Kapitaleinkünfte. In den
Vereinigten Staaten liegt dieser Prozentsatz bei fast 60 Prozent, in anderen Ländern
mit hohem Einkommensniveau sogar bei über 70 Prozent.
Wie schon erwähnt, gibt es mit Blick auf die Künstliche
Intelligenz folgendes Problem: Wenn nur wenige Menschen über Finanz- und
Produktionskapital verfügen, werden von dessen wachsender wirtschaftlicher
Bedeutung am Ende nur diejenigen profitieren, die bereits Kapitalvermögen
besitzen. Dadurch werden die Reichen noch mächtiger und die
Vermögensungleichheit wird noch größer. Dies ist nicht erst dann der Fall, wenn
die Zahl der Haushalte mit „Nullvermögen“ steigt, sondern es genügt bereits,
wenn diejenigen an der Spitze der Vermögensverteilung noch reicher werden.
Wie lässt sich das Eigentum an Kapital breiter verteilen?
Diese Frage wurde schon früher aufgeworfen – bislang jedoch mit
bescheidenen Ergebnissen. Margaret Thatcher sprach einst vom
„Volkskapitalismus“. In der Praxis führte das vor allem zur Privatisierung von
Sozialwohnungen. Eine andere Möglichkeit, die dazu beitragen sollte, das
Eigentum auf die Arbeitnehmer zu verteilen, waren die
Mitarbeiterbeteiligungsprogramme (Employee Stock Ownership Plans, ESOP) in den
Vereinigten Staaten. Auch sie waren nur mäßig erfolgreich – was, wie
Isabel Sawhill betonte, vor allem daran lag, dass es für die Ausgabe von Aktien
an Arbeitnehmerinnen und Arbeitnehmer keine steuerlichen Anreize gab. Würden
Unternehmen steuerliche Vorteile erhalten, wenn sie Anteile an ihre
Beschäftigten ausgäben, würden vermutlich deutlich mehr ESOPs aufgelegt.
Tatsächlich gibt es keinen plausiblen Grund, warum CEOs Vergütungen in Form von
Unternehmensaktien erhalten sollten und Beschäftigte nicht. In einigen Ländern
wurden private Pensionsfonds genutzt, um zum einen leistungsbezogene
Rentensysteme abzuschaffen, die finanziell potenziell nicht tragbar waren, und
zum anderen um die Kapitaleinkünfte breiter zu verteilen.
Wenn Einkünfte aus privaten Renten mitgerechnet
werden, sinkt der Anteil der Haushalte ohne Kapitaleinkünfte in
Großbritannien von 84 auf 79 Prozent. Alle genannten Ansätze könnten gezielt
eingesetzt werden, um Kapitaleigentum auf mehr Menschen zu verteilen und so die
wachsende Einkommensungleichheit abzumildern, die mit der zunehmenden Anwendung
neuer Technologien wie der Künstlichen Intelligenz nahezu zwangsläufig
einhergeht.
Zweitens: Besteuerung besonders hoher Kapitaleinkünfte. Ein
weiteres Instrument, mit dem die wegen Kapitaleinkünften wachsende Ungleichheit
eingedämmt werden könnte, ist die Besteuerung von Kapital. Sie gilt oft als
einzige Lösung – doch die Besteuerung sollte, wie bereits angedeutet,
nur eine von mehreren Maßnahmen sein. Nicht jedes Problem lässt sich durch
höhere Abgaben beheben. In den Vereinigten Staaten werden Kapitaleinkünfte
paradoxerweise niedriger besteuert als vergleichbare Arbeitseinkommen: Der Grenzsteuersatz
beträgt für Arbeitseinkommen unter 100 000 Dollar pro Jahr 24 Prozent und für
Kapital 15 Prozent. Bei Einkommen über 400 000 Dollar ist die Differenz sogar
noch größer: 35 gegenüber 15 Prozent (siehe auch Ray D. Madoff in seiner
exzellenten Publikation The Second Estate: How the Tax Code Made an American
Aristocracy, die demnächst erscheint). Für eine höhere Besteuerung von Kapital
gäbe es also reichlich Spielraum.
Eine weitere Möglichkeit, die in vielerlei Hinsicht einer
Besteuerung gleichkommt, besteht darin, dass der Staat explizit Eigentümer
derjenigen neuen Technologien und Innovationen wird, deren Entwicklung
wesentlich durch öffentliche Mittel gefördert wurde – bei denen der
Staat möglicherweise als Angel Investor fungiert hat. Solche staatlichen
Beiträge werden oft übersehen. Mariana Mazzucato hat dieses Phänomen anhand
vieler Unternehmen im US-amerikanischenSilicon Valley überzeugend dokumentiert.
Ähnliches dürfte auch heute zu beobachten sein, und Staaten sollten sich nicht
scheuen, ihr Anrecht auf Beteiligung an den Kapitalerträgen geltend zu machen.
Die Entscheidung der US-Regierung, sich in erheblichem Umfang an Intel zu
beteiligen, ist in diesem Zusammenhang zu sehen. In Ländern wie China lässt
sich eine solche Eigentümerrolle des Staates noch leichter rechtfertigen, weil
die Regierung dort – direkt wie indirekt – eine noch größere Rolle bei der
Förderung von Innovationen spielt.
Drittens: Verbot schädlicher neuer Technologien. Eine letzte
Möglichkeit, zu verhindern, dass durch neue Technologien die Ungleichheit
verschärft wird, ist das Verbot einiger spekulativer Aktivitäten, die eindeutig
„unproduktiv“ sind. Das ist zweifellos der schwierigste und radikalste Ansatz.
Er sollte mit äußerster Vorsicht eingesetzt, gleichwohl aber nicht gänzlich
ausgeschlossen werden. Was in der Ökonomie als „unproduktive“ Tätigkeit gilt,
lässt sich nur schwer bestimmen. Theoretisch ist jede Form wirtschaftlicher
Aktivität – und damit auch das daraus erzielte
Einkommen – legitim, solange sie auf freiwilligen Transaktionen
zwischen Wirtschaftsakteuren basiert. In der Praxis gibt es jedoch Grenzen. Das
Handeln mit Drogen oder Waffen ist in vielen Ländern verboten, obwohl beides
auf freiwilligem Austausch zwischen wirtschaftlichen Akteuren beruhen kann. Im
Bereich der neuen Technologien gibt es ebenfalls Aktivitäten – vor
allem im Zusammenhang mit Kryptowährungen und Finanzspekulationen –, die
allem Anschein nach einzig und allein der Spekulation dienen. Durch sie wird
weder die Menge an Gütern oder Dienstleistungen gesteigert, noch die Verteilung
von Ressourcen verbessert. Viele dieser Aktivitäten haben eher
Lotteriecharakter: Einige wenige gewinnen, viele verlieren. Adam Smith bemerkte
bereits vor mehr als 250 Jahren in einer kaum beachteten Textpassage, dass es
umso mehr Verlierer gibt, je größer eine Lotterie ist. Die Möglichkeit eines
Verbots sollte daher nicht grundsätzlich verworfen werden – wohl aber
mit Bedacht und nur in Ausnahmefällen zum Einsatz kommen, etwa dann, wenn eine
Besteuerung schwer zu realisieren ist, oder eine Aktivität so „schädlich“ oder
für die Allgemeinheit so nachteilig wirkt, dass ein Verbot gerechtfertigt
erscheint.
Nur wenn der Staat diese drei Maßnahmen zugleich
umsetzt – in wechselnder Gewichtung und zu unterschiedlichen
Zeiten –, darf er darauf hoffen, dass er die zunehmende Ungleichheit in
vertretbaren Grenzen halten kann, ohne Innovation und die Einführung neuer
Technologien zu bremsen. Aipg 23
Statistisches Bundesamt. Einwanderer
in vielen Mangelberufen stark vertreten
Köche, Gerüstbauer, Straßenbahnfahrer: In vielen Berufen, in
denen Fachkräftemangel herrscht, sind viele Menschen mit
Einwanderungsgeschichte beschäftigt. In der öffentlichen Verwaltung sind sie
allerdings unterrepräsentiert. Experten sehen Aufholbedarf, um die
Arbeitsmarktzugänge für diese Gruppe zu verbessern.
In vielen Engpassberufen sind Beschäftigte mit
Einwanderungsgeschichte überdurchschnittlich stark vertreten. So hatten 60
Prozent der Beschäftigten in der Schweiß- und Verbindungstechnik im Jahr 2024
eine Einwanderungsgeschichte, wie das Statistische Bundesamt am Mittwoch in
Wiesbaden mitteilte. Sie selbst oder beide Elternteile waren also seit dem Jahr
1950 nach Deutschland eingewandert. In sogenannten Engpassberufen herrscht oder
droht laut Analyse der Bundesagentur für Arbeit ein Fachkräftemangel. Der Arbeitgeberverband
Pflege rief dazu auf, die Fachkräfterekrutierung zu stärken.
Die Referatsleiterin für Aus- und Weiterbildungsforschung am
Wirtschafts- und Sozialwissenschaftlichen Institut der gewerkschaftsnahen
Hans-Böckler-Stiftung, Magdalena Polloczek, sagte, dass die Zahlen zeigten, wie
wichtig Einwanderung und Integration für unsere Gesellschaft seien. Personen
mit Einwanderungsgeschichte hielten unsere Wirtschaft am Laufen: „Sie arbeiten
oft in Berufen, die der grundlegend notwendigen Daseinsvorsorge zuzuordnen sind
und damit große gesellschaftliche Relevanz besitzen.“
In der Lebensmittelherstellung sowie bei Köchinnen und
Köchen traf dies laut Statistischem Bundesamt auf mehr als die Hälfte der
Beschäftigten zu (je 54 Prozent). Überdurchschnittlich hoch war der Anteil laut
Behörde auch im Gerüstbau (48 Prozent), unter den Fahrerinnen und Fahrern von
Bussen und Straßenbahnen (47 Prozent), in der Fleischverarbeitung (46 Prozent)
sowie unter Servicekräften in der Gastronomie (45 Prozent). In der
Gesamtwirtschaft hatte gut ein Viertel (26 Prozent) aller abhängig Beschäftigten
eine Einwanderungsgeschichte.
Deutlich unterrepräsentiert in der öffentlichen Verwaltung
Deutlich unterrepräsentiert waren Menschen mit
Einwanderungsgeschichte im Jahr 2024 dagegen im Bereich öffentliche Verwaltung,
Verteidigung und Sozialversicherung (12 Prozent), in der Versicherungsbranche
(14 Prozent), in der Energieversorgung und in der Landwirtschaft (je 15
Prozent). Im Bereich Erziehung und Unterricht mit 2,8 Millionen Beschäftigten
waren Menschen mit Einwanderungsgeschichte ebenfalls deutlich
unterrepräsentiert (17 Prozent).
Das Wirtschafts- und Sozialwissenschaftliche Institut der
Hans-Böckler-Stiftung betonte, dass es hier großen Aufholbedarf gebe, die
Bildungs- und Arbeitsmarktzugänge für Menschen mit Einwanderungsgeschichte zu
verbessern.
Appell: Fachkräfterekrutierung vereinfachen
Der Arbeitgeberverband Pflege rief die Bundesregierung auf,
die Fachkräfterekrutierung zu erleichtern. Sie bleibe „deutlich hinter dem
zurück, was nötig wäre, um Fachkräfteeinwanderung in der Pflege zu sichern.
Andere Länder sind unbürokratischer und schneller“, hieß es in einer
Mitteilung.
Man brauche dringend mehr Pflegepersonal, um eine steigende
Zahl Pflegebedürftiger zu versorgen. Schon heute hätten 33 Prozent der
Altenpflegerinnen und Altenpfleger eine Migrationsgeschichte. „Dass die
Beschäftigtenzahl in der Pflege weiterhin steigt, ist seit 2022 ausschließlich
durch Pflegepersonal aus dem Ausland möglich.“ (epd/mig 23)
UN: Erzbischof Caccia - Frieden
nicht durch Drohung möglich
Erzbischof Gabriele Caccia, Apostolischer Nuntius und
Ständiger Beobachter des Heiligen Stuhls bei den Vereinten Nationen, hat vor
der 80. UN-Generalversammlung die aktuellen Bestrebungen zur nuklearen
Aufrüstung scharf kritisiert. In seiner Ansprache bezeichnete er die Abkehr von
Atomwaffen als dringende moralische Verpflichtung und warnte vor den wachsenden
Gefahren durch den Einsatz künstlicher Intelligenz in Waffensystemen.
„Heute erlebt die Welt eine beunruhigende Wiederkehr von
Rhetorik, die mit dem Einsatz von Atomwaffen droht, begleitet von erneuten
Bestrebungen, die Arsenale auszubauen“, erklärt Erzbischof Gabriele Caccia,
Apostolischer Nuntius und Ständiger Beobachter des Heiligen Stuhls. In seiner
Rede am 21. Oktober im ersten Ausschuss der 80. Tagung der Generalversammlung
der Vereinten Nationen formulierte er eine klare Absage gegenüber derartiger
Aufrüstungsbestrebungen.
Das Thema Atomwaffen bleibe eine der größten Bedrohungen für
den internationalen Frieden und die Sicherheit, betont Caccia und schlägt
mahnend den Bogen zu den bisherigen Einsätzen nuklearer Waffensysteme. „Achtzig
Jahre sind vergangen seit dem ersten Atomtest in New Mexico und der Verwüstung
durch die Angriffe auf Hiroshima und Nagasaki. Das Leid und die Zerstörung, die
durch diese Ereignisse verursacht wurden, sind eine ernüchternde und bleibende
Mahnung an das katastrophale Potenzial dieser Waffen – und an die gemeinsame
Verantwortung, solche Tragödien künftig zu verhindern.“
„Frieden kann nicht auf der Drohung totaler Zerstörung oder
der Illusion aufgebaut werden, Stabilität könne aus gegenseitiger potenzieller
Vernichtung entstehen“
Abschreckung kein Mittel zum Frieden
Es sei ein Trugschluss, dass Abschreckung ein valides Mittel
sei, die internationale Sicherheit zu garantieren. „Frieden kann nicht auf der
Drohung totaler Zerstörung oder der Illusion aufgebaut werden, Stabilität könne
aus gegenseitiger potenzieller Vernichtung entstehen. Das ist sowohl moralisch
unhaltbar als auch strategisch untragbar.“
Gefahr durch KI
Besonders bereite dem Nuntius der Einsatz künstlicher
Intelligenz, um autonome Systeme zu entwickeln, große Sorge. Laut ihm bergen
solche Innovationen die Gefahr, Entscheidungszeiträume zu verkürzen, die
menschliche Kontrolle zu verringern und damit das Risiko von Fehleinschätzungen
und Irrtümern zu erhöhen. Er warnte davor, dass ein solcher Einsatz ein
„beispielloses Maß an Unsicherheit“ schüre und die anhaltende Aufmerksamkeit
der internationalen Gemeinschaft erfordere.
„Die Bemühungen zur Kontrolle, Begrenzung, Reduzierung und
letztlichen Abschaffung von Atomwaffen sind kein unrealistisches Ziel, sondern
eine reale Möglichkeit und eine dringende moralische Verpflichtung“
Abrüstung statt neuer Resourchen
Er forderte als Vertreter des Heiligen Stuhls alle
Atomwaffenstaaten nachdrücklich auf, „ihren Verpflichtungen gemäß Artikel VI
des Vertrags über die Nichtverbreitung von Kernwaffen (NVV) nachzukommen und in
gutem Glauben zu verhandeln, mit dem Ziel, ihre Bestände zu verringern und
schließlich zu beseitigen“, sagte Caccia. Der Heilige Stuhl bekräftige seine
feste Überzeugung, „dass die Bemühungen zur Kontrolle, Begrenzung, Reduzierung
und letztlichen Abschaffung von Atomwaffen kein unrealistisches Ziel, sondern
eine reale Möglichkeit und eine dringende moralische Verpflichtung sind.“
Die „gewaltigen Ressourcen“, die in Rüstung investiert
werden, stünden im Widerspruch zu „wahrer Sicherheit, dem Schutz des Lebens,
der Förderung von Gerechtigkeit und dem Aufbau von Frieden“, so der Nuntius,
der zu einer menschengerechten Sicherheitsvision aufrief, „die auf Dialog,
Brüderlichkeit und der Achtung der jedem Menschen von Gott verliehenen Würde
gründet.“ (vn 22)
Experte kritisiert Aus der
beschleunigten Einbürgerung
Forscher Herbert Brücker vom Institut für Arbeitsmarkt- und
Berufsforschung (IAB) kritisiert das Aus der schnelleren Einbürgerung. Dadurch
werde die Einwanderung von Fachkräften beeinträchtigt, sagt er im Gespräch. Er
sieht eine Verschlechterung des politischen und gesellschaftlichen Klimas für
Migranten. Von Dirk Baas
Kritiker sehen in der jetzigen Reform des
Staatsangehörigkeitsgesetzes, die Verlängerung der Einbürgerungsfrist wieder
auf fünf Jahre, ein fatales integrationspolitisches Signal ausgesendet. Halten
Sie diese Sicht für schlüssig?
Herbert Brücker: Grundsätzlich hilft die Einbürgerung der
Integration. Eingebürgerte Menschen erreichen nicht nur genauso hohe oder
höhere Erwerbstätigenquoten wie die deutsche Bevölkerung. Sie beziehen auch
geringere Sozialleistungen. Eine Behinderung der Einbürgerungschancen wirkt
deshalb negativ.
Wie relevant für das Einbürgerungsgeschehen ist die jetzige
Reform?
Die Abschaffung der Einbürgerungsmöglichkeit nach drei
Jahren trifft nur einen sehr kleinen Kreis, in der Regel hochqualifizierte
Personen mit exzellenten Deutschsprachkenntnissen, die ökonomisch gut gestellt
sind und die sich zudem im Bildungssystem oder durch ehrenamtliches Engagement
ausgezeichnet haben. Es geht, nach den vorliegenden Informationen, wohl nur um
einige hundert Personen pro Jahr. Insofern sind die materiellen Auswirkungen
auf die lebende Migrationsbevölkerung gering, es geht eher um eine symbolische
Maßnahme.
Die Befürworter der Reform sagen dagegen, nachhaltige
Integration und gesellschaftliche Teilhabe brauche Zeit und sollte nicht zu
früh mit der Vergabe der Staatsbürgerschaft „belohnt“ werden. Ist das
nachvollziehbar?
Es stimmt, dass Integration in der Regel Zeit braucht.
Deshalb kommt es auf die Kriterien für die Einbürgerung an. Die meisten
Menschen brauchen länger, bis sie die deutsche Sprache gut oder sehr gut
sprechen, erfolgreich im Arbeitsmarkt sind und auch sozial teilhaben. Darum
macht im Regelfall eine spätere Einbürgerung Sinn. Aber warum soll jemand, der
eine deutsche Schule im Ausland besucht hat, perfekt Deutsch spricht,
überdurchschnittlich verdient und sich sozial engagiert nicht schon früher
eingebürgert werden? Das ist das, was andere Einwanderungsländer, mit denen wir
im Wettbewerb stehen, machen. Es kommt deshalb auf den erreichten
Integrationsstand an, nicht auf die Aufenthaltsdauer.
Deutschland braucht aus demografischen Gründen wie viele
andere EU-Länder auch in Zukunft Hunderttausende hochqualifizierte Zuwanderer
pro Jahr. Wäre da die beschleunigte Einbürgerung nicht der richtige Weg
gewesen, Hürden zu senken?
Wir brauchen eine Nettozuwanderung von 400.000 Personen pro
Jahr, das entspricht etwa 1,6 Millionen Zuzügen, um das
Erwerbspersonenpotenzial zu stabilisieren. Inzwischen haben wir einen negativen
Wanderungssaldo mit der EU, sodass diese Menschen aus Drittstaaten kommen
müssen. Dafür müssen wir Anreize schaffen. Neben wirtschaftlichen Faktoren
spielt die Frage einer gesicherten Bleibeperspektive auch eine zentrale Rolle.
Die Option einer schnelleren Einbürgerung kann dabei helfen, ist aber nicht
entscheidend. Nur wenn die Bundesregierung und der Gesetzgeber mit deren
Abschaffung das Signal senden wollen, dass eigentlich weniger Migration gewollt
ist, wird es problematisch.
Geht man davon aus, dass auch die Nachbarländer um
Zuwanderer werben, dann ist diese Reform nur schwer zu vermitteln. Nehmen
potenzielle Migranten in aller Welt diese neuen Restriktionen überhaupt zur
Kenntnis?
Die Menschen im Ausland kennen sicher nicht jedes Detail des
deutschen Aufenthaltsrechts. Sie nehmen aber die Stimmung und die zentralen
Regelungen sehr sensibel war. So ist Deutschland als Zielland der ersten Wahl
in der weltweiten Gallup-Befragung, die die Migrationsabsichten erhebt, 2024
deutlich zurück gefallen. Ich glaube zwar nicht, dass eine einzelne Maßnahme
große Auswirkungen hat, aber es kommt auf das Gesamtkonzert an.
Innenminister Alexander Dobrindt (CSU) sagte in der Debatte
im Bundestag: „Der deutsche Pass muss als Anerkennung für gelungene Integration
zur Verfügung stehen und nicht als Anreiz für illegale Migration.“ Ist es nicht
eher so, dass eine schnelle Einbürgerung ein starker Anreiz für Integration
ist?
Die These des Ministers ist sachlich schwer haltbar. Herr
Dobrindt meint wahrscheinlich Asylbewerberinnen und Asylbewerber. Sie müssen
zunächst die Asylverfahren durchlaufen, dann kommen alle anderen Hürden wie
exzellente Deutschsprachkenntnisse, gute Verdienste und besondere Leistungen im
Bildungs- und Ausbildungssystem und Ehrenamt noch hinzu. Das ist in drei Jahren
nicht zu schaffen. Die Regelung richtet sich an einen anderen Personenkreis.
Schließlich gibt es keinerlei empirische Evidenz für die Behauptung, dass durch
die beschleunigte Einbürgerungsoption die Zahl von Asylanträgen steigt.
Wird die Reform merklichen Einfluss auf die Zahlen der
Einbürgerungen haben?
Ich vermute nicht, in aller Regel erfolgt die Einbürgerung
nicht vor Ablauf der Fünfjahresfrist. Viel wichtiger ist, dass die zuständigen
Behörden die Anträge schneller bearbeiten, so dass die gesetzlich vorgesehenen
Fristen auch praktisch wirksam werden. Ich mache mir größere Sorgen, dass die
Einwanderung von Fach- und Arbeitskräften, die wir dringend brauchen,
beeinträchtigt wird. Die Reform ist nur ein kleiner Mosaikstein. Aber wir
müssen zur Kenntnis nehmen, dass die Verschlechterung des politischen und
gesellschaftlichen Klimas für Migrantinnen und Migranten Auswirkungen hat, auch
auf die Einwanderung von Fachkräften. (epd/mig 22)
Interviews. „Migration wird
politisch instrumentalisiert“
Carolina Gottardo über die Arbeit mit inhaftierten
Migranten, politische Strategien und aktuelle Herausforderungen. Die Fragen
stellte David Müller.
Die International Detention Coalition (IDC) wurde mit
dem Menschenrechtspreis der Friedrich-Ebert-Stiftung ausgezeichnet. Was
bedeutet die Auszeichnung für Sie, und welche Auswirkungen hat sie auf Ihre
Arbeit?
Wenn man zu einem politisch so aufgeladenen Thema wie
Migration arbeitet, speziell zur Inhaftierung von Migranten und Geflüchteten,
erwartet man keine Anerkennung. In einer Zeit, in der populistische Bewegungen
weltweit erstarken und sich viele Parteien der Mitte nach rechts bewegen, ist
der Preis ein starkes Signal der Unterstützung und der Solidarität mit einigen
der am meisten stigmatisierten Menschen. Das bedeutet uns sehr viel –
symbolisch und ganz konkret für unsere Arbeit gegen die Inhaftierung von Migranten.
Die Auszeichnung hilft, das Thema stärker in die öffentliche
Debatte zu bringen und als zentrales Menschenrechtsthema sichtbar zu machen.
Sie stärkt unsere Advocacy-Arbeit und eröffnet neue Netzwerke und
Partnerschaften. Auch im Hinblick auf die Finanzierung ist sie enorm wichtig,
vor allem angesichts der aktuellen Kürzungen im Bereich Menschenrechte und
Migration. Jede Form von Aufmerksamkeit und Unterstützung zählt.
Insgesamt ist der Preis ein großer Ansporn, unsere Arbeit
fortzusetzen. Unser Ziel bleibt: weg von Kriminalisierung und Haft, hin zu
menschenwürdigen, gemeindebasierten Lösungen. Kein Kind sollte jemals in
Abschiebehaft kommen, das ist nie in seinem besten Interesse. Wir sind davon
noch weit entfernt, aber diese Auszeichnung ist ein wichtiger Meilenstein auf
dem Weg dorthin.
Sie arbeiten mit Regierungen zusammen, die selbst für die
Inhaftierung von Migranten verantwortlich sind. Wie gelingt der Spagat zwischen
Zusammenarbeit und Komplizenschaft?
Wenn man Politik und Systeme verändern will, muss man mit
Regierungen zusammenarbeiten, auch mit denen, die derzeit Menschen inhaftieren.
Nur sie können Gesetze ändern. Dabei ist es wichtig, zu verstehen: „Die
Regierung“ ist kein monolithischer Block. Es gibt unterschiedliche Ebenen,
Ministerien und Personen. Wir suchen gezielt nach Ansprechpartnern, die offen
sind für Veränderung. Wir haben viele engagierte Menschen in Verwaltungen
getroffen, mit denen sich konstruktiv arbeiten lässt.
Ein Beispiel: In Thailand konnten wir zunächst nicht mit dem
Innenministerium sprechen. Also begannen wir mit dem Ministerium für Kinder und
Jugend, und heute arbeiten wir mit sieben Ministerien zusammen, darunter ist
auch das Innenministerium. Manchmal muss man Umwege gehen, um ans Ziel zu
kommen.
Wir wählen sehr sorgfältig aus, mit welchen Regierungen wir
zusammenarbeiten. Es geht nicht darum, überall präsent zu sein, sondern dort,
wo Veränderung möglich ist. Mit Regierungen, bei denen das nicht der Fall ist,
arbeiten wir nicht, etwa mit der Trump-Regierung. Uns ist wichtig, nicht nur
Kritik zu üben, sondern auch Lösungen anzubieten. Wenn man nur sagt: „Das ist
falsch“, dann endet das Gespräch schnell. Wir sagen: „Das funktioniert nicht –
aber wie wäre es mit diesem Ansatz?“
So bleiben wir unabhängig, benennen Missstände offen und
zeigen zugleich Wege auf. Unsere Stärke liegt in der Breite unseres Netzwerks:
Einige Mitglieder machen Kampagnenarbeit, andere Forschung,
Rechtsstreitigkeiten oder politische Arbeit. Diese Ansätze ergänzen sich. Unser
Ziel ist es, Regierungen mit Fakten, Dialog und praktischen Lösungen zu
Veränderungen zu bewegen, und zwar gemeinsam mit Zivilgesellschaft,
UN-Organisationen und Betroffenen.
IDC arbeitet weltweit mit vielen Partnern. Gab es ein
Projekt, das nicht wie erwartet verlief? Und was haben Sie daraus gelernt?
Wir verstehen unsere Arbeit nicht als einzelne Projekte,
sondern als langfristiges Engagement für strukturellen Wandel, wie
Gesetzesänderungen, politische Reformen oder die Freilassung von Menschen aus
Abschiebehaft. Solche Veränderungen brauchen Zeit und verlaufen in Phasen.
Angesichts der aktuellen politischen Lage haben wir zwei Aufgaben: Fortschritte
sichern oder das Erreichte verteidigen. Die Stimmung ist vielerorts feindselig,
Migration wird politisch instrumentalisiert. Inhaftierung ist dabei nur ein
Symptom neben Abschiebungen und der Kriminalisierung von Solidarität.
Wenn Dinge nicht laufen wie geplant, liegt das oft an
äußeren Faktoren wie einem Regierungswechsel. Wir haben mehrfach erlebt, dass
wir kurz vor einer Reform standen und dann wieder von vorn beginnen mussten.
Das gehört zur Realität von Advocacy-Arbeit. Unsere Arbeit unterscheidet sich
von Organisationen, die Dienstleistungen oder Rechtsberatung anbieten – wir
konzentrieren uns auf systemischen Wandel. Es geht nicht darum, Haftbedingungen
zu verbessern, sondern Haft zu beenden und Alternativen zu schaffen.
Ein gutes Beispiel ist Kolumbien: Dort werden Migranten
nicht wegen ihres Aufenthaltsstatus inhaftiert. Über zwei Millionen Menschen
erhielten vorübergehenden Schutz. Das zeigt, dass Migration auch ohne Haft
steuerbar ist. Wir nutzen solche Beispiele, um anderen Ländern Alternativen
aufzuzeigen und Peer Learning-Plattformen zu fördern. Beispielsweise in Asien,
wo wir seit 2019 mit Regierungen in Australien, Thailand, Malaysia und
Indonesien zusammenarbeiten. Natürlich gibt es Rückschläge. Wir sind eine lernende
Organisation und reflektieren gemeinsam mit unseren Partnern, wenn etwas nicht
funktioniert. Politische Bedingungen sind komplex und man muss flexibel bleiben
und Strategien anpassen.
Gibt es Momente, in denen Sie an die Grenzen der
Menschenrechtsarbeit stoßen? Und wie gehen Sie damit um?
Ja, es gibt viele solche Momente. Unsere Arbeit basiert
vollständig auf Menschenrechten – das sagen wir jeder Regierung, auch wenn sie
es nicht hören will. Wir argumentieren immer auf drei Ebenen: Rechte,
Wirksamkeit und Kosten.
Erstens: Aus menschenrechtlicher Sicht ist Abschiebehaft
verheerend. Für die Betroffenen, ihre Familien und ihre Gemeinschaften. Ein
ehemaliger Inhaftierter sagte einmal: „Ich habe die Haft verlassen, aber die
Haft hat mich nie verlassen.“ Das beschreibt die psychischen Folgen sehr
treffend. Besonders bei Kindern ist Haft niemals vertretbar.
Zweitens: Alternativen sind wirksamer. Wenn Menschen Zugang
zu Informationen, Rechtsberatung und Unterstützung haben, entstehen bessere
Lösungen. Für sie selbst und für Regierungen. Sie verstehen ihre Optionen,
treffen fundierte Entscheidungen und kooperieren bei den Verfahren. Studien
zeigen, dass sich bei solchen Alternativen etwa 86 Prozent der Menschen am
Verfahren beteiligen und nur rund zwei Prozent verschwinden.
Drittens: Alternativen sind kostengünstiger – bis zu 90
Prozent billiger als Haft. Inhaftierung ist teuer und oft privatisiert. Warum
also öffentliche Mittel in ein System stecken, das weder funktioniert noch
abschreckt? Wir wissen: Menschenrechtsarbeit hat Grenzen, weil Regierungen
diese Argumente nicht immer hören wollen. Aber wir werden sie immer wieder
vorbringen. Unsere Arbeit basiert auf Rechten – und daran werden wir nie
rütteln, auch wenn es politisch bequemer wäre. IPG 21
Merz will AfD mit „Stadtbild“
besiegen
Kanzler Merz streicht die Brandmauer aus dem Sprachgebrauch
der CDU. Der AfD sagt er erneut den Kampf an – mit einem positiven
„Deutschlandbild“. An seiner „Stadtbild“-Aussage hält er aber fest – trotz
anhaltender Kritik.
Die CDU geht mit einer deutlichen Kampfansage an die AfD in
die fünf Landtagswahlen im nächsten Jahr. „Wir werden uns von diesen Leuten
nicht zerstören lassen. Den Beweis werden wir in den nächsten Monaten
erbringen“, sagte der Parteivorsitzende und Bundeskanzler Friedrich Merz nach
einer zweitägigen Strategietagung des CDU-Präsidiums in Berlin. Er kündigte
erneut einen klaren Abgrenzungskurs gegenüber der AfD an, distanzierte sich
aber vom Begriff der Brandmauer.
Seine umstrittene Äußerung zu Problemen im Stadtbild in
Deutschland verteidigte Merz in einer Pressekonferenz mit CDU-Generalsekretär
Carsten Linnemann vehement. „Ich habe gar nichts zurückzunehmen“, sagte er. „Im
Gegenteil, ich unterstreiche es noch einmal: Wir müssen daran etwas ändern und
der Bundesinnenminister ist dabei, daran etwas zu ändern und wir werden diese
Politik fortsetzen.“ Wer seine Töchter frage, werde auf die Frage, was er mit
seinen Äußerungen gemeint habe, vermutlich „eine ziemlich klare und deutliche
Antwort“ bekommen.
Der Kanzler war am Dienstag bei einem Termin in Potsdam von
einem Reporter auf das Erstarken der AfD angesprochen worden. Er sagte
daraufhin unter anderem, dass man frühere Versäumnisse in der Migrationspolitik
korrigiere und Fortschritte mache. „Aber wir haben natürlich immer im Stadtbild
noch dieses Problem, und deswegen ist der Bundesinnenminister ja auch dabei,
jetzt in sehr großem Umfang auch Rückführungen zu ermöglichen und
durchzuführen.“ Die Äußerung war von der Opposition, aber auch aus der SPD kritisiert
worden.
Demonstranten fordern Vielfalt
Zu einer Demonstration gegen seine Äußerung am Sonntag sagte
Merz: „Wer dann meint, dagegen demonstrieren zu müssen, der soll es tun. Der
setzt sich dann allerdings auch der Frage aus, ob er ein Interesse daran hat,
ein Problem zu lösen oder ob er eher ein Interesse daran hat, möglicherweise
den Keil in unsere Gesellschaft zu treiben.“
Am Sonntag hatten nach Merz‘ „Stadtbild“-Aussage Hunderte am
Brandenburger Tor in Berlin für Vielfalt und gegen Rassismus demonstriert. Mit
Feuerzeugen und Handy-Taschenlampen bildeten die Demo-Teilnehmer am Abend ein
Lichtermeer und skandierten „Wir, wir, wir sind das Stadtbild!“ Redner auf
einer Bühne direkt vor dem Wahrzeichen warfen dem CDU-Chef und Bundeskanzler
eine mangelnde Abgrenzung zur AfD vor.
Auf zum Teil selbstgemalten Plakaten und Transparenten war
zu lesen „AfD-Verbot jetzt!“, „Lieber Menschenrechte als rechte Menschen“, „Wir
freuen uns über alle Menschen“ oder „Friedrich Merz – ist das ein Scherz?“
Andere betonten kurz und knapp: „Berlin ist bunt!“ Ein Redner sagte: „Ich stehe
hier als jemand, dessen Vater Kurde ist. Ist mein Vater ein Problem im
Stadtbild – oder bin ich es?“ Im Grundgesetz heiße es: „Die Würde des Menschen
ist unantastbar – nicht des Deutschen.“ Wer die Sprache der extremen Rechten
übernehme, stärke sie, kritisierte der Redner.
Brantner: Millionen unter Generalverdacht
Auch aus der Politik ebbt die Kritik an Merz nicht ab.
Grünen-Chefin Franziska Brantner hat mit Unverständnis auf die wiederholten
Aussagen von Merz reagiert. Es sei nicht akzeptabel und unverantwortlich für
einen Kanzler, „einfach mal pauschal Millionen Deutsche unter Generalverdacht
zu stellen“, sagte Brantner in Berlin.
„Ich will nicht meine Tochter fragen müssen, was Herr Merz
meint. Herr Merz muss beantworten, was er mit diesen Aussagen denn wirklich
meint“, sagte Brantner. „Wir brauchen einen Kanzler, der verbindet und nicht
einen Kanzler, der in rätselhaften Sätzen spricht, die alle unter Verdacht
stellen und dann auf irgendwelche Töchter verweist.“
Reichinnek: Merz kippt Benzin ins Feuer
Heidi Reichinnek, Vorsitzende der Linksfraktion im
Bundestag, erklärte: „Dieser Auftritt von Friedrich Merz war ein
Offenbarungseid. Erst redet er über eine Abgrenzung von der AfD, nur um wenige
Minuten später nicht nur seine rassistischen Stadtbild-Äußerungen zu
verteidigen, sondern noch mehr Benzin ins Feuer zu kippen. Den Schutz von
Frauen vor Gewalt als Argument gegen Migration ins Feld zu führen, kennen wir
von Rechtsaußen nur zu gut“.
Merz behaupte zwar, sich von der AfD abgrenzen zu wollen, er
übernehme aber immer deutlicher deren Rhetorik und Inhalte. „Ein Kanzler mit
diesem Denken und Handeln wird die AfD nicht schwächen, er wird sie stärken.
Die Regierung und damit auch die Union haben die Verantwortung, der AfD ihren
Nährboden zu entziehen“, sagte Reichinnek.
CDU will AfD mit positivem „Deutschlandbild“ besiegen
Schwerpunktthema der Klausur war die Strategie der CDU für
die fünf Landtagswahlen im kommenden Jahr. Die Ausgangslage ist düster. In
bundesweiten Umfragen kommt die AfD inzwischen auf 25 bis 27 Prozent und hat
mit der Union gleichgezogen. In Sachsen-Anhalt und Mecklenburg-Vorpommern, wo
nächstes Jahr neue Landesparlamente gewählt werden, ist die AfD mit Werten an
die 40 Prozent in den Umfragen bereits mit Abstand stärkste Partei. Alle
bisherigen Versuche, den Aufstieg der Partei durch Übernahme seiner Inhalte und
Forderungen zu stoppen, sind gescheitert.
Die CDU will trotzdem keinen Kurswechsel. „Wir haben mit
dieser Partei keinerlei Übereinstimmung – weder in den Grundüberzeugungen noch
in den tagespolitischen Fragen, die es zu beantworten gilt“, sagte Merz.
Mehrfach warf er der AfD vor, die CDU erklärtermaßen zerstören zu wollen. Der
„Miesmacherrhetorik“ der AfD wolle er nun ein „anderes Deutschlandbild“
entgegensetzen, sagte Merz und kündigte ein positives „Deutschlandbild“ an.
Den Begriff der Brandmauer legte Merz ad acta. „Das ist
nicht unser Sprachgebrauch. Das war er nicht und das ist er nicht“, sagte er.
Der CDU-Chef hatte diesen Begriff in der Vergangenheit allerdings auch schon
verwendet. So sagte er im Dezember 2021 dem „Spiegel“. „Mit mir wird es eine
Brandmauer zur AfD geben.“
Merz will CDU bei fünf Wahlen zur stärksten Kraft machen
Unabhängig vom Sprachgebrauch erklärte Merz die AfD erneut
zum „Hauptgegner“ für die Wahl. „Und ich kann jedem nur raten, es ernst zu
nehmen, wenn wir jemanden als Hauptgegner bezeichnen. Dann bekämpfen wir ihn
wirklich.“ Das hätten die Grünen bei der jüngsten Bundestagswahl erfahren.
Die CDU wolle und könne bei allen fünf Wahlen die stärkste
politische Kraft werden, sagte Merz. Sie werde sich künftig noch klarer von der
AfD abgrenzen. „Wichtig ist vor allem, dass wir dem eine erfolgreiche
Regierungsarbeit entgegensetzen.“ Das sei nicht nur eine Aufgabe der Union,
sondern auch des Koalitionspartners SPD. „Wenn wir gemeinsam erfolgreich
regieren, dann wird es keine sogenannte Alternative für Deutschland mehr
brauchen.“ (dpa/mig 21)
Kirchen dringen auf konkrete
Beschlüsse bei Weltklimakonferenz COP30
Kirchen und kirchliche Organisationen drängen die
Weltgemeinschaft zu mehr Klimaschutz und zum Ausstieg aus fossilen Energien.
Bei der Weltklimakonferenz COP30 im November in Brasilien müssten die Staaten
konkrete Schritte vereinbaren, forderte die anglikanische Erzbischöfin der
Gastgeberstadt Belém, Marinez Bassotto, am Montag bei einer
Online-Pressekonferenz in Rom.
„Statt unverbindlicher Gespräche brauchen wir konkretes
Handeln und verbindliche Finanzzusagen, um die Folgen des Klimawandels für die
Ärmsten und Verletzlichsten abzumildern", so die Erzbischöfin. Sie sagte
zu, dass die Kirche in Brasilien an der Seite der Menschen stehe, die sich
gegen Abholzung und Raubbau an der Natur wehrten.
Kirchen und kirchliche Organisationen, die sich an der COP30
in Brasilien beteiligen wollen, riefen Christen dazu auf, Druck auf ihre
jeweiligen Regierungen auszuüben, um zu mehr Klima- und Umweltschutz zu kommen.
Die indigene Vertreterin Panamas bei der COP30, Jocabed
Solano-Panama, sagte, der Austragungsort in Belém im Amazonas sei eine große
Chance. Anders als vorausgegangene Gastgeberstaaten könne Brasilien konkreten
Klimaschutz voranbringen und für eine Beteiligung von Indigenen eintreten.
„Es reicht aber nicht, Vertreter der indigenen Völker des
Amazonas für hübsche Bilder zu holen, sondern wir Indigene müssen zurück an den
Verhandlungstisch", forderte Solano-Panama. Von den indigenen
Gemeinschaften könne die Welt lernen, die Erde als heilig zu achten. „Wenn die
Erde weiterhin misshandelt und ausgebeutet wird, wird unsere Welt nicht
überleben."
Der frühere Ratsvorsitzende der Evangelischen Kirche in
Deutschland, Heinrich Bedford-Strohm, betonte, die Zeit dränge. Es blieben nur
noch wenige Jahre für ein Umsteuern zu mehr Klimaschutz und Klimagerechtigkeit.
„Wir stehen gerade vor den entscheidenden Kipppunkten." Die Kirchen
verstünden sich aus ihrer christlichen Überzeugung heraus als Anwälte für die,
die unverschuldet am stärksten unter Umweltzerstörung und Klimawandel litten.
Musamba Mubanga vom weltweiten katholischen Dachverband
Caritas internationalis beschrieb den Kampf für Klimagerechtigkeit als Ausdruck
des christlichen Glaubens und der Pflicht zur Solidarität. Die Welt müsse weg
von einem wirtschaftlichen Fortschrittsglauben, von dem nur eine Minderheit
profitiere. Echter Fortschritt sei, wenn das Wohlergehen aller und des Planeten
im Zentrum stehe.
COP30 beginnt am 10. November
Die Weltklimakonferenz COP30 tagt vom 10. bis
voraussichtlich 21. November in der nordbrasilianischen Amazonas-Stadt Belém.
Erwartet werden rund 50.000 Teilnehmende aus fast 200 Staaten. Aus Deutschland
kommen zahlreiche Umweltorganisationen sowie Bundesumweltminister Carsten
Schneider (SPD). Nach dem ab 2026 wirksam werdenden Austritt aus dem Pariser
Klimaabkommen werden die USA nicht teilnehmen.
Umweltaktivisten dringen auf verbindliche Finanzzusagen im
Kampf gegen den Klimawandel. Besonders die reichen Industriestaaten stünden in
der Pflicht. Im Vorfeld der COP30 sind alle Staaten aufgerufen, ihre aktuellen
Klimaschutzprogramme vorzulegen. Ziel der Weltgemeinschaft ist es weiterhin,
den globalen, menschengemachten Temperaturanstieg möglichst schnell und
möglichst stark zu begrenzen. (kna 20)
Medienberichte über ausländische
Tatverdächtige „drastisch verzerrt“
Wenn Medien die Herkunft von Tatverdächtigen nennen, sind
das zu über 90 Prozent ausländische Menschen. Mit der Realität, wie sie in
Polizeistatistiken erfasst wird, habe das nichts zu tun, kritisiert eine
Studie. Polizeianordnungen zur Herkunftsnennung in der Kritik.
Die deutschen Leitmedien berichten viel häufiger über
Gewaltdelikte von Ausländern, als es mit Blick auf Polizeistatistiken
angemessen wäre. Zu diesem Ergebnis kommt eine Expertise des
Journalismusprofessors Thomas Hestermann von der Hamburger Hochschule
Macromedia, die der Berliner Mediendienst Integration am Freitag bei einem
Pressegespräch vorgestellt hat. Noch 2014 habe die Herkunft von Tatverdächtigen
in den Medien „fast keine Rolle“ gespielt, sagte Hestermann, der die Studie
seit 2007 betreut. Die aktuelle Auswertung aus dem ersten Quartal 2025 zeige
mit Blick auf die tatsächlichen Zahlen eine „so drastische Verzerrung wie noch
nie“.
Laut Untersuchung nennt ein Viertel der Fernsehbeiträge, die
über Gewalttaten berichten, die Herkunft der Tatverdächtigen. In 94,6 Prozent
dieser Beiträge handle es sich dabei um ausländische Personen. Das
Bundeskriminalamt weise jedoch in seiner Statistik für 2024 bei
Gewaltverbrechen nur 34,4 Prozent der Tatverdächtigen als nichtdeutsch aus.
„Ausländische Tatverdächtige sind damit in den Medien etwa dreifach
überrepräsentiert“, so die Schlussfolgerung der Studie. Ein ähnliches Bild
zeige sich bei den Printmedien: Ein Drittel der Beiträge lege die Herkunft der
Tatverdächtigen offen, in 90,8 Prozent seien diese nichtdeutscher Herkunft.
Die Professorin für Kriminologie an der Hochschule für
Polizei und öffentliche Verwaltung in Nordrhein-Westfalen, Gina Wollinger,
verwies auf die absoluten Zahlen: Von rund 12 Millionen in Deutschland lebenden
Ausländern erfasse die Kriminalstatistik für 2024 etwa 700.000 Tatverdächtige
ohne deutschen Pass. „Das bewegt sich im einstelligen Prozentbereich“, betonte
die Soziologin. Über 94 Prozent der Ausländer in Deutschland werde nicht
straffällig. Der Forderung, durch die Begrenzung von Zuwanderung auch die
Kriminalitätsrate zu senken, fehle somit die Grundlage. Sie sei außerdem
abwegig: „Niemand käme auf die Idee, Geburtenraten senken zu wollen, weil die
Jugendkriminalität so hoch ist“, sagte Wollinger.
Presserat kritisiert Polizeianordnung zur Herkunftsnennung
Die seit 1. Oktober geltende Anordnung des Bayerischen
Innenministeriums, in Pressemitteilungen der bayerischen Polizei grundsätzlich
die Herkunft der Tatverdächtigen zu nennen, betrachtete der Journalist und
Sprecher des Deutschen Presserats, Manfred Protze, kritisch. Neben den
Qualitätsmedien, die sich per Pressekodex auf ethische Grundlagen
verpflichteten, würden Polizeimeldungen von verschiedensten Gruppen auch auf
den „ethikfreien“ Sozialen Medien genutzt, „die kein Problem mit Sippenhaft
haben“. Das setze die klassische Presse unter Druck, die sich dann gegen den
Vorwurf wehren müsse, Fakten zu verschweigen.
Außer in Bayern sind auch die Polizeibehörden in
Mecklenburg-Vorpommern und Schleswig-Holstein verpflichtet, die Herkunft von
Tatverdächtigen in ihrer Pressearbeit zu nennen. Damit wolle man für
Transparenz sorgen, heißt es aus den jeweiligen Innenministerien auf Anfrage
des Evangelischen Pressediensts. In Nordrhein-Westfalen hat Innenminister
Herbert Reul (CDU) laut Sprecherauskunft „die grundsätzliche Nennung der
Staatsangehörigkeit“ im November 2024 begrüßt. Wie sich das im seit 2011
geltenden Medienerlass widerspiegeln soll, werde derzeit noch geprüft. (dpa/mig
20)
Wenn die Blätter fallen – wer muss
fegen?
Reinigungspflicht kann übertragen werden. Haftung bei
Unfällen
Viele genießen den goldenen Herbst, wenn das Laub sich
langsam verfärbt. Mit sinkenden Temperaturen verlieren Bäume aber auch ihre
Blätter, Niederschläge nehmen zu. Beides zusammen verwandelt Bürgersteige in
Rutschbahnen. Ohne Räumen ist ein Unfall schnell passiert.
Wer zum Besen greifen muss, regeln die meisten Kommunen in
ihren Satzungen. Hier schreiben sie fest, ob und in welchem Umfang sich
Hauseigentümer um die Reinigung der Bürgersteige kümmern müssen. Wer sich der
Reinigungspflicht dauerhaft entzieht, begeht eine Ordnungswidrigkeit. Den
Eigentümern eines Mietshauses steht es offen, die Reinigungspflicht über den
Mietvertrag an die Mieter weiterzugeben.
Ereignet sich ein Unfall, hat der nicht nur eine
strafrechtliche Seite. Hier geht es, wie die HUK-COBURG mitteilt, auch um
persönliche Haftung. Bricht sich ein Passant beispielsweise das Bein, weil
vergessen wurde, die Blätter wegzufegen, muss der Verantwortliche für den
Schaden aufkommen. Ohne Haftpflichtversicherung kann das teuer werden: Im
geschilderten Fall können dem Geschädigten Schmerzensgeld und falls er arbeitet
auch eine Entschädigung für seinen Verdienstausfall zustehen. Bleiben nach
einem Unfall dauerhafte Schäden zurück, können sogar lebenslange
Rentenzahlungen fällig werden.
Ob und in welchem Umfang ein säumiger Laubräumer haftet,
hängt allen Regeln zum Trotz oft von den speziellen Umständen des Einzelfalls
ab. Sollte der Geschädigte den Rechtsweg beschreiten, steht die
Haftpflichtversicherung ihrem Kunden zur Seite. Huk-C. 20
Merz will „Problem“ mit „Stadtbild“
durch Rückführung lösen
Sind Menschen mit Migrationsgeschichte ein „Problem im
Stadtbild“? Diese Worte wählte Kanzler Merz – und will das „Problem“ mit
Abschiebungen lösen. SPD, Grüne und Linke haben dazu eine klare Haltung. Auch
Berlins Regierender Bürgermeister äußert sich.
Der SPD-Politiker Steffen Krach wirft Bundeskanzler
Friedrich Merz (CDU) vor, mit seinen jüngsten Äußerungen über Migration im
Stadtbild rechte Ressentiments zu bedienen. „Dass nach Markus Söder nun auch
Bundeskanzler Friedrich Merz eine solche Aussage trifft, macht mich
fassungslos“, erklärte der designierte SPD-Spitzenkandidat für die Berlin-Wahl
2026.
„Zwei führende Christdemokraten haben innerhalb weniger Tage
bewusst Menschen mit Migrationsgeschichte als Problem im Stadtbild bezeichnet
und in diesem Zusammenhang auch noch von Rückführungen gesprochen.“ Beide
sorgten dafür, dass Menschen mit Migrationsgeschichte sich hierzulande
unerwünscht fühlten.
Brandenburgs Grünen-Vorsitzender Clemens Rostock warf Merz
Rassismus vor. „Problematisch ist nicht nur, dass Friedrich Merz Migration zum
Problem erklärt – sondern vor allem, dass er offenbar Menschen allein nach
ihrem Aussehen als nicht dazugehörig markiert.“ Und weiter: „Das ist
rassistisch, und das ist ein echtes Problem für unser Land. Wer Integration
will, darf Menschen nicht wegen ihrer Hautfarbe, Herkunft oder Religion zum
Sündenbock machen.“
Merz: „Haben im Stadtbild noch dieses Problem.“
Merz war bei einem Termin in Potsdam am Dienstag von einem
Reporter auf das Erstarken der AfD angesprochen worden. Er sagte daraufhin
unter anderem, dass man nun frühere Versäumnisse in der Migrationspolitik
korrigiere und das man Fortschritte mache. Merz fügte an: „Aber wir haben
natürlich immer im Stadtbild noch dieses Problem, und deswegen ist der
Bundesinnenminister ja auch dabei, jetzt in sehr großem Umfang auch
Rückführungen zu ermöglichen und durchzuführen.“
Bayerns Ministerpräsident Markus Söder (CSU) hatte sich Ende
September im „Münchner Merkur“ für mehr Abschiebungen nach Afghanistan und
Syrien starkgemacht – und gefordert, dass sich das Stadtbild wieder verändern
müsse.
Wegner: „Berlin ist vielfältig“
Berlins Regierender Bürgermeister Kai Wegner (CDU) ist
derzeit auf Dienstreise in Namibias Hauptstadt Windhoek. Angesprochen auf
Äußerungen von Merz sagte er der „Berliner Morgenpost“: „Berlin ist eine
vielfältige und weltoffene Metropole, und diese Vielfalt wird sich auch im
Stadtbild zeigen. Ich glaube auch nicht, dass das die Berlinerinnen und
Berliner ärgert.“
Zugleich machte Wegner deutlich: „Bei der
Integrationsfähigkeit stoßen wir aber an unsere Grenzen.“ Ein Problem sei in
Städten wie Berlin zudem eine zu hohe Kriminalität. „Das müssen wir benennen
und konsequent dagegen vorgehen“, sagte er der Zeitung. Auch die Täterkreise
müsse man benennen.
Krach: „Welches Stadtbild schwebt der Union vor?“
Berlin habe die Zahl der Abschiebungen während seiner
Amtszeit deutlich erhöht. „Trotzdem geht da noch mehr in allen Bundesländern“,
so Wegner. „Dazu braucht es bessere Rückführungsabkommen, da ist die
Bundesregierung gefragt. Danach müssen die Länder noch besser liefern, das
werden wir tun.“
„Ich frage mich, welches Stadtbild der Union genau
vorschwebt?“, ergänzte Krach zu den Äußerungen von Merz und Söder. „Meines ist
ganz klar: In Berlin leben Menschen aus der ganzen Welt, wir alle sind das
Gesicht der deutschen Hauptstadt – und das ist gut so. Dass der deutsche
Bundeskanzler ihnen so in den Rücken fällt, um Stimmen am rechten Rand zu
bekommen, ist menschlich enttäuschend.“
Kritik erntete Merz auch von der Linkspartei. Der Sprecher
für Antirassismus der Linksfraktion im Bundestag, Ferat Koçak, erklärte am
Donnerstag: „Merz behauptet, er wolle der AfD das Wasser abgraben – tatsächlich
leitet er es mit seiner Rhetorik auch noch auf ihre Mühlen um. Das ist
brandgefährlich.“ Menschen anhand ihres Aussehens als Problem im Stadtbild zu
bezeichnen und ihnen damit die Zugehörigkeit abzusprechen, sei blanker
Rassismus. Merz zeige, wie weit sich der gesellschaftliche Diskurs nach rechts
verschoben habe.
Regierungssprecher: Nicht zu viel reininterpretieren
Angesprochen auf den von Merz hergestellten Zusammenhang
zwischen Rückführungen und dem Stadtbild versuchte Regierungssprecher Stefan
Kornelius am Mittwoch, die Wogen zu glätten. „Ich glaube, da interpretieren Sie
zu viel hinein. Der Bundeskanzler hat sich zu dem geänderten Kurs in der
Migrationspolitik der neuen Bundesregierung geäußert – übrigens in seiner
Funktion als Parteivorsitzender, was er auch explizit so kenntlich gemacht
hat.“ Merz habe immer klargemacht, dass es sich bei der Migrationspolitik in
seinen Augen nicht um Ausgrenzung handeln dürfe, sondern um eine einheitlich
geregelte Zuwanderung.
Das überzeugt den Landesintegrationsrat in
Nordrhein-Westfalen nicht. Die Aussage von Merz sei „erschütternd“. Der
Integrationsratsvorsitzende, Tayfun Keltek, erklärte am Donnerstag in
Düsseldorf: „Zugehörigkeit und soziale Probleme an phänotypische Merkmale zu
knüpfen, offenbart ein rassistisches Denkmuster. Solche Worte öffnen
Diskursräume für rechtsextreme Ideologien. Sie implizieren, dass Zugehörigkeit
zu Deutschland für den Bundeskanzler auf unwissenschaftlichen biologischen
Kriterien basiert. Wer diese Unterscheidung trifft, reproduziert – bewusst oder
unbewusst – ein Denken in rassifizierten Kategorien.“ (dpa/mig 16)
Sollten die US-Demokraten die kommenden Zwischenwahlen
gewinnen, könnten sie die Lehren aus ihrer Niederlage gegen Trump schnell
vergessen. Von Patrick Ruffini
Wenn eine Partei eine Wahl verliert, folgt meist eine Phase
der Selbstreflexion: Man diskutiert, was schiefgelaufen ist, und setzt sich mit
jenen Schwächen auseinander, die im Wahlkampf unter den Teppich gekehrt wurden.
So war es auch bei den US-Demokraten nach ihrer Niederlage bei den
Präsidentschaftswahlen 2024. Doch nur wenige Monate später ist die
Bereitschaft, über neue Wege für die Partei nachzudenken, bereits wieder
verblasst. Stattdessen steht nun der Widerstand gegen Trumps zweite Amtszeit im
Vordergrund.
Im US-Wahlsystem folgen auf die Präsidentschaftswahlen
zeitlich versetzt die sogenannten Zwischenwahlen zum Kongress. Das Problem:
Diese Midterms blenden abweichende Meinungen aus und zwingen die Parteien
faktisch dazu, an ihren bestehenden Positionen festzuhalten. Kaum ist eine Wahl
vorbei, beginnt wenige Monate später bereits wieder der Wahlkampf. Für die
unterlegene Partei bedeutet das, ihre Spendeneinnahmen so schnell wie möglich
zu maximieren und die oppositionelle Stimmung in der eigenen Basis auszuschöpfen
– eine Stimmung, die in den ersten Monaten einer neuen Amtszeit erfahrungsgemäß
am stärksten ist.
Da die jeweilige Oppositionspartei bei den Midterms meist im
Vorteil ist und diese Wahlen häufig gewinnt, werden unangenehme Fragen, die
sich aus der letzten Niederlage ergeben, oft verdrängt. Dieser trügerische
Optimismus hält in der Regel bis zur nächsten Präsidentschaftswahl an.
Sollten die Demokraten bei den Halbzeitwahlen im November
2026 gut abschneiden, dürfte etwa die Frage, wie sie die hispanische
Wählerschaft oder junge Männer besser erreichen könnten, erneut in den
Hintergrund treten. Befürworter der bisherigen Strategie werden dann
argumentieren, der aktuelle Kurs gehe durchaus auf.
Dabei lohnt sich ein Blick zurück auf das Jahr 2022: Nach
einem respektablen Ergebnis bei den Zwischenwahlen redeten sich die Demokraten
ein, Joe Biden sei weiterhin ein aussichtsreicher Kandidat für die Wiederwahl.
Schließlich war er der Einzige, der Trump bereits besiegt hatte – also müsse er
es auch ein zweites Mal schaffen. Doch die Präsidentschaftswahl 2024 fand auf
einem völlig anderen politischen Terrain statt als die Midterms 2022. Bidens
Gesundheitszustand spielte diesmal eine zentrale Rolle, während 2022 noch die
Vielzahl an Kandidatinnen und Kandidaten der Partei für Senat und
Repräsentantenhaus im Mittelpunkt gestanden hatte.
Ein Blick auf die Midterms 2018 zeigt ein ähnliches Muster:
Damals feierten die Demokraten einen klaren Erfolg. Die Lehre daraus lautete,
die Partei müsse lediglich ihre „Widerstandshaltung“ gegen Trump fortsetzen und
für die Präsidentschaftswahlen 2020 noch verschärfen. Im Aufwind wähnte man
sich bereits auf dem Weg zu einer breiten gesellschaftlichen Bewegung – einer
Stimmung, die über die bloße Ablehnung Trumps hinausgehe. Das führte zu einem
gewissen Wettlauf nach links. Unterschiedliche Interessengruppen sollten
zufriedengestellt werden; so erhielten etwa Forderungen nach der
Entkriminalisierung von Grenzübertritten oder nach staatlicher Finanzierung von
Geschlechtsangleichungen für inhaftierte, undokumentierte Migranten öffentliche
Aufmerksamkeit.
Inzwischen ist klar, dass diese Entwicklung erhebliche
Probleme im Verhältnis zur traditionellen Wählerschaft der Demokraten mit sich
brachte. Probleme, die in der Euphorie nach 2018 kaum wahrgenommen wurden, nach
den Wahlen 2020 und vor allem 2024 jedoch unübersehbar waren.
Die erwartbaren guten Ergebnisse bei den Zwischenwahlen 2018
wie auch die überraschend ordentlichen Resultate 2022 haben den demokratischen
Präsidentschaftskandidaten 2020 und 2024 genau die falschen Signale gesendet.
Zwar gelang es den Demokraten 2020, das Weiße Haus von Donald Trump
zurückzuerobern, doch die Fehlinterpretation allzu optimistischer Umfragen ließ
sie glauben, es sei nun ein historischer Moment für progressive Politik
gekommen. Das trieb die Partei zu teils extremen Positionen – und ebnete damit
den späteren Verlusten, etwa unter hispanischen Wählern, den Weg. Die
Ergebnisse der Zwischenwahlen 2022 wiederum führten dazu, dass Sorgen um Bidens
Gesundheit verdrängt und lange ignoriert wurden – ein noch schwerwiegenderer
Fehler.
Um es klar zu sagen: Zwischenwahlen sind in der Regel kein
verlässlicher Indikator dafür, wie die nächste Präsidentschaftswahl ausgehen
wird. So schnitten die Republikaner sowohl 2020 als auch 2024 deutlich besser
ab, als es die jeweils vorangegangenen Midterms hätten vermuten lassen.
Und größere Umbrüche bei Halbzeitwahlen sind keineswegs ein besserer
Stimmungsmesser für die nächste Präsidentschaftswahl als „normale“ kleinere
Verschiebungen in der öffentlichen Meinung. Nach ihrem Midterm-Sieg 2010 etwa
verfielen die Republikaner in Euphorie und Übermut – und verloren 2012 dennoch
die Präsidentschaftswahl. Umgekehrt hatte Bill Clinton nach der
„Republikanischen Revolution“ bei den Midterms 1994 keinerlei Probleme,
1996 wiedergewählt zu werden.
Mitunter schließen sich an erfolgreiche Zwischenwahlen
tatsächlich Siege bei der folgenden Präsidentschaftswahl an – so etwa bei den
Republikanern 2014/2016 oder den Demokraten 2006/2008. Doch auch diese
Beispiele fügen sich in ein bekanntes Muster: Zwischenwahlen laufen für die
jeweils regierende Partei meist schlechter, und nach zwei Amtszeiten verliert
die amtierende Partei in der Regel das Weiße Haus.
Zwischen- und Präsidentschaftswahlen folgen jeweils ihrem
eigenen Rhythmus. Ein Sieg in der einen Wahl lässt keinerlei Rückschlüsse auf
die andere zu. Ein Erfolg bei den Midterms mag erfreulich sein, doch er ist oft
nur eine zyklische Reaktion auf die amtierende Regierungspartei – und löst
nicht die tieferliegenden Probleme, die sich im Präsidentschaftswahljahr
offenbaren, wenn die Mehrheit der Wählerinnen und Wähler tatsächlich an die
Urnen geht.
Die beiden Wahlarten sind nicht nur weitgehend unabhängig
voneinander. In der gegenwärtigen politischen Konstellation kann der Erfolg bei
der einen sogar aktiv zum Scheitern bei der anderen beitragen – man denke nur
an 2020 oder an die Illusionen des Biden-Teams 2024.
Die Spaltungslinien bei den Wahlen 2024 zeigten sich nicht
nur in sich wandelnden kulturellen und „tribalen“ Zugehörigkeiten, sondern auch
in der Wahlbeteiligung. Gelegenheitswähler ticken anders als Menschen, die
regelmäßig an die Urnen gehen. Erstere sind weniger ideologisch gefestigt und
stärker von aktuellen Stimmungen beeinflusst. Die Analyse Political Tribes
verdeutlicht die erheblichen Unterschiede in den politischen
Überzeugungsstrukturen zwischen Menschen, die regelmäßig wählen, und Menschen,
die selten wählen.
Stellen wir uns die gesamte potenzielle Wählerschaft als
eine Schlange vor, in der die Menschen nach ihrer Wahrscheinlichkeit zu wählen
geordnet sind. Ganz vorne steht die Person, die garantiert zur Wahl geht; ganz
hinten die, bei der es keinerlei Chance gibt. Bei Zwischenwahlen schließt der
Einlass zum „Wahlclub“ früher am Abend: Die „VIPs“, die immer abstimmen,
stellen dann einen größeren Anteil der Anwesenden. Anders gesagt: Motivierte
Wähler kommen hinein, unmotivierte bleiben draußen. Für den Clubbetreiber
bedeutet das: Bei einer Zwischenwahl hat er es mit einem stabileren und
deutlich berechenbareren Publikum zu tun.
In Präsidentschaftswahljahren kommen aber viel mehr Menschen
in den Club beziehungsweise an die Urnen, die sich nicht besonders für Politik
interessieren. Für genau diese Wählergruppen ist Trump besonders attraktiv.
Seine Wirkung reicht über Politik im engeren Sinne hinaus; er mobilisiert
vormals Gleichgültige – 2016 waren es Stahlarbeiter, 2024 die „Krypto-Bros“. Er
spaltet die Menschen nicht nur ideologisch, sondern auch in ihrer Haltung zu
Normen und Verfahren. Die „VIPs“ im Wahlclub, die mit allen politischen Regeln
vertraut sind, wenden sich meist angewidert ab; jene hingegen, die sonst außen
vor bleiben, fühlen sich von ihm angezogen. Das stellt eine grundlegende Umkehr
früherer Annahmen darüber dar, wem in den USA eine hohe Wahlbeteiligung nützt.
2024 zeigte sich deutlich: „Kleinere“ Wahlen zu spezifischen Themen taugen
nicht als Stimmungstest für die Präsidentschaftswahl im Herbst. Bei den Wählern
mit hoher Wahlneigung schnitten die Demokraten klar besser ab als in der
Gesamtwählerschaft.
Die entscheidenden Verschiebungen im Herbst 2024 zeigten
sich vor allem bei Wählerinnen und Wählern, die sonst selten zur Urne gehen –
darunter Hispanics und andere Minderheiten, aber auch junge Menschen, Personen
ohne Hochschulabschluss, Unverheiratete und Wähler mit geringem Einkommen. Wenn
mehrere dieser Merkmale zusammenkamen – was häufig der Fall war –, stieg die
Wahrscheinlichkeit, dass sie Trump ihre Stimme gaben. Man könnte von einer Art
MAGA-Version von Intersektionalität sprechen. Doch das bedeutet nicht, dass
diese Gruppen verlässlich oder vorhersehbar wählen. Ihre Loyalitäten können
flüchtig sein – und selbst wenn sie zur Wahl gehen, ist unklar, welcher Seite
dies am Ende zugutekommt.
Das verändert nicht nur die Demografie der Wählerschaft, die
in einem Zwischen- oder Präsidentschaftswahlzyklus erreicht wird, sondern auch
die Themen, die im Mittelpunkt stehen. So dominierten 2022 etwa Demokratie und
Schwangerschaftsabbruch die Debatten, 2024 jedoch nicht mehr. Das lag nicht
allein daran, dass prägende Ereignisse wie der 6. Januar oder die Aufhebung von
Roe v. Wade damals noch frisch im Gedächtnis waren, sondern auch daran, dass
gezielt Wählerinnen und Wähler mit hoher oder mittlerer Wahlneigung mobilisiert
wurden.
Auf der rechten Seite des politischen Spektrums erfüllt das
Thema Einwanderung eine ähnliche Funktion: Die ideologisch überzeugtesten und
zugleich wahlfreudigsten Trump-Anhänger beschäftigen sich weitaus stärker damit
als jene, die nur unregelmäßig oder nicht zuverlässig für ihn stimmen. Noch
deutlicher zeigt sich das beim Thema Lebenshaltungskosten – dem dominierenden
Punkt in den Umfragen. Paradoxerweise wirkt er fast wie ein negativer Indikator
für die Wahlbeteiligung: Statistisch gesehen nehmen Menschen, die stark unter
hohen Lebenshaltungskosten leiden, seltener an Zwischen- oder kleineren Wahlen
teil. Da diese Betroffenen politisch weniger präsent sind, finden konkrete
Lösungsansätze für dieses Problem bei Politikerinnen und Politikern beider
Parteien kaum Beachtung. Ähnliches gilt für das verwandte Thema Wohnkosten und
Mieten.
Eine Mobilisierungsstrategie zu bestimmten Einzelthemen kann
bei Zwischenwahlen durchaus funktionieren. In Präsidentschaftswahljahren jedoch
wird sie meist durch den Zustrom weniger informierter, leichter beeinflussbarer
Wählerinnen und Wähler unterlaufen, deren Beteiligung von völlig anderen
Faktoren abhängt. Deshalb konnten wir gerade in jüngster Zeit alle zwei Jahre
einen Wechsel beobachten, welche Partei über ihre Stammwählerschaft hinaus
Zugewinne erzielte: 2016 die Republikaner, 2018 die Demokraten, 2020 erneut die
Republikaner, 2022 die Demokraten – und 2024 wieder die Republikaner. Politiker
glauben gern, die Lehren aus einem Wahlzyklus ließen sich auf den nächsten
übertragen. Tatsächlich ist eher das Gegenteil der Fall.
Zwar gibt es in der Demokratischen Partei viele, die
aufrichtig daran interessiert sind, das Bild der Partei bei Menschen mit
niedriger Wahlbeteiligung zu verändern. Doch alle unmittelbaren Anreize rund um
die Zwischenwahlen sprechen dagegen. Im Klartext: Je erfolgreicher die
Demokraten bei den Midterms abschneiden, desto unpopulärer werden Forderungen
nach einem grundlegenden Kurswechsel. TI/IPG 16
Studie. Großteil der Geflüchteten
in Deutschland armutsgefährdet
Wenn es nach Rechtspopulisten geht, geht es Geflüchteten in
Deutschland gut – zu gut. Einer wirtschaftswissenschaftlichen Studie zufolge
sind sie in Deutschland jedoch überdurchschnittlich von Armut gefährdet. Ihr
Risiko ist deutlich größer geworden.
Fast zwei Drittel der Geflüchteten in Deutschland sind einer
Studie zufolge armutsgefährdet oder arm. Die am Mittwoch veröffentlichte
Untersuchung des Deutschen Instituts für Wirtschaftsforschung (DIW) Berlin zu
Einkommensungleichheit und Armutsrisiko kommt auf Basis des Sozio-oekonomischen
Panels (SOEP) für Geflüchtete auf ein Risiko von 63,7 statt 42,0 Prozent zwölf
Jahre zuvor. Noch höher ist das Armutsrisiko für Erwerbslose: Es stieg zwischen
2010 und 2022 um 16,5 Prozentpunkte von 54,9 auf 71,4 Prozent.
Als Ursache verwies das DIW auf die hohe Inflation der Jahre
2021 und 2022. Die damalige Teuerung habe die Reallöhne und verfügbaren
Einkommen in Deutschland „erstmals seit 2013 wieder sinken lassen“. Zuerst
hatte die „Süddeutsche Zeitung“ über die Ergebnisse der Studie berichtet.
Bei den Menschen ohne ausländische Wurzeln habe es in den
zurückliegenden Jahren beim Armutsrisiko kaum Veränderungen gegeben, stets
hätten knapp 13 Prozent als armutsgefährdet gegolten. Bei den Geflüchteten
dagegen habe es einen drastischen Anstieg gegeben, in der Spitze im Jahr 2020
hätten fast 70 Prozent unterhalb der Schwelle zur Armutsgefährdung in
Deutschland gelebt. „Die gute Nachricht ist: Seit 2020 sinkt die
Armutsrisikoquote bei Geflüchteten wieder etwas, was der zunehmenden
Arbeitsmarktintegration zu verdanken sein dürfte“, sagte der DIW-Forscher und
Studienautor Markus Grabka.
Armutsrisiko auch bei Einwanderern höher
Auch andere Zuwanderer haben dem Bericht zufolge ein
größeres Risiko, mit einem niedrigen Einkommen auskommen zu müssen. Das gelte
sowohl für Menschen, die selbst nach Deutschland eingewandert sind, als auch
für die nächste Generation, wenn mindestens Vater oder Mutter aus dem Ausland
stammen. Bei beiden Gruppen lebe rund ein Viertel im Armutsrisiko.
Ebenfalls stark zugenommen hat die Armutsrisikoquote für
Haushalte ohne Erwerbstätige. „Es zeigt sich deutlich, dass Arbeit vor Armut
schützt“, erklärte Grabka, der zugleich empfahl: „Um die Einkommensungleichheit
und das Armutsrisiko zu senken, sollte die Integration bestimmter Gruppen in
den Arbeitsmarkt stärker gefördert werden.“ Auch das Transfersystem müsse
reformiert werden, „da sich eine Ausweitung der Arbeitszeit gerade im unteren
Einkommensbereich kaum im Geldbeutel bemerkbar macht“.
Ungleichheit bei Stundenlöhnen hat abgenommen
Als Schwelle zum Armutsrisiko wurde der Studie zugrunde
gelegt, wenn jemand über weniger als 60 Prozent des sogenannten Medians der
Haushaltsnettoeinkommen verfügt. Der Median gibt dabei genau das Einkommen in
der Mitte an, die eine Hälfte verdient mehr Geld, die andere weniger. Für eine
Einzelperson habe die Schwelle zum Armutsrisiko für das zuletzt untersuchte
Jahr 2022 bei 1.419 Euro gelegen.
Die DIW-Studie kommt außerdem zu dem Ergebnis, dass die
Ungleichheit bei den Stundenlöhnen deutlich abgenommen hat, „was vor allem der
Einführung des allgemeinen Mindestlohns und dessen wiederholten Erhöhungen zu
verdanken ist“. Anders verhalte es sich jedoch mit der Ungleichheit der
Haushaltsnettoeinkommen, die langfristig zugenommen habe. Am unteren Rand der
Verteilung der Nettoeinkommen „zeigt sich ein zunehmendes Armutsrisiko“,
stellte das Institut fest. (epd/mig 16)
Gallagher: Gaza-Abkommen ist gut,
erfordert aber Arbeit zur Stabilisierung
Der Sekretär für die Beziehungen zu den Staaten des
Vatikans, Erzbischof Paul Richard Gallagher, hat das jüngste Abkommen zur
ersten Phase des Friedensplans für Gaza begrüßt, zugleich aber vor dessen
Fragilität gewarnt und zur weiteren Stabilisierung aufgerufen. Gallagher
äußerte sich am Nachmittag im Rahmen des 16. Festivals der Diplomatie in Rom.
Von Roberto Paglialonga und Mario Galgano
„Es ist gut, dass das Abkommen für Gaza zustande gekommen
ist, und man muss das Engagement des US-Präsidenten Trump in diesem Sinne
anerkennen“, sagte Gallagher bei einem Dialog über „Vatikanische Diplomatie und
staatliche Diplomatie“ in der italienischen Botschaft beim Heiligen Stuhl. Er
fügte jedoch hinzu:
„Wir alle wissen aber, dass es sich noch um ein fragiles
Gleichgewicht handelt und dass nun viel Arbeit von allen benötigt wird,
insbesondere von den Vermittlern und den beteiligten Akteuren.“
Appelle und Schwachpunkte des Nahost-Abkommens
Gallagher betonte, dass der Heilige Stuhl alles in seiner
Macht Stehende getan habe, um den Dialog zu fördern und die Einhaltung des
Völkerrechts zu fordern. Er verwies auf die „öffentliche Diplomatie“ durch die
Appelle von Papst Franziskus und nun Papst Leo XIV. sowie die Unterstützung der
christlichen Gemeinschaften, etwa durch die täglichen Anrufe von Papst
Franziskus in der Pfarrei der Heiligen Familie in Gaza-Stadt.
Der italienische Botschafter Giampiero Massolo, Mitdiskutant
der Veranstaltung, wies auf die Schwachstellen hin: Es blieben die heiklen
Punkte der zweiten Phase des Abkommens zu lösen – die Entwaffnung der Hamas und
der Abzug Israels aus dem Gazastreifen. Massolo sieht jedoch in der Perspektive
der Abraham-Abkommen eine gemeinsame Interessengrundlage.
Ukraine-Krieg: Die Komplexität des Multilateralismus
Im Vergleich zum Nahen Osten bezeichnete Erzbischof
Gallagher die russisch-ukrainische Frage als „komplexer“. Er äußerte die
Hoffnung auf Frieden, „der noch nicht nahe scheint“. In diesem Kontext, in dem
eine „gewisse Lähmung des multilateralen Sektors“ herrsche, sei es die Aufgabe
des Heiligen Stuhls, „weiterhin Kontakte zu erleichtern“. Er hob die Missionen
von Kardinal Zuppi zum Gefangenenaustausch und zur Rückführung von Kindern
hervor.
Massolo ergänzte, dass es in der Ukraine an der Grundlage
für gemeinsame Interessen fehle. Er deutete an, dass die Möglichkeit, „Hebel
des Drucks, insbesondere auf Moskau“, einzusetzen, nun in den Händen von
Präsident Trump liege.
Irreversibilität von „Nostra Aetate“
Angesprochen auf die Beziehungen zu anderen Religionen nach
den Konfliktjahren räumte Gallagher „manchmal einige Missverständnisse“,
insbesondere mit dem Judentum, ein und forderte einen Weg der Versöhnung. Die
Entscheidungen der Konzilsväter in der Erklärung „Nostra Aetate“ seien
„irreversibel“.
„Unsere religiösen Quellen müssen Quellen der Versöhnung
sein“, betonte er.
Zum Abschluss äußerte Gallagher große Zufriedenheit über den
heutigen Antrittsbesuch von Papst Leo XIV. beim italienischen Präsidenten
Sergio Mattarella im Quirinalspalast: „Ein Tag großer Zufriedenheit für den
Heiligen Stuhl. Man hat die Einigkeit mit Italien in Sachen Frieden deutlich
gesehen.“
(vn 15)
Studie. Zuwanderung spaltet
Menschen in Deutschland am stärksten
Immer wieder wird eine Spaltung in der Gesellschaft beklagt.
Doch bei welchen Themen prallen die Gegensätze besonders heftig aufeinander?
Eine Studie aus Dresden gibt Antworten.
Gut 81 Prozent der Deutschen nehmen ihr Land laut einer
Studie als gespalten wahr. Dabei wird dem Thema Zuwanderung das größte
Spaltungspotenzial zugeschrieben, teilte das Mercator Forum Migration und
Demokratie (MIDEM) an der Technischen Universität Dresden mit. Das stärkste Maß
an ideologischer Polarisierung betreffe Klimaschutzmaßnahmen und Hilfe für die
Ukraine. Zusammen mit dem Thema Zuwanderung sei hier auch die höchste
„affektive Polarisierung“ festzustellen. Ideologische Polarisierung betrifft inhaltliche
Meinungsunterschiede, affektive die emotionale Abwertung Andersdenkender.
Die MIDEM-Forscher hatten für ihr „Polarisierungsbarometer“
knapp 34.000 Menschen in acht EU-Ländern befragt, darunter fast 4.400 in
Deutschland. „Bei manchen Themen gehen die Meinungen weit auseinander, ohne
dass der demokratische Zusammenhalt leiden muss. Bei anderen eskalieren
Konflikte, weil aus politischen Gegnern Feinde werden“, lautet ein Befund.
Selbst dort, wo inhaltlich weitgehend Konsens herrsche, blockiere eine hohe
Emotionalität die konstruktive Auseinandersetzung.
Forscher: Polarisierung differenziert betrachten
„Es vergeht kein Tag, an dem nicht mahnend auf eine
wachsende Spaltung hingewiesen wird“, sagte Studienleiter Hans Vorländer. Das
verkürze aber die Analyse. „Wir müssen differenzieren: Wann gefährdet
Polarisierung die Demokratie wirklich? Und wann ist sie normaler Bestandteil
pluralistischer Politik?“
Ideologische Polarisierung sei bis zu einem gewissen Grad in
Demokratien notwendig. Affektive Polarisierung hingegen könne den
demokratischen Zusammenhalt schwächen, weil sie Verständigung blockiere und aus
politischem Wettbewerb Feindschaft mache.
Ältere, Männer und Geringverdiener polarisieren besonders
Nach den Ergebnissen der Studie sind ältere Menschen, Männer
und Geringverdiener besonders stark affektiv polarisiert. „Auffällig: Wer sich
politisch klar ‚links‘ oder ‚rechts‘ verortet, ist stärker polarisiert – am
rechten Rand allerdings deutlich stärker. Besonders ausgeprägt ist die
emotionale Ablehnung Andersdenkender bei Anhängern von AfD und Grünen – zwei
Lager, die sich in dieser Haltung ähneln“, hieß es. Bei CDU/CSU-, SPD- und
FDP-Unterstützern blieben die Werte deutlich niedriger.
„Politik, Medien und Zivilgesellschaft müssen
unterschiedlich agieren – je nachdem, ob sie es mit einem Spaltungsthema, einem
Konfliktthema oder einem Reizthema zu tun haben“, erklärte Vorländer. Pauschale
Warnungen vor einer Spaltung würden nicht weiterhelfen. „Wir brauchen
differenzierte Diagnosen für differenzierte Strategien.“
Hohe emotionale Aufladung beim Thema Klimaschutz
Stark entgegengesetzte Meinungslager und eine hohe
emotionale Aufladung werden beim Thema Klimaschutz deutlich. 41,6 Prozent der
Befragten tendieren zu der Ansicht, die aktuellen politischen Maßnahmen gingen
„noch lange nicht weit genug“. Demgegenüber stehen 39,6 Prozent, die die
Maßnahmen schon als „viel zu weit“ empfinden.
Beim Thema Zuwanderung allgemein fordern 67 Prozent der
Befragten Beschränkungen. In den zum Vergleich herangezogenen EU-Ländern sind
es 28 Prozent. 40 Prozent der Befragten in Deutschland fordern eine umfassende
kulturelle Anpassung von Migranten, 47 Prozent halten Spracherwerb und
Rechtstreue für ausreichend.
Lebendige Demokratie braucht Streit
„Politik steht heute unter Druck unmittelbar artikulierter
Interessen. Diskurse werden von emotional aufgeladenen Interventionen in
digitalen Medien geprägt“, sagte Vorländer. Deshalb habe sich die Studie auf 15
Sachfragen in den Themenfeldern Zuwanderung, Sicherheit, Klimawandel,
Wirtschaft und Soziales sowie Wertvorstellungen fokussiert. Zu jedem Feld
wurden die Befragten nicht nur nach ihrer Position, sondern auch nach ihrer
emotionalen Haltung gegenüber Andersdenkenden gefragt.
„Eine lebendige Demokratie braucht Streit – aber sie darf
nicht an ihm zerbrechen“, sagte Christiane von Websky, Leiterin des Bereichs
Teilhabe und Zusammenhalt bei der Stiftung Mercator. „Das
Polarisierungsbarometer zeigt eindrücklich, dass wir genauer hinschauen müssen:
Nicht jede Differenz ist eine Spaltung, und nicht jeder Konflikt gefährdet den
Zusammenhalt. Entscheidend ist, ob wir in der Lage bleiben, miteinander zu
sprechen – auch über das, was uns trennt.“ (dpa/mig 15)
Kirche kritisiert geplante
EU-Verordnung für mehr Abschiebungen
Die geplante EU-Rückführungsverordnung stößt auf scharfe
Kritik. Der Gesetzesvorschlag öffne Tür und Tor für Rückführungszentren in
Drittstaaten und mache Abschiebehaft praktisch zum Standardinstrument, sagt
Katrin Hatzinger, Büroleiterin der Evangelischen Kirche in Brüssel, im
Gespräch. Von Marlene Brey
Die EU arbeitet derzeit an einer Verordnung für mehr
Abschiebungen. Warum ist dieser Vorschlag aus Sicht vieler europäischer Kirchen
und Hilfswerke so problematisch?
Katrin Hatzinger: Der Vorschlag wirkt wie ein Schnellschuss,
der eher politische Stimmungen bedient, anstatt eine faire und wirksame
Migrationspolitik zu gestalten. Er öffnet die Tür, Rückführungszentren in
Drittstaaten einzurichten – etwa in Uganda, wie es die Niederlande derzeit
prüfen. Menschen würden dorthin gebracht, obwohl sie keinerlei Bezug zu diesen
Ländern haben. Niemand weiß, wie die Haftbedingungen dort sind, wie der
Rechtsschutz gewährleistet wird oder ob Nichtregierungsorganisationen Zugang haben.
Das ist eine Blackbox und hochproblematisch.
Welche Verschärfungen sehen Sie noch?
„Haft … – auch für Familien und Kinder. Das ist aus
kirchlicher Sicht völlig inakzeptabel.“
Man bekommt den Eindruck, dass Abschiebehaft zum
Standardinstrument werden könnte. Haft soll bis zu 24 Monate möglich sein –
auch für Familien und Kinder. Das ist aus kirchlicher Sicht völlig
inakzeptabel. Zwei Jahre Haft sind nicht nur teuer, sondern richten menschlich
enormen Schaden an – besonders bei Kindern. Zudem wird die freiwillige
Rückkehr, die sich in der Praxis als nachhaltigste und günstigste Lösung
erwiesen hat, hintangestellt. Stattdessen setzt man auf Zwangsmaßnahmen mit
allen Risiken von Menschenrechtsverletzungen. Der Vorschlag geht davon aus,
dass Menschen, die nicht kooperieren, schlicht nicht wollen. Dass sie krank,
traumatisiert oder alt sein könnten, wird ausgeblendet.
Die EU-Kommission begründet ihre Reform damit, dass nur etwa
20 Prozent der Rückführungen tatsächlich gelingen. Was entgegnen Sie diesem
Argument?
„Die Härte des Vorschlags weckt falsche Erwartungen in der
Bevölkerung.“
Zu einer guten Migrationspolitik sollte auch eine
glaubwürdige Rückführungspolitik gehören. Für uns Kirchen ist dieser Vorschlag
jedoch nicht mehr verhältnismäßig. Oft werden Menschen nicht zurückgeführt,
weil es praktische und rechtliche Hürden gibt, die nicht so ohne Weiteres zu
überwinden sind: etwa die Sicherheitssituation im Herkunftsland, der
Gesundheitszustand der Betroffenen oder dass der Herkunftsstaat die Person
nicht annimmt. Die Härte des Vorschlags weckt falsche Erwartungen in der
Bevölkerung – und aus der Praxis wissen wir, dass Rückführungen nicht so
einfach funktionieren, wie hier versprochen wird.
Sehen Sie auch positive Punkte im Vorschlag der Kommission?
Es gibt kleine Verbesserungen. So sollen EU-Staaten
verpflichtet werden, über Möglichkeiten der freiwilligen Rückkehr und über
Reintegration im Herkunftsland zu informieren und zu beraten. Außerdem ist ein
unabhängiges Monitoring von Abschiebungen vorgesehen. Das wäre für unsere
kirchliche Abschiebebeobachtung, die es heute schon an sechs deutschen
Flughäfen gibt, ein echter Fortschritt, weil es Rechtssicherheit schaffen
würde. (epd/mig 15)
„Das ist der Preis Norwegens, nicht
unserer“
Der Friedensnobelpreis für die Oppositionspolitikerin María
Corina Machado sorgt in Venezuela für wenig Jubel – und dafür gibt es gute
Gründe. Von Anja Dargatz
Der Friedensnobelpreis wird in diesem Jahr überraschend an
die Oppositionspolitikerin María Corina Machado verliehen. Laut Begründung des
Osloer Komitees ist sie diejenige, die in Venezuela „die Flamme der Demokratie
in der wachsenden Dunkelheit“ am Leben erhält. Im Land selbst stößt die
Auszeichnung jedoch auf verhaltene Resonanz, denn die Realität in Venezuela ist
weitaus komplexer.
Zum einen dämpft die anhaltende Repression jeden offenen
Jubel unter ihren Anhängerinnen und Anhängern. Doch es ist nicht nur die Angst
vor Hausbesuchen durch Sicherheitskräfte oder vor Verhaftungen, die die Freude
trübt. „Das ist der Preis Norwegens, nicht unserer“, sagt eine Venezolanerin,
als sie am frühen Morgen von der Nachricht erfährt. „Der Friedensnobelpreis –
für jemanden, der eine militärische Invasion befürwortet und damit
Menschenleben aufs Spiel setzt?“, fragt ein junger Mann auf dem Weg zur Arbeit.
Selbst unter Machados Unterstützerinnen und Unterstützern gibt es Zweifel: „Sie
hat sicherlich Preise verdient, aber den Friedensnobelpreis?“, meint eine
Biologiestudentin.
Venezuelas Präsident Nicolás Maduro äußerte sich erst am
Sonntag – anlässlich des Tages des indigenen Widerstands – und beschimpfte
Machado als „teuflische Hexe“, die von 90 Prozent der Bevölkerung abgelehnt
werde. Auf die Preisverleihung selbst ging er nicht ein. Die Reaktion der
Regierung spricht für sich: Drei Tage nach der Verkündung der Entscheidung des
Nobelkomitees schloss Venezuela seine Botschaft in Norwegen – im Zuge einer „Optimierung
und Reorganisation der diplomatischen Vertretungen“, wie es im offiziellen
Kommuniqué hieß.
Dagegen gratulierten die demokratischen Kräfte in der
Region, im Land und im Exil parteiübergreifend und begrüßten vor allem die
Aufmerksamkeit, die die Auszeichnung auf Venezuela lenkt. Auch die derzeit
prominenteste venezolanische Menschenrechtsorganisation fand anerkennende
Worte: Sie sieht die Vergabe des Preises als „Unterstützung im Kampf für
Veränderung“. Die diplomatischen Worte, wie sie unter anderem auch
Präsident Frank-Walter Steinmeier fand, treffen den Kern: Ausgezeichnet werden
laut Steinmeier „persönlicher Einsatz, Mut, Hartnäckigkeit“, allerdings kein
wie auch immer geartetes Dialogprojekt oder gar Verhandlungserfolge. Damit
reiht sich Machado ein in eine Reihe fragwürdiger Friedensnobelpreisträger der
Vergangenheit.
Anerkannt und unbestritten ist Machados Energie, mit der sie
den Sieg bei den Präsidentschaftswahlen am 28. Juli 2024 verteidigt. Gemeinsam
mit dem Ex-Diplomaten Edmundo González Urrutia, der antrat, nachdem ihr die
Kandidatur aberkannt worden war, errang sie einen klaren Wahlsieg. Das
Besondere daran: Dank zuvor geschulter Wahlhelferinnen und Wahlhelfer in den
Wahllokalen konnten die Wahlakten dokumentiert und der Sieg mit Zahlen und
Prozenten konkret belegt werden – unabhängig von der staatlichen Wahlbehörde.
Das war ein bislang einzigartiger Vorgang in der venezolanischen
Demokratiegeschichte. Dafür findet Machado im Land breite Anerkennung.
Doch das liegt inzwischen über ein Jahr zurück, und die
Menschen im Land blicken nach vorn: Festhalten an etwas, das gestohlen und
verloren ist – oder neue Wege suchen? Um heute in Venezuela eine tragende Rolle
zu spielen, fehlen Machado zwei entscheidende Dinge: Aktionsspielraum und
Dialogbereitschaft. Ihr Handlungsspielraum ist begrenzt, da sie seit über einem
Jahr im Untergrund lebt. Das ist durchaus im Sinne des Regimes, das längst
Gelegenheit gehabt hätte, sie zu verhaften – dies aber aus gutem Grund nicht
getan hat.
Anlässlich der Amtseinführung von Präsident Nicolás Maduro
hatte Machado einen ihrer seltenen öffentlichen Auftritte bei einer Kundgebung
ihrer Anhängerinnen und Anhänger. Anschließend wurde sie von staatlichen
Sicherheitskräften gestellt. Es folgten Stunden der Ungewissheit über ihren
Verbleib, ein schwer zu deutendes Video – und schließlich meldete sie sich
erneut aus ihrem Versteck. Die Botschaft war eindeutig: Die Regierung ist
darauf bedacht, keine Märtyrerin zu schaffen – und im Idealfall einen Exil-Deal
zu vereinbaren.
Doch Machado weiß genau, dass ein Exil ihrer politischen
Bedeutungslosigkeit gleichkäme – und bleibt daher hartnäckig im Land. Ihr
Handlungsspielraum beschränkt sich unter diesen Umständen auf ihre sozialen
Kommunikationskanäle und auf internationale Netzwerke. Darüber verbreitet sie
ihre Positionen und versucht, die internationale Gemeinschaft zu mobilisieren.
Innerhalb Venezuelas jedoch gibt es keine erkennbaren Bemühungen, das
Parteienbündnis, das sie bis zu den Präsidentschaftswahlen getragen hatte, zusammenzuhalten
oder gemeinsame Strategien zu entwickeln.
Sie ist lediglich eine, nicht die Oppositionsführerin, wie
sie international gerne dargestellt wird. Im Gegenteil: Mit ihrem
kompromisslosen Aufruf zum Boykott der Parlaments-, Gouverneurs- und
Kommunalwahlen 2025 hat sie die wenigen im Land verbliebenen demokratischen
Kräfte gespalten – in jene, die ihrem Aufruf aus Loyalität folgten, und jene,
die trotz aller Widrigkeiten das politische Feld nicht kampflos verlassen
wollten.
Auch mit den Menschenrechtsorganisationen im Land besteht
kein strategisches Bündnis – obwohl angesichts der politischen Gefangenen auf
allen Seiten ein starkes gemeinsames Interesse bestünde. Wer in Venezuela
Menschen sucht, die „die Flamme der Demokratie“ am Leben erhalten, findet sie
dort.
Bündnisse mit den regionalen Nachbarn zu schmieden – etwa
mit Venezuelas wirtschaftlich wichtigstem Partner Kolumbien oder der
Regionalmacht Brasilien? Fehlanzeige. Machados internationale Verbündete sitzen
weiter im Norden. Ihre direkte Verbindung zum US-amerikanischen Außenminister
Marco Rubio ist kein Geheimnis: Beide trafen sich Anfang des Jahres digital
anlässlich seiner Amtseinführung und unterstützen sich seither rege in den
sozialen Medien. Selbst US-Präsident Trump äußerte sich – trotz eigener Ambitionen
– anerkennend über die Preisträgerin. Machado wiederum widmete den Preis dem
US-Präsidenten. Diese Verbindungen zu rechtspopulistischen internationalen
Kreisen sind nicht neu – und sie sind ideologisch gefestigt. Das zeigte sich
unter anderem im Februar bei Machados Auftritt vor der rechtspopulistischen
Fraktion Patrioten für Europa im EU-Parlament in Brüssel.
Angesichts dieser Lage ist es kaum vorstellbar, dass Machado
einen wie auch immer gearteten Übergang gestalten könnte. Sie führt weder ein
geeintes demokratisches Bündnis an, das Regierungsverantwortung übernehmen
könnte, noch käme sie als Dialogpartnerin für das Regime infrage. Wer einen
friedlichen Übergang gestalten will, muss den Machthabern Angebote machen,
Brücken bauen. Für Machado bleibt jedoch die militärische Invasion das Mittel
der Wahl. Ob es dazu kommt – und in welcher Form – ist offen. Die USA
verstärken jedenfalls ihre militärische Präsenz im Karibischen Meer. Gut also,
wenn auch die internationale Gemeinschaft darauf ein wachsames Auge wirft. IPG
14
Made by Migration. Zuwanderer
prägen Deutschlands Innovationskraft
Jedes siebte Patent in Deutschland stammt inzwischen von
Menschen mit ausländischen Wurzeln – Tendenz steigend. Besonders stark wächst
der Beitrag von Erfindern aus Indien, der Türkei und arabischen Ländern.
Jede siebte Erfindung in Deutschland geht nach einer neuen
Studie des Deutschen Instituts für Wirtschaftsforschung (IW) auf Zuwanderer
zurück. Im Jahr 2022 stammten demnach 14 Prozent der hierzulande angemeldeten
Patente von Menschen mit ausländischen Wurzeln, wie das arbeitgebernahe
Institut am Montag in Köln auf der Grundlage eigener Berechnungen mitteilte. Im
Jahr 2000 habe der Anteil von Migrantinnen und Migranten erst bei 4,9 Prozent
gelegen.
Mit jeweils knapp drei Prozent leisten der Untersuchung
zufolge Erfinderinnen und Erfinder aus Ost- und Südosteuropa sowie dem
südeuropäischen und lateinamerikanischen Sprachraum den größten Beitrag bei den
Patentanmeldungen in Deutschland. Auf Platz drei folgten der arabische und der
türkische Sprachraum mit rund zwei Prozent. Der Anteil aus dieser Region habe
sich in den zurückliegenden 25 Jahren vervierfacht, erklärte das IW. Besonders
stark sei das Wachstum bei den Patenten unter den Menschen mit indischer
Herkunft: Ihre Anmeldungen seien mit 1,2 Prozent zwölfmal so hoch wie zur
Jahrtausendwende.
IW: Unbürokratische Verfahren zur Einreise hilft Deutschland
Wie die IW mitteilt, altert Deutschland und ist wie andere
Industrieländer auf die Zuwanderung gut ausgebildeter Menschen angewiesen. „Um
im Wettbewerb um die klügsten Köpfe mithalten zu können, sind schnelle und
unbürokratische Verfahren zur Einreise und Anerkennung von Qualifikationen
notwendig“, erklärt Alexandra Köbler, Forscherin am IW. Ein weltoffenes Klima
sei ebenfalls entscheidend, Expertinnen und Experten mit ihrem Know-how zu
gewinnen und attraktiv für Talente im Ausland zu bleiben.
Für ihre Untersuchung werteten die Forscher die
Patent-Datenbank des Instituts der deutschen Wirtschaft aus. Für den Vergleich
wurden die dort enthaltenen Vornamen sämtlicher Erfinderinnen und Erfinder seit
2000 einem von 24 Sprachräumen zugeordnet. So lasse sich „mit hoher
Wahrscheinlichkeit“ die Herkunftsregion der betreffenden Personen bestimmen,
erklärte das Institut. (epd/mig 14)
Hoffnung auf allen Seiten. Waffenruhe
in Gaza – Kehrt Frieden ein in Nahost?
Nach zwei Jahren Krieg keimt im Nahen Osten Hoffnung auf
Frieden – doch die Skepsis bleibt. Während US-Präsident Trump den „ewigen
Frieden“ beschwört, atmen in Deutschland und Europa viele Menschen auf. Auch
für sie bedeutet das Ende der Kämpfe viel.
Der Nahe Osten steht nach Jahrzehnten der Feindseligkeiten
vor einer möglichen historischen Wende. Der zwischen Israel und der Hamas
vereinbarte Austausch von Geiseln und Gefangenen samt einem Teilrückzug der
israelischen Truppen bietet eine schmale, aber ernsthafte Chance auf ein neues
Kapitel – in Gaza, aber auch in der gesamten Region. Es könnte die Phase eines
längerfristigen Friedens bevorstehen, auf die auch sehr viele Menschen in
Deutschland warten. Doch in den kommenden Wochen und Monaten drohen viele
Fallstricke.
Die Einigung der vergangenen Woche in Scharm el Scheich will
US-Präsident Donald Trump mit weiteren Staats- und Regierungschefs besiegeln
und hat „ewigen Frieden“ beschworen. Der Gaza-Krieg begann vor zwei Jahren mit
dem beispiellosen Terrorangriff der Hamas vom 7. Oktober 2023 und führte zu
einem Konflikt mit über 60.000 Toten im Gaza-Streifen, darunter viele
Zivilisten, Frauen und Kinder. Die katastrophale Kette von Ereignissen könnte
nun abreißen, denn die Machtverhältnisse im Nahen Osten haben sich seitdem
dramatisch verändert.
Israel hat seine Feinde militärisch zumindest geschwächt:
die Hisbollah im Libanon, die Hamas im Gazastreifen, die Huthi im Jemen und den
Iran, der sie alle unterstützt. In Syrien schwächte Israel die Regierung von
Machthaber Baschar al-Assad, der schließlich gestürzt wurde – womit Irans
Landweg zum Mittelmeer gekappt wurde. Auch die Milizen im Irak haben ihre
Angriffe auf US-Truppen in der Region weitgehend eingestellt. Ob dies
allerdings der nachhaltige Weg ist, bezweifeln Nahostexperten. Militärische Stärke
ließe sich schließlich immer wieder aufbauen, solange der Frieden nicht ehrlich
gemeint ist. Die Härte, mit der Israel in diesem Krieg vorgegangen sei, habe
viel Frust geladen – nicht nur in den Nachbarländern.
Was wird aus dem Gazastreifen?
Dennoch gilt nach Monaten des Krieges seit Freitag erst
einmal die Waffenruhe im Gazastreifen. Die Hamas hat nach Worten ihres
ranghohen Vertreters Chalil al-Haja Zusagen der USA und anderer Vermittler
erhalten, dass der Krieg nun tatsächlich vorbei ist. Wenn Soldaten der USA oder
etwa arabischer Länder die Waffenruhe wirklich absichern, werden Verstöße
beider Seiten unwahrscheinlicher.
Doch besonders strittige Fragen bleiben wie bei vorigen
Feuerpausen trotzdem ungeklärt: Wird die Hamas ihre Waffen abgeben, und wenn
ja, an wen und wie? Tut sie es nicht, wird Israel seine Soldaten keineswegs
abziehen. Selbst wenn die Hamas die Waffen abgibt, wird sie als politische
Kraft – und empfundene Bedrohung für Israel – nicht einfach verschwinden.
Parallel hat sich der Konflikt im besetzten Westjordanland mit den
Palästinensern deutlich verschärft.
Auch wenn die Kämpfe längerfristig enden, könnte in Gaza
neues Chaos ausbrechen. Etwa durch Clans, die die Hamas schwächen wollen –
erste Berichte über gezielte Tötungen und Racheakte gibt es bereits. Selbst ein
Machtvakuum ist denkbar oder ein Bürgerkrieg. Wenn Warlords die Kontrolle in
Gaza übernehmen, drohen Entwicklungen wie in Libyen oder Somalia.
Ob sich die Lage im Gazastreifen auch nachhaltig
stabilisiert und weitere Verhandlungen zu Ergebnissen führen, wird vor allem
davon abhängen, ob der für Sprunghaftigkeit bekannte Trump den Druck auf Israel
und Hamas aufrechterhält. Als Vorsitzender einer angedachten Behörde für den
Wiederaufbau Gazas müsste er sich der Zukunft des Gebiets über Jahre
verpflichten. Bis heute ist unklar, wer das Küstengebiet künftig regieren und
wer den Wiederaufbau zahlen soll. „Die schwierigste Arbeit fängt jetzt an“, schreibt
das Magazin „Foreign Affairs“.
Trumps Plan biete keine Vision für das Recht der
Palästinenser auf Selbstbestimmung, etwa in Form eines eigenen Staats, schreibt
die britische Denkfabrik Chatham House. In der „enthusiastischen Hast, Frieden
zu schließen“, habe Trump ein kaum drei Seiten langes Papier vorgelegt, das
schlicht zu wenig sei für ein umfassendes Friedensabkommen. Womöglich war es
vor allem sein Versuch, wie erhofft den Friedensnobelpreis zu erhalten.
Wie entwickelt sich die Lage in Syrien und im Libanon?
Auch über Gaza hinaus gibt es Anzeichen, dass sich die
Sicherheitslage in der Region verändern könnte. Mit Israels Nachbarland Syrien
scheint eine zumindest strategische Zusammenarbeit denkbar, um Spannungen an
der Grenze abzubauen. Übergangspräsident Ahmed al-Scharaa hat sich offen
gezeigt für eine Annäherung an das eigentlich verfeindete Israel im Gegenzug
für die Aufhebung der meisten US- und EU-Sanktionen gegen Syrien.
Im Gespräch ist hier ein Abkommen, das einen
Waffenstillstand der beiden Länder von 1974 faktisch erneuern würde. Es wäre
aber wohl eine begrenzte Einigung aus Sicherheitsinteressen, keine
diplomatische Annäherung oder gar Normalisierung der Beziehungen. In Syrien
kommt es immer wieder zu Kämpfen und Gewalt, auch neue Angriffe Israels sind
dabei weiter möglich. Streitpunkt bleiben außerdem die von Israel besetzten
Golanhöhen.
Im Libanon gilt unterdessen seit fast einem Jahr eine
Waffenruhe zwischen der Hisbollah und Israel, auch wenn dessen Militär die
Iran-treue Miliz weiterhin angreift. Die Regierung im Libanon steht unter Druck
der USA und anderer Länder, die Hisbollah zu entwaffnen und die staatliche
Souveränität wiederherzustellen. Erst dann kann der Libanon in seiner schweren
Wirtschaftskrise dringend benötigte Finanzhilfen bekommen für den Wiederaufbau
nach dem jüngsten, schweren Krieg mit Israel.
Die Hisbollah soll ihre Waffen eigentlich bis Ende des
Jahres abgeben, lehnt diesen Schritt aber ab, solange Israels Angriffe im Land
andauern. Eine neue Eskalation innerhalb des Libanon scheint hier ebenso
möglich wie neue, mitunter schwere Konfrontationen mit Israel.
Könnte Saudi-Arabien die Beziehungen mit Israel
normalisieren?
Solch ein Schritt würde durch ein echtes Ende der Kämpfe in
Gaza zumindest wahrscheinlicher. Trump hatte 2020 während seiner ersten
Amtszeit die Abraham-Abkommen auf den Weg gebracht, mit denen mehrere arabische
Staaten die Beziehungen zu Israel normalisierten. Auch mit Saudi-Arabien gab es
darüber Verhandlungen, die durchkreuzt wurden vom Hamas-Angriff und Israels
verheerendem Krieg.
Saudi-Arabien – schon jetzt eine Führungsmacht in der
arabischen Welt – verspricht sich von normalisierten Beziehungen zu Israel eine
noch stärkere eigene Rolle in der Region. Riad verlangte von den USA zuvor im
Gegenzug unter anderem Sicherheitsgarantien. Israels Angriff auf die
Hamas-Führung in Katar dürfte aus Sicht Saudi-Arabiens ein Beweis dafür gewesen
sein, dass der Golfstaat aus gutem Grund nach solch einer Vereinbarung strebte.
Das Königreich hat aber immer wieder glaubhafte Schritte zu
einem Palästinenserstaat zur Bedingung gemacht. Solch ein Staat, den mit
Frankreich, Großbritannien und Kanada inzwischen mehr als 150 von 193
UN-Mitgliedstaaten anerkennen, ist zuletzt ein wenig greifbarer geworden. Die
israelische Regierung lehnt die Gründung eines palästinensischen Staats im
Rahmen einer Zweistaatenlösung aber strikt ab, weil sie darin eine
existenzielle Gefahr für Israel sieht.
Ist der Konflikt zwischen Israel und dem Iran beendet?
Zumindest ist der heiße Konflikt vorerst beendet. Nach dem
zwölf Tage langem Krieg der beiden Erzfeinde Israel und Iran im Juni trat eine
Waffenruhe in Kraft. Der Grundkonflikt bleibt aber bestehen. Israel sieht sich
durch das iranische Atomprogramm bedroht und griff daher mit Unterstützung der
USA Atomanlagen an. Zum Ausmaß der Zerstörungen gibt es allerdings
unterschiedliche Angaben.
Der Krieg, das Atomprogramm und militärische Strategien
hätten mehr Fragen als Antworten aufgeworfen, schreibt Expertin Nicole
Grajewski. „Doch es scheint wahrscheinlich, dass die Wiederaufnahme der
Feindseligkeiten keine Frage des „Ob“, sondern des „Wann“ ist“, erklärt die
Analystin der Denkfabrik Carnegie.
Vor dem Krieg hatten Teheran und Washington über das
Atomprogramm verhandelt. Eine Fortsetzung der Gespräche ist ungewiss, ein neuer
Termin steht noch aus. Das Misstrauen der iranischen Führung dürfte nach den
Angriffen von Israel und den USA weiter gewachsen sein. Auch die Zusammenarbeit
mit der Internationalen Atomenergiebehörde (IAEA) wurde vorerst ausgesetzt.
Welche Vorteile hätte die Befriedung des Nahen Ostens für
die USA?
Ob im Iran, im Libanon oder auch Gaza: Grundlinien von
jahrzehntealten Konflikten werden nicht einfach verschwinden. In Teilen der
arabischen Welt wird ein Bild bleiben vom Aggressor Israel, der den „Frieden
herbeibomben will“, wie die „Washington Post“ nach Israels Angriff in Katar im
September schrieb. Und in Israel wird der Schrecken des 7. Oktober bleiben und
die Angst, umzingelt zu sein von Feinden. Selbst mit Staaten, die mit Israel
Frieden geschlossen haben, gibt es bis heute kaum eine echte Aussöhnung oder
gar Freundschaft der Völker.
Aber die USA haben – nicht erst unter Trump – ein Interesse
daran, darauf hinzuwirken, die Region zu stabilisieren. Für Trump geht es
gleich um mehrere Anliegen. Ein stabilerer Naher Osten würde den USA erlauben,
militärische Ressourcen wie Marineverbände und Raketenabwehrsysteme in den
Indopazifik umzuschichten, was für Trumps Regierung mit Blick auf die Rivalen
China und Russland ein zentrales strategisches Ziel ist.
Friedensverträge zwischen Israel und arabischen Staaten könnten
zudem zu regionaler Kooperation bei der Sicherung von Handelswegen oder im
Bereich Verteidigung zum Beispiel durch eine gemeinsame Raketenabwehr führen,
was langfristig die militärische Last der USA senken würde.
Es gilt für Washington aber auch, verlorenes Vertrauen
wiederherzustellen nach Israels Angriff auf die Hamas-Spitze in Katar, den die
USA entweder nicht verhindern wollten oder konnten. Die Golfländer sind
wichtige Kunden und haben Milliarden investiert in US-Rüstungsgüter, aber auch
in die Unternehmen von Trumps Familie. „Solche Arten von Interessen haben
US-Regierungen in der Vergangenheit hier nicht vertreten“, hob auch der
Nahost-Experte der Stiftung Wissenschaft und Politik, Guido Steinberg, im ZDF
hervor.
Und dann ist da noch die eine Hoffnung Trump, die ihn weiter
antreiben könnte, sich nicht nur kurzzeitig für eine Befriedung des Nahen
Ostens einzusetzen: der Friedensnobelpreis, der schließlich auch 2026 wieder
vergeben wird.
Hoffen und Bangen in Deutschland
Während Trump also auf internationale Anerkennung blickt,
bedeutet das mögliche Kriegsende für viele Menschen in Deutschland vor allem
eines: Erleichterung und Hoffnung. Für zahlreiche Israelis hierzulande ist es
ein Aufatmen, weil Geiseln freikommen und die Kämpfe enden. Zugleich hoffen
viele, dass die Spannungen und Anfeindungen gegenüber Jüdinnen und Juden in
Deutschland nachlassen – seit Beginn des Gaza-Kriegs war die Zahl
antisemitischer Vorfälle deutlich gestiegen.
Auch Palästinenserinnen und Palästinenser in Deutschland
reagieren erleichtert. Viele von ihnen lebten in den vergangenen Monaten in
ständiger Sorge um Freunde und Angehörige im Gazastreifen. Zehntausende
Zivilisten kamen dort ums Leben, viele verloren ihr Zuhause. Kaum jemand in der
palästinensischen Diaspora blieb von den Folgen des Kriegs unberührt. Das Ende
der Kämpfe weckt bei vielen die Hoffnung, dass nun eine Phase der Ruhe und des
Wiederaufbaus beginnen könnte.
Auch Europa verbindet Hoffnungen mit dem Ende des Kriegs.
Die EU und Deutschland blicken seit Beginn des Konflikts mit Sorge in die
Region – aus Angst vor neuen Fluchtbewegungen. Sollte der Wiederaufbau
scheitern und den Menschen keine Perspektive bieten, könnten viele versuchen,
die Region zu verlassen. Zahlreiche würden wohl nach Europa kommen,
insbesondere nach Deutschland, wo bereits eine große palästinensische
Gemeinschaft lebt. Studien zeigen, dass Menschen vor allem dorthin migrieren,
wo sie auf bestehende Strukturen und vertraute Netzwerke treffen. (dpa/mig 14)
EU schafft Passstempel ab. Neues
Grenzsystem für die europäische Migrations- und Asylpolitik
Das Ende der europäischen Stempel im Reisepass ist
eingeläutet. Nicht-EU-Bürger sollen sich bei ihrer Ankunft künftig elektronisch
registrieren. Das bedeutet nicht nur weniger Farbe im Pass.
Adieu Passstempel: Ab heute (12. Oktober) startet an
Grenzübergängen nach Europa ein neues Einreisesystem für Nicht-EU-Bürger. Das
neue Verfahren soll schrittweise eingeführt werden, mehr Daten erfassen und
dadurch Kriminalität bekämpfen, wie die EU-Kommission in Brüssel mitteilte. In
Deutschland führt zunächst der Flughafen Düsseldorf das sogenannte Ein- und
Ausreisesystem („Entry-Exit-System – EES“) ein. Ein Überblick:
Was ändert sich?
Für deutsche Staatsangehörige oder Staatsangehörige anderer
EU-Länder ändert sich nichts. Nicht-EU-Bürgerinnen und -Bürger können sich
künftig elektronisch an speziellen Schaltern registrieren. Ausnahmen gibt es
dabei etwa für Menschen, die eine Aufenthaltskarte besitzen und in
unmittelbarer Beziehung zu einem EU-Bürger stehen.
Einreisende müssen laut EU neben den üblichen Angaben aus
dem Reisepass auch biometrischen Daten, also Fingerabdrücke und Gesichtsbilder,
machen und speichern lassen. Außerdem wird das Ein- und Ausreisedatum
festgehalten. Um den Prozess an der Grenze zu beschleunigen, lassen sich manche
Daten schon vorab per App oder am Selbstbedienungsschalter abgeben.
Wann und wo wird das System eingeführt?
In den kommenden sechs Monaten soll das System nach und nach
in allen 29 Ländern des Schengenraums eingeführt werden. Neben 25 EU-Staaten
sind das Island, Liechtenstein, Norwegen und die Schweiz. Ab dem 10. April 2026
soll es dann an allen Übergangsstellen europäischer Außengrenzen funktionieren.
Dann soll auch der Stempel im Pass Geschichte sein.
In Deutschland folgen dafür nach dem Flughafen Düsseldorf
die Flughäfen Frankfurt am Main und München, wie das Bundesinnenministerium
mitteilte. Alle weiteren Flughäfen sowie die Häfen an den Seeaußengrenzen
sollen demnach allmählich dazukommen. Übrigens: Auch Zugreisende können
betroffen sein – etwa bei Reisen mit dem Eurostar von London nach Paris,
Brüssel oder Amsterdam.
Welche Auswirkungen hat das neue Einreisesystem?
Für alle EU-Bürgerinnen und Bürger haben die neuen Regeln
erst einmal keine direkten Auswirkungen. Zwar könnten die Kontrollen bei der
Einreise nach den Plänen der EU langfristig schneller gehen, davon profitieren
aber besonders Menschen ohne Staatsangehörigkeit eines EU-Landes.
Warum führt die EU das System ein?
Die EU will durch das neue System vor allem für mehr
Sicherheit sorgen und Kriminelle frühzeitig aus dem Verkehr ziehen. So soll
etwa mit der Speicherung biometrischer Daten Identitätsdiebstahl bekämpft
werden, hieß es von der Brüsseler Behörde. Demnach soll es zudem zuverlässige
Informationen zu Menschen liefern, die ihre Aufenthaltsdauer überschreiten.
Der zuständige EU-Kommissar Magnus Brunner bezeichnete das
EES als digitales Rückgrat der neuen gemeinsamen europäischen Migrations- und
Asylpolitik. „Mit seiner Einführung modernisieren wir die Verwaltung unserer
Außengrenzen“, sagte Brunner laut Mitteilung. „Jede Person, die an einer
Außengrenze ankommt, wird ausnahmslos einer Identitätsprüfung, einer
Sicherheitsüberprüfung und einer Registrierung in den EU-Datenbanken
unterzogen“, erklärte der EU-Kommissar weiter.
Ist das alles?
Das EES ist der erste Schritt eines neuen von der EU
angestrebten Grenzsystems: Im letzten Quartal 2026 soll laut EU zusätzlich eine
kostenpflichtige Einreisegenehmigung für EU-Ausländer verpflichtend werden, die
nicht ohnehin ein Visum brauchen.
Davon sind Staatsangehörige aus über 50 Ländern betroffen –
etwa den USA, Kanada, dem Vereinigten Königreich, Brasilien, den Vereinigten
Arabischen Emiraten, Israel oder Südkorea. Sie müssen dann eine sogenannte
ETIAS-Reisegenehmigung beantragen, die etwa wegen Sicherheitsbedenken der
Behörden auch abgelehnt werden kann. Ähnliche Systeme existieren bereits in
Großbritannien und den USA. (dpa/mig 13)
Vatikan/UNO: Weniger Rüstung,
Schuldenerlass für arme Länder
Während die weltweiten Militärausgaben im Jahr 2024 auf 2,7
Billionen US-Dollar gestiegen sind, bleibt die Finanzierungslücke für die
nachhaltigen Entwicklungsziele (SDGs) der Vereinten Nationen bei rund vier
Billionen jährlich. „Für jeden Dollar, der in den Frieden investiert wird,
werden zwei für den Krieg ausgegeben“, mahnte Erzbischof Gabriele Caccia,
Ständiger Beobachter des Heiligen Stuhls bei den Vereinten Nationen in New
York. Von Mario Galgano
„Jede Erhöhung der Militärausgaben bedeutet Ressourcen, die
man hätte nutzen können, um eine dauerhafte Friedensordnung aufzubauen. Die
Vision eines Multilateralismus, der dem Gemeinwohl verpflichtet ist, steht im
Widerspruch zu einer Welt, in der die Militärausgaben steigen und die
Verpflichtungen zur Entwicklungszusammenarbeit sinken“, sagte Caccia. Das
gegenwärtige System, so der Diplomat, sei geprägt von einer gefährlichen
Schieflage: „Statt in Gesundheit, Bildung oder Ernährungssysteme zu investieren,
werden die Mittel für Waffen verwendet, die Leben und Lebensgrundlagen
zerstören.“
Mit einem Zitat aus einer Ansprache von Papst Leo XIV.
erinnerte Caccia daran, dass „wahre Sicherheit nicht aus Waffen entsteht,
sondern aus Gerechtigkeit, Zusammenarbeit und gegenseitigem Vertrauen“. Der
Erzbischof warnte, dieses Paradox untergrabe den Geist der Brüderlichkeit, auf
dem der Multilateralismus ruhe, und mache das Ziel nachhaltiger Entwicklung
unerreichbar.
Vertrauen in die Vereinten Nationen
Trotz dieser Kritik bekräftigte der Vatikan seine
uneingeschränkte Unterstützung für die Vereinten Nationen. „Der
Multilateralismus ist der einzig gangbare Weg zum Fortschritt“, betonte Caccia.
Die UNO bleibe „ein Leuchtturm der Hoffnung für die internationale
Gemeinschaft“. In einer Zeit wachsender Konflikte und Spaltungen sei sie ein
Symbol dafür, „dass Dialog und Zusammenarbeit die einzigen dauerhaften Wege zu
Frieden und Entwicklung sind“.
„Der Multilateralismus ist der einzig gangbare Weg zum
Fortschritt.“
Die internationale Zusammenarbeit, so der Vertreter des
Heiligen Stuhls, sei nicht nur eine politische Option, sondern eine moralische
Verpflichtung: „Darauf sollte sich die gesamte Weltgemeinschaft verpflichten.“
Das Gewicht der Schulden
Neben den globalen Ungleichgewichten wies Caccia auch auf
die erdrückende Schuldenlast vieler Länder hin, insbesondere jener ohne Zugang
zum Meer oder kleiner Inselstaaten. Diese seien in eine „strukturelle
Abhängigkeit“ gezwungen, die ihnen eine eigenständige Entwicklung erschwere.
In einer weiteren Stellungnahme betonte der
Vatikanvertreter: „Es geht sowohl um die Verwirklichung einer ganzheitlichen
Entwicklung für alle als auch um das Prinzip, dass jedes Land mit gleichem
Respekt und als gleichberechtigter Partner behandelt werden muss.“
Daher forderte Caccia, „die untragbare Schuldenlast zu
streichen“. Gerade im Heiligen Jahr sei der Schuldenerlass „kein
wirtschaftspolitischer Akt, sondern ein moralischer Imperativ“. „Das globale
Finanzsystem“, so Caccia weiter, „muss auf das Gemeinwohl der gesamten
Menschheitsfamilie ausgerichtet werden.“
Die internationale Gemeinschaft sei daher zu einem
„erneuerten Sinn der Mitverantwortung“ aufgerufen. (vn 11)
Union, SPD und AfD beschließen Aus
für Turbo-Einbürgerung
Der Bundestag hat die Möglichkeit zur beschleunigten
Einbürgerung nach drei Jahren wieder abgeschafft. Künftig ist eine Einbürgerung
frühestens nach fünf Jahren möglich. Kritik kommt aus mehreren Richtungen.
Eine Einbürgerung in Deutschland ist künftig nach frühestens
fünf Jahren möglich. Der Bundestag beschloss am Mittwochabend mit den Stimmen
der Union, SPD und AfD die Abschaffung der Möglichkeit, bei besonderen
Integrationsleistungen schon nach drei Jahren den deutschen Pass bekommen zu
können – die sogenannte Turbo-Einbürgerung.
Über die Gesetzesreform wurde namentlich abgestimmt. 450
Abgeordnete votierten dafür, 134 dagegen und zwei enthielten sich. Damit macht
die schwarz-rote Koalition einen Teil der Ende Juni 2024 in Kraft getretenen
Einbürgerungsreform wieder rückgängig. Die damalige Mehrheit von SPD, Grünen
und FDP hatte die Wartezeit bis zur Einbürgerung von früher acht auf fünf
Jahre, die für eine Einbürgerung bei besonderen Integrationsleistungen von
sechs auf drei Jahre gesenkt.
Bundesinnenminister Alexander Dobrindt (CSU) begründete die
Abschaffung damit, dass der „deutsche Pass als Anerkennung für gelungene
Integration“ zur Verfügung stehen müsse und nicht als „Anreiz für illegale
Migration“. Das Gesetz der Ampel-Regierung sei der „grundfalsche Ansatz“
gewesen. Dieser habe das Land verunsichert, Polarisierung gebracht und nicht
geholfen bei der Fachkräfteeinwanderung, betonte Dobrindt. Belege legte
Dobrindt für seine Behauptungen keine vor.
Grüne und Linke kritisieren
Die Grünen-Abgeordnete Filiz Polat hingegen kritisierte die
Entscheidung als „falsch und kurzsichtig“. Wer die hohen
Einbürgerungsvoraussetzungen früher erfülle und sich darüber hinaus in der
Gesellschaft engagiere, müsse auch die Chance erhalten, sich früher einbürgern
zu lassen. Der Linke-Abgeordnete Ferat Koçak warf den Koalitionsfraktionen vor,
mit ihrer Migrationspolitik den „Hass der AfD salonfähig“ zu machen. Er
forderte, dass alle, die fünf Jahre in Deutschland leben, auch ohne deutschen
Pass wählen dürfen.
Auch die Diakonie Deutschland kritisierte die Abschaffung
der beschleunigten Einbürgerung. Bundesvorständin Elke Ronneberger warnte vor
negativen Folgen der Entscheidung für den Arbeitsmarkt: „Deutschland braucht
Fachkräfte – aber wer sieht, dass Integration hier eher gebremst als belohnt
wird, sucht sich ein anderes Land.“ Für Menschen, die bereits einen
Einbürgerungsantrag gestellt haben, forderte die Diakonie eine
Übergangsregelung. Es dürfe nicht sein, dass Menschen, die alle Voraussetzungen
erfüllt hätten, am Ende an der Bürokratie scheiterten.
Höchststand bei Einbürgerungen
Der Wirtschaftsweise Martin Werding kritisierte ebenfalls
die Abschaffung der Regelung. Er sagte am Mittwoch im rbb24 Inforadio, dass
solche Einbürgerungsmöglichkeiten zu einer guten Zuwanderungspolitik dazu
gehörten – vor allem in alternden Gesellschaften.
2024 hatte die Zahl der Einbürgerungen in Deutschland einen
Höchststand erreicht. Rund 292.000 Menschen erwarben nach Angaben des
Statistischen Bundesamts den deutschen Pass. Voraussetzung für eine
Einbürgerung sind gute Deutschkenntnisse und die Sicherung des
Lebensunterhalts. Wer Sozialleistungen bezieht, kann nicht eingebürgert werden.
Doppelpass bleibt
Einbürgerungen nach kürzerer Aufenthaltsdauer in Deutschland
machten in der Vergangenheit nur einen kleinen Teil aus. Nach Angaben des
Statistischen Bundesamts erfolgten 2024 sieben Prozent der Einbürgerungen nach
dieser Regelung, die nun gestrichen wird.
An den anderen Teilen der Einbürgerungsreform der Ampel, wie
der allgemein kürzeren Frist, will die neue Bundesregierung aber festhalten.
Auch an der neuen Regelung, nach der Ausländer bei einer Einbürgerung in
Deutschland ihre andere Staatsbürgerschaft nicht mehr aufgeben müssen, ändert
sich nichts. (epd/mig 10)
Scharfe Debatte im Bundestag über
Umsetzung der EU-Asylreform
Bundesinnenminister Dobrindt will die EU-Asylreform schnell
und in Teilen verschärft umsetzen. Die Opposition wirft der Regierung vor,
Familien und Kinder de facto inhaftieren zu wollen. Auch von
Kinderrechtsorganisationen kommt Kritik.
Der Bundestag hat kontrovers über eine geplante Verschärfung
der Regeln bei der Umsetzung der EU-Asylreform in deutsches Recht debattiert.
Innenminister Alexander Dobrindt (CSU) betonte am Donnerstag im Parlament in
Berlin: „Unser Land darf kein Magnet mehr für illegale Migration sein.“ Von den
Verschärfungen der deutschen Migrationspolitik profitierten auch die
europäischen Nachbarn.
Deutschland ist dem Innenminister zufolge „nicht mehr
Bremser, sondern Treiber der Migrationswende in Europa“. Es brauche sowohl
nationale als auch europäische Lösungen. Weltoffenheit und europäische Einigung
könne man nur erhalten, wenn man Ordnung bei der Migration herstelle, sagte
Dobrindt.
Das Gemeinsame Europäische Asylsystem (Geas) soll die
Einreise von Flüchtlingen besser ordnen und deren Verteilung zwischen den
EU-Staaten fairer gestalten. Über Asylanträge von Menschen mit geringer
Bleibeperspektive soll künftig bereits an der EU-Außengrenze entschieden
werden. In Deutschland muss das im Wesentlichen für Verfahren an Flughäfen
umgesetzt werden.
Kinderhilfswerk sieht „gravierende Defizite“
Die EU-Mitgliedsstaaten müssen die Geas-Reform bis Mitte
2026 umsetzen. Dobrindt strebt an, dass Teile der deutschen Umsetzung bereits
früher in Kraft treten. Bei Flüchtlings- und Menschenrechtsorganisationen stößt
die Reform auf Kritik, weil auch Minderjährige in den Grenzverfahren
festgehalten werden, es sei denn, sie kommen ohne Begleitung Erwachsener an.
Das Deutsche Kinderhilfswerk sieht etwa „gravierende
kinderrechtliche Defizite“ in den Gesetzesentwürfen. Insbesondere die
Verlängerung der Verweildauer in Erstaufnahmeeinrichtungen und die
Möglichkeiten der Bewegungsbeschränkungen in den Unterkünften seien nicht
akzeptabel, erklärte die Vizepräsidentin des Hilfswerkes, Anne Lütkes.
Grüne kritisieren „defacto Inhaftierung“
Zusätzlich will Dobrindt mit dem Gesetzentwurf die
Voraussetzungen dafür schaffen, dass mehr Flüchtlinge, für die ein anderer
EU-Staat zuständig ist, in gesonderten Einrichtungen untergebracht werden.
Damit wird das Ziel verfolgt, die Asylbewerber schneller in diese Staaten
zurückzuführen. In Brandenburg und Hamburg gibt es bereits sogenannte
Dublin-Zentren.
Die Grünen-Innenpolitikerin Irene Mihalic warf der Regierung
vor, mit den geplanten sogenannten Sekundärmigrationszentren Menschen de facto
zu inhaftieren. „Familien kommen nach Deutschland, um hier Schutz zu suchen,
und werden stattdessen eingesperrt“, sagte Mihalic.
Linke zur Reform: „autoritäre Wende“
Noch schärfer äußerte sich die Linken-Abgeordnete Clara
Bünger. Sie bezeichnete die Reform als „autoritäre Wende“ und warf der
Regierung vor, eine Politik zu übernehmen, „die lange das Markenzeichen der AfD
war: Abschottung, Haft, Entrechtung“. Besonders empörte sie sich über
Regelungen, nach denen auch Kinder festgehalten werden könnten, sofern es ihrem
Wohl diene: „Haft kann nie, wirklich nie dem Wohl eines Kindes dienen.“
Die Integrationsbeauftragte der Bundesregierung, Natalie
Pawlik (SPD), hingegen verteidigte den Regierungsentwurf. Dieser vereinte
„Humanität und Ordnung“ und setze europäische Vereinbarungen sowie den
Koalitionsvertrag um. Die Kritik aus der Zivilgesellschaft, von Verbänden und
Kirchen nehme sie ernst und könne einige Punkte auch nachvollziehen. „Denn es
wird Regelungen geben, die an die Grenze dessen gehen, was das Grundgesetz, die
EU-Grundrechtecharta und die Genfer Flüchtlingskonvention zulassen“, sagte
Pawlik. (epd/mig 10)
Trumps erzwungener Waffenstillstand im Gaza-Krieg ist ein
Wendepunkt. Doch der Weg zum Frieden ist noch weit. Von Marcus Schneider
Ist das nun der Durchbruch, der den Schrecken ohne Ende
beendet? Viele Fragezeichen bleiben noch beim von Präsident Donald Trump
forcierten Waffenstillstand in Gaza – dennoch ist es der erfolgversprechendste
Versuch seit zwei Jahren, diesen militärisch völlig sinnlos gewordenen Krieg zu
beenden. Es ist besonders den letzten noch lebenden Geiseln, die ein fast
zweijähriges Martyrium hinter sich haben, und der zutiefst geschundenen
Zivilbevölkerung von Gaza zu wünschen, dass der Deal gelingt. Dass der Schlüssel
zum Kriegsende in Washington liegt, ist seit langem offensichtlich. Ohne
amerikanisches Geld, Waffen und diplomatisches Backing hätte Israel diesen
Feldzug nicht führen können. Und auch heute ist klar, dass Premier Netanyahu
wenig Einsicht hat. Seine rechte Regierung würde diesen Krieg weiterführen,
gäbe es grünes Licht aus dem Weißen Haus.
Dort allerdings hat sich das Kalkül verändert. Die
geopolitischen Kosten sind für Amerika offensichtlich zu hoch geworden. Die
israelische Attacke auf den US-Alliierten Katar war hier der Tropfen, der das
Fass zum Überlaufen brachte. Das Abrücken der finanzstarken Verbündeten am Golf
musste verhindert werden, der Preis ist jetzt der Israel aufgezwungene
Waffenstillstand. Hinzu kommt Trumps Lechzen nach internationaler Anerkennung.
Gewohnt bescheiden betituliert ihn die X-Seite des Weißen Hauses als „Peace President“.
Ehre, wem Ehre gebührt – wenn der brüchige Frieden denn hält. Dafür, dass er
hält allerdings, ist das Ketten des Waffenstillstands an den pathologischen
Narzissmus des Staatsoberhaupts nicht die schlechteste Garantie.
Innenpolitisch übersteigen die Kosten des Krieges für die
USA längst seinen Nutzen. Der einstige „bipartisan consensus“ zur
uneingeschränkten Unterstützung Israels bröckelt; Umfragen zeigen eine
schwächere Zustimmung in Teilen der US-Bevölkerung, insbesondere bei
Wählerinnen und Wählern der Demokraten. Die Lobbytruppe AIPAC, die unlängst
noch davon schwadronierte, 90 Prozent der Kongressmitglieder in ihrer Tasche zu
haben, entwickelt sich zum toxischen Label. Für Trump ist zudem die
Zerreißprobe innerhalb seiner eigenen MAGA-Bewegung relevant: Bedeutende
Meinungsmacher fragen zunehmend, wie massive militärische und finanzielle
Unterstützungen mit „America First“ zu vereinbaren sind.
Hinzu kommt: Anders als in der Ukraine, wo seine Versuche
vorerst gescheitert sind, kann Trump hier einen Frieden erzwingen. Amerika hält
alle Trümpfe in der Hand. Es ist für den US-Präsidenten auch eine Machtfrage.
„Wer ist hier die verdammte Supermacht?“, hatte Bill Clinton einst nach seinem
ersten Treffen mit dem ehrgeizigen, damals noch jungen Premier Netanyahu
ausgerufen. Lange schien es, als wackele in Sachen US-Nahostpolitik der Schwanz
mit dem Hund – und nicht umgekehrt. Trump macht nun klar, wer die Weltmacht
ist, und wer das, was MAGA-Chefideologe Steve Bannon verächtlich „Protektorat“
nennt.
Wo aber stehen die Konfliktparteien nach zwei Jahren
unerbittlichen Kampfes? Im August 2024 hatte Netanyahu in seinem gespenstigen,
von Jubelstürmen unterbrochenen Auftritt vor dem US-Kongress noch den „totalen
Sieg“ beschworen. Total ist die Niederlage sicherlich für die palästinensische
Zivilbevölkerung. Der israelische Feldzug hinterlässt ein Volk an Ausgebombten,
Obdachlosen und Kriegsversehrten. Wohl selten zuvor musste ein Volk ohne
Fluchtmöglichkeit über Jahre einen solchen Krieg über sich ergehen lassen. Die
Bilder aus Gaza sind wie aus einer Horrordystopie über die letzten Tage der
Menschheit.
Für Israel ist die Bilanz dieses Krieges enorm
widersprüchlich. Das offizielle Kriegsziel war die Vernichtung der Hamas. Daran
ist man gescheitert. Auch nach fast zwei Jahren hat es die hochgerüstete
Nuklearmacht nicht vermocht, eine primitive Miliz, eingeschlossen in einem
Gebiet nicht einmal halb so groß wie die Stadt New York, restlos zu besiegen.
Als Guerilla und als politische Macht, mit der zu verhandeln ist, hält sich die
Terrortruppe. Eine militärische Gefahr allerdings für das israelische Kernland stellt
sie – selbst nach Aussagen ehemaliger israelischer Militärs – schon lange nicht
mehr dar. Und darum hätte es ja eigentlich gehen sollen bei der vermeintlich
„legitimen Selbstverteidigung“, die Tel-Aviv bis heute für sich reklamiert.
Der militärische Sieg über die Hamas war bereits Anfang 2024
erreicht. Alles, was danach kam, hat diesen Krieg sinnlos verlängert. Sinnlos
im Sinne der Selbstverteidigung – die Art des Krieges und die Verlautbarungen
aus der israelischen Regierung ließen aber darauf schließen, dass die
Kriegsziele viel weitergehender waren. Viele Israelis haben immer lauter
kritisiert, dass die Befreiung der Geiseln immer weiter auf der
Prioritätenliste nach unten gerutscht ist. Nicht die Hamas war hier der
Endgegner, sondern das palästinensische Nationalprojekt sollte nachhaltig
zerstört werden. Denn dieses war zum Entsetzen der rechten Kräfte in Israel
nach dem 7. Oktober auf der internationalen Agenda wieder ganz nach oben
gerückt.
Weit über militärische Notwendigkeit hinaus gingen die
Zerstörungen in Gaza. Dies deutet darauf hin, dass es einen Day After nie geben
sollte. Eine Terrororganisation, die sich in der Zivilbevölkerung bewegt wie
ein Fisch im Wasser, muss vor allem politisch besiegt werden. Die dazu nötige
Einbindung alternativer palästinensischer und regionaler Kräfte hat Israel
jedoch stets verhindert. Stattdessen Fieberträume von ethnischer Säuberung, die
selbst dem US-Präsidenten aufgeschwatzt wurden. Ein immer größerer internationaler
Chor an Völkerrechtlern und Genozidexperten stellte völkermordartige Zustände
fest.
Zumindest das Schlimmste könnte die Friedensperspektive nun
beenden. Die live übertragenen Bilder haben die Reputation Israels in der Welt
schwer beschädigt – womöglich nachhaltig. In weiten Teilen des globalen Südens
gilt das Land nun als Pariastaat, auch enge Verbündete haben sich entfremdet.
Wo Regierungen noch als Partner auftreten, bröckelt der Rückhalt in der
Bevölkerung. Und die Aufarbeitung, auch die juristische, steht erst noch aus.
Gleichzeitig gibt es einen internationalen Schub für die Zweistaatenlösung –
eine zuvor nur noch rhetorisch beschworene Formel, die weitgehend von der
Agenda verschwunden war. Der Konflikt ist inzwischen, sehr zum Leidwesen der
hegemonialen Kräfte im jüdischen Staat, internationalisiert.
Nicht eingerechnet in all dies sind die
psychologisch-politischen Folgen. Eine ganze Generation junger Menschen ist mit
den Horrorbildern aus Gaza politisiert worden. Nicht nur in der Region, fast in
der ganzen Welt. Die Auswirkungen dessen sind noch kaum einzuschätzen, sie
könnten sich auch in Jahrzehnten noch offenbaren. In Ablehnung, aber auch in
Terror und Extremismus. Warme Frieden, die Versprechung der sogenannten Abraham
Accords, jedenfalls könnte es so bald nicht mehr geben. Die arabischen Herrscher
mögen dazu bereit sein, ihre Völker immer weniger.
Die geopolitischen Umwälzungen freilich sind beeindruckend.
Der Iran ist aus der Levante hinausgedrängt, die Hisbollah besiegt. Doch wie
nachhaltig sind diese Entwicklungen ohne diplomatische Absicherung? Denn dazu
ist Israel nicht in der Lage. Seine uneingeschränkte Vorherrschaft steht auf
tönernen Füßen. Es ist ein vermeintlicher Hegemon, dessen Überlegenheit
größtenteils auf jener unbegrenzten amerikanischen Rückversicherung beruht, die
es womöglich nicht mehr ewig geben könnte. Die muslimischen Regionalmächte
betreiben längst ein Balancing gegen die vom Ausland so abhängige
Regionalmacht. Sie haben nun den Waffenstillstand erzwungen, doch bei der Art
des Friedens, der folgen soll, werden sie in dieser zunehmend multipolaren Welt
nicht auf ewig ein amerikanisches Diktat akzeptieren.
Denn dies ist die größte Schwäche des Trump-Plans. Mehr als
vage bleibt er darüber, was nach Geiselbefreiung und Waffenstillstand folgen
soll. So total wie die Niederlage der Hamas militärisch ist, so sehr
verkalkuliert sie sich mit dem 07. Oktober hat – als sie ein Israel
herausforderte, das sich als gänzlich anders, viel brutaler, rücksichtsloser,
vernichtender herausstellte als alles, was sie angenommen hatte. So sehr hat
sie es politisch doch vermocht, unter enormen, unmenschlichen Kosten für das
geschundene palästinensische Volk allerdings, dessen nationale Aspiration
wieder zu beflügeln.
Auf den Krieg folgt jetzt der Kampf für den Frieden. Die
Vorstellungen darüber könnten unterschiedlicher nicht sein. Eine
Zweistaatlichkeit ist für die hegemonialen rechten Kräfte in Israel völlig
inakzeptabel. Das Kriegsziel, diese Lösung endgültig zu verhindern, wurde
jedoch verfehlt. Die Palästinenser dagegen, und selbst die waidwunde Hamas wird
sich hier aus politischer Einsicht in die Notwendigkeit einreihen, wissen nun
die übergroße internationale Mehrheit hinter sich für eine Staatlichkeit in den
Grenzen von 1967. Die übergroße Mehrheit der Staaten sind zumindest rhetorisch
an Bord, eigentlich eine Besonderheit in dieser auseinanderstrebenden Welt.
Prozedural hat Israel weiter Möglichkeiten, ein solches
Ergebnis zu verhindern. Politisch tobt um Palästina längst ein Kulturkampf. Den
aufstrebenden rechtspopulistischen Kräften im Westen soll der jüdische Staat
als Bollwerk gegen Islam und Barbarei verkauft werden. Im Gegenzug erhofft man
sich Support für Besatzung und Unterdrückung bis in alle Ewigkeit. Es ist ein
riskantes Kalkül in einer Welt, in der das Gewicht des Westens abnimmt.
Riskante Kalküle sind allerdings nichts Ungewöhnliches in der Geschichte des
jüdischen Staates.
Politisch ist damit, so der Waffenstillstand sich
tatsächlich verstetigen sollte, alles offen. In Gaza ist die regelbasierte Welt
verendet, die multipolare jedoch könnte in diesem längst internationalisierten
Konflikt Urständ feiern. Die Palästinenser, die dem politischen Untergang in
letzter Sekunde entronnen sind, könnten nun diejenigen mit den stärkeren
Trümpfen sein. Politisch intelligent spielen müssen sie allerdings noch. IPG 9
Wehret den Anfängen. Nimm
Faschismus ernst!
Während in den USA demokratische Strukturen unter Druck
geraten, wächst auch in Deutschland die Sorge vor einer schleichenden
Faschisierung. Die Demokratie zerfällt nicht plötzlich – sie erodiert im
Alltag. Von Jannis Eicker
Mit großer Sorge lese ich täglich die Nachrichten aus den
USA. Denn was wir dort sehen, muss meines Erachtens als Faschisierung
beschrieben werden, also als ein Prozess, in dem sich immer mehr faschistische
Elemente in Staat und Gesellschaft durchsetzen. Am Ende dieses Prozesses könnte
die vollständige Etablierung eines neuen faschistischen Regimes stehen. Ob
dieses Worst-Case-Szenario tatsächlich eintreten wird oder ob die aktuelle
Tendenz gestoppt oder gar umgekehrt werden kann, hängt von vielen Faktoren ab,
etwa ob es gelingt, demokratischen Widerstand in Staatsapparaten und der
Zivilgesellschaft zu organisieren. Die Hoffnung stirbt bekanntlich zuletzt,
allerdings werden die Möglichkeiten für Widerstand innerhalb des Landes im
Laufe des Faschisierungsprozesses zunehmend kleiner.
Beim Lesen der Nachrichten aus Deutschland weicht die Sorge
über die Entwicklungen in den USA dann immer öfter einem Erschrecken über die
Parallelen, die sich hierzulande zunehmend entdecken lassen. Dies wirft die
Frage auf, ob auch in Deutschland schon von einer Faschisierung gesprochen
werden kann. Die Antwort auf diese Frage hängt natürlich zunächst einmal davon
ab, was man unter Faschismus versteht. Die Definition des Faschismusbegriffs
ist stark umstritten, wie die andauernde Diskussion zur Faschismustheorie
zeigt. Der Einfachheit halber möchte ich mich im Folgenden auf die Definition
vom britischen Historiker Roger Griffin beziehen, die als besonders
einflussreich gilt.
Sehr grob zusammengefasst versteht Griffin unter Faschismus
einen revolutionären Ultranationalismus, also eine absolute Vorrangstellung der
(ethnisch homogen und stark hierarchisch verstandenen) Nation, die mittels
‚Reinigung‘ störender Elemente (notfalls gewaltsam) vor Dekadenz und Verfall
gerettet werden soll. Dass Donald Trumps ‚Make America Great Again‘-Bewegung
diese Kurz-Definition erfüllt, liegt meines Erachtens auf der Hand: ‚MAGA‘ will
die amerikanische Nation zu vermeintlich verlorengegangener Größe
zurückzuführen, und zwar u. a. indem man Minderheiten ihrer Rechte,
Andersdenkenden ihres Einflusses, Migrant*innen ihres Aufenthaltsrechts und
queerer Menschen ihrer Identität beraubt.
Um diese fast religiös-fanatische Mission nationaler
‚Wiedergeburt‘ durchsetzen zu können, ist zunehmend jedes Mittel recht, selbst
wenn dafür demokratische Grundprinzipien wie etwa die Gewaltenteilung
geschleift oder Grund- bzw. Menschenrechte eingeschränkt werden müssen. Dass
Trump die Demokratie verachtet, sollte spätestens klar geworden sein, als er
trotz klarer Niederlage bei den Präsidentschaftswahlen von 2020 mit
rechtswidrigen Mitteln versuchte, im Amt zu bleiben. Seit seinem zweiten
Wahlsieg setzen er und seine Gefolgsleute alles daran, eine erneute
Wahlniederlage der Bewegung zu verhindern, indem sie große Teile der
Staatsapparate unter ihre Kontrolle bringen und in ihrem Sinne
instrumentalisieren. Auch bei den Jagden auf vermeintlich ‚illegale‘ Migrant:innen
und deren Abschiebungen bleiben rechtsstaatliche Prinzipien längst auf der
Strecke. Dasselbe gilt für die oft erfolgreichen Einschüchterungsversuche der
Regierung gegenüber ‚liberalen‘ Städten, Unternehmen, Medien und
Einzelpersonen. Dass jüngst auch die Führungsriege des US-Militärs von Trump
auf einen Krieg im Inneren eingeschworen wurde, lässt eine weitere Eskalation
dieser Dynamik befürchten.
„Für den demokratischen Widerstand ist es zentral, den Ernst
der Lage möglichst frühzeitig zu erkennen, um Gegenstrategien entwickeln zu
können.“
Doch trotz dieser sich fast täglich mehrenden Hinweise auf
eine Faschisierung des angeblichen ‚Land of the Free‘ wird hierzulande
erstaunlich wenig über diese Entwicklung gesprochen. Dass der Faschismusbegriff
dabei vermieden wird, dürfte u. a. damit zusammenhängen, dass er in Deutschland
in der Regel als Synonym für den Nationalsozialismus verstanden und genutzt
wird. Spricht man in Bezug auf andere Bewegungen oder Regime von Faschismus,
gerät dies dementsprechend schnell in den Verdacht der Verharmlosung des
Nationalsozialismus. Dabei wird allerdings übersehen, dass der Faschismus in
der Wissenschaft in der Regel als ein analytischer Oberbegriff für ein Phänomen
gilt, das historisch und geografisch verschiedene Formen angenommen hat (man
denke etwa an den Ursprung des Begriffs, den italienischen Faschismus) und das
heute selbstverständlich anders aussieht als die historischen Vorläufer.
Zweitens wird übersehen, dass zwischen dem Faschismus in
seiner Entstehungs- bzw. Bewegungsphase und dem voll entwickelten
Herrschaftssystem unterschieden werden muss. Selbst wenn eine in Teilen
faschistische Bewegung in den USA an der Macht ist, sind die faschistischen
Elemente meines Erachtens derzeit noch nicht dominant. Die Staatsapparate
besitzen aufgrund ihrer Eigenlogiken eine gewisse Trägheit gegenüber radikalen
Veränderungen und müssen mühsam auf Linie gebracht werden. In der
Zivilgesellschaft ist dies noch einmal deutlich schwerer, da die Regierung
keinen direkten Zugriff auf diese hat, sondern ‚nur‘ indirekt wirken kann. Zwar
konnte die MAGA-Bewegung sowohl in den Staatsapparaten als auch der
Zivilgesellschaft inzwischen einige große Erfolge erzielen (etwa die
Etablierung des extremsten Supreme Courts in der Geschichte des Landes und das
Einknicken einiger Medienhäuser, Rechtsanwaltskanzleien und Universitäten),
doch stoßen ihre Versuche an anderen Stellen auch immer wieder an Grenzen
(zuletzt etwa die missglückte Absetzung des berühmten Late-Night-Hosts und
MAGA-Kritikers Jimmy Kimmel). Zentrale demokratische Strukturen und Verfahren
haben zwar bereits einigen Schaden genommen, bieten derzeit aber noch Spielraum
für eine politische Umkehrung der Entwicklungen. Für den demokratischen
Widerstand ist es dabei zentral, den Ernst der Lage möglichst frühzeitig zu
erkennen, um Gegenstrategien entwickeln zu können.
„Wenn wir tatsächlich aus der Geschichte lernen wollen,
sollten wir den Begriff des Faschismus deshalb ernst nehmen.“
Dies gilt natürlich auch für Länder, in denen die
Verhältnisse noch lange nicht so weit fortgeschritten sind wie in den USA. Wenn
wir tatsächlich aus der Geschichte lernen wollen, sollten wir den Begriff des
Faschismus deshalb ernst nehmen und nicht davor zurückschrecken, seine
Anwendbarkeit auch heute schon kritisch zu prüfen. Denn auch wenn die deutsche
Variante des Faschismus, der Nationalsozialismus, 1945 militärisch besiegt
wurde, war er – entgegen des Mythos einer ‚Stunde Null‘ – nie vollkommen verschwunden.
Stets gab es faschistische Kräfte, denen es allerdings lange Zeit nicht gelang,
allzu großen Einfluss auf Politik und Gesellschaft zu nehmen.
Dies ist spätestens seit den Wahlerfolgen der ‚Alternative
für Deutschland‘ (AfD) anders. Die AfD ist zwar nicht in Gänze faschistisch,
doch der faschistische Flügel um Björn Höcke ist nun schon einige Jahre in der
Partei tonangebend. Dies lässt sich daran erkennen, dass viele Forderungen der
AfD und Aussagen aus ihrer Führungsriege letztlich auf eine Vorrangstellung
einer völkisch konstruierten Nation gegenüber zentralen demokratischen bzw.
rechtsstaatlichen Prinzipien hinauslaufen. So inszeniert die Partei
kontinuierlich vermeintliche Interessengegensätze zwischen einer angeblich
homogenen deutschen Mehrheitsgesellschaft und Gruppen wie Geflüchteten,
Muslim:innen, queeren Menschen, Linken und Grünen, Umwelt-NGOs und anderen
mehr. Sie spricht diesen Gruppen bzw. Menschen dabei nicht nur regelmäßig die
Zugehörigkeit zur Nation ab oder stellt sie als ihre Feind:innen dar, sondern
stellt immer wieder ihre Grund- und Menschenrechte infrage. Zu vielen im
Grundgesetz festgelegten Normen (wie der Unantastbarkeit der Menschenwürde, dem
Gleichheitsgrundsatz bzw. Diskriminierungsverbot oder der Religionsfreiheit)
steht die AfD damit in einem recht klaren Widerspruch.
„Die angeblichen ‚Mitte‘-Parteien erwecken immer mehr den
Eindruck, dass zentrale Verfassungsprinzipien für sie nur ein Hindernis sind.“
Zum Glück ist es der AfD bisher nicht gelungen auf Landes-
oder gar Bundesebene Regierungsverantwortung zu übernehmen. Und dennoch zeigt
sich der Einfluss der Partei bereits gewaltig, besonders in der Asylpolitik.
Spätestens seit der großen Fluchtzuwanderung 2015/2016 ist es der AfD gelungen,
die anderen Parteien in der Asylpolitik vor sich herzutreiben. Im Glauben,
durch eine möglichst harte Asylpolitik Wähler*innen von der AfD zurückgewinnen
zu können, rückten die anderen Parteien nicht nur deutlich nach rechts, sondern
stellten dabei mitunter auch selbst grundlegende demokratisch-rechtsstaatliche
Prinzipien infrage, wie etwa bei Forderungen nach Obergrenzen für Asylgesuche,
bei Zurückweisungen von Asylsuchenden oder beim Versuch, bereits getätigte
Aufnahmezusagen für afghanische Flüchtlinge wieder rückgängig zu machen. Die
angeblichen ‚Mitte‘-Parteien erwecken immer mehr den Eindruck, dass zentrale
Verfassungsprinzipien für sie nur ein Hindernis sind, das sie irgendwie umgehen
oder überwinden müssten und leisten damit der Delegitimierung der Grundlagen
unserer Demokratie selbst Vorschub.
Doch die Erfolge der AfD sind keineswegs auf die Asylpolitik
begrenzt. Auch in anderen Politikfeldern (etwa der Sozial- und Klimapolitik)
lassen sich viele der anderen Parteien die Richtung von der AfD diktieren.
Besonders eindrücklich stellte die extreme Rechte ihren Einfluss auf die
Politik jedoch in der erfolgreichen Desinformtionskampagne gegen die Wahl von
Frauke Brosius-Gersdorf zur Verfassungsrichterin unter Beweis. Obwohl es an der
fachlichen Eignung von Brosius-Gersdorf in Fachkreisen keine begründeten
Zweifel gibt, gelang es (extrem) rechten Kräften mittels Falschbehauptungen und
Verzerrungen so viel Misstrauen an ihrer Person zu säen, dass die Wahl
letztlich platzte. Ziel war ganz offensichtlich die Delegitimierung des
Verfassungsgerichts, um zukünftig politisch unliebsame Entscheidungen dieser
Institution (z. B. in einem möglichen AfD-Verbotsverfahren) besser angreifen zu
können.
Ein zentraler Akteur dieser Kampagne war das vom Milliardär
Frank Gotthardt finanzierte Onlinemedium NiUS, als dessen Vorbild der
US-amerikanische ‚Nachrichtensender‘ Fox News gilt, das viele Jahre als
zentrales Sprachrohr von Trump agierte und für die Verbreitung von
Falschinformationen bekannt ist. Dass Teile der Union (wie etwa die
Bundestagspräsidentin Julia Klöckner) die Nähe zu Gotthardt und NiUS suchen,
ist vor diesem Hintergrund äußerst bedenklich, stellt aber leider nur einen von
vielen Hinweisen darauf dar, dass sich die Union zunehmend einem
kulturkämpferischen Politikstil zuwendet, in dem Fakten und Sachlichkeit immer
weniger zählen.
Besonders deutlich wurde dies etwa, als Friedrich Merz
fälschlicherweise behauptete, abgelehnte Geflüchtete würden zu Terminproblemen
in Zahnarztpraxen führen. An solchen Beispielen lässt sich zudem erkennen, dass
die Union sich eine zentrale Taktik der AfD zu eigen gemacht hat, nämlich
Minderheiten für Probleme verantwortlich zu machen, die eigentlich
struktureller Natur sind. So begründete die AfD ihre Ablehnung gegenüber der
Aufnahme von Geflüchteten schon 2015 auch damit, dass man das Geld für deren
Verpflegung, Unterbringung und Integration lieber z. B. in Schulen oder Polizei
stecken sollte. Dabei liegt der Grund der Unterfinanzierung öffentlicher Güter
natürlich nicht in der Aufnahme von Geflüchteten (und übrigens auch nicht in
einem angeblich zu großzügigen Bürgergeld), sondern vor allem in einer
neoliberalen Fiskalpolitik, die den Staat durch die gleichzeitige Ablehnung von
Staatsschulden und höheren Steuern für Reiche faktisch in die
Handlungsunfähigkeit treibt. Im Alltag machen sich die infolge dieser Politik
fehlenden öffentlichen Investitionen an allen Ecken und Enden bemerkbar und
führen zu Missständen und Konflikten, für die dann Sündenböcke gesucht und in
Minderheiten gefunden werden.
„Der beste Schutz gegen die Faschisierung dürfte jene
Politik sein, die das Verfallsnarrativ der Rechten Lügen straft.“
Diese Annäherung von Union und anderen Parteien an die AfD
ist unter anderem eine Folge der wirkmächtigen Figur des ‚besorgten Bürgers‘,
dessen ‚Sorgen‘ von den demokratischen Kräften ernst genommen werden müssten,
damit er nicht gezwungen wäre, der extremen Rechten seine Stimme geben zu
müssen. Dementsprechend haben fast alle Parteien auf das Erstarken der AfD mit
einer partiellen Übernahme von AfD-Positionen und -Rhetorik reagiert, in der
Hoffnung, ihr so die Wähler*innen streitig machen oder ihr wenigstens den Wind
aus den Segeln nehmen zu können. Das hat zwar zu menschen- und
verfassungsrechtlich höchst bedenklichen Politiken geführt, aber dem Erfolg der
AfD nicht nur nicht geschadet, sondern diesen sogar ganz offensichtlich noch
weiter befördert. So steht die AfD heute dank der kulturkämpferischen Politik
und Rhetorik von Friedrich Merz und Co. stärker da als je zuvor.
Dies bedeutet aber natürlich noch lange nicht, dass uns
amerikanische Verhältnisse kurz bevorstünden. Und auch in den USA gibt es, wie
gesagt, nach wie vor die Möglichkeit, dass der aktuelle Trend wenigstens
gestoppt oder sogar umgekehrt wird. All dies zeigt jedoch, dass wir uns nicht
in Sicherheit wiegen dürfen, sondern wachsam sein und jeden Angriff auf die
Grundlagen unserer Demokratie abwehren müssen. Politiker*innen müssten also
wieder Fakten und Rechtsstaatlichkeit zum Ausgangspunkt ihres Handelns und
ihrer Rhetorik machen. Ihre Aufgabe besteht schließlich nicht darin, dem
Stammtisch hinterherzulaufen, sondern Probleme faktenbasiert zu analysieren, zu
erklären und im Interesse der Allgemeinheit unter Beachtung der Grund- und
Menschenrechte zu bearbeiten. Der beste Schutz gegen die Faschisierung dürfte
dabei jene Politik sein, die das Verfallsnarrativ der Rechten Lügen straft,
indem sie klug in öffentliche Güter investiert und eine echte Teilhabe aller am
gemeinsam erarbeiteten Wohlstand ermöglicht. (mig/dip 9)
Neuer Aktionsplan. Drei
Schwerpunkte in der Entwicklungspolitik
Entwicklungsministerin Alabali Radovan stellt einen neuen
Aktionsplan vor. Danach wird die Wirtschaft stärker in die Entwicklungspolitik
eingebunden. Wird Hilfe zum Geschäft für deutsche Unternehmer?
Entwicklungsministerin Reem Alabali Radovan (SPD) will die
deutsche Wirtschaft künftig stärker in die Entwicklungspolitik einbinden. Der
globale Süden sei ein Motor für Wachstum und Zukunftstechnologie, sagte sie am
Dienstag in Berlin bei der Vorstellung eines Aktionsplans. Deutschland brauche
dort Partner, das mache die Wirtschaft stark für die Zukunft.
Angesichts der Weltlage und unsicherer Partner wie der USA
muss sich Deutschland nach Ansicht von Alabali Radovan neu aufstellen. Sie
betonte, dass die Bundesregierung zusammen mit der deutschen Wirtschaft an
einem Strang ziehen wolle, um gemeinsam die Zusammenarbeit im globalen Süden
auszubauen. Der von ihr präsentierte Aktionsplan solle ein Startschuss für die
wirtschaftliche Zusammenarbeit sein und „schnell an Tempo gewinnen“.
Entwicklungshilfe vs. China
Bundesfinanzminister Lars Klingbeil (SPD) hob die
strategische Bedeutung der Initiative hervor. „Um unsere nationalen und
europäischen Interessen wahrnehmen zu können und wirtschaftlich erfolgreich zu
sein, benötigen Deutschland und Europa neue strategische Partnerschaften,
insbesondere mit dem globalen Süden“, sagte er. Die Welt habe sich auch mit
Blick auf die wirtschaftlichen Machtverhältnisse gewandelt. Während Europa und
die USA 1990 noch 44 Prozent der globalen Wirtschaftskraft ausmachten, sei dieser
Anteil heute auf knapp ein Drittel gesunken. China habe seine Wirtschaftskraft
im gleichen Zeitraum von 4 auf 19 Prozent fast verfünffacht.
„Chinesische Investitionen in Infrastruktur und chinesische
Kredite erscheinen in manchen Ländern des globalen Südens als attraktives
Angebot, das wir mit unserer Entwicklungszusammenarbeit zu lange nicht gemacht
haben“, räumte Klingbeil ein. Die Bundesregierung müsse prüfen, wie sie ihre
Angebote in der entwicklungspolitischen und wirtschaftlichen Kooperation
verbessern könne.
Drei Schwerpunkte
Der dreiseitige Plan „Starke Partnerschaften für eine
erfolgreiche Wirtschaft weltweit“ des Entwicklungsministeriums setzt drei
Schwerpunkte. So sollen etwa Wirtschaftsvertreter künftig frühzeitig in
Regierungsverhandlungen eingebunden werden. Zudem sollen strukturelle Hemmnisse
bei Vergaben der Entwicklungszusammenarbeit für deutsche Unternehmen abgebaut
werden.
Der dritte Fokus des Plans liegt auf dem deutschen
Mittelstand und strategischen Rohstoffen. Das Entwicklungsministerium will
unter anderem ein neues Garantieinstrument für kleinere Ex- und Importe
einsetzen und gemeinsam mit dem Wirtschaftsministerium Förderangebote für
deutsche Unternehmen leichter zugänglich machen. Bei privatwirtschaftlichen
Investitionen in Rohstofflieferketten in Afrika, Lateinamerika und Asien soll
eine gemeinsame Begleitung der Ministerien geprüft werden, um Risiken zu
reduzieren und lokale Wertschöpfung zu fördern.
Kritik an wirtschaftlicher Schlagseite
Hilfsorganisationen warnen seit Langem vor einer zunehmenden
Ökonomisierung der Entwicklungspolitik. Wenn staatliche
Entwicklungszusammenarbeit vor allem als Türöffner für deutsche Unternehmen
diene, verliere sie ihren eigentlichen Zweck: Hilfe zu leisten. Entwicklung
dürfe kein wirtschaftliches Instrument sein, um Absatzmärkte zu sichern oder
Rohstoffzugänge zu erleichtern. Auf der Strecke blieben so die Menschen im
globalen Süden.
Neben Alabali Radovan und Klingbeil waren bei der Konferenz
zur Vorstellung des Aktionsplans auch das Auswärtige Amt mit Staatsministerin
Serap Güler (CDU) sowie das Bundeswirtschaftsministerium mit dem
parlamentarischen Staatssekretär Stefan Rouenhoff (CDU) vertreten. Ebenso
nahmen Vertreterinnen und Vertreter der deutschen Wirtschaft an der Konferenz
teil, zum Beispiel vom Chemiekonzern BASF oder vom Kupferkonzern Aurubis.
(dpa/mig 8)
Armutsbericht. Migranten arbeiten
öfter – und haben weniger
Der Entwurf für den neuen Armuts- und Reichtumsbericht der
Bundesregierung zeigt: Wer in Deutschland wenig Geld hat, fühlt sich oft
ausgeschlossen und schlecht behandelt. Besonders oft und stark betroffen sind
Migranten.
Schlechte Chancen auf dem Wohnungsmarkt, Stress mit dem Amt,
ein Gefühl des Ausgeschlossenseins: Arme Menschen kämpfen oft mit viel mehr
Problemen als nur einem schmalen Geldbeutel. Das ist ein Ergebnis von
Befragungen für den Armuts- und Reichtumsbericht der Bundesregierung, dessen
Entwurf das Bundessozialministerium am Donnerstag in Berlin veröffentlichte.
Danach sind Menschen mit Migrationserfahrung besonders stark
von Armut betroffen. „Aktuelle Daten aus dem Jahr 2023 weisen für Menschen mit
(direktem oder indirektem) Migrationshintergrund
eine Armutsrisikoquote von 27,7 Prozent auf, während diese
bei Personen ohne Migrationshintergrund bei 11,9 Prozent liegt“, heißt es in
der knapp 700-seitigen Vorlage. Danach hatten Personen mit Migrationserfahrung
im Jahr 2020 ein jährlich verfügbares Haushaltseinkommen von 21.749 Euro im
Vergleich zu 28.200 Euro für Personen ohne Migrationsgeschichte.
Migranten arbeiten öfter
Bemerkenswert ist: Die Einkommen von Migranten stammten zu
zwei Dritteln (65,9 Prozent) aus eigener Erwerbstätigkeit. Bei der Bevölkerung
ohne Migrationserfahrung liegt dieser Wert bei 60,7 Prozent. Demnach ist der
Beitrag aus eigener Erwerbstätigkeit bei Migranten höher als derjenigen ohne
Migrationsgeschichte.
Zugleich liegt auch der Anteil der Transferleistungen bei
Migranten 2,5-mal höher als bei der Vergleichsgruppe ohne
Einwanderungsgeschichte. Ein wesentlicher Grund dafür ist: Migranten nehmen
„nur in geringem Umfang Leistungen der gesetzlichen Rentenversicherung in
Anspruch, zum Teil wegen ihres Alters, zum Teil wegen fehlender oder nur
geringer Rentenanwartschaften“, heißt es in der Vorlage.
Deutsche Staatsbürger haben mehr Geld
Wie aus dem Bericht weiter vorgeht, gibt es auch
Unterschiede unter Personen mit Migrationserfahrung: So verfügten deutsche
Staatsbürger mit Migrationsgeschichte über ein deutlich höheres Nettoeinkommen
(25.770 Euro) als Menschen ohne deutschen Pass (20.019 Euro).
Weitere Unterschiede gibt es auch bei Menschen mit direktem
und indirektem Migrationshintergrund. Dieser Auswertung zufolge zeigt sich eine
Verbesserung der ökonomischen Lage, je länger Migration zurückliegt. Dem
Bericht zufolge hatte im Jahr 2020 rund jede vierte Person Migrationserfahrung.
Sie sind im Schnitt etwa acht Jahre jünger als die einheimische Bevölkerung.
Armut ist mehr als Geldmangel
Der Armuts- und Reichtumsbericht wird üblicherweise in jeder
Legislaturperiode einmal vorgelegt. Wegen der vorgezogenen Bundestagswahl kam
es unter der Ampel-Koalition nicht mehr dazu. Die Vorarbeiten für den nunmehr
siebten Bericht dieser Art wurden aber größtenteils in der vorherigen
Wahlperiode geleistet. Ein Ziel war, die Perspektive armer Menschen stärker
einzubeziehen. Dies geschah unter anderem mit Online-Befragungen und
Diskussionsrunden.
Zu den Ergebnissen heißt es im Berichtsentwurf, dass Armut
„weit überwiegend als ein über rein materielle Aspekte hinausgehender sozialer
Ausschluss erlebt wird“. Auch wenn die Befragungen mit mehreren tausend
Beteiligten nicht repräsentativ seien, wiesen sie auf ein „vergleichsweise
gering ausgeprägtes gesellschaftliches Zugehörigkeitsempfinden“ hin. 40 Prozent
der Befragten „mit aktueller Armutserfahrung“ fühlen sich demnach der
Gesellschaft eher nicht zugehörig, weitere 40 Prozent tun dies nur „teils teils“.
Schwierigkeiten mit Ämtern und Behörden
Viele Befragte berichteten dem Entwurf zufolge außerdem von
gesundheitlichen Problemen. Auch Diskriminierung wurde von 83 Prozent der
Menschen mit Armutserfahrung beklagt – vor allem beim Thema Wohnen. Oft genannt
wurden hier zudem Schwierigkeiten mit Ämtern und Behörden.
Als großes Problem werden in dem Berichtsentwurf die
Wohnkosten identifiziert. Dort sei die Belastung in den vergangenen Jahren
gestiegen. Im Mittel würden 18,7 Prozent des verfügbaren Nettoeinkommens für
Wohnkosten ausgegeben. „Knapp jeder achte Haushalt gilt als überlastet, da er
mehr als 40 Prozent des Einkommens für das Wohnen aufwenden musste“, heißt es
weiter. Unter den armen Haushalten seien 37,5 Prozent betroffen, also deutlich
mehr als ein Drittel. Haushalt mit Migrationsgeschichte trifft die Wohnkostenbelastung
überdurchschnittlich. Sie sind mehrfach von Diskriminierung betroffen: neben
der ökonomischen Situation treten oft rassistische Ausgrenzungsmechanismen auf.
15,5 Prozent armutsgefährdet
Insgesamt gelten nach Daten des Statistischen Bundesamts
15,5 Prozent der Bevölkerung als armutsgefährdet. Dies trifft auf Menschen zu,
die weniger als 60 Prozent des mittleren Einkommens zur Verfügung haben. Im
Berichtsentwurf wird darauf hingewiesen, dass es hier verschiedene
Berechnungsmethoden gebe, die zum Teil zu höheren Quoten führten.
Der Berichtsentwurf soll am 13. Oktober bei einem Symposium
diskutiert werden. „Hinweise und Anregungen werden anschließend im Ressortkreis
geprüft“, teilte das Sozialministerium mit. Der „abgestimmte Endbericht“ werde
voraussichtlich im Dezember vom Kabinett verabschiedet. (epd/mig 6)
Der Trump-Plan für den Nahen Osten wird von vielen gefeiert.
Doch anstatt Frieden zu bringen, droht er neue Gewalt zu entfachen. Von René
Wildangel
Wie werden Kriege beendet? Eine recht banale, aber empirisch
belegbare Erkenntnis aus der Friedens- und Konfliktforschung lautet, dass
Friedensverträge bessere Chancen auf einen Erhalt haben, wenn sie möglichst
konkret und sorgfältig ausverhandelt wurden. Gemessen daran ist der pompös
angekündigte „Trump-Plan“ für einen „ewigen Frieden“ eine Farce: Er wurde nach
Gutdünken des Präsidenten und seiner Vertrauten weitgehend ohne die
Konfliktparteien erarbeitet. Zumindest eine Partei, die Hamas, wurde vorher noch
nicht einmal konsultiert, sondern im Nachhinein per Ultimatum aufgefordert,
zuzustimmen.
Immerhin enthält der Plan die Möglichkeit einer „Amnestie“
für jene Hamas-Anführer, welche die Waffen niederlegen. Dieser Ansatz hätte
schon vor Monaten verfolgt werden können, doch stattdessen sprachen Netanjahu
und seine Verbündeten stets von der völligen „Vernichtung“ der Hamas – ein von
Beginn an unrealistisches und unsinniges Ziel, denn es handelt sich nicht nur
um eine Miliz, sondern auch um eine breit verankerte politische und
gesellschaftliche Bewegung. Schlimmer noch: Verhandlungsansätze wurden in den
letzten Monaten aktiv von Israel zunichtegemacht, eine in Doha befindliche
Verhandlungsdelegation der Hamas gar von Israel bombardiert. Das war
möglicherweise der Punkt, an dem Trump sich bemüßigt fühlte, einzugreifen,
nachdem er Israels verheerende Offensive über Monate tolerierte und
unterstützte.
Nach der Veröffentlichung des „Trump-Plans“ ging Israels
verheerender Militäreinsatz in Gaza-Stadt jedoch weiter: Massive Angriffe,
ausgeführt vermehrt durch automatisierte Waffensysteme, zerstören die wenigen
verbliebenen medizinischen und humanitären Einrichtungen und die zivile
Infrastruktur; die katastrophale Versorgungslage machen das Überleben für die
verbliebenen Zivilisten praktisch unmöglich – eine Gemengelage, die zuletzt
nach allen großen Menschenrechtsorganisationen auch eine UN-Untersuchungskommission
als Genozid bezeichnete.
Die dystopische Lage in Gaza und die Monstrosität der dort
von der israelischen Armee verübten Verbrechen sind wohl der Grund dafür, dass
Trumps in Teilen bizarrer Plan sogleich zum letzten Hoffnungsschimmer wurde,
den Gazakrieg endlich zu beenden: Ein sofortiger Waffenstillstand, eine
vollständige humanitäre Versorgung, eine sofortige Rückkehr aller israelischen
Geiseln – das sind überfällige und richtige Forderungen dieses Plans, die
bedingungslos zu unterstützen sind.
Doch die zahlreichen anderen Passagen des „20-Punkte-Plans“
sind entweder äußerst vage gehalten oder enthalten hochproblematische
Vorschläge, die nicht in Richtung einer Entspannung oder gar einer
Konfliktregelung weisen. Dass unter anderem auch der deutsche Außenminister den
Plan als „einmalige Chance“ lobte und dem US-Präsidenten überschwänglich
dankte, ist daher nicht nur verwunderlich, sondern auch gefährlich.
Denn mit den von der EU vertretenen Parameter für eine
Konfliktregulierung hat der Plan nichts zu tun. Wadephul und seine
EU-Kolleginnen und Kollegen wären gut beraten, wenn sie hier klar
differenzieren: Unterstützung der Initiative zu einem Waffenstillstand,
humanitärer Versorgung und Freilassung der Geiseln; deutliche Abgrenzung vom
Rest des Plans und stattdessen klare Kommunikation der Parameter für den
weiteren politischen Prozess.
Erinnert sei an dieser Stelle auch an Donald Trumps letzten
„bahnbrechenden“ Nahostplan, den gewohnt bescheiden titulierten „Deal of the
century“ aus seiner ersten Amtszeit von 2020. Der maßgeblich von seinem
Schwiegersohn Jared Kushner konzipierte Plan war ein ähnlich einseitiges Werk
wie die jüngste Initiative. Trumps damaliges Agieren, das unter anderem die
Anerkennung von Israels Hoheit über das palästinensische Ost-Jerusalem umfasste
und die klassische US-Kritik an der Siedlungsbewegung kassierte, wirkte massiv
konfliktverschärfend. So kam es in der Folge unter anderem zu ausufernder
Gewalt in Ost-Jerusalem. Dass Trump sich jetzt erneut als ehrlicher Makler im
Nahostkonflikt anbieten will, ist an Chuzpe eigentlich kaum zu überbieten –
schließlich wäre auch der israelische Militäreinsatz in Gaza ohne weitreichende
US-Militär- und Finanzhilfe kaum möglich gewesen.
Abgestimmt wurde der Plan mutmaßlich mit den engen
US-Verbündeten am Golf, die mit weiteren arabischen Staaten zu einer
„internationalen Stabilisierungstruppe“ beitragen sollen (Punkt 15). Die
Arabische Liga hatte bereits im März ihren eigenen Plan beschlossen, der
ebenfalls einen Waffenstillstand und Wiederaufbau vorsah. Wohl durch ihre
Einwirkung sind zumindest einige Forderungen enthalten, ohne die sie den Plan
nicht hätten gutheißen können: Vor allem die Tatsache, dass die israelische
Armee den Gazastreifen nicht dauerhaft besetzen oder annektieren (Punkt 16) und
Palästinenserinnen und Palästinenser nicht dauerhaft vertrieben werden sollen
(Punkt 12). Selbstverständlich ist das nicht, hatte doch Trump noch im Februar
2025 über eine Vertreibung und die Schaffung einer „Riviera des Nahen Ostens“
fantasiert.
Die damals im selben Atemzug geäußerte Aussicht, die USA
könnten Gaza in Besitz nehmen („we will own it“) findet sich dagegen in
modifizierter Form im Plan wieder: Da ist die Rede von einem „Friedensrat“
(Board of Peace), der Gaza verwalten solle (Punkt 9). Oberster Friedensfürst:
Donald J. Trump. Ebenfalls mitwirken soll Tony Blair – der ehemalige britische
Premierminister, der nicht nur wegen seiner maßgeblichen Rolle im Irakkrieg,
sondern auch der wenig überzeugenden Arbeit als Sonderbeauftragter des „Nahostquartetts“
in der Region wenig Ansehen genießt.
Auch ohne die Vertreibung der Palästinenser sieht Trump den
Küstenstreifen offensichtlich als lukratives Experimentierfeld für seine
Immobiliengeschäfte. Unter seiner Aufsicht soll ein Entwicklungsplan von
Experten entwickelt werden, die „einige der modernen Wunderstädte des Nahen
Ostens“ geschaffen hätten; unter Hinzuziehung von „gutmeinenden internationalen
Firmen“, die bereits „durchdachte Investment-Vorschläge“ gemacht hätten (Punkt
10). Wer diese Akteure nach Vorstellung von Trump sind, dürfte klar sein: Seine
Geschäftspartner zu Hause und am Golf.
Die Palästinenser spielen im Plan ebenso wenig eine Rolle
wie ihre verbrieften Rechte auf Selbstbestimmung. Durch welche ideologische
Brille die Trump-Administration auf den Konflikt blickt, wird gleich im ersten
Punkt eindrücklich dargelegt: Gaza solle eine „de-radikalisierte Terror-freie
Zone“ werden. Dass Trump – selbst Anführer einer in vielerlei Hinsicht
radikalen Bewegung in den USA – die von zwei Jahren unter Bomben und
Hungerblockade tief traumatisierte Zivilbevölkerung, die in der Mehrheit aus Kindern
und jungen Erwachsenen besteht, in Gaza einem „Deradikalisierungsprogramm“
unterziehen will, lässt tief blicken.
Ein „technokratisches, unpolitisches Komitee“ soll die
Tagesgeschäfte in Gaza erledigen (Punkt 9); die Palästinensische
Autonomiebehörde keine Rolle spielen bis ihre „Reform gewissenhaft umgesetzt“
wurde (Punkt 19) – eine schwammige Formulierung, mit der ohne weiteres ihr
dauerhafter Ausschluss und die permanente Teilung des palästinensischen
Gebietes begründet werden kann.
In weiten Teilen erinnern die vagen Formulierungen des
Trump-Plans an jene der 1993 geschlossenen Oslo-Verträge. Die nannte Edward
Said bereits 1993 ein „palästinensisches Versailles“, da in seiner Analyse
palästinensische Fremdbestimmung unter dem Anschein eines Friedensprozesses
fortgeschrieben und sogar legitimiert worden sei. Wie in Oslo wird auch der
Abzug der israelischen Armee in Trumps Plan unter Punkt 18 ohne konkrete
Bedingungen oder einen verbindlichen Zeitplan formuliert. Die Kopie vergangener
Verfehlungen scheint hier Methode zu haben.
Dass Trump den Gazastreifen somit de facto unter eine Art
US-Mandat stellen will, ist bedenklich und darf von der internationalen
Gemeinschaft nicht hingenommen werden. Wenn überhaupt, wäre es Aufgabe der
Vereinten Nationen, über einen Übergangsprozess zu wachen; doch das Gremium,
das die USA und Israel gemeinsam zu delegitimieren suchen, taucht im Plan
ebenso wenig auf wie das Völkerrecht und die Menschenrechte als Basis jeglicher
Konfliktregelungen. Lediglich bei der Verteilung von Hilfsgütern wird den Vereinten
Nationen eine Rolle zugestanden – neben weiteren „internationalen
Institutionen“, mit denen die berüchtigte „Gaza Humanitarian Foundation“, die
für die Tötung Hunderter Hilfe suchender Palästinenser mitverantwortlich ist,
gemeint sein dürfte.
Dass dann auch der zentrale Punkt einer Rechenschaft und
juristischen Aufarbeitung der Kriegsverbrechen der israelischen Armee ebenso
wie jener der Hamas nirgendwo in dem Dokument auftaucht, überrascht wenig –
denn auch die Arbeit internationaler Gerichtshöfe werden ja von Trump und
Netanjahu sabotiert.
Kein Wort verliert der Plan auch über die israelische
Besatzung im Westjordanland, über die Siedlungstätigkeit, über die ausufernde
Siedlergewalt. Es war bei israelisch-palästinensischen Verhandlungen stets
Usus, dass die Siedlungspolitik eingefroren wurde; dazu ist Netanyahu schon
seit Jahrzehnten nicht mehr bereit. Was er von einem palästinensischen Staat
hält, machte er zuletzt vor der Generalversammlung der Vereinten Nationen klar,
als er ihn mit einem „Al-Qaida-Staat“ verglich. Der Plan von Trump kann sich
lediglich dazu durchringen, palästinensische Selbstbestimmung und Staatlichkeit
als „das Bestreben“ des palästinensischen Volkes anzuerkennen – eine
Formulierung, die um Jahrzehnte hinter die internationale Anerkennung
palästinensischer Ansprüche zurückfällt.
Nie war die Asymmetrie zwischen Israelis und Palästinensern
größer als aktuell. Trumps abschließender Punkt, bald einen „Dialog zwischen
Israelis und Palästinensern, um einen politischen Horizont für eine Zukunft in
Frieden und Wohlstand“ zu schaffen ist ebenso entkoppelt von der Realität wie
die Vorstellung, dass ausgerechnet die USA als „ehrlicher Vermittler“ auftreten
können.
Auch die EU hat durch ihre Tatenlosigkeit schon viel von
ihrer Glaubwürdigkeit verloren – sie darf jetzt nicht tatenlos am Spielfeldrand
stehen. Sie muss international Verbündete suchen, um die anerkannten
völkerrechtlichen Grundprinzipien für eine Konfliktregelung zum Rahmen für
einen weiteren politischen Prozess machen. Der Ansatz, Israels extremistischer
Regierung endlich mit echtem Druck und Sanktionen zu begegnen, ist ein
wichtiges Gegengewicht zur Trumps Plan. Sollte dieser in der vorliegenden Form
zur Blaupause werden, wird er sich nicht nur einreihen in die lange Liste
gescheiterter Initiativen, sondern noch mehr Gewalt und Konflikte produzieren.
IPG 2
Europa: Unsere Idee kennt keine
Grenzen! 68. Bundeskongress der Europa-Union in Chemnitz
Am 11./12. Oktober tagt der 68. Bundeskongress der
überparteilichen Europa-Union Deutschland e.V. auf dem Garagen-Campus in
Chemnitz. Rund 160 Delegierte und Gäste kommen in die Europäische
Kulturhauptstadt, um eine neue Verbandsspitze zu wählen und das 10-jährige
Bestehen der Europa-Union Sachsen zu feiern. Schirmherr der Veranstaltung ist
Ministerpräsident Michael Kretschmer.
Unter dem Kongressmotto „Europa: Unsere Idee kennt keine
Grenzen!“ werden sich die Delegierten mit dem Schutz des Schengenraums und
einer zukunftsfesten Ausgestaltung des EU-Haushalts befassen. Auch zu weiteren
Europathemen wird sich der Verband politisch positionieren.
Inspiriert durch den Tagungsort stehen am Samstag drei
Talkrunden zu den Themen Europäische Industriekultur, Mobilität in Sachsen und
Europa sowie Europa und Europapolitik in Ostdeutschland auf dem Programm. Unter
den prominenten Rednern und Podiumsgästen sind Dr. Gunther Krichbaum MdB,
Staatsminister für Europa im Auswärtigen Amt, Ines Saborowski, erste
Vizepräsidentin des sächsischen Landtags, und die sächsischen
Europaabgeordneten Anna Cavazzini, Matthias Ecke und Oliver Schenk. Für die
Diskussionsrunden konnten zudem Expertinnen und Experten aus Wirtschaft,
Wissenschaft und Verwaltung gewonnen werden.
„Sachsen liegt im Herzen Europas und hat über Jahrhunderte
die europäische Industriekultur geprägt“, sagt Katharina Wolf, Vorsitzende der
Europa-Union Sachsen. „Wir freuen uns daher besonders, dass wir den
diesjährigen Bundeskongress in die Kulturhauptstadt Chemnitz geholt haben, wo
diese Tradition immer noch erlebbar ist. Seit Gründung unseres Landesverbandes
im Jahr 2015 haben wir als überparteilicher Verein Europa in Sachsen eine
Stimme gegeben und den positiven Einfluss der EU in unserem Bundesland sichtbar
gemacht. Jetzt sind wir stolz, unseren Freunden aus anderen Teilen Deutschlands
zu zeigen, wie viel Europa in Sachsen und Chemnitz steckt und wie stark unser
Freistaat europäische Geschichte und Kultur geprägt hat.“
Bei der Feier zum 10. Jubiläum der Europa-Union Sachsen am
Samstagabend wird Bürgermeister Ralph Burghart ein Grußwort halten.
Aus Anlass des Kongresses organisieren die Jungen
Europäischen Föderalist:innen (JEF), der Jugendverband der Europa-Union, am
Freitag, 10. Oktober, um 18 Uhr auf dem Markt vor dem Alten Rathaus die
Kundgebung „Unser Europa: vereint, demokratisch, zukunftsfähig. Aus Chemnitz.
Für Sachsen. Für Europa.“
Die überparteiliche Europa-Union Deutschland e.V. ist die
größte demokratisch organisierte und lokal verwurzelte Bürgerinitiative für
Europa in Deutschland. Mit ihren rund 16.000 Mitgliedern und 250 Kreisverbänden
setzt sie sich seit 1946 für die europäische Einigung und ein demokratisches,
rechtsstaatliches und föderales Europa ein. Wie auch ihre Jugendorganisation,
die Jungen Europäischen Föderalist:innen (JEF), ist die Europa-Union mit ihren
Partnerverbänden unter dem Dach der Union Europäischer Föderalisten (UEF)
europaweit vernetzt.
EUD 2
35 Jahre Einheit. Die Mauer fiel
uns auf den Kopf
Deutschland feiert 35 Jahre Einheit. Viele Menschen mit
Migrationserfahrung knüpfen etwas anderes daran: Brandsätze, Evakuierungen,
„No-go-Areas“, später der NSU – und heute hohe AfD-Werte im Osten. Die
Geschichte der Einheit hat einen blinden Fleck. Von Birol Kocaman
Die Einheitsraketen leuchten bis heute. Für viele von uns
war das Licht jedoch das von brennenden Häusern. Der Jubel der Nation – und die
Sirenen der Feuerwehr. Das ist keine Pointe, das ist Erinnerung.
Hoyerswerda, September 1991: tagelange Angriffe auf
Vertragsarbeiter und Asylsuchende; am Ende werden die Betroffenen aus der Stadt
herausgefahren, Rechtsextreme feiern „ausländerfrei“. Das war eine Zäsur – und
ein Fanal.
Rostock-Lichtenhagen, August 1992: das Pogrom vor laufenden
Kameras. Molotowcocktails gegen das Sonnenblumenhaus, Tausende klatschen, der
Staat schaut zu spät hin. Danach folgten Mölln und Solingen. Und im politischen
Berlin folgte der sogenannte Asylkompromiss – die Einschränkung von
Grundrechten als Antwort auf Pogrome.
Die nackten Zahlen jener Jahre sprechen eine deutliche
Sprache: 1992 registrierte das BKA 6.336 „fremdenfeindliche“ Straftaten, 1993
sogar 6.721. Zeitgenössische Analysen dokumentieren den sprunghaften Anstieg
schon 1991. Das war keine Randnotiz; das war Alltag.
„Rechtsextreme propagierten ’national befreite Zonen‘ – de
facto ‚No-Go-Areas‘ für Migrant:innen und People of Color. Der Begriff
‚Baseballschlägerjahre‘ steht bis heute.“
Dazu kam die Drohkulisse im Raum: Rechtsextreme propagierten
„national befreite Zonen“ – de facto „No-Go-Areas“ für Migrant:innen und People
of Color. Der Begriff „Baseballschlägerjahre“ steht heute für diese Welle
rechter Gewalt nach der Vereinigung.
Wer die 2000er „befriedet“ fand, verwechselte Stille mit
Aufklärung. In Thüringen formierte sich der NSU aus einem Milieu, das in der
Nachwendezeit gewachsen war; untergetaucht wurde im benachbarten Sachsen
(Jena/Chemnitz/Zwickau). Der Rest ist eine blutige Liste von Morden, Bomben,
Banküberfällen – und ein Staatsversagen, das Untersuchungsausschüsse bis heute
beschäftigt.
„Wer hat verloren? Schauen wir in die Statistik der Toten.
Unabhängige Recherchen zählen mindestens 221 – plus Verdachtsfälle.“
Wer hat verloren? Schauen wir in die Statistik der Toten.
Die Bundesregierung erkennt heute 117 rechte Mordopfer seit 1990 an;
unabhängige Recherchen der Amadeu-Antonio-Stiftung zählen mindestens 221 – plus
Verdachtsfälle. Hinter jeder Zahl ein Name, eine Familie, ein leeres Zimmer.
Und heute? In Ostdeutschland erzielt die AfD – von
Verfassungsschutzämtern teils als gesichert rechtsextrem eingestuft – seit
Jahren ihre stärksten Werte. 2024 wurde sie in Thüringen stärkste Kraft; in
Sachsen lag sie knapp hinter der CDU; in Brandenburg knapp hinter der SPD. Das
ist kein Osten-Bashing. Das ist eine nüchterne Feststellung über politische
Kräfteverhältnisse – mit Konsequenzen für alle, die sichtbar „nicht-deutsch“
gelesen werden.
Zur Wahrheit gehört: Rassismus ist gesamtdeutsch. Aber: Die
Nachwendedynamik hat im Osten besonders harte Räume und Rituale geformt – und
viele von uns haben gelernt, Landkarten nicht nach Sehenswürdigkeiten, sondern
nach Sicherheitszonen zu lesen.
„Ohne die Perspektive derjenigen, die nach 1990 zu
Zielscheiben wurden, bleibt die Einheitsgeschichte unvollständig.“
Die Einheit? Für Menschen mit Migrationserfahrung war sie
oft ein Stresstest auf offener Bühne: erst Angst, dann Abwertung, dann
Aushandlung – und viel zu selten Anerkennung. Der Satz „Wir sind ein Volk“
blieb zu oft eine Einladung mit Sternchen: gültig nur für die, die als „wir“
durchgehen.
35 Jahre danach wäre ein ehrliches Fazit fällig: Ohne die
Perspektive derjenigen, die nach 1990 zu Zielscheiben wurden, bleibt die
Einheitsgeschichte unvollständig. Wer feiern will, muss auch aufzählen. Wer
Zukunft will, muss schützen – Häuser, Menschen, Rechte. MiG 2
Frankfurt/M. Verso Sud 31. 31.
Festival des italienischen Films | 21.11.–3.12.2025
Hommage Marco Bellocchio | 21.11.–30.12.2025
Liebe Freundinnen und Freunde des italienischen Kinos,
in knapp vier Wochen beginnt Verso Sud und die
Vorbereitungen laufen auf Hochtouren: Ab Freitag, 21. November 2025,
präsentiert die 31. Ausgabe des Festivals wieder ein umfangreiches Programm mit
vielen aktuellen italienischen Filmen und einer bis 30. Dezember laufenden
umfangreichen Hommage an den vielseitigen und noch immer sehr aktiven Regisseur
Marco Bellocchio. Zu sehen sind zahlreiche Filme aus allen Phasen seines
Schaffens, von den 1960er bis in die 2020er Jahre. Außerdem würdigt ein kleines
Special den 10. Todestag von Francesco Rosi mit dem Klassiker LE MANI SULLA
CITTÀ (Hände über der Stadt).
Programm und Tickets: Der Vorverkauf für Verso Sud und die
Hommage Marco Bellocchio startet am Donnerstag, 6. November, um 15 Uhr online
und an der Kasse. Spätestens dann wird auch das vollständige Programm mit allen
Terminen und der Festivalkatalog veröffentlicht.
Eröffnung mit Gästen: Als Gäste an den beiden
Eröffnungstagen begrüßt das Festival den Schauspieler und Produzenten Pier
Giorgio Bellocchio und den Regisseur Gianluca Maria Tavarelli. Pier
Giorgio Bellocchio ist zur Eröffnung der Hommage mit FAI BEI SOGNI (Träum was
schönes) an seinen wegen Dreharbeiten verhinderten Vater Marco Bellocchio
anwesend. Gianluca Maria Tavarelli präsentiert seinen neuen Film INDAGINE DU
UNA STORIA D’AMORE (Interviews zu einer Liebesgeschichte).
Schulvorstellungen: Informationen dazu folgen in Kürze im
separaten Newsletter für Schulvorstellungen.
Eine Vorschau auf das Programm von Verso Sud mit einem
ersten Eindruck der umfangreichen Bellocchio-Hommage sowie einem Überblick
aller aktuellen italienischen Filme des Festivals ist unter folgendem Link zu
finden (dort auf die grau unterlegten Buttons unter dem Text klicken für die
Filmübersichten):
https://www.dff.film/kino/kinoprogramm/filmreihen-specials-november-2025/verso-sud-31/
Viel Spaß beim ersten Stöbern in der Vorschau und
selbstverständlich werden wir die Veröffentlichung des gesamten Programms und
den Beginn des Vorverkaufs in einem separaten Newsletter ankündigen. Verso
sud/dip 26