Webgiornale 1-15 maggio 2025

Inhaltsverzeichnis

1.     UE. Buone intenzioni, poca strategia. 1

2.     Papa Francesco, il leader radicale che ha rotto gli schemi papali 1

3.     Europa: vecchie e nuove sfide. Cosa c’è dietro l’angolo?. 1

4.     Il Parlamento italiano omaggia Papa Francesco. 1

5.     25 aprile 2025, 80 anni della Liberazione. Acli Baviera: 80 anni di libertà e democrazia. 1

6.     Alessandro Bove, virtuoso pianista lucano a Stoccarda. 1

7.     Monaco di Baviera. ILfest – Italienisches Literaturfestival München 2025. 1

8.     La “Festa dell’Europa e degli italiani all’estero” il 9 maggio con CabriniLand. 1

9.     Friburgo/Brsg. “Storie di Volti” dedicato alla scienza. 1

10.  A Colonia successo per “Approdi d'Autore”. 1

11.  "Francesco, un Papa figlio di emigranti": l’omaggio del Mei 1

12.  Francoforte. A questo serve la memoria: a scrivere meglio la nostra storia. 1

13.  Francesco, Papa dei migranti 1

14.  La guerra dei dazi di Trump e le risposte europee. 1

15.  Panorama italiano. 1

16.  Ue, migrazioni, rimpatri. Obiezioni a Europa e Italia. 1

17.  25 Aprile: la Liberazione e le sue ombre. 1

18.  Papa Francesco, Donald Trump e la loro opposta “politica degli ultimi”. 1

19.  Solo supponiamo. 1

20.  Einstein settant’anni dopo. Il genio è ancora tra noi 1

21.  Il dibatto della prima Conferenza delle Scuole italiane all’estero. 1

22.  Il viaggio a Washington e il dilemma di Meloni 1

23.  L’impossibile. 1

24.  Giovani in fuga: l’Italia perde i suoi talenti 1

25.  Rafforzare la rete dell’italianità all’estero con l’associazionismo. 1

26.  Democrazia. 1

27.  Gli Stati Generali della lingua italiana nel mondo. 1

28.  Cittadinanza: il parere con osservazioni approvato dalla Commissione Esteri 1

29.  “Verso una Comunità globale dell'Italofonia”. 1

 

 

1.     Erste Maßnahmen geplant. Dobrindt will Asylpolitik „vom Kopf auf Füße stellen“. 1

2.     Europäische Hochschulen als Motor der Veränderung in Europa. 1

3.     Brandmuster. Trügerische Sicherheit 1

4.     Amnesty beklagt globale Menschenrechtskrise: „Epochaler Bruch“. 1

5.     100 Tage Trump: Gravierende Folgen für Menschenrechte und Afrika. 1

6.     Angst und Verunsicherung. Steigender Abschiebedruck, mehr Kirchenasyl 1

7.     Sipri-Bericht. Weltweite Militärausgaben erneut auf Höchststand. 1

8.     Rassismus-Debatte nach tödlichen Polizei-Schüssen entflammt 1

9.     Integrationsministerkonferenz. Länder wollen Einwanderung von Fachkräften stärken. 1

10.  Vatikan: Trump und Selenskyj vereinbaren Fortführung von Verhandlungen. 1

11.  Steinmeier: Papst lebte „Kirche der Barmherzigkeit“ vor. 1

12.  Überlebensfrage. An vorderster Front: Indigene im Klimawandel 1

13.  Monsun verschärft die Lage nach Erdbeben in Myanmar. 1

14.  Was bleibt?. 1

15.  NRW. Partnerschaft für nachhaltige Innovationen im Bauwesen. 1

16.  Eskalation statt Frieden. 1

17.  Junge ausländische Fachkräfte hängen in der Luft. 1

18.  Rekordwerte in Bayern. Migranten immer häufiger Opfer von Straftaten. 1

19.  Die Welt im Chaos. 1

20.  „Bist du Ausländer?“ Mann schießt auf offener Straße auf Ausländer 1

21.  Earth Day 2025: Deutsche verlieren Interesse am Klimaschutz. 1

22.  Die alte Ordnung zerfällt 1

23.  Grün statt Schotter. 1

24.  Migrationsziel Chile. Der lateinamerikanische Traum.. 1

25.  Sudan: Zwei Jahre Krieg. 1

26.  Zwei Jahre Krieg im Sudan: Not, Erschießungen, sexuelle Gewalt. 1

 

 

 

UE. Buone intenzioni, poca strategia

 

Mai nella sua ormai lunga storia l’Ue ha vissuto un così drammatico periodo di incertezza. Schiacciata fra Trump e Putin, Bruxelles e i suoi principali partner sembrano muoversi a sussulti in un mondo ormai radicalmente diverso dopo l’emergere prepotente del “fattore T”. Molte le buone intenzioni e le iniziative sul tappeto, ma senza una vera e propria strategia comune per imparare a navigare in questi procellosi scenari. 

Come al solito arrivare a una decisione comune è estremamente difficile, come dimostrano gli scontati rinvii dell’ultimo Consiglio europeo del 20 marzo e perfino le ripetute riunioni dei cosiddetti “volonterosi” indette a Londra o Parigi per definire i contorni di una “forza di garanzia o di rassicurazione” in caso di cessate il fuoco in Ucraina. 

Di fronte a questa profondissima crisi riemergono in tutta la loro evidenza i limiti politici e istituzionali dell’Ue. Si ripete spesso che il processo di integrazione è destinato ad approfondirsi sotto la pressione delle crisi esterne, ma fino ad oggi non si è visto nulla di simile, anche se nei fatti alcuni adattamenti cominciano ad emergere.

La prima grande novità riguarda il ruolo della Commissione europea che, come nella passata crisi del Covid o della successiva depressione economica, ha preso anche oggi un’iniziativa coraggiosa su materie apparentemente lontane dalle sue competenze: il piano originario di “ReArm Europe” ampliato poi in un più convincente “Joint White Paper for European Defence Readiness 2030”. In mancanza di altri attori istituzionali capaci di prendere con una certa rapidità decisioni cruciali per il futuro dell’Unione, ecco che ancora una volta è la Commissione europea ad assumersi la responsabilità di dare la linea agli altri organismi dell’Ue e soprattutto al Consiglio europeo e ai 27 suoi paesi membri. Che poi l’iniziativa di Ursula von der Leyen abbia sollevato le proteste e i dubbi dei paesi e delle forze politiche sovraniste (comprese quelle italiane) era da mettere nel conto delle tipiche reazioni anti-comunitarie presenti un po’ dovunque. L’importante tuttavia è che qualcuno si sia preso la responsabilità di lanciare l’allarme e di obbligare a dare risposte concrete in un campo, quello della difesa comune, che attende ancora dal 1954 (fallimento della CED) di essere affrontato. 

In fondo l’Ue in tutti questi decenni è stata ciò che si definisce una “potenza civile” in un mondo dove gli sviluppi dell’economia erano al primo posto negli interessi globali. Ma oggi la musica è radicalmente cambiata e in un mondo marcatamente multipolare e nel quale lo strumento della guerra sembra essere tornato utilizzabile nelle contese internazionali l’essere “potenza civile” non è più sufficiente. Altiero Spinelli già decenni fa parlava di Europa come “terza potenza” per significare la necessità di completare il processo di integrazione economica anche con la dimensione di difesa. Oggi tale esigenza rimane valida anche se essa si sostanzia essenzialmente nella necessità di interloquire da pari con gli altri attori multipolari a cominciare dalla Russia, ma anche e soprattutto dagli Stati Uniti vista la loro drammatica trasformazione da alleati indispensabili per quasi 80 anni a concorrenti feroci nei prossimi. 

Sfide e prospettive per l’Europa nella difesa e nei negoziati internazionali

Certo non basta Ursula von der Leyen né la sua determinazione ad incamminarsi sulla via, soprattutto industriale, di una difesa comune e di uno sviluppo tecnologico accelerato per aprire il confronto con le altre potenze globali. Lo può fare nel campo degli accordi commerciali e della difesa dai dazi di Trump ove la Commissione ha competenze esclusive. In effetti, gli accordi con il Mercosur o i negoziati con il Messico e forse in futuro con l’India possono costituire la giusta risposta alle follie tariffarie di Trump. Ma sul piano dei negoziati di sicurezza o di pace la voce della Commissione non può che essere debole. Nessun invito alla Presidente della Commissione a sedersi a qualsivoglia tavolo con Usa, Russia e Ucraina. Cosa che a maggior ragione vale per la nuova Alto Rappresentante, Kaya Kallas, che ha dovuto soffrire la cancellazione all’ultimo minuto dell’incontro con la controparte americana Carlo Rubio o che ha visto respinta dal Consiglio europeo la sua proposta di un aiuto di 40 miliardi di Euro all’Ucraina, poi ridotta a 5 miliardi (ma senza conseguente decisione). Né migliori sono le performance internazionali del nuovo presidente del Consiglio europeo Antònio Costa il cui organismo di riferimento è scarsamente adatto a prendere con rapidità e consenso decisioni vitali per l’Ue. 

Se questo è lo stato penoso del decision-making comunitario di fronte alle nuove responsabilità di sicurezza e difesa, la reazione di alcuni stati membri, ed è questo l’altro motivo di novità, è stata quella di fare rinascere il vecchio concetto di “willing and able”.

Sviluppato intorno alla seconda metà degli anni ’80 per attrezzare la Nato a operazioni fuori dalla sua area di competenza è stato poi largamente applicato dopo il 2001 con le iniziative di ritorsione americana all’attacco alle due Torri. Sia in Afghanistan che in Iraq sono infatti nate le cosiddette “coalition of the willing” che hanno permesso la partecipazione volontaria di paesi alleati degli Usa per combattere in Medioriente. Oggi sia Macron che Starmer hanno preso in mano le redini dei cosiddetti gruppi di volonterosi per attrezzare in questo caso l’Ue a mantenere le proprie responsabilità in sostegno dell’Ucraina, prevedendo anche la costituzione di una forza di garanzia in caso di pace fra Mosca e Kyiv. 

In realtà queste iniziative, soprattutto da parte francese e degli altri membri dell’Ue che hanno deciso di farne parte, indicano la possibile strada anche istituzionale per uscire dal deficit decisionale dell’Ue. La nascita cioè di un gruppo di avanguardia che decida di procedere autonomamente verso un’integrazione di livello superiore, magari con un nuovo accordo/trattato che lasci inalterato l’assetto del resto dell’Ue, ma che nel gruppo di testa ponga rimedio alla paralisi istituzionale e di rappresentanza di un’Europa “potenza”. Sarà questa l’evoluzione futura? Sarebbe certamente auspicabile, ma viste le resistenze passate rimane poco probabile. A meno che la crisi attuale non finisca per imporsi. Gianni Bonvicini, AffInt 29

 

 

 

 

 

Papa Francesco, il leader radicale che ha rotto gli schemi papali

 

Papa Francesco, morto lunedì 21 aprile all’età di 88 anni, passerà alla storia come un pontefice radicale, un campione degli “sfavoriti” che ha forgiato una Chiesa cattolica più compassionevole, pur senza rivedere dogmi secolari.

Soprannominato “il Papa della gente”, il pontefice argentino amava stare in mezzo al suo gregge ed era popolare tra i fedeli, anche se ha dovuto affrontare un’aspra opposizione da parte dei tradizionalisti all’interno della Chiesa.

Primo Papa proveniente dalle Americhe e dall’emisfero meridionale, ha difeso strenuamente i più svantaggiati, dai migranti alle comunità colpite dal cambiamento climatico, che ha avvertito essere una crisi causata dall’uomo.

Tuttavia, mentre affrontava di petto lo scandalo globale degli abusi sessuali da parte dei sacerdoti, i gruppi di sopravvissuti sottolineavano l’inefficienza delle misure concrete messe in atto.

Fin dalla sua elezione nel marzo 2013, Jorge Mario Bergoglio ha manifestato l’intenzione di lasciare il segno come leader della Chiesa cattolica. È diventato il primo Papa a prendere il nome di Francesco, in onore di San Francesco d’Assisi, un mistico del XIII secolo che rinunciò alle sue ricchezze e si dedicò agli ultimi. “Come vorrei una chiesa povera per i poveri”, ha dichiarato tre giorni dopo la sua elezione a 266° papa.

Era una figura umile che indossava abiti semplici, evitava i sontuosi palazzi papali e telefonava da solo, per lo più a vedove, vittime di stupro o prigionieri. L’ex arcivescovo di Buenos Aires, amante del calcio, è stato anche più accessibile dei suoi predecessori, chiacchierando con i giovani su temi che vanno dai social media alla pornografia e parlando apertamente della sua salute.

Come il suo predecessore Benedetto XVI, che nel 2013 è diventato il primo pontefice dal Medioevo a dimettersi, anche Francesco ha sempre lasciato aperta la possibilità di ritirarsi. Dopo la morte di Benedetto nel dicembre 2022, Francesco è diventato il primo papa in carica nella storia moderna a presiedere un funerale papale.

Le sue condizioni di salute sono peggiorate progressivamente dall’intervento al colon nel 2021 all’ernia nel giugno 2023, fino a bronchiti e dolori al ginocchio che lo hanno costretto a usare la sedia a rotelle.

I migranti e la diplomazia vaticana

Prima della sua prima Pasqua in Vaticano, si è recato in un carcere di Roma per lavare e baciare i piedi dei detenuti. È stato il primo di una serie di potenti gesti simbolici che hanno aiutato il pontefice a ottenere l’entusiastica ammirazione globale che era sfuggita al suo predecessore.

Per il suo primo viaggio all’estero, Francesco ha scelto l’isola italiana di Lampedusa, luogo di ingresso per decine di migliaia di migranti che sperano di raggiungere l’Europa, e ha denunciato la “globalizzazione dell’indifferenza”.

Ha anche condannato i piani del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, durante il suo primo mandato, di costruire un muro di confine contro il Messico, definendoli “non cristiani”. Dopo la rielezione di Trump, papa Francesco ha denunciato le deportazioni di migranti previste come una “grande crisi” che “finirà male”.

Nel 2016, quando la crisi migratoria europea aveva raggiunto il suo apice, Papa Francesco ha fatto visita all’isola greca di Lesbo, portando con sé tre famiglie di musulmani siriani richiedenti asilo e tornando a Roma.

Si è anche impegnato per la riconciliazione interreligiosa, baciando il patriarca ortodosso Kirill di Mosca in uno storico incontro nel febbraio 2016 e lanciando, nel 2019, un appello congiunto per la libertà di credo con il principale chierico sunnita, Sheikh Ahmed al-Tayeb.

Francesco ha rivitalizzato la diplomazia vaticana anche in altri modi, contribuendo a facilitare il riavvicinamento storico tra Stati Uniti e Cuba e incoraggiando il processo di pace in Colombia. Ha inoltre cercato di migliorare i legami con la Cina, raggiungendo un accordo storico nel 2018 sulla nomina dei vescovi, accordo che però è stato criticato.

Appello per il clima

Gli esperti hanno attribuito a Francesco il merito di aver influenzato gli storici accordi sul clima di Parigi del 2015 con la sua enciclica “Laudato si'”, un appello all’azione sul cambiamento climatico basato sulla scienza. Egli ha sostenuto che le economie sviluppate sono responsabili di un’imminente catastrofe ambientale e, in un nuovo appello del 2023, ha affermato che alcuni dei danni sono ormai irreversibili.

Sostenitore della pace, il pontefice ha ripetutamente denunciato i produttori di armi e ha affermato che è in corso una Terza guerra mondiale, a causa della miriade di conflitti che si registrano in tutto il mondo. Tuttavia, i suoi interventi non hanno sempre riscosso consensi e ha scatenato l’indignazione di Kyiv dopo aver elogiato coloro che, nell’Ucraina devastata dalla guerra, hanno avuto il “coraggio di alzare bandiera bianca e negoziare”.

Nelle sue modeste stanze nella foresteria vaticana di Casa Santa Marta, Francesco affrontava lo stress scrivendo i suoi problemi in lettere a San Giuseppe. “Dal momento in cui sono stato eletto, ho provato una sensazione molto particolare di pace profonda. E questo non mi ha mai abbandonato”, ha dichiarato nel 2017.

Amava anche la musica classica e il tango, tanto che una volta si era fermato in un negozio di Roma per acquistare dei dischi.

Chi sono io per giudicare?

Gli ammiratori di Francesco gli attribuiscono il merito di aver trasformato la percezione di un’istituzione che, al momento del suo insediamento, era afflitta da scandali, riportando all’ovile i fedeli che si erano allontanati.

Sarà ricordato come il Papa che, in merito ai cattolici gay, ha affermato: “Chi sono io per giudicare?”.

Ha permesso ai divorziati e ai risposati di ricevere la comunione, ha approvato il battesimo dei transgender e la benedizione delle coppie omosessuali.

Tuttavia, ha abbandonato l’idea di permettere ai sacerdoti di sposarsi, dopo un’ondata di proteste, e, nonostante abbia nominato diverse donne a posizioni di rilievo all’interno del Vaticano, ha deluso le aspettative di chi auspicava l’ordinazione delle donne.

I critici lo hanno accusato di aver manomesso pericolosamente i principi dell’insegnamento cattolico e le sue riforme hanno sollevato una forte opposizione.

Nel 2017, quattro cardinali conservatori hanno lanciato una sfida pubblica senza precedenti alla sua autorità, affermando che le sue riforme avevano seminato confusione dottrinale tra i credenti.

Tuttavia, la sua Chiesa non ha mostrato alcuna intenzione di allentare il divieto di contraccezione artificiale o di modificare la propria posizione riguardo al matrimonio gay, ribadendo che l’aborto è “omicidio”.

Francesco ha anche spinto le riforme all’interno del Vaticano, come permettere ai cardinali di essere processati da tribunali civili o rivedere il sistema bancario della Santa Sede.

Ha anche cercato di affrontare il problema enormemente dannoso degli abusi sessuali da parte dei sacerdoti, incontrando le vittime e giurando di chiamare i responsabili a risponderne. Ha aperto gli archivi vaticani ai tribunali civili e ha reso obbligatorio segnalare alle autorità ecclesiastiche i sospetti di abusi o il loro insabbiamento. Tuttavia, i critici affermano che la sua eredità sarà una Chiesa che fatica a consegnare i preti pedofili alla polizia.

Prima di divenire Papa

Jorge Mario Bergoglio è nato in una famiglia di emigranti italiani a Flores, un quartiere borghese di Buenos Aires, il 17 dicembre 1936. Primogenito di cinque figli, come scrive il biografo Paul Vallely, è “nato argentino ma cresciuto a pasta”.

A partire dai 13 anni lavorò in una fabbrica di calze nel pomeriggio, mentre di mattina studiava per diventare tecnico chimico. In seguito, per un breve periodo, fece il buttafuori in un locale notturno.

Si dice che gli piacessero il ballo e le ragazze, al punto da chiederne una in sposa prima che, all’età di 17 anni, scoprisse la vocazione religiosa. In seguito, Francesco raccontò di un periodo di agitazione durante la sua formazione gesuita, quando si invaghì di una donna incontrata a un matrimonio di famiglia.

A quel punto era sopravvissuto a un’infezione quasi mortale che aveva comportato l’asportazione di parte di un polmone. L’insufficienza respiratoria aveva compromesso le sue speranze di diventare missionario in Giappone. Fu ordinato sacerdote nel 1969 e nominato provinciale dei Gesuiti in Argentina solo quattro anni dopo.

Il suo periodo alla guida dell’ordine, che ha coinciso con gli anni della dittatura militare in Argentina, è stato difficile. I critici lo accusarono di aver tradito due sacerdoti radicali che erano stati imprigionati e torturati dal regime. Non è mai emersa alcuna prova convincente di questa affermazione, ma la sua guida dell’ordine ha creato divisioni e, nel 1990, fu degradato ed esiliato a Córdoba, la seconda città più grande dell’Argentina.

Poi, a 50 anni, la maggior parte dei biografi lo descrive come un uomo che ha attraversato una crisi di mezza età. Ha deciso di intraprendere una nuova carriera nel mainstream della gerarchia cattolica, reinventandosi prima come il “vescovo dei bassifondi” di Buenos Aires e poi come il papa che avrebbe rotto gli schemi. AFP/AffInt 22

 

 

 

 

Europa: vecchie e nuove sfide. Cosa c’è dietro l’angolo?

 

L'eurocentrismo è consegnato al passato. Ora i Ventisette hanno di fronte scenari inediti, rispetto ai quali si possono serrare i ranghi oppure rischiare l'implosione. Le risposte sono - forse - più vicine di quanto si pensi – di Gianni Borsa

Succede così: l’Europa si porta nello zaino alcune sfide “storiche”, in parte risolte, in parte no. Alle quali se ne aggiungono sempre di nuove. Tra quelle consegnate dal passato si possono ricordare, senza ambire alla completezza, la costruzione della pace – primo vero e grande obiettivo comune –, la realizzazione di un solido e vantaggioso mercato unico senza barriere (libera circolazione delle persone, delle merci, dei servizi e dei capitali), la promozione del benessere e della sicurezza per tutti i suoi cittadini, la cooperazione internazionale e l’“apertura al mondo”.

Nel tempo si sono aggiunte altre “frontiere”: l’invecchiamento della popolazione e la crisi demografica, mentre in altre regioni del pianeta nascono tanti figli e la media d’età è giovane e promettente; l’avanzare del cambiamento climatico e la necessità di proteggere l’ambiente naturale e umano; l’indebolirsi della democrazia partecipativa e l’emergere prepotente di populismi e nazionalismi; le instabilità politiche di diverse regioni attorno all’Europa. Quindi le pressioni migratorie, il Covid, la guerra in Ucraina (dopo quella nei Balcani). Per arrivare alla guerra commerciale scatenata da Trump.

L’Europa ha una storia millenaria. Sempre costellata di nuove vicende, di guerre e di periodi di pace, di cadute e di riprese sorprendenti. È stata al “centro della storia” per secoli (anche in periodo bui, come il colonialismo…). Ora la storia è cambiata e sia ha la convinzione che l’“eurocentrismo” sia finito da un pezzo. Ciò non toglie che ancora oggi, nella versione dell’Unione europea, 27 Stati collaborino in diversi ambiti – politico, istituzionale, economico, forse persino militare – con obiettivi e regole comuni e con modalità che non si riscontrano in nessun’altra parte del mondo. Talvolta con successi evidenti, altre volte con ritardi, errori, equivoci.

È quanto avviene ancora oggi. La questione difesa-riarmo, i dazi statunitensi, le preoccupanti dinamiche dell’economia, le prospettive della rivoluzione digitale, l’accoglienza (o meno) dei migranti, le profonde differenze interne negli standard di vita e di welfare, il prospettato Green Deal: sono tutti capitoli aperti, nei quali l’Ue fatica a trovare il bandolo della matassa.

Così l’Unione europea è, ancora una volta, a rischio implosione; ma neppure si può escludere che la ricerca di risposte “a 27” – o a geografie variabili? – alle sfide in atto possa rilanciare lo spirito della “casa comune”. I giochi sono aperti: occorrerebbero leadership realmente europeiste, convinte che l’unione fa la forza, e cittadini che si sentano tali dell’Europa, oltre che dei rispettivi Paesi membri. Sentenze certe al momento non ce ne sono, ma potremmo averne molto presto.

Sir 16

 

 

 

 

Il Parlamento italiano omaggia Papa Francesco

 

Cerimonia a Camere riunite per rendere omaggio al Pontefice defunto - Di Marco Mancini

Roma. Con una cerimonia solenne il Parlamento italiano ieri ha ricordato la figura di Papa Francesco, morto lunedì scorso all’età di 88 anni.

Ad aprire la seduta ieri pomeriggio il Presidente della Camera dei Deputati Lorenzo Fontana.  “E’ stato il primo a chiamarsi Francesco. La scelta di quel nome fece subito comprendere l'attenzione che avrebbe avuto per gli ultimi, per le persone malate e per chi soffre”, le parole della terza carica dello Stato mentre per il Presidente del Senato Ignazio La Russa Papa Francesco “è' stato un autentico testimone di fede vissuta, capace di incarnare fondamentali valori di misericordia e solidarietà. La sua attenzione verso gli ultimi, verso i più fragili, e verso gli emarginati, ha superato le diversità religiose e spirituali ed è diventata una continua esortazione ai leader del mondo a lavorare insieme per la pace, il bene comune e il rispetto della dignità di ogni persona”.

Per il governo ha preso la parola in chiusura di seduta la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni. "Siamo qui per rendere omaggio ad un grande uomo e ad un grande Pontefice. Papa Francesco era un uomo che sapeva essere determinato, quando parlavi con lui non c'erano barriere. Ha restituito voce a chi non l'aveva anche rompendo gli schemi. Il mondo ricorderà Francesco come pontefice degli ultimi, ha saputo interpretare in modo nuovo molte cose, diceva che la diplomazia è un esercizio di umiltà, e ha detto che la politica serve e che di fronte a tante forme di politica meschine, la sua grandezza si mostra quando si opera basandosi sui grandi principi, con lungimiranza" . 

La salma del Papa, che già martedì mattina aveva ricevuto a Santa Marta l’omaggio del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ieri è stata omaggiata nella Basilica Vaticana anche dalla Presidente del Consiglio dei Ministri Giorgia Meloni che – a nome del governo – aveva già proclamato cinque giorni di lutto nazionale. Presenti a San Pietro anche il Ministro degli Esteri Antonio Tajani ed il Ministro della Difesa Guido Crosetto. Aci 24

 

 

 

 

25 aprile 2025, 80 anni della Liberazione. Acli Baviera: 80 anni di libertà e democrazia

 

Le Acli Baviera, a distanza di 80 anni, intendono onorare il ruolo svolto dalle truppe alleate in Italia, Americani, Inglesi, Polacchi e quanti altri, che nella fase finale della seconda guerra mondiale, a partire dal settembre 1943, sostenuti dal movimento partigiano, una Resistenza fondamentale nel recupero di una dignità nazionale antifascista, hanno creato le condizioni, in Italia, per la riaffermazione della libertà e democrazia.

 

Le ACLI Baviera desiderano contribuire a rendere questa memoria storica responsabilità comune, diffusa e popolare, radicata negli uomini e donne di buona volontà, perché costituiscono il fondamento e i valori della Costituzione attuale della Repubblica italiana, che senza quell’esperienza di sacrificio ed abnegazione non sarebbe fiorita dalle ceneri della guerra e del fascismo. La Resistenza incarna la volontá precisa, un impegno di coraggio ad opporsi al regime fascista persecutorio e vile. Esso non produsse singoli responsabili di episodi efferati; dietro ai sicari, una moltitudine che quei delitti ha coperto con il silenzio e una codarda rassegnazione, una classe dirigente sospinta dall’inettitudine e dalla colpa verso la totale rovina.

 

Se gelosamente conservata, la memoria, sarà capace di generare nuova passione umana e civile per nutrire una speranza condivisibile per il futuro. Ma il ricordo interpella anche il ruolo delle Istituzioni, perché ad esse è affidato precipuamente il compito di sostenere e forse anticipare la coscienza collettiva di una Comunità, nei loro gesti vi è una valenza pedagogica irrinunciabile. La memoria costituisce il debito inestinguibile da pagare verso questi Eroi e Martiri della democrazia, avversari, a costo della propria vita, di tutte le forme di dittatura, razzismo e  genocidio. Essa non ci rende prigionieri del passato, se riappropriarsi del ricordo del patire e delle speranze spinge ad impegnarsi per una nuova stagione di libertà e liberazione.

Il Presidente regionale ACLI Baviera, dip 25

 

 

 

 

Alessandro Bove, virtuoso pianista lucano a Stoccarda

 

L’arte in genere, ma la musica in, non conosce confini. Anzi i musicisti, come del resto i cantanti, devono la loro notorietà ai tour e alle permanenze all’estero sia per apprendere e affinare ulteriormente le tecniche e le virtuosità apprese in Italia e sia per diffonderle nei paesi di accoglienza.

È quanto sta vivendo Alessandro Bove a Stoccarda. Nato a Potenza (Basilicata), fin da giovanissimo ha intrapreso la strada del Conservatorio diplomandosi brillantemente in pianoforte a Siena spianando così la strada per un Masterclass di Alto perfezionamento a Napoli e Parigi.

Fra i suoi illustri Maestri spiccano l’argentino Hector Moreno e gli italiani Carlo Grante ed Aldo Ciccolini.

La sua bravura gli ha consentito di vincere numerosi concorsi, fra i quali l’Amadeus della città di Taranto, Armonium Messapiae di Lecce, la Città di Cercola – Napoli  e  Samik di Montecatini Terme.

Alessandro Bove coltiva però anche una grande passione per l’insegnamento iniziata fin dall’età di 15 anni. A lui, infatti, piace molto trasferire i suoi saperi musicali agli adolescenti in modo da creare le basi per un ricambio generazionale.

È co-fondatore del Lucus Trio e pianista/maestro del Coro polifonico dell’Università degli Studi della Basilicata (Unibas).

Nel 2022 dopo il riposo forzato del Covid decide di trasferirsi a Stoccarda, città che anche per la musica gode di una grande fama internazionale, tant’è che in poco tempo riesce ad inserirsi a pieno titolo nel variegato panorama della musica pianistica, conquistando piacevoli collaborazioni in attività concertistiche anche in Svizzera, Francia e Italia.

Attualmente sta alacremente lavorando ad un progetto discografico per pianoforte.

La scelta della Germania è stata dunque provvidenziale:

“La Germania è un paese che mi attraeva fin dalla gioventù, oggi ancora di più — oltre la bellezza del territorio — per le opportunità musicali e culturali, come anche per l’apertura verso progetti internazionali.

Che grado d’integrazione concertistica, sociale e culturale sei riuscito a raggiungere in poco più di tre anni?

Mi sono inserito nel panorama concertistico tra collaborazioni con istituzioni culturali e artisti di un ampio e ricco panorama musicale.

Quali sono stati gli scogli più difficili da superare?

La lingua, la burocrazia e costruire una rete solida in un ambiente molto competitivo, seppur ricco di opportunità per uscire dalla propria zona comfort.

Un pianista vive di attività concertistica e d’insegnamento. Come ti sei inserito in questo mercato, ricco di concorrenza internazionale?

Attraverso concerti, collaborazioni varie e progetti con istituzioni locali e internazionali.

Ti reputi un concertista solista o di far parte di un ensemble?

Principalmente solista, ma la musica da camera, nonché la collaborazione con cantanti, resta sempre una passione e un impegno costante.

Quali sono le proposte che riscuotono un maggiore interesse di pubblico?

Ho scelto di vivere in un Paese di grandi compositori, di conseguenza in un contesto dove la sensibilità e l’attenzione per la musica sono molto alte; Va da sé che il repertorio che si può proporre è decisamente ampio: resta un amore innato per i grandi compositori del passato ma al contempo si nota una grande voglia di innovazione, scoperta, novità ed apertura ad un linguaggio che è in costante evoluzione. Al di fuori della Germania ho riscontrato essere di particolare impatto eseguire composizioni famose di grandi autori classici e romantici, visto l’amore nei confronti della tradizione sempre molto importante.

Hai fatto delle incisioni?

Sì, e sto lavorando a nuove produzioni.

Partecipi a Festival, concorsi nazionali italiani ed internazionali?

Certamente, soprattutto in contesti che valorizzano la musica classica e contemporanea.

Qual è il beneficio che se ne trae?

I benefici più importanti sono visibilità, crescita artistica e l’opportunità di costruire nuove collaborazioni.

Che opportunità ti sta dando la Germania ed in particolare Stoccarda?

Un ambiente stimolante con un forte interesse per la musica classica, la possibilità di sviluppare progetti culturali e non ultimo siamo nel cuore d’Europa.

La fase di recessione economica in atto in Germania tocca anche il vostro settore concertistico?

Stiamo vivendo un periodo storico molto importante, alla luce degli avvenimenti a cui ogni giorno assistiamo, inevitabilmente tutti i settori subiscono, l’arte tutta non è dispensata; il concerto resta comunque un momento di condivisione a cui le persone non vogliono rinunciare.

Voi artisti avete anche una sorta di salvataggio sociale?

Probabilmente sì, come in ogni settore suppongo.

Ed ora qualche curiosità: Quante ore trascorri giornalmente al pianoforte?

Dipende dai periodi, dalle tre ore per mantenere una pratica costante e mirata fino a anche 10/12 ore in periodi particolari, per esempio prima di concerti, in fase di preparazione a una registrazione o altro.

Che disagio o male può causare la velocità sulla tastiera?

La preparazione è una costante attitudine psicofisica. Per un musicista in generale, e nel mio caso specifico un pianista, la domanda si pone al contrario: ,,Come si riesce ad evitare di incorrere in infortuni legati alla velocità / al virtuosismo?” Vista l’importanza anche della condizione fisica, presto costantemente attenzione a un “allenamento adeguato”, postura giusta (non soltanto al pianoforte), tanto stretching ed evitare sforzi che possano compromettere il mio lavoro.

Dove ti eserciti?

Nel mio studio, dove posso concentrarmi senza distrazioni.

Qual è il rapporto col vicinato?

Oggi positivo poiché da più di un anno abito in una casa singola dove posso studiare e suonare anche di notte. Il vicinato è molto gentile e mi trovo decisamente bene. Prima era ovviamente difficile perché in un appartamento bisogna trovare il giusto compromesso tra le necessità dello studio e il rispetto degli orari previsti.

Come fai a farti conoscere?

Attraverso concerti, collaborazioni e figure scelte di riferimento per promuovere i miei progetti e per creare contatti nuovi.

Hai un’agenzia di riferimento?

Sto valutando collaborazioni con agenzie, ma ad oggi mi muovo autonomamente. Poi, come detto precedentemente, ci sono diverse figure che promuovono i miei progetti.

Quali autori garantiscono il pienone di una sala?

Il pienone di una sala è garantito soprattutto dalla figura dell’artista e dall’organizzazione dell’evento. Generalmente p.e. i Festival attirano un pubblico che di per sé assicura il pienone anche indipendentemente dall’autore. Comunque i grandi classici partendo da Bach, arrivando a Rachmaninov e oltre sono quasi sempre una garanzia. Opere famose e autori conosciuti sono di sicuro una buona ricetta, è anche importante però valutare bene il contesto e il pubblico legato ad esso, soprattutto quando si presentano programmi più particolari.

Per esperienza, che cosa chiede il pubblico?

Questa è una domanda difficile in quanto molto generica – come detto sopra, dipende dai posti, dalle abitudini e interessi del pubblico specifico. In generale si può sicuramente dire che il pubblico desidera vivere emozioni e coinvolgimento, oltre a un’esperienza unica che rende il concerto un momento da ricordare.

Che reazione registri a nuove proposte di musica da camera? Per esempio, in Germania, Italia, Svizzera, Francia e Austria?

Dalla mia esperienza, in Germania e Austria c’è più apertura alla sperimentazione, mentre in Italia il pubblico è più legato alla tradizione.

Chi fa da tramite per esplorare “nuovi mercati” europei ed extraeuropei?

Ci sono diverse strade, ma restano sicuramente sempre importanti i contatti con istituzioni, la partecipazione a Festival e collaborazioni con altri artisti, oltre a figure all’interno del settore.

Avete dei fans che vi seguono costantemente come avviene in altri ambiti della musica?

Sì e no. Di certo un musicista classico non è paragonabile a una rock star, ma ci sono comunque fans o ammiratori che seguono concerti, pubblicazioni sia in forma liquida che fisica (disco). Certamente si creano anche nell’ambito della musica classica dei „legami“ tra l’artista e il pubblico.

Come superate lo strapazzo delle dita?

Non è un problema delle dita per quanto mi riguarda, piuttosto il punto è un costante “sano atteggiamento psicofisico”.

Ormai la tecnologia è entrata a far parte anche nel mondo della partitura o spartito. Rimpiangi la carta?

Uso entrambi, ma la carta mantiene sempre un fascino speciale. Sono comunque convinto che l’apertura mentale sia un atteggiamento indispensabile, e nel caso degli sviluppi tecnologici essere al passo con i tempi permette di percepire e quindi usufruire dei vantaggi di entrambi.

Quanto ti senti appagato?

Per me l’appagamento è un concetto difficile in quanto tende facilmente a trasformarsi nella sensazione di essere arrivati in un certo senso, e quindi di poter o voler fermarsi – il ciò porta spesso allo spegnimento. Io vivo la vita e la musica come una ricerca continua. La volontà di andare sempre oltre, di porsi nuovi obbiettivi, di oltrepassare l’orizzonte appena raggiunto è una condizione sine qua non. Per dirlo alla Faust: Mi sento appagato proprio perché non arrivo a quel momento dove potrei dire a quell’attimo: fermati dunque, sei così bello!

Che legame riesci a mantenere con la tua Basilicata, oltre a quello affettivo?

Attraverso collaborazioni culturali e ritorni per eventi musicali.

Dove vedi il tuo futuro?

Ovunque con la musica! 

Tony Màzzaro, CdI on. 15

 

 

 

 

Monaco di Baviera. ILfest – Italienisches Literaturfestival München 2025

 

Celebrazione della storia attraverso la letteratura italiana

Dal 9 all’11 maggio 2025, Monaco di Baviera accoglierà la settima edizione de ILfest – Italienisches Literaturfestival, il prestigioso evento dedicato alla letteratura italiana in Germania. Organizzato da Elisabetta Cavani di ItalLIBRI e dall’Istituto Italiano di Cultura diretto da Giulia Sagliardi, il festival gode del patrocinio del Consolato Generale d’Italia a Monaco di Baviera e del sostegno dell’Assessorato alla cultura della città di Monaco.

Tema del 2025: „Come si racconta la storia?“

Quest’anno ILfest esplora il tema intrigante di „Come si racconta la Storia?“, riflettendo sull’impatto delle vicende storiche nel contesto dei romanzi e saggi contemporanei. A 80 anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, il festival esamina come la letteratura italiane affronta temi di violenza, pace e memoria storica. I libri in programma non solo narrano storie individuali, ma riflettono anche sul ruolo della letteratura nel contesto delle narrazioni ufficiali e personali.

Autori e opere in evidenza:

Tra gli ospiti illustri, Francesca Melandri presenterà „Piedi freddi“, mentre Gian Marco Griffi discuterà del suo acclamato „Le ferrovie del Messico“. Stefano Nazzi esplorerà „Canti di guerra“, ambientato nella Milano degli anni Settanta, mentre Federica Manzon offrirà uno sguardo su „Alma“, vincitore del Premio Campiello 2024. Marco Balzano presenterà il suo nuovo romanzo „Bambino“, ambientato a Trieste in periodi chiave del Novecento.

Eventi speciali:

ILfest non si limita alla letteratura per adulti ma include anche eventi per ragazzi, come le letture di Manlio Castagna e la giuria del Premio ILfest Giovani che presenterà romanzi per adolescenti. La Stadtbibliothek Neuhausen offrirà letture per bambini in italiano, promuovendo la cultura e la lingua italiana tra i giovani.

Conversazioni e incontri culturali:

Un momento imperdibile sarà la conversazione tra Roberto Cepach del LETS – Museo della letteratura Trieste e Alessandro Melazzini, regista del documentario „Italo Svevo. Scrivere nascosto a Trieste“. Questo incontro offre uno sguardo approfondito sulla storia e la cultura di Trieste, una città che ha influenzato significativamente la letteratura del Novecento.

Partecipazione e biglietti:

Il programma dettagliato è disponibile sul sito ufficiale del festival www.ilfest.de, dove è possibile acquistare i biglietti per gli eventi. Moderatori e interpreti garantiranno la traduzione in tedesco per un’esperienza inclusiva e accessibile a tutti.

ILfest – Italienisches Literaturfestival München 2025 promette di essere un evento imperdibile per gli amanti della letteratura italiana e per chi desidera esplorare la storia attraverso le parole degli autori contemporanei. CdI on 17

 

 

 

 

 

La “Festa dell’Europa e degli italiani all’estero” il 9 maggio con CabriniLand

 

Berlino - In occasione della Giornata dell’Europa, l’Associazione CabriniLand ha lanciato un invito rivolto a tutti i Com.It.Es, alle associazioni, agli enti e ai cittadini italiani nel mondo per partecipare attivamente alla “Festa dell’Europa e degli italiani all’estero, ambasciatori di italianità”, un evento virtuale e diffuso che si svolgerà il 9 maggio 2025, nato con l’idea di unire culture, esperienze e cuori sotto il segno dell’italianità e dell’Europa, con uno sguardo di pace, solidarietà e memoria viva.

L’evento si terrà online, all’interno di uno spazio simbolico: la Casa Natale di Santa Francesca Cabrini, ricostruita virtualmente per accogliere una celebrazione condivisa e globale. La Casa Natale di Santa Francesca Cabrini, a Lodi, è un luogo di memoria e spiritualità, dedicato alla Patrona Universale degli Emigranti.

CabriniLand ha spiegato che ogni partecipante potrà organizzare un micro o macro evento nel proprio Paese, che sia un incontro, un convegno, un brindisi, o anche attraverso una foto, un breve video, una diretta web da condividere online e inviare all’indirizzo cabriniland@gmail.com.

Tutti i contributi saranno pubblicati sulla pagina di CabriniLand.

Ad oggi, hanno già confermato la propria partecipazione la presidente della Commissione Esteri del Senato, alcuni parlamentari europei, rappresentanti CGIE e varie associazioni.

L’iniziativa si ispira a Santa Francesca Saverio Cabrini, Patrona universale degli emigranti, e ha come obiettivo quello di percorrere “il Cammino del Cuore”, un itinerario simbolico e spirituale ma anche un “Cammino” dedicato a chi ha lasciato l’Italia per costruire ponti nel mondo. Il messaggio guida è ispirato alle parole di Papa Francesco: “Dobbiamo disarmare le parole, per disarmare le menti e disarmare la Terra”. (aise/dip) 

 

 

 

 

Friburgo/Brsg. “Storie di Volti” dedicato alla scienza 

 

Friburgo. In occasione dell’ottava Giornata della ricerca italiana nel mondo si è tenuto al Planetario di Friburgo il tredicesimo appuntamento di “Storie di Volti” dedicato alla scienza, promosso dal Consolato d’Italia. “La realtà di Friburgo –si legge nella nota del Consolato  – è nota nel contesto tedesco per la presenza di numerosi centri di ricerca di eccellenza, per la sua prestigiosa università e clinica universitaria. Moltissimi dei più di 60.000 connazionali che vivono nel territorio della Circoscrizione di Friburgo, sono impiegati in questi contesti e ricoprono spesso in essi posizioni di rilievo. Nella sera del 10 aprile, nel formato previsto da Storie di Volti, abbiamo ascoltato i percorsi accademici, lavorativi e di vita di sei connazionali che da tempo vivono a Friburgo. Da Giampietro Moras, responsabile simulazioni multiscala dell’Istituto Fraunhofer IWM dedicato alla meccanica dei materiali, a Edoardo Carnio e Giulio Rossi ricercatori fisici quantistici e medici che ricoprono posizioni di prestigio presso l’università e la clinica universitaria, passando poi all’ascolto dell’esperienza di un professore di elettronica Paolo Guagni, di una project manager e di una key account manager in ambito farmaceutico, Daria Monaldi e Valentina Marchesin. Tutti i percorsi dei connazionali sono iniziati in Italia a dimostrazione della solidità del nostro sistema di formazione e della qualità della ricerca e dell’alta formazione che il nostro Paese sa assicurare. Come Consolato abbiamo deciso di valorizzare la loro attività attuale e anche il loro percorso fatto di sacrifici e di resilienza e di intraprendenza per continuare la loro carriera all’estero. I sei relatori hanno saputo, al contempo, promuovere un’immagine moderna e dinamica dell’Italia di fronte al numeroso pubblico italiano e tedesco presente.  L’evento si è svolto nella splendida cornice del Planetario di Friburgo, scelto come luogo simbolo della ricerca e della capacità di andare oltre i confini, e catalizzatore per il coinvolgimento tra il pubblico di rappresentanti delle istituzioni scientifiche tedesche locali. Non poteva mancare, in una circoscrizione nella quale la comunità è composta in gran parte da giovani, un intervento dedicato alle future generazioni con lo stimolante discorso dell’ingegnera Annamaria Nassisi in collegamento da Roma, che si occupa da più di trent’anni di sistemi per l’osservazione della Terra e che con la sua associazione e il suo esempio avvicina le giovani studentesse al mondo STEM”. (Inform/dip 17)

 

 

 

 

 

A Colonia successo per “Approdi d'Autore”

 

"A Colonia ho avuto il piacere di partecipare attivamente ad una serata di grande ispirazione con “Approdi d’autore”: la premiazione degli scrittori di Graus Edizioni ha celebrato il valore della cultura e delle parole degli Italiani in Germania. 

Particolarmente emozionante la proiezione del film "Global Harmony" di Fabio Massa, che ci ricorda quanto sia urgente e necessario costruire ponti tra le persone e i popoli. 

La serata ha previsto la premiazione sia di autori Graus italo-tedeschi sia di diversi rappresentanti istituzionali: Gabriele Italia, Vincenzo Errico, Vincenza Sanfilippo, Luigi Scotti, Mauro Pecchioli, Giovanni Falcone, Matilde Tortora, Enrico Lo Verso, Luca Paglia, Maurizio Giangreco, Steffen Neck, il Sindaco di Colonia Henriette Reker, l’Onorevole Simone Billi.

Hanno ricevuto una menzione: Maurizio Del Greco, Patrizia Pili, Giuseppe Tecce, Antonio Pacifico, Tommasina Crugliano.

Desidero complimentarmi e ringraziare Maurizio Del Greco e Patrizia Pili per l’ottima organizzazione e l’editore Piero Graus per promuovere questi importanti momenti di condivisione e valorizzazione della cultura italiana all’estero" - lo comunica Simone Billi, deputato per la Circoscrizione Estero-Europa e presidente del Comitato sugli Italiani nel Mondo. Dip 18

 

 

 

 

 

"Francesco, un Papa figlio di emigranti": l’omaggio del Mei

 

Il Museo Nazionale dell’Emigrazione Italiana di Genova ricorda con profonda commozione Papa Francesco, scomparso lunedì, con un omaggio speciale intitolato: “Francesco, un papa figlio di emigranti”, proiettato da oggi e fino a sabato 26 aprile, giorno delle esequie, nella Sala Mostre Multimediali del museo e disponibile anche online sul canale youtube del Mei.

Un gesto di riconoscenza e affetto verso il Santo Padre, che nel corso del suo pontificato non ha mai dimenticato le proprie origini italiane e l’esperienza di figlio di emigranti, testimoniando fino all’ultimo il valore dell’accoglienza, della dignità e della fraternità tra i popoli.

“Papa Francesco è stato sempre fiero delle sue origini italiane”, ricorda Paolo Masini, Presidente della Fondazione MEI. “Un’eredità che ha segnato molti aspetti del suo pontificato, lasciando un’orma indelebile di cui tutti noi dobbiamo avere cura. Con questo piccolo tributo, vogliamo ricordare la sua storia e il suo messaggio universale”.

La clip con la voce narrante di Massimo Wertmuller è stata realizzata in collaborazione con il MUDEM Museo della Moneta della Banca d’Italia. Protagonista Jorge Mario Bergoglio, nato nel 1936 a Buenos Aires, figlio di Mario Bergoglio e Regina Maria Sivori, emigrati dall’Italia all’Argentina. I nonni paterni, Giovanni Bergoglio e Rosa Vasallo, vivevano a Bricco Marmorito di Portacomaro Stazione, in provincia di Asti, dove tentarono prima la via dell’agricoltura e poi quella del commercio, senza successo. Le difficili condizioni economiche, unite alle prospettive offerte dai parenti già emigrati, spinsero la famiglia a partire.

Il 1° febbraio 1929 si imbarcarono a Genova sul piroscafo Giulio Cesare, diretti a Buenos Aires. Una scelta coraggiosa che ha segnato il destino della famiglia e che ha contribuito a plasmare la sensibilità e il pensiero di Papa Francesco, profondamente attento ai temi della migrazione, delle periferie e dell’incontro tra i popoli.

Tra i simboli più significativi di questa storia c’è il cedolino originale della Banca d’Italia relativo a Mario Bergoglio, padre del Santo Padre, che lavorò presso la filiale di Asti a partire dal 1926. In quel documento - oggi conservato presso l’Archivio storico della Banca d’Italia - Mario viene descritto come “un giovane dotato di intelligenza, capace, assiduo e galantissimo”. Nonostante l’impegno e le qualità riconosciute, il suo stipendio era modesto: 300 lire mensili, poi aumentate a 350 lire nel 1928.

Il MEI nei mesi scorsi ha fatto pervenire il documento a Papa Francesco, come gesto simbolico di memoria e di restituzione di un frammento importante della sua storia familiare.

Un gesto che non solo ha fatto commuovere il Santo Padre – ricorda il Mei – ma che l’ha portato a commentare il ruolo rigoroso della nonna anche rispetto all’educazione di suo padre. Un atto che ha rappresentato per il museo, e per il Santo Padre stesso, un momento di grande emozione: consegnare quel piccolo pezzo di carta, così carico di storia e significato, è stato gesto di riconoscenza verso una vicenda familiare che rappresenta la storia di tanti italiani.

Una storia protagonista del PCTO realizzato da Banca d’Italia e MEI con gli studenti della scuola di Olivos, in Argentina.

Il video può essere visionato e scaricato a questo link https://www.youtube.com/watch?app=desktop&v=NUGieWSOF1I&feature=youtu.be  Aise/Dip

 

 

 

 

Francoforte. A questo serve la memoria: a scrivere meglio la nostra storia

 

1945-2025 – A 80 anni dalla fine del secondo conflitto mondiale.

Oggi, 25 aprile, Festa della Liberazione, parliamo di un evento, la Giornata dei valori democratici, il cui obiettivo è sensibilizzare i giovani ai valori della democrazia, della libertà, beni comuni, mai definitivamente acquisiti ma che vanno salvaguardati, difesi e portati avanti. In quattro anni la Giornata dei valori democratici, un progetto ANPI Francoforte, ha coinvolto seicento alunne e alunni delle classi bilingue in Germania. Di Paola Colombo                         

Il titolo è preso da un lavoro di ricerca di alunne e alunni che hanno partecipato alla Giornata dei valori democratici di quest’anno. „Tanti sono stati i martiri della follia nazifascista, ma a volte è bene concentrarsi su un singolo episodio per innalzarsi e avere uno sguardo più ampio sullo stato del mondo in cui viviamo e il passato, se rivisitato con la dovuta attenzione, è un ottimo punto di partenza per capire il presente e immaginare il futuro“, così Donato Prosdocimo, socio ANPI Frankfurt, la sezione che ha dato vita quattro anni fa al progetto Giornata dei valori democratici.

Il 31 marzo scorso si è svolta la quarta edizione Giornata dei valori democratici, un progetto di ricerca storica sulla Resistenza, sugli anni fondamentali che hanno portato alla fine della Seconda guerra mondiale e alla fondazione della Repubblica italiana con la Costituzione. Il progetto ha coinvolto diverse scuole bilingui della Repubblica federale, coadiuvati dai/dalle loro insegnanti. I lavori sono stati presentati nel liceo bilingue Freiherr-vom-Stein di Francoforte, che quest’anno ha ospitato la Giornata dei valori democratici. Il tema di quest’anno sono state le storie degli IMI, gli internati militari italiani e degli internati nei lager. La Giornata dei valori democratici ha visto la partecipazione di oltre 160 alunne e alunni i quali hanno interpretato con la massima libertà espressiva (tramite i media più diversi) il tema „La guerra: le vittime italiane nel terzo Reich e la loro memoria“. Le alunne e gli alunni hanno presentato i loro lavori che hanno dato espressione ai valori dell’umanità, dell’antifascismo, del rifiuto della guerra e della violenza, non solo nel passato, ma anche nel nostro attuale e drammatico presente.

I lavori:

* „Le farfalle con le stelle gialle“, una storia di inclusione della 2b della Holzhausenschule di FFM, con le insegnanti Adalgisa Silvestri e Patrizia Spanu.

* „La valigia della memoria“ della 3b della Scuola elementare Finow, Berlino, con l’insengante Vanessa Pascocci.

* „Erano ragazzi: quando la storia ci chiede di dire di no“, 6b Finow Grundschule, Berlino, con l’insegnante Cecilia Cavallo.

* Inclusione. Oggi e allora? 7b della Freiherr-vom-Stein-Schule, con l’insegnante Alessandra Felici.

* IMI – Mario Villa, 80 anni di silenzio – Nel lager – classe 9a, sezione italiana della Scuola Europea, Francoforte sul Meno, con l’insegnante Alessandro Zangrossi.

* „I dimenticati?“, 10b dell’istituto scolastico integrativo Gesamtschule Süd, con l’insegnante Daniela Romeo.

* „Ascoltare e tramandare la storia“, Sezione italiana dell’11° anno della Scuola Europea di Francoforte sul Meno, con l’insegnante Silvia Cavaterra.

* „Una storia tra tante: Fulvio De Antoni“ classe 11a, sezione italiana della Scuola Europea di Francoforte sul Meno, con l’insegnante Fabia Geslao.

* „La libertà si coltiva con la memoria“, corso di italiano avanzato, 12° anno della Freiherr-vom-Stein-Schule, con l’insegnante Maria Pingitore.

* „Il campo di prigionia di Rollwald e i prigionieri politici italiani“, classe 11a della scuola Oswald-von-Nell-Breuning, Rödermark, con le insegnanti Angela Wallner, Maurella Carbone.

Il direttore scolastico del Consolato generale di Francoforte, Alessandro Bonesini, nel suo saluto ha citato due articoli della Carta costituzionale tedesca e italiana che sono a fondamento della società in cui viviamo o proveniamo: Articolo 26 della Carta costituzionale tedesca: Le azioni che possono turbare la pacifica convivenza dei popoli e intraprese con tale intento, in particolare al fine di preparare una guerra offensiva, sono incostituzionali. Tali azioni devono essere perseguite penalmente.

Anche la Costituzione italiana, all’articolo 11 recita: L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

L’importanza della Carta costituzionale a difesa della libertà e democrazia è stata espressa da Karin Müller, sottosegretario di Stato per gli affari federali ed europei della Cancelleria di Stato dell’Assia. Ha ricordato che il Land Assia „sostiene la scuola di pace Monte Sole per promuovere campus di pace in collaborazione con la regione partner Emilia Romagna e mantenere vivo il ricordo della strage di Marzabotto (1944), ha ricordato Karin Müller, dove più di 770 (di cui 213 bambini sotto i 13 anni) persone furono trucidate dai nazisti“. Per questo „i partigiani italiani, il ricordo dei crimini del nazionalsocialismo sono temi per noi importanti in Assia“. I lavori presentati dalle classi scolastiche dal trattamento disumano dei internati militari, fino al trattamento allora di persone con disabilità „sono temi molti diversi che hanno in comune: mostrano come i regimi che classificano le persone in gruppi di migliori o peggiori, perdono in umanità“.

Nella foto sopra i ragazzi della Scuola europea di FFM hanno ricostruito alla luce dei pochi riferimenti biografici, come è nella stragrande maggioranza dei casi degli IMI, la storia del soldato Mario Villa di Vernasca e immaginato una toccante corrispondenza epistolare con la madre. Mario Villa era primogenito di sedici fratelli e aiutava i genitori nei campi e nell’allevamento per il sostentamento della numerosa famiglia. È morto in un campo di concentramento in Germania il 18.03.1945 a poche settimane dalla fine della guerra.

Nella foto sopra i ragazzi della 12a classe hanno raccontato con forte partecipazione emotiva gli eventi tragici di Kassel, proprio nel giorno dell’ottantesimo della strage. Il giorno prima alcuni di loro con la prof.ssa Pingitore erano stato nella città assiana per la commemorazione con ANPI e alcune associazioni antifasciste cittadine, davanti alla lapide che riporta i nomi delle vittime. Il 31 marzo si è tenuta sempre a Kassel la commemorazione della città a cui ha partecipato il console generale di Francoforte, Massimo Darchini.

Con progetto sul campo di prigionia di Rollwand della Oswald-von-Nell-Breuning, Rödermark, le alunne e gli alunni sono riusciti ad avere la lista dei nomi dei prigionieri politici italiani lì detenuto, grazie alla collaborazione di un funzionario, signor Höflein, che ha fatto vistare ai ragazzi atti non accessibili presso l’archivio, Hessisches Landesarchiv.

Lavori di ricerca pregevoli e originali, come quello sopra, che contribuiscono a far conoscere un pezzo della nostra storia e che andrebbero resi pubblici. Al termine della presentazione dei lavori tutti i partecipanti hanno ricevuto la pergamena ANPI e un omaggio, una foto realizzata dell’artista Matthias Canapini: due mani che tengono la foto di una casa distrutta, il tema della perdita della casa a causa dei conflitti bellici. (https://anpi-deutschland.de/la-casa-sulle-spalle-di-matthias-canapini-in-germania/).

Presenti alla Giornata dei valori democratici 2025, il direttore scolastico della Freiherr-vom-Stein-Schule, Procolino Antacido, che ha fatto „gli onori di casa“, i già menzionati sopra, Alessandro Bonesini, direttore scolastico del consolato generale di Francoforte, Karin Müller, sottosegretario di Stato per gli affari federali ed europei della Cancelleria di Stato dell’Assia, Donato Prosdocimo, della sezione ANPI di Francoforte, e Pamela Garigali, dell’associazione biLiS, l’associazione dei genitori per la promozione del ramo scolastico bilingue italo-tedesco che sostiene il progetto della Giornata dei valori democratici e Matthias Canapini, giornalista e fotografo della mostra “La casa sulle spalle”.

Infine, l’augurio del direttore scolastico Bonesini alle ragazze e ragazzi che hanno animato con i loro lavori la quarta Giornata dei valori democratici vale per noi tutti: „Vi auguro di avere uno sguardo lucido e oggettivo sul mondo, e di essere capaci di fare la vostra parte, per rimanere soggetto e non diventare oggetto di qualcuno o di qualcosa. Vi auguro di saper difendere la libertà di parola e di stampa, la libertà di associazione, la dignità del lavoro, la vita privata, il pluralismo nel dibattito politico. Vi auguro di saper sempre individuare dove si trova il pericolo, perché la storia ci insegna che questa non è una cosa sempre facile da fare“. CdI on. 25

 

 

 

 

Francesco, Papa dei migranti

 

C’era da aspettarselo, ma non così presto. Dai servizi televisivi di questi giorni appariva infatti evidente che Papa Francesco non avrebbe potuto più governare la Chiesa in quelle precarissime condizioni. Ma è morto “presente sul campo”, fino all’ultimo.

È stato il Papa dei migranti. Questa infatti è stata indubbiamente “la cifra del suo pontificato”.

Venuto da lontano, perché anche lui, come tanti altri, figlio di emigrati italiani in Argentina. La prima sua uscita da Pontefice è stata a Lampedusa, per pregare in memoria delle vittime giacenti nei fondali del cimitero più grande del mondo, il mare Mediterraneo. Un gesto altamente simbolico, nei confronti di migliaia e migliaia di persone che hanno perso la vita durante le migrazioni verso un mondo libero con imbarcazioni di fortuna, diverse di esse finite affondate in mezzo agli oceani. Una disgrazia ricorrente che lo toccava profondamente da vicino. Infatti, sua famiglia non era riuscita a partire dall’Italia per l’Argentina per un contrattempo, come da lui stesso raccontato: “I miei nonni e mio papà avrebbero dovuto partire alla fine del 1928, avevano il biglietto per la nave “principessa Mafalda”, nave che affondò al largo delle coste del Brasile. Ma non riuscirono a vendere in tempo quello che possedevano e così cambiarono il biglietto e si imbarcarono sulla “Giulio Cesare” il 1 febbraio del 1929. Per questo sono qui" ha detto Papa Francesco.

Ma infiniti sono i suoi gesti e i suoi interventi in tema di migrazioni, divenuti ormai indelebili fonti di Magistero della Chiesa, su questioni cruciali per questa nostra epoca storica, da lui personalmente seguite nei dodici anni del suo pontificato. Anni che hanno trasformato la società e che la trasformeranno ancora, nei quali lui ha fatto il possibile, Sinodo compreso, affinché la Chiesa fosse in grado di affrontare le sfide presenti in questo momento storico.

Di come stava cambiando il mondo è ormai diventata altrettanto storica e iconica la foto che lo ritrae solo, sotto la pioggia, in una piazza San Pietro vuota la sera del 28 marzo 2020, durante la pandemia del Covid. “Da soli affondiamo – disse - abbiamo bisogno del Signore come gli antichi naviganti delle stelle: siamo tutti sulla stessa barca”.

E da ultimo “Fratelli tutti”, una enciclica che propone la fraternità e l'amicizia sociale come le vie indicate per costruire un mondo migliore. Questa riflessione riguarda solo uno “spaccato di vita” di Papa Bergoglio, al quale se ne aggiungono tanti altri, attraverso i quali egli ha “riformato” la Chiesa cattolica, proiettandola nel futuro. Luigi Papais, direttivo Unaie, Aise/Dip 23 

 

 

 

 

 La guerra dei dazi di Trump e le risposte europee

 

A poco più di dieci settimane dall’inizio del suo mandato, il Presidente Donald Trump ha annunciato una guerra commerciale verso il mondo con una messe di dazi che non ha precedenti nel secondo dopoguerra. L’Europa è tra le maggiori vittime, accusata ripetutamente da Trump di aver biecamente sfruttato in passato il grande e ricco mercato americano. Le importazioni dall’Europa verranno gravate di dazi del 20%, dopo le tariffe del 25% introdotte dall’Amministrazione americana sulle importazioni di acciaio e alluminio e, più di recente, su quelle di automobili.

Le ragioni economiche avanzate dall’Amministrazione americana per giustificare tali nuove pesanti misure (deficit commerciale americano e protezionismo europeo) risultano del tutto inconsistenti, se analizzate con attenzione. È vero che l’Unione ha accumulato, negli anni, un surplus commerciale nei confronti degli Stati Uniti di entità rilevante. Ma considerando l’intera bilancia dei pagamenti correnti – come si deve fare – e includendo quindi il surplus statunitense nel settore dei servizi (109 miliardi di euro), il saldo complessivo tra Ue e Usa risulta pressoché in equilibrio. Anche sotto il profilo dei dazi reciproci, al centro delle accuse americane, le differenze sono minime: la tariffa media ponderata americana è del 2,2%, contro il 2,7% europeo.

Dietro l’apparente crociata economica, c’è dunque altro. È una visione di politica internazionale, una sorta di realpolitik, ben più aggressiva e mirata a rivoluzionare gli equilibri globali. Donald Trump è da sempre convinto che l’ordine economico liberale dei passati decenni con le sue regole e istituzioni e, in particolare, il sistema commerciale multilaterale, abbiano depredato e reso vulnerabile l’economia americana, soprattutto nei confronti di rivali strategici come la Cina. Vanno dunque abbattuti e sostituiti con un sistema di rapporti bilaterali, peraltro ancora abbozzato in modo vago dal Presidente americano, in cui Washington possa esercitare la propria supremazia economica e militare ricavandone vantaggi cospicui e di varia natura. Lo tsunami dei dazi del 2 aprile è dunque l’annuncio di un’offensiva su scala globale che apre una fase di inusitata incertezza economica e politica.

Verso un negoziato duro, lungo e difficile

Nel chiedersi come debba e possa rispondere l’Europa, va innanzi tutto ricordato che tra le grandi aree mondiali l’economia europea è quella più aperta agli scambi internazionali. Difendere e consolidare questa profonda integrazione con l’economia mondiale è un’assoluta priorità europea.

Tre appaiono le direttrici lungo cui l’Unione dovrebbe muoversi per cercare di mitigare i danni della guerra scatenata da Trump. La prima è affrontare con determinazione l’Amministrazione americana sul terreno dei dazi, mantenendo una linea negoziale dura e coesa. In qualsiasi buon manuale di politica commerciale si afferma che di fronte a misure protezionistiche ingiustificate e vessatorie è legittimo e doveroso reagire, anche per poi negoziare. La Commissione europea deve dunque approntare dei propri dazi e altre misure restrittive in risposta alle iniziative americane. D’altra parte, soltanto la minaccia di una ritorsione dura anche se appropriata può spingere l’Amministrazione americana ad aprire un negoziato, all’insegna del do ut des, che ha finora rifiutato. E se l’Unione resterà compatta – un dato peraltro non scontato – la sua forza commerciale sarà tale da essere in grado di contrastare l’aggressività di Washington.

La difesa del sistema aperto e il completamento del Mercato interno

La seconda strada da seguire è rafforzare e ampliare la rete di accordi commerciali dell’Unione diversificando ulteriormente i partner che ne fanno parte. Un accordo transattivo con l’amministrazione statunitense non può essere in effetti sufficiente, per quanto resti importante per cercare di evitare una guerra dei dazi che, oltre a punire chi la scatena (stagflazione) – come insegna la storia –, finisce per danneggiare tutti. Proprio perché così aperta, l’Europa deve continuare a espandere e consolidare la rete di accordi bilaterali, regionali e multilaterali costruita in questi anni. Va così rafforzata la cooperazione commerciale sia, ad esempio, con i grandi paesi dell’Asia del Pacifico, colpiti da dazi ancor più pesanti di quelli europei, sia con economie emergenti come India, Indonesia e Brasile, che hanno ormai assunto un ruolo chiave e condividono l’interesse a mantenere un sistema commerciale aperto e regolato. Al riguardo, l’accordo con i paesi del Mercosur in America Latina andrebbe ratificato al più presto dal Consiglio europeo, e il voto dell’Italia – va ricordato – sarà determinante.

Per quanto gli Stati Uniti restino un mercato fondamentale, essi rappresentano ormai solo il 13% delle importazioni mondiali: si apre così per l’Europa un ampio spazio per diversificare i suoi legami commerciali e sostenere un sistema internazionale aperto e regolato. È un percorso, quest’ultimo, già avviato nei mesi scorsi dalla Commissione von der Leyen e che va proseguito con forza.

Infine, un terzo fronte di risposta, spesso trascurato ma cruciale, riguarda il mercato interno europeo. Le barriere commerciali tra i paesi membri sono ancora troppo elevate: secondo il FMI, equivalgono in media a una tariffa del 44% per gli scambi di merci (agricoltura esclusa) e addirittura del 110% per quelli di servizi. Le cause sono molteplici, come la presenza di regimi nazionali frammentati in settori chiave quali, ad esempio, gli appalti pubblici. Una conseguenza è che il commercio intraeuropeo è oggi meno della metà di quello all’interno degli Stati Uniti.

Eliminare questi ostacoli e completare l’integrazione del Mercato interno non solo rafforzerebbe la coesione economica dell’Unione, ma rappresenterebbe anche un’occasione per rilanciare la domanda interna e la crescita europee, con più consumi e investimenti. Finora le forti resistenze di alcuni Paesi membri hanno impedito una maggiore integrazione. L’offensiva di Trump potrebbe forse convincerli ad agire diversamente. Paolo Guerrieri, AffInt 29

 

 

 

 

 

Panorama italiano

 

Intanto, ci siamo contati. Gli italiani residenti nel Bel Pese sono 60.487.973 (anno di riferimento 2024). In UE, restiamo al quarto posto come popolazione residente. Ci precedono la Germania, la Francia e il Regno Unito. Pur se al quarto posto come densità umana, siamo in prima posizione, tra i Paesi UE, come disoccupati e giovani alla ricerca di una prima occupazione. Anche la politica resta un “rebus”.

 

Passando ai numeri, che meglio evidenziano questo “primato”, scriviamo che il nuovo anno è iniziato con due milioni d’italiani di senza lavoro.  Il tenore di vita nazionale, per obiettività, rimarrà, in sostanza, identico a quello dell’anno precedente. Però le tensioni sociali aumenteranno; come le polemiche politiche correlato a un Esecutivo ancora in “rodaggio.”

 

 Questo sarà il quadro della Penisola all’inizio de nuovo anno che si presenterà, da subito, “difficile”. Ora è complesso fare delle previsioni attendibili su come andrà a evolversi la situazione nazionale. Certo è che anche questo 2025 potrebbe essere considerato di “transizione”. Per quanto ci compete, torneremo sul fronte dei Connazionali in Europa (più di tre milioni) che, almeno secondo il nostro modo di vedere, hanno il diritto d’essere meglio introdotti nel panorama socio/politico nazionale.

 

Non a caso, il prossimo potrebbe essere anche l’anno della premessa operativa del DIE (Dipartimento per gli Italiani all’Estero) che dovrebbe essere inserito, a nostro avviso, tra gli obiettivi possibili di questa Maggioranza di “Centro/Destra”.

Giorgio Brignola, de.it.press

 

 

 

 

 

Ue, migrazioni, rimpatri. Obiezioni a Europa e Italia

 

Lo studioso dell'Università di Milano, editorialista di "Avvenire", segue passo passo le decisioni italiane ed europee per far fronte al fenomeno migratorio. Non di rado solleva le sue obiezioni, con un occhio di riguardo per il rispetto dei diritti umani. Sulla recente proposta della Commissione Ue sui rimpatri parla di una "Guantanamo europea" – di Gianni Borsa

“I rimpatri sono il tallone d’Achille delle politiche di contrasto dell’immigrazione irregolare”. Maurizio Ambrosini, sociologo, docente all’Università degli Studi di Milano, è uno dei maggiori esperti in Italia sul fronte delle migrazioni. Da anni studia il fenomeno demografico e sociale degli spostamenti di popolazione nel mondo, con uno sguardo particolare sull’Europa. Dedica inoltre – sia nei suoi studi e nelle lezioni accademiche, sia dalle pagine del quotidiano “Avvenire” – un’attenzione puntuale alle normative e alle azioni politiche che cercano di affrontare le migrazioni. Sulle quali mostra spesso le sue perplessità.

Ancora di recente ha sottolineato i modestissimi risultati delle politiche europee circa i rimpatri dei migranti che giungono nell’Ue e non ha risparmiato una serie di precise osservazioni sulla recente proposta della Commissione Von der Leyen per la riforma della Direttiva del 2008 sui rimpatri, che, come noto, introduce la possibilità di allestire centri di detenzione per gli immigrati da rimpatriare – i cosiddetti “return hubs” – in Paesi terzi. Una scelta, questa, che apre parecchi interrogativi sulla definizione di Paesi “sicuri” in cui spedire i migranti e circa la tutela dei diritti fondamentali e del rispetto del principio di non refoulement, il quale vieta di “trasferire delle persone in Paesi dove potrebbero subire violenze o trattamenti degradanti”.

A questo proposito Ambrosini ha parlato di “una sorta di progetto Guantanamo all’europea”. Ma, a differenza del caso americano (Guantanamo resta sotto l’autorità Usa), coi “return hubs” in Paesi terzi si consegnano persone, magari soggiornanti da anni nell’Ue ad autorità di Stati esterni. “Non si vede come si potrà poi controllare il loro operato, una volta che l’Ue li avrà pregati di gestire per suo conto la spinosa partita della detenzione e dell’eventuale rimpatrio dei migranti sgraditi. L’esempio libico dovrebbe suonare da monito”.

Ambrosini fra l’altro ha criticato sin dall’inizio le ricollocazioni (qualcuno dice deportazioni) dei migranti dall’Italia all’Albania. A suo avviso ora, con la trasformazione di uno dei due centri allestiti nel Paese delle Aquile in Cpr, il progetto italiano non si allineerebbe con l’Unione europea. “L’Italia – ha scritto su Avvenire – mantiene infatti la giurisdizione sui centri realizzati sul territorio albanese, senza delegarne la gestione alle autorità locali, e senza che l’Albania sia definita come un Paese terzo di destinazione degli immigrati espulsi. Pertanto dall’Albania non sono previsti dei rimpatri. In caso di accordi con i Paesi di provenienza, i malcapitati dovrebbero essere riportati in Italia, titolare degli accordi, per essere poi rimandati nel loro Paese”. Non è neppure chiaro, secondo il sociologo, cosa ne sarà “di coloro che, al termine della detenzione, anche allungata a 24 mesi come prevede la nuova bozza europea, non saranno stati rimpatriati e dovranno essere liberati”.

La gestione dell’immigrazione irregolare – riconosce Ambrosini – è “una questione spinosa”, ma a suo avviso esistono strumenti per affrontarla: “Ritorni volontari assistiti, regolarizzazioni mirate al lavoro, sponsorizzazioni da parte di soggetti affidabili. Non servono invece – a suo dire – misure che, pur di illudere l’opinione pubblica di aver trovato la soluzione, si accingono a consentire la violazione dei diritti umani, aggravano i costi per l’erario, rendono i governi europei più ricattabili da parte dei partner esterni, e probabilmente neppure otterranno i risultati auspicati”. Obiezioni alle quali sarebbe interessante – forse necessario – fornire convincenti spiegazioni. Sir 16

 

 

 

 

25 Aprile: la Liberazione e le sue ombre

 

“Io so. Ma non ho le prove. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore che cerca la verità.” (Pier Paolo Pasolini)

Il 25 aprile segna, ufficialmente, la fine dell’occupazione nazifascista e l’avvio della Repubblica democratica. Ma ridurre questa data a una semplice “festa della libertà” rischia di appiattirne il significato. La Resistenza è stata un’impresa grandiosa, ma anche controversa, attraversata da conflitti, tensioni ideologiche, violenze reciproche, omissioni, e verità scomode ancora oggi in parte rimosse.

La Resistenza non unitaria

Come storici come Claudio Pavone hanno chiarito, la Resistenza fu anche una guerra civile. Non solo contro l’occupante tedesco e i fascisti della Repubblica di Salò, ma anche tra diversi gruppi resistenziali. Le divisioni tra comunisti, cattolici, liberali e anarchici esplosero anche con episodi di sangue. In molte zone d’Italia, soprattutto nell’Emilia rossa e nel Piemonte, alcuni partigiani “bianchi” furono eliminati da partigiani “rossi”. Le motivazioni andavano da sospetti di collaborazione con il nemico, a differenze ideologiche, a vendette personali mascherate da “giustizia rivoluzionaria”.

Un episodio emblematico fu l’eccidio di Porzûs (febbraio 1945), in Friuli Venezia Giulia, dove i partigiani comunisti della Brigata Garibaldi uccisero 17 partigiani della Brigata Osoppo (cattolico-azionisti) accusati – falsamente – di collaborazionismo. Tra le vittime, anche Guido Pasolini, fratello di Pier Paolo. Un trauma che segnerà profondamente la visione politica del poeta.

Via Rasella e le Fosse Ardeatine

Un altro punto critico riguarda l’attentato di via Rasella del 23 marzo 1944, compiuto da un gruppo dei GAP contro una compagnia di SS tedesche. L’azione militare fu efficace ma provocò, come rappresaglia, la strage delle Fosse Ardeatine: 335 civili e prigionieri politici massacrati dai nazisti. I responsabili dell’attentato non si consegnarono – una scelta strategica legittima per alcuni, criticabile per altri – e per molti anni non ci fu una riflessione aperta sul rapporto tra azione partigiana e conseguenze civili. Questo silenzio fu vissuto da alcuni come una forma di rimozione collettiva.

Esecuzioni sommarie e il dopoguerra violento

Negli ultimi giorni della guerra e subito dopo, in molte zone si verificarono esecuzioni sommarie di fascisti e collaborazionisti, ma anche di semplici sospettati. Alcuni casi furono vendette personali o “regolamenti di conti” coperti dall’ideologia. Il caso di Giuseppina Ghersi, una ragazzina di 13 anni uccisa a Savona da partigiani nel 1945, è uno degli episodi più discussi, strumentalizzato spesso dalla propaganda ma indicativo di una verità storica da non ignorare: non tutta la violenza fu “giusta” o necessaria.

Altri episodi dimenticati includono:

* La strage di Codevigo (Padova, 1945): centinaia di fascisti e presunti collaborazionisti fucilati senza processo da reparti partigiani.

* Le violenze contro i vinti: in alcune zone del Nord Italia si verificarono linciaggi pubblici, processi sommari, donne rasate e umiliate pubblicamente solo per aver intrattenuto relazioni con soldati tedeschi.

Il cinema oltre la retorica

Molti film hanno raccontato la Resistenza nella sua dimensione più umana e meno celebrativa:

* “L’Agnese va a morire” (1976) di Giuliano Montaldo, tratto dal romanzo di Renata Viganò, racconta la scelta di una donna comune che entra nella Resistenza per vendetta e giustizia. Non c’è eroismo, ma dolore e solitudine.

* “I piccoli maestri” (1998) di Daniele Luchetti, tratto dal romanzo di Luigi Meneghello, mostra un gruppo di giovani universitari che scoprono quanto sia difficile, caotica e moralmente ambigua la lotta partigiana.

* “Corbari” (1970) di Valentino Orsini, con Giuliano Gemma, narra la storia vera del partigiano Silvio Corbari e della sua compagna Ada, in lotta contro i fascisti e traditi dagli stessi contadini che difendevano.

* “Sanguepazzo” (2008) di Marco Tullio Giordana, non parla di partigiani ma degli attori fascisti Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, fucilati dai partigiani a guerra finita: una riflessione cupa sulla giustizia sommaria.

Il dovere della memoria inquieta

Pier Paolo Pasolini lo aveva capito: la Resistenza non è un monumento da celebrare, ma un processo irrisolto da interrogare. Il suo sguardo tagliente, profetico, scava sotto la retorica per chiedere: chi ha davvero raccolto l’eredità di quei morti? La borghesia democristiana, il potere televisivo, il consumismo anni ‘60, la sinistra compromissoria?

La liberazione vera, per Pasolini, non è mai avvenuta: «abbiamo perso la guerra due volte», scriveva. Prima col fascismo, poi col fascismo che sopravvive nelle forme nuove del potere.

Il 25 aprile, dunque, non è una favola. È una storia dura, tragica, controversa. Ed è proprio affrontandola senza paura, nella sua verità piena, che possiamo continuare a darle senso. Non per sminuire i partigiani, ma per onorarli davvero — riconoscendoli come uomini, e non come statue. Carlo Di Stanislao, dip 19

 

 

 

 

Papa Francesco, Donald Trump e la loro opposta “politica degli ultimi”

 

Tra muri da abbattere e crisi climatica negata, ecco come si è sviluppato negli anni il rapporto tra Papa Francesco e Donald Trump

Nel corso della storia recente, pochi incontri tra leader mondiali hanno generato un dibattito tanto acceso quanto quelli tra Donald Trump e Papa Francesco. Le loro biografie non potrebbero essere più distanti: il primo, imprenditore newyorkese e presidente statunitense dal 2017 al 2021 e di nuovo da gennaio di quest’anno, fautore di una politica assertiva e divisiva; il secondo, pontefice argentino da sempre vicino agli ultimi, protagonista di un pontificato segnato da appelli all’inclusione e alla solidarietà. Eppure, le loro strade si sono incrociate più volte, dando vita a una relazione fatta di visioni diverse, tensioni e tentativi di dialogo.

Trump sarà ai funerali di Papa Francesco

“Era un brav’uomo. Lavorava sodo. Amava il mondo”. Così il presidente americano ha commentato la morte di Bergoglio annunciando. Frasi misurate che giungono come l’ultimo atto di un dialogo mai veramente sbocciato.

Il presidente americano ha ordinato le bandiere a mezz’asta e, dopo un’iniziale esitazione, ha annunciato su Truth Social che volerà a Roma con Melania per i funerali di Papa Francesco, che si terranno sabato 26 aprile alle 10. Un gesto che non cancella anni di tensioni ma li congela in un momento di rispetto istituzionale, come l’ultimo capitolo di una relazione che ha più raccontato di fratture che di ponti. Il giorno prima della sua dipartita, Bergoglio ha incontrato per pochi minuti il vice di Trump, JD Vance, in occasione della Pasqua.

Il primo scontro tra Papa Francesco e Trump

Il primo vero incontro-scontro tra i due leader risale al 2016, durante la campagna elettorale americana. Francesco, visitando il confine tra Stati Uniti e Messico, pronunciò parole destinate a entrare nella storia: “Una persona che pensa solo a costruire muri, e non ponti, non è cristiana“. La reazione dell’allora candidato alla Casa Bianca arriva fulminea. “Vergognoso mettere in discussione la fede di un uomo”, tuona, accusando il Pontefice di essere caduto nella rete della “propaganda messicana”.

Quella ferita iniziale non si è mai veramente rimarginata. Non era solo questione di stile o di temperamento. Lo scontro toccava il cuore stesso di come intendere la società e il ruolo della leadership mondiale. Da una parte, il Pontefice che predicava l’accoglienza e la responsabilità collettiva verso i più vulnerabili; dall’altra, il presidente che fondava il suo consenso sulla protezione dei confini e sulla difesa degli interessi nazionali.

Le cancellerie vaticane tentano di smorzare, parlano di incomprensioni, ribadiscono l’importanza dei rapporti diplomatici. Ma la frattura è ormai visibile, si allarga su migrazioni, ambiente, diritti civili. Terreni dove i due Capi di Stato marciano in direzioni opposte.

Il secondo incontro e l’enciclica “Laudato Si'”

Il 24 maggio 2017, le porte bronzee del Vaticano si aprirono per accogliere il presidente americano. Un incontro di 29 minuti – significativamente più breve dei 52 concessi ad Obama – trascorsi in un colloquio privato con l’aiuto di un interprete. Le immagini di quel giorno raccontano già tutto: Francesco serio, quasi pensieroso; Trump con un sorriso di circostanza.

Il Papa donò a Trump una copia della sua enciclica “Laudato Si’” sulla cura del creato e dell’ambiente. Un messaggio nemmeno troppo sottile, considerando che poche settimane dopo Trump avrebbe annunciato il ritiro degli Stati Uniti dagli Accordi di Parigi sul clima. Trump ricambiò con una scultura in bronzo e una raccolta di scritti di Martin Luther King, accompagnata da un “penso e spero le piaceranno”.

“Non dimenticherò quello che lei mi ha detto”, promise Trump al termine dell’incontro. Una promessa che, alla luce delle scelte successive, fu più una formula di cortesia che un impegno concreto.

Lo scontro sul clima

Il dono papale non passa inosservato: l’enciclica “Laudato si'” sull’ambiente e i cambiamenti climatici. Un messaggio nell’oggetto, una provocazione gentile ma decisa verso chi aveva già manifestato scetticismo sulla crisi climatica che qualche giorno fa la senatrice repubblicana Mary Miller, replicando la politica di Trump, ha definito una “farsa” sostenendo che “il clima è controllato da Dio, perché Dio controlla il sole”.

I resoconti parlano di colloqui su pace e libertà religiosa. Ma è quanto accade dopo a svelare la verità: Trump, rientrato in patria, annuncia il ritiro dall’Accordo di Parigi chiudendo le porte al pensiero francescano sulla “casa comune”. Tornando alla Casa Bianca, il tycoon ha replicato questa scelta annunciando che gli Usa usciranno dall’accordo sul clima entro il 2026.

Le nomine in Vaticano

Lo scontro è proseguito anche attraverso scelte diplomatiche significative. Trump ha designato come ambasciatore presso la Santa Sede Brian Burch, presidente di Catholic Vote e noto critico di Francesco. La risposta vaticana è stata la nomina a arcivescovo di Washington del cardinale Robert Walter McElroy, che aveva definito il muro al confine messicano “inefficace e grottesco”.

Una partita a scacchi giocata su una scacchiera invisibile ai più, ma che ha segnato profondamente le relazioni tra Stati Uniti e Vaticano.

Due visioni inconciliabili

Dunque, lo scontro tra i due capi di Stato si è giocato su più fronti:

Il muro. Per Trump, simbolo di sicurezza e sovranità nazionale. Per Francesco, incarnazione del rifiuto dell’altro, negazione dell’accoglienza evangelica.

I migranti. “America First” contro “Nessuno è straniero”. Due concezioni che non trovano punti di contatto.

L’ambiente. Da una parte politiche orientate all’uso intensivo delle risorse, dall’altra l’appello alla “conversione ecologica“. Posizioni che sembrano appartenere a epoche diverse della storia umana.

Persino sulla Cina, Papa Francesco e Donald Trump hanno avuto posizioni differenti. Nel 2020, il segretario di Stato USA Mike Pompeo accusò il Vaticano di “immoralità” per l’accordo sui vescovi firmato con Pechino nel 2018. Una mossa che sembrava più tesa a marcare differenze che a costruire dialogo.

Il futuro di un dialogo difficile

È paradossale che, pur da posizioni così distanti, entrambi abbiano saputo parlare a chi si sente ai margini: Francesco alle “periferie esistenziali” del mondo, Trump a quell’America profonda che si sentiva dimenticata dalla globalizzazione. Due uomini che hanno scosso, ciascuno a suo modo, le istituzioni che rappresentavano.

Il loro confronto, mai esploso in aperto conflitto ma mai veramente risolto, ci parla delle fratture sempre più ampie del nostro tempo. Rivela la crescente incapacità di costruire ponti tra visioni diverse del futuro dell’umanità, tra chi vede il mondo come una fortezza da difendere e chi lo immagina come una casa dalle porte aperte.

La presenza di Trump ai funerali di Francesco rappresenterà l’ultimo capitolo di questa complessa relazione, un epilogo che difficilmente cambierà il senso di una storia fatta più di divergenze che di punti d’incontro. Adnkronos 22

 

 

 

 

 

 

Solo supponiamo

 

Ammettiamo che questo Esecutivo, per una serie d’alchimie politiche, possa rimanere al suo posto. Concediamo, sempre per eccesso d’ottimismo, che la Legislatura possa essere rinvigorita da un programma di “salvamento” per la Penisola. Lo scriviamo in via suppositiva perché, almeno per quanto c’è dato sapere, non ci sono opportunità per fare “conto” su altri Partiti del “vecchio” sistema sempre presenti in Parlamento.

 

 Però, tanto per rimanere in tema, ipotizziamo che un’apertura sia credibile. In ogni caso, meglio sarebbe chiamarlo ”breccia” per i coinvolgimenti che andrebbe a determinare nell’Esecutivo. Col rischio di sgretolamento di questa Maggioranza eterogenea. La conseguenza, oltre al caos politico, che ne deriverebbe, sarebbe l’ingovernabilità d’Italia.

 

Il buon senso, nonostante tutto, dovrebbe vincere. Come a scrivere: Il Parlamento potrebbe dare attuazione a provvedimenti indispensabili per il Paese. Al punto in cui siamo, anche le presunzioni, non proprio ipotetiche, potrebbero avere un loro valore politico. La “quarantena”politica, da quest’anno, non dovrebbe esserci più. Senza altre garanzie, non ci resta che quella delle ipotesi.

 

 Anche se non è di questo, certamente, di cui ha bisogno l’Italia per ritrovare un ruolo che le consenta di frenare lo “slittamento” in UE e l’affidabilità politica all’interno. E’ vero che queste restano, per ora, nostre supposizioni; ma non troviamo altra condizione per restituire alla Penisola la fiducia smarrita. Le potenziali “novità” troveranno il loro spazio in questo nuovo anno. Se ci saranno, non mancheremo di commentarle.

Giorgio Brignola, de.it.press

 

 

 

 

 

 

Einstein settant’anni dopo. Il genio è ancora tra noi

 

Una mattina di primavera, settant’anni fa, Albert Einstein si svegliò per l’ultima volta. Era il 18 aprile 1955 a Princeton (New Yersey), in una stanza d’ospedale dove era stato ricoverato a seguito di una emorragia causata da un aneurisma dell’aorta addominale. Sul comodino dei fogli con degli appunti sulla cosiddetta “teoria del tutto” che doveva riunire la relatività con la meccanica quantistica, un tema verso il quale aveva mostrato un certo scetticismo ma che lo aveva tenuto occupato negli ultimi giorni della sua vita. Morì poche ore dopo.  Ma Einstein per certi versi lo ritroviamo oggi ancora qui tra noi, nelle costellazioni piegate dal tempo, nei satelliti che calcolano la tua posizione con precisione relativistica, nei pannelli solari che assorbono fotoni come lui aveva predetto, nei circuiti quantistici che smentiscono la sua diffidenza verso il caso. È nei meme, nei poster, nelle tazze da colazione con la lingua di fuori. 

Così settant’anni dopo, quel vecchio uomo con i capelli arruffati continua a parlarci. E oggi, nel tempo delle intelligenze artificiali, delle guerre infinite e delle verità liquide, ascoltarlo è più urgente che mai. Nacque il 14 marzo 1879 a Ulma, in Germania, nel giorno in cui si celebra il Pi greco — un presagio da romanzo. La madre gli regala un violino, il padre una bussola. Lui capisce che c’è qualcosa di invisibile che orienta gli aghi e le orbite, e decide di cercarla. Sarà questo il suo daimon, la sua vocazione: ascoltare il mormorio segreto dell’universo. A scuola qualche professore lo reputa inadeguato. Troppo assorto, troppo libero. Ma Albert è come un uccello nato per volare fuori dal reticolo scolastico. A 16 anni, la famiglia si trasferisce a Pavia, dove il padre aveva avviato un’attività che avrebbe partecipato ai lavori per l’illuminazione di un palazzo sede di alcuni istituti dell’ateneo pavese. E qui succede qualcosa di magico. “Furono i giorni più felici della mia vita”, scriverà. L’Italia gli regala bellezza, tempo per pensare, luce per immaginare. Studia da solo ma non è ancora pronto per l’università. Verrà respinto. Dovrà aspettare. Frequentare una scuola liberale a Aarau, in Svizzera. E poi il Politecnico di Zurigo. È lì che incontra Mileva Mari?, sua futura moglie e prima interlocutrice intellettuale. I due discutono di fisica, matematica, sogni. Una coppia come un’equazione, finché il risultato non si complica.

L’Annus Mirabilis

Einstein fa fatica a trovare un lavoro accademico. Troppo anticonformista, troppo giovane. Lo otterrà invece all’ufficio brevetti di Berna. E qui, nel 1905, accade l’incredibile. In quell’anonimo ufficio grigio, con carta e penna, Einstein spalanca le porte del cosmo. Pubblica cinque articoli scientifici, di cui almeno tre rivoluzionari. È il suo annus mirabilis. Uno di questi articoli introduce la teoria della relatività ristretta. Il tempo, lo spazio, la massa: tutto è relativo al punto di vista dell’osservatore. Niente è assoluto, tranne la velocità della luce.  “E = mc²” è la sintesi più elegante e tremenda del secolo: massa ed energia sono la stessa cosa che si traveste. La luce, scrive Einstein, non cambia mai passo. È come una divinità neutra che scorre con la stessa velocità, sia che le si corra accanto, sia che le si venga incontro. Da qui nasce una nuova visione del mondo: non esiste un tempo universale. Ogni orologio batte secondo il proprio viaggio.

Ma Albert non si ferma. Nel 1915, dopo dieci anni di ostinazione e formule che sembrano partiture musicali, pubblica la teoria della relatività generale. La gravità non è più una forza misteriosa, ma la curvatura dello spazio-tempo. Come una palla che deforma un tappeto, ogni massa curva l’universo attorno a sé. Anche la luce curva. Le stelle si piegano nel buio. L’universo, d’un tratto, diventa elastico, poetico, sorprendente. Eppure Einstein non era mai soddisfatto. Non gli bastava spiegare. Cercava un senso. Voleva unificare tutto: le forze della natura, i popoli della Terra, la mente e il cosmo.

Nel 1919, un’eclissi di Sole conferma la teoria. La luce delle stelle devia come previsto da Einstein. Il mondo si accorge del genio. La stampa lo celebra. Le fotografie lo inseguono. Nasce il primo scienziato pop della storia. Ma dietro l’applauso, Einstein resta un uomo inquieto, un viandante del pensiero. Nel suo violino cerca armonie invisibili. Nei tramonti legge equazioni. Non indossa calzini, non si pettina, non ama la formalità. A chi lo cerca per una verità definitiva, offre sempre un dubbio in più. “Il mistero è la cosa più bella che possiamo sperimentare”, dice. Ed è il mistero che comincia a sedurlo più della fisica.

Un viaggio dentro la mente e l’anima dello scienziato

In un libro pubblicato di recente, dal titolo Sono parte dell’infinito (Egea, 2024), Kieran Fox — neuroscienziato, non biografo — ci accompagna in un viaggio diverso: quello dentro la mente e l’anima di Einstein. Il titolo è una sua frase. “Una parte dell’infinito”. Era così che si sentiva.  Einstein, ci spiega Fox, in un certo senso era anche un mistico oltre che un grandissimo scienziato: un mistico razionale. Un panteista senza tempio. Leggeva Spinoza, citava le Upanishad, parlava con Tagore di coscienza cosmica. Non credeva in un Dio personale, ma in un ordine sacro sottostante il mondo. Per lui, “scienza e spiritualità erano due sguardi sullo stesso mistero”.

La sua “religione cosmica” — termine suo, non inventato — non chiedeva riti o dogmi, ma meraviglia. “La sua spiritualità — racconta Fox — non offre credenze confortanti. Anzi, ci chiede di accettare i nostri limiti con umiltà”?. Ed è proprio per questo che è così attuale. In un tempo che idolatra l’onnipotenza dell’Io, Einstein ci ricorda che il sapere più profondo è riconoscere ciò che non possiamo sapere.  Einstein, ebreo, fuggì dalla Germania nazista nel 1933. Negli Stati Uniti divenne simbolo della libertà intellettuale, ma anche di qualcosa di più: della coscienza inquieta della scienza. Scrisse la famosa lettera a Roosevelt che diede impulso al progetto Manhattan. Non partecipò direttamente alla costruzione della bomba atomica, ma ne sentì il peso per il resto della vita.  Pacifista da sempre, negli ultimi giorni aveva scritto la sua ultima lettera a Bertrand Russell con la quale si dichiarava d’accordo a firmare un manifesto che esortava tutte le nazioni a rinunciare alle armi nucleari. Ma la sua battaglia più profonda era contro un’illusione: quella della separazione. “La nostra disunità è un’illusione ottica della coscienza”, scriveva. “Il compito della vera religione è liberarsene.”

Einstein oggi: AI, atomi e anima

Cosa direbbe Einstein dell’intelligenza artificiale o del quantum computing? Fox ha un’idea: “Applaudirebbe al progresso, ma ci avvertirebbe di non farne degli idoli, ha affermato in un’intervista rilasciata a Wired. ‘Sii creativo — diceva — ma assicurati che ciò che crei non sia una maledizione per l’umanità’”?.  Einstein non si fidava dello sviluppo scientifico-tecnologico se questo non era al servizio della saggezza. Credeva più nella responsabilità che nel libero arbitrio. E oggi, nel tempo in cui algoritmi decidono cosa vediamo e chi siamo, la sua voce risuona quasi come una sveglia: sii parte dell’infinito, non del meccanismo. E non si tratta solo di metafore. Le sue teorie vivono nei GPS, nelle risonanze magnetiche, nei buchi neri osservati da LIGO. Ma anche nel modo in cui pensiamo alla realtà: come un tessuto dinamico, relazionale, mai separato dallo sguardo di chi osserva.

Nel suo libro Fox ricorda che quando andò a Princeton, Einstein ricevette l’incarico di insegnamento con una raccomandazione ironica: “Non vi promettiamo di insegnarvi la fisica, ma che vi divertirete con un uomo straordinario”. E lo era davvero. Suonava il suo amato violino nei momenti di angoscia. Amava camminare da solo per ore. Parlava lentamente, ma pensava più velocemente di chiunque. E quando ricevette il Nobel, lo usò per aiutare la moglie Mileva, da cui era già separato. Era geniale, sì, ma anche fragile, a volte brusco, sempre in cerca di qualcosa.  Una volta disse: “L’importante è non smettere mai di fare domande.” Forse è questa la sua vera eredità. Una fame insaziabile di senso. Un desiderio testardo di verità. E una fede incrollabile nella bellezza del mistero. La teoria unificata che cercava non è mai arrivata. La pace mondiale neppure. E la sua spiritualità radicale — così scomoda, così priva di consolazioni — è ancora ai margini. “Siamo ancora affamati di nutrimento spirituale”, scrive Fox, “ma viviamo in un’epoca barbara e materialista”.  Forse per questo, settant’anni dopo, Einstein serve più che mai. Non come icona da stampare sulle magliette, ma come guida per un futuro più umano. Perché, come dice Fox, “l’invito di Einstein è continuare a esplorare, scoprire e usare al massimo le nostre menti… per sentirci parte di un infinito accessibile”.

Sebastiano Catte, dip 18

 

 

 

 

Il dibatto della prima Conferenza delle Scuole italiane all’estero

 

ROMA – Si è svolta presso il museo di arte contemporanea MAXXI di Roma la prima Conferenza delle Scuole italiane all’estero. Nel corso del dibattito, suddiviso in 3 panel a tema scientifico, umanistico e socioeconomico, hanno preso la parola vari esponenti delle scuole italiane all’estero che hanno raccontato le loro esperienze, Fra queste segnaliamo l’intervento di Giuseppe Finocchiaro, Dirigente scolastico Istituti Medi Italiani di Istanbul. “Le 7 scuole italiane all’estero – ha affermato Finocchiaro – proseguono le attività di alta formazione anche in questo anno scolastico, con l’obiettivo di diventare poli scolastici negli ambiti di rispettiva specializzazione…Nello specifico gli Istituti Medi italiani di Istanbul hanno concentrato gli studi sulla robotica e nella intelligenza artificiale. La formazione già nello scorso anno scolastico ha visto il coinvolgimento di esperti di Bologna, che sono venuti ad Istanbul. Un percorso di alta formazione che è stato incentrato sull’intelligenza artificiale e sulle sue applicazioni, con particolare riferimento alla robotica in ambito industriale”. Finocchiaro ha proseguito parlando dallo straordinario sviluppo delle applicazioni dell’intelligenza artificiale generativa, che si sono diffuse in maniera capillare negli ultimi mesi. “Queste prospettive – ha aggiunto – promettono di trasformare interamente non solo il mondo produttivo, ma le stesse modalità di interazione con i sistemi automatici in tutti gli ambiti sociali”. Finocchiaro ha inoltre spiegato che agli studenti vengono fornite le competenze per poter essere dei protagonisti del settore, attraverso esperienze di tipo laboratoriali in cui i giovani interagiscono con l’intelligenza artificiale ed imparano a governarla. Nel suo intervento Alessandro Acella, Coordinatore didattico della Scuola paritaria Roma di Algeri, ha sottolineato come questo Istituto voglia aprirsi sempre più al territorio e costruire ponti con il contesto di inserimento.  “Da alcuni anni – ha ricordato Acella – la scuola ha aperto le porte a studenti algerini, così da offrire ai ragazzi la possibilità di poter vivere la formazione italiana. Acella si è poi soffermato su un progetto che è nato da un rapporto di amicizia con la start up Technology di Algeri. Una realtà fatta di giovani ingegneri appassionati, che mettono questo talento a sostegno del servizio del territorio ed in questo contesto nasce l’iniziativa di sviluppare una serie di giornate su quello che è il concetto di robotica, Si cerca di avvicinare i bambini al mondo dei robot, mentre nella scuola secondaria si lavora nella parte di programmazione ed analisi.  Da segnalare anche la riflessione di Veronica Tania Roberta Sole, Dirigente scolastica dell’Istituto Italiano Statale Omnicomprensivo di Atene, cha ha raccontato il progetto di alta formazione “Centauromachia” dedicato all’archeologia e ai miti dell’antica Grecia. Sole ha parlato dell’importanza di mettere a sistema le varie offerte formative e del fatto che la scuola italiana di Atene sia sempre stata un presidio dell’italianità all’interno del territorio greco.  “ Un argomento fondamentale della nostra alta formazione – ha rilevato dal canto suo Marina Venturella,  dirigente scolastica dell’Istituto Italiano Statale Omnicomprensivo di Addis Abeba– è la cooperazione allo sviluppo, sicuramente perché si è guardato al territorio dove la scuola insiste, ovvero Etiopia e Africa. In questo ambito l’azione dell’AICS si espleta in quelli che sono gli obiettivi fondamentali legati allo sviluppo economico dei territori, con la creazione di impieghi e dei servizi di base”. Umberto Casarotti, Coordinatore didattico della scuola Paritaria “Fondazione Torino” di Belo Horizonte, ha parlato del progetto “La città di Leo”, con cui la scuola ha vinto il premio “call of proposals”. “La città di Leo – ha spiegato Casarotti – è un progetto, che ha essenzialmente 2 pilastri fondamentali. Uno fa riferimento a quelle che sono le indicazioni dell’ONU sui 17 obiettivi di sviluppo sostenibile, che dovrebbero essere raggiunti entro il 2030. L’altro pilastro invece riguarda il concetto di fab city, sono dei laboratori che danno accesso a tecnologie e strumenti per poter sviluppare idee e progetti. La città di Leo – ha proseguito Casarotti – si sviluppa in varie tappe, abbiamo prima di tutto fornito ai ragazzi una serie di creazioni di repertorio, quindi sono state intervistate persone che vivono all’interno della città, a questo punto degli specialisti hanno presentato alcuni elementi dell’ONU, i ragazzi si sono interessati a questi elementi, hanno formato dei gruppi, ed ogni gruppo è stato affiancato da un tutor”.  Nel corso del dibattito Filippo Romano, Capo dell’Ufficio per il Sistema della formazione italiana nel mondo del Maeci, ha presentato la rete delle scuole paritarie italiane all’estero “La rete nelle scuole paritarie italiane all’estero – ha rilevato Romano – è un ulteriore tassello che abbiamo messo in atto per creare nuove sinergie e condividere nuove pratiche anche sul modello di quello che è già stato fatto per le scuole statali all’estero. Abbiamo pensato di replicare questo modello di rete anche per le scuole paritarie e devo dire che questa proposta ha riscosso molto successo”.  La tematica è stata presentata anche Annalisa Frigenti, Dirigente scolastica Ufficio per il Sistema della formazione italiana nel mondo del Maeci. “Abbiamo fatto un ciclo di riunioni online in questi mesi – ha segnalato la dirigente – con tutte le università sulle certificazioni linguistiche, ci siamo sentiti in seguito con i colleghi delle 7 scuole statali, con cui stiamo pensando ad una serie di progetti, tra cui la rete delle 47 scuole paritarie. Al momento si sono iscritte 26 scuole, ma spero di avere al più presto l’iscrizione di tutte le scuole paritarie, perché abbiamo lasciato per l’adesione un periodo di tempo di tempo. A maggio convocheremo la prima assemblea, ed è un momento di condivisione importante. Gli obiettivi di questa rete – ha proseguito Frigenti – sono quello di sviluppare iniziative ed attività comuni per contribuire alla promozione e diffusione della lingua italiana nel mondo, anche rapportandosi alle scuole statali all’estero o creando reti con enti, istituzioni, fondazioni, agenzie educative e terzo settore per appositi progetti”. È stata poi presentata la prima web radio interscolastica internazionale “Italia RADIOsa”. “E’ la prima web radio interscolastica – ha spiegato Filippo Romano – che mette in connessione il mondo delle scuole nel territorio nazionale, con il mondo delle scuole italiane all’estero”. “Questo è un progetto che va ben oltre le reti – ha rilevato Annalisa Frigenti – perché noi crediamo nelle reti di reti… La radio – ha aggiunto – è partita  con 2 scuole in Italia e le 7 scuole statali nel mondo, abbiamo avviato le attività di formazione dei ragazzi che proseguiranno fino a luglio, abbiamo anche scritto al comitato Marconi, perché il progetto era stato ideato per i 150 anni di Guglielmo Marconi ed i 100 anni della radio. Oggi presentiamo il progetto anche alle scuole paritarie chiedendogli di aderire al progetto tramite l’invio di podcast”.

Lorenzo Morgia, Inform/dip 15

 

 

 

 

Il viaggio a Washington e il dilemma di Meloni

 

Il compito che aspetta la premier Giorgia Meloni durante la sua visita lampo a Washington è il più classico degli esercizi di equilibrismo. Meloni dovrà allo stesso tempo difendere gli interessi commerciali italiani, ribadire la prossimità dell’Italia agli Stati Uniti ed evitare di creare una frattura interna all’Ue. Il compito è arduo, visto che si tratta di obiettivi difficili da raggiungere e ancor più difficili da conciliare.

Il costo delle tariffe per l’Italia

L’Italia è uno dei paesi più esposti ai dazi sulle importazioni dall’Ue adottati da Donald Trump il 2 aprile, poi parzialmente sospesi dopo preoccupanti scricchiolii del mercato obbligazionario. Gli Stati Uniti assorbono il 10% delle esportazioni italiane e dal 2023 sono diventati il secondo mercato di destinazione dei nostri beni, per un valore che l’anno scorso ha superato i 64,7 miliardi di euro.

Se l’amministrazione Trump dovesse confermare il dazio del 20% sull’Ue dopo lo scadere della pausa a luglio, le perdite per gli esportatori italiani sarebbero significative. I settori più colpiti includono macchinari e apparecchiature, prodotti farmaceutici, automotive e mezzi di trasporto, oltre che prodotti chimici, tessili e agroalimentare. Né il quadro sarebbe tanto più roseo se si dovesse restare alla soglia attuale del 10% (era di circa l’1% prima del 2 aprile), a cui vanno aggiunti i dazi del 25% su alluminio, acciaio e autovetture. Ancor più preoccupante è la prospettiva che le tariffe generino un rallentamento della crescita globale. Il governo Meloni ha già dimezzato le prospettive di crescita per quest’anno.

Approccio unilaterale o europeo

Il governo è notoriamente scettico sull’efficacia di adottare controtariffe, sostenendo che l’effetto sarebbe quello di aggiungere danno a danno. Si è sempre detto a favore di una via negoziale. Questa è una posizione al momento in linea con quella della Commissione europea, che ha deciso di mettere da parte una rappresaglia contro le tariffe del 2 aprile e sospendere l’attuazione delle contromisure in risposta ai dazi su acciaio, alluminio e auto che erano già state approvate, nel tentativo di approfittare della pausa annunciata da Trump per trovare un compromesso. Tuttavia, il commissario al commercio Maroš Šef?ovi? e il suo team per il momento non hanno ottenuto nulla dall’amministrazione Trump, se non la conferma che un certo livello di dazi resterà senz’altro. Questo rende il compito di Meloni ancora più ingrato.

La coalizione di governo ospita, come è noto, opinioni contrastanti. La Lega di Matteo Salvini spinge per un negoziato bilaterale, mentre Forza Italia insiste sulla necessità di una posizione coordinata con l’Ue. La prima strada è impraticabile perché la politica commerciale è competenza esclusiva dell’Unione. Inoltre, cercare esenzioni per i prodotti italiani creerebbe una frattura interna all’Ue, isolerebbe l’Italia e ne ridurrebbe l’influenza nei negoziati su dossier cruciali come l’eventuale rilassamento del Patto di stabilità e crescita o il ricorso a risorse comuni per sostenere gli investimenti in difesa. È plausibile pertanto che Meloni cerchi un’interlocuzione con Washington su questioni su cui ritiene possibile possa avere sostegno da almeno una parte dei suoi partner europei.

Può ben essere che Meloni ribadisca di essere a favore dell’idea di un’area commerciale industriale a zero tariffe già avanzata dalla Commissione, pur sapendo che non c’è alcuno spazio. Ma il suo messaggio centrale non può che essere l’insistenza sul rafforzamento della relazione transatlantica battendo su due tasti: la competizione con la Cina e un accordo per aumentare le importazioni di beni americani nell’Ue.

Un fronte su cui questi obiettivi possono essere conciliabili è quello delle tecnologie della comunicazione: dal 5G a Starlink, il sistema di comunicazione satellitare di Elon Musk, l’amministrazione Trump inquadra l’acquisto di beni americani come una scelta di campo fra Washington e Pechino per gli europei. Gli americani sono anche interessati ad aumentare le vendite agli europei di gas naturale liquefatto (gnl) e sistemi d’arma. Né è un segreto che l’amministrazione vede le regolamentazioni Ue in campo digitale, ambientale e alimentare come discriminatorie verso compagnie ed esportatori americani.

Margini di manovra limitati

A meno che non si decida per la linea unilaterale favorita dalla Lega, lo spazio di manovra di Meloni è limitato. L’accettazione delle richieste americane risulterebbe in un ulteriore aumento della dipendenza europea dagli Stati Uniti in un momento in cui la domanda di una maggiore autonomia è diventata più urgente.

Il governo italiano potrebbe superare le sue stesse reticenze ad adottare Starlink, ma altri governi europei sono riluttanti a dare un’influenza strutturale a un tecno-miliardario che non esita a interferire direttamente nella loro politica interna appoggiando partiti di estrema destra e promuovendo disinformazione anti-Ue. Il tema della sovranità digitale e tecnologica del resto è sempre più presente nel dibattito interno all’Ue e non è un caso che la Commissione abbia escluso la possibilità di rivedere le leggi europee che regolamentano la concorrenza sui mercati digitali (Digital Markets Act) e impongono ai giganti dell’high-tech di vigilare sui contenuti diffusi sulle piattaforme social (Digital Services Act). È anche impossibile o quasi un allentamento delle barriere all’importazione di prodotti agricoli americani trattati con ormoni o lavati col cloro o cresciuti con organismi geneticamente modificati.

Dove la premier italiana può avere più spazio di manovra in Europa è sul fronte dell’acquisto di GNL americano, in teoria utile a compensare la riduzione delle importazioni dalla Russia, sebbene decisamente più caro. Meloni potrebbe anche promettere di incoraggiare acquisti europei di armi americane, anche se le scarse spese per la difesa non fanno dell’Italia il candidato ideale per perorare la causa. Meloni potrebbe promettere a Washington di battersi per un’applicazione meno aggressiva delle regolamentazioni digitali (cosa che in parte la Commissione sta già facendo), contro la tassazione di Big Tech (una questione nazionale ma che ha peso nel dibattito europeo), e per la rimozione o quantomeno rilassamento delle regolamentazioni ambientali (invise anche a molti attori industriali europei).

Mission impossible?

In definitiva, per Meloni esiste uno spazio di convergenza fra interessi americani ed europei che riflette tanto la sua visione strategica, quanto le sue convinzioni ideologiche. Meloni è persuasa che i paesi europei non possano che far parte di un ordine euro-atlantico centrato su Washington, e che se Washington cambia rotta sia dovere degli europei adeguarsi invece di inseguire la chimera di una maggiore autonomia.

Questo ben si concilia con la sua idea di Occidente come una comunità di nazioni di origine europea, legate fra loro non tanto dai valori universalistici della liberaldemocrazia quanto da storia, tradizioni e radici religiose, una civiltà che deve serrare i ranghi per proteggersi internamente dai migranti e dalle élite globaliste ed esternamente dalla Cina.

Il problema per Meloni è che questa amministrazione americana, pur ospitando un’ideologia affine alla sua, sembra assai poco disposta a venire incontro alle sensibilità dei paesi europei, che vuole non solo allineati ma anche divisi e deboli.

Meloni finora si è dimostrata abile a navigare le acque di uno spazio atlantico in tempesta, e non si può escludere che torni da Washington con qualcosa in mano. Ma alla lunga conciliare le sue convinzioni ideologiche e strategiche con l’interesse italiano in un commercio più aperto e in un’Europa più coesa e resiliente può diventare una missione impossibile. Riccardo Alcaro, AffInt 16

 

 

 

 

 

L’impossibile

 

L’Esecutivo porta avanti una strategia che dovrebbe riequilibrare, col tempo, la nostra economia. Però, ci vuole costanza e disciplina nell’adeguarsi alle regole. Così non è facile focalizzare la realtà nazionale senza mettere in conto il nostro comportamento. Siamo entrati in una sorta di limitazioni alle quali è meglio adeguarsi. Non per timore, ma per coerenza. Dato che non siamo in grado di attribuire “colpe” o “ragioni”, non ci resta che conformarci alla bisogna. La “disciplina”, ora, resta una regola. La politica l’”impossibile” ha da lasciare posto al ”possibile”.

 

 Anche per non affossare l’economia nazionale, che non è stata mai tanto in discesa, Il Primo Ministro metterà in campo le sue strategie. Nel Bel Paese si dovrebbero non confondere le “necessità” collettive con i “desiderata” dei singoli. Prima di tutto, la stabilità politica; il resto seguirà col tempo. Dalla recessione se ne esce solo se l’economia torna a essere integra.

 

E’ su questo fronte che riteniamo restare al servizio dei Lettori. L’incertezza, figlia di una situazione, imprevista e imprevedibile, dovrebbe essere, nei limiti di ciascuno, ridotta. L’”impossibile”, in questo caso, non ha da trovare terreno d’affermazione. Resta, però, da mantenere integra la volontà di ripresa; senza “lacci” politici di sorta. Solo il “comportamento” di questo Governo dovrà dare segnali di “coerenza”.

Giorgio Brignola, de.it.press

 

 

 

 

 

Giovani in fuga: l’Italia perde i suoi talenti

 

L’Italia perde i suoi talenti migliori mentre cresce l’emigrazione verso la Germania e avanza il declino demografico

Mentre il dibattito politico italiano si concentra sull’immigrazione verso il nostro Paese, un fenomeno silenzioso ma altrettanto dirompente avanza con forza: l’emigrazione dei giovani italiani. Secondo gli ultimi dati ISTAT, nel 2024 ben 191.000 persone hanno lasciato l’Italia, con un aumento del 20% rispetto all’anno precedente. Di questi, 156.000 erano cittadini italiani, per lo più giovani adulti e laureati. Un esodo che non si registrava con questa intensità dai primi anni Duemila.

Tra il 2013 e il 2022, oltre un milione di persone ha trasferito la propria residenza all’estero. Un terzo di loro aveva tra i 25 e i 34 anni e quasi il 38% era in possesso di una laurea. Solo un’esigua minoranza – meno di un terzo – ha fatto ritorno. Il saldo netto per l’Italia è drammatico: 87.000 giovani laureati in meno nel giro di dieci anni.

La destinazione preferita? La Germania (12,8%), seguita da Spagna (12,1%) e Regno Unito (11,9%). In questi paesi i giovani trovano ciò che in Italia manca: stipendi più alti, possibilità concrete di carriera, un mercato del lavoro più meritocratico e flessibile.

Dietro questa fuga non c’è solo il desiderio di fare un’esperienza all’estero, ma una sorta di “esilio forzato”, come lo definisce l’economista Tito Boeri. «Oggi sono i giovani i più infelici – ha dichiarato a La Stampa –. I loro salari crescono meno rispetto a quelli degli over 50, e il sistema italiano premia più le relazioni personali che il merito».

Un giovane manager italiano trasferitosi a Londra, intervistato da un quotidiano tedesco, ha riassunto così la differenza culturale: «Qui puoi anche uscire prima del tuo capo, se hai portato a termine il lavoro. In Italia questo sarebbe impensabile».

L’impatto di questa emigrazione si inserisce in un contesto già segnato dal declino demografico. Il tasso di fertilità italiano ha toccato un nuovo minimo: 1,8 figli per donna. Parallelamente, l’aspettativa di vita è in crescita e ha raggiunto gli 83,4 anni nel 2024, con un balzo di 5 mesi in un solo anno.

Questo squilibrio tra giovani in fuga e anziani in aumento aggrava la sostenibilità del sistema pensionistico. Nonostante ciò, il governo – su spinta della Lega – continua a puntare su pensioni anticipate per ragioni elettorali, bloccando l’aumento dell’età pensionabile previsto dalla legge. Una scelta che cozza con la realtà: l’Italia ha la seconda più alta spesa pensionistica d’Europa rispetto al PIL, dopo la Grecia.

Se il Nord riesce almeno in parte a compensare le perdite grazie alla migrazione interna, il Sud Italia è la vera area in sofferenza. L’Istat parla apertamente di una “erosione del capitale umano”: i migliori se ne vanno, pochi tornano, e il territorio resta privo delle competenze necessarie per lo sviluppo.

L’Italia si trova di fronte a una sfida esistenziale. Incentivare il rientro dei giovani, rendere il mercato del lavoro più dinamico e meritocratico, investire in politiche per la natalità e la conciliazione lavoro-vita privata: queste dovrebbero essere le priorità.

Per ora, però, le misure adottate sembrano più orientate alla gestione dell’immediato che alla costruzione del futuro. E intanto, un pezzo dopo l’altro, il futuro dell’Italia prende un volo sola andata. Licia Linardi, CdI on. 17

 

 

 

 

 

Rafforzare la rete dell’italianità all’estero con l’associazionismo

 

In un tempo in cui il mondo sembra accelerare verso l’individualismo e la frammentazione, gli italiani all’estero sentono più che mai la necessità di coesione, appartenenza e riconoscimento. Vivere lontani dalla propria terra significa convivere ogni giorno con una doppia identità: quella che si costruisce nel Paese d’accoglienza e quella che ci portiamo dentro, come eredità culturale, affettiva e storica. Quando si crea uno scollamento tra queste due dimensioni, il rischio è lo smarrimento. Ed è proprio in questi momenti che dobbiamo tornare alle origini, a ciò che ci tiene uniti: l’associazionismo.

L’associazionismo non è solo una struttura organizzativa o un insieme di eventi: è una forma di resistenza culturale. È un modo per continuare a sentirsi parte di un tutto, per custodire la memoria collettiva, per trasmettere ai giovani i valori, la lingua, le tradizioni, e quel senso di italianità che non si misura solo con i documenti, ma con il cuore. Anche se molte associazioni storiche chiudono, ciò che non può e non deve venir meno è lo spirito che le ha generate: la volontà di restare comunità.

Con oltre 7 milioni di iscritti all’AIRE sparsi in tutto il mondo, l’Italia non può più permettersi di vedere questi cittadini come un’appendice, una voce distante del bilancio nazionale. Sono una risorsa viva, un’estensione dell’identità nazionale, un ponte tra culture, economie e visioni. Ma per far sì che questa rete sia realmente attiva e solida, occorre ripensare radicalmente gli strumenti di rappresentanza.

Oggi i Com.It.Es. e il CGIE, per quanto nati con nobili intenzioni, faticano a interpretare i bisogni delle nuove generazioni e dell’emigrazione contemporanea. Le forme della rappresentanza non possono rimanere cristallizzate mentre il mondo cambia. Occorre riformarle con coraggio, restituendo loro dinamismo, operatività e un legame reale con le comunità. I Com.It.Es., ad esempio, devono essere messi in condizione di collaborare a stretto contatto con la propria comunità, non come entità burocratiche, ma come veri e propri nodi vitali di una rete. Il dialogo con i Consolati deve essere continuo, sinergico, fondato su obiettivi comuni: solo così si potrà trasmettere all’esterno un’immagine unitaria, autorevole e rispettata.

Il CGIE, dal canto suo, ha bisogno di essere riconosciuto dallo Stato per quello che realmente rappresenta: la voce organica e complessa dell’emigrazione italiana nel mondo. È da lì che passa la possibilità di ascoltare, comprendere e rispondere alle istanze dei nostri connazionali. Ma per farlo, deve essere messo nelle condizioni operative e politiche adeguate. Non basta più che esista: deve contare.

Oggi, purtroppo, la situazione è diventata insostenibile. Gli italiani all’estero sentono il peso dell’invisibilità. La distanza non è solo geografica: è emotiva, culturale, istituzionale. L’integrazione nei Paesi d’accoglienza – se non accompagnata da un dialogo aperto con le istituzioni italiane – rischia di trasformarsi in assimilazione. E con il tempo, l’italianità si sbiadisce, si perde, si riduce a un ricordo sbiadito nei racconti dei nonni.

Ma l’italianità non è folklore. Non è una cartolina, un piatto di pasta, o una canzone nostalgica. È coscienza. È sentirsi parte di una storia millenaria, è portare nel mondo un modo unico di guardare alla vita, di costruire relazioni, di creare bellezza. E quando questo legame si spezza, si perde molto più di una lingua o di una tradizione: si perde un pezzo della nostra anima collettiva.

Forse è proprio questo che, in modo implicito o inconsapevole, alcuni governi hanno accettato: trasformare gli italiani all’estero in semplici consumatori del Made in Italy, in veicoli di promozione turistica, in numeri da esibire nelle statistiche. Ma un popolo non si misura con le esportazioni, si misura con l’identità. E l’identità va nutrita, ascoltata, rispettata.

Finché ci sarà anche un solo italiano nel mondo che si sentirà tale nel profondo, quel tricolore continuerà a sventolare con dignità. Non come simbolo retorico, ma come bandiera viva di un’appartenenza che chiede solo di essere riconosciuta. Ed è nel suo nome – nel nome di milioni di italiani che ancora credono, sperano e costruiscono – che dobbiamo rafforzare questa rete. Non solo per non dimenticare, ma per continuare a vivere da italiani, ovunque siamo.

Carmelo Vaccaro, consigliere cgie, aise/dip 15

 

 

 

 

 

 

Democrazia

 

Il permanere degli atti di guerra nel mondo, stimola l’urgenza d’esporre una riflessione sull’importanza della Democrazia al confronto della violenza che è sempre stato l’arma dei prepotenti. Solo la “Democrazia” è una tangibilità esercitata dal Popolo tramite i suoi Rappresentanti.

 

Essa si fonde sul concetto, inscindibile, di “sovranità”. Tutto ciò che capita al di fuori di questo costrutto, può anche essere “destabilizzazione”. Idea che pretende d’imporre un sistema sotto la dipendenza con la violenza. Purtroppo, non siamo nuovi a fatti di guerra, la cui matrice, qualunque essa sia, è sempre riprovevole.

 

 Non è con la violenza, a fronte di tante vittime innocenti, che un’idea potrà trovare spazio in una società che fonda le sue radici nella libera convivenza. Il dialogo ha da subentrare alla coercizione, i segni di buona volontà, alle armi e alla violenza. I progetti non si possono affermare in altro modo. Subirli, col terrore, non è una soluzione; ma solo l’acuirsi di un problema. La convivenza dei Popoli, senza sconfinamenti di territorio e di potere estorto, traccia la  via per garantire la vita e la pace. Cioè la Democrazia.

 

Ne deriva che è meglio affrontare, con la certezza d’essere nel giusto, ogni azione atta a non confondere gli equilibri socio/politici del mondo in essere. La vita, in tutte le sue manifestazioni, è sacra. La guerra, alla fine, ricade su chi l’ha cagionata. La storia è la testimone di quanto abbiamo rilevato. Meglio non dimenticarlo mai.

Giorgio Brignola, de.it.press

 

 

 

 

 

 

Gli Stati Generali della lingua italiana nel mondo 

 

ROMA – Si sono tenuti al MAXXI di Roma gli Stati Generali della lingua italiana nel mondo, indetti dal MAECI, considerati come il principale appuntamento sulla promozione della lingua italiana nel mondo. L’evento ha rappresentato un momento di riflessione tra le istituzioni e la società civile per la costituzione di una “Comunità dell’italofonia” in occasione della prossima Conferenza Internazionale dell’Italofonia.  Il Presidente della Fondazione MAXXI, Maria Emanuela Bruni, ha aperto i lavori precisando anzitutto ciò che rappresenta la lingua italiana in senso identitario: “è una delle espressioni più profonde della nostra identità, è ciò che ci precede e ciò che ci definisce come una radice che nutre”. Bruni ha evidenziato che la lingua connota la nostra cultura: “la lingua non è mai solo una parola, è un segno e un’immagine”, ha aggiunto ricordando che proprio attraverso la lingua l’Italia si racconta al mondo. Una studentessa ha quindi dato lettura al messaggio del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. “La lingua, prima ancora di essere un veicolo di comunicazione, si identifica con un universo di sapere ricchissimo”, ha spiegato Mattarella invitando a continuare ad alimentare quella curiosità culturale che è alla base della diffusione dell’italiano nel mondo. “Nelle visite all’estero ho sempre constatato quanto interesse ci fosse per la nostra lingua: una testimonianza che ho raccolto non solo nei Paesi dove risiedono comunità italiane e di italo-discendenti”, ha evidenziato Mattarella definendo questo incontro come momento importante anche in vista della Conferenza internazionale dell’italofonia che si terrà a Roma nel prossimo autunno. Sono seguite testimonianze di studenti stranieri di lingua italiana del Collegio del Mondo Unito di Duino: “l’Italia è una seconda casa e mi ha accolto calorosamente”, ha espresso ad esempio una ragazza afghana che è salita sul palco insieme ad altri quattro studenti: un israeliano, un palestinese, un russo e un’ucraina. Ha poi preso la parola il Ministro degli Esteri, Antonio Tajani, che ha fatto eco ai messaggi di speranza e pace giunti dalla presenza di questi studenti appartenenti anche a nazioni tuttora in conflitto. “Quello dell’Italia è un messaggio di pace: quando ascoltiamo questi ragazzi che parlano di pace e non di odio vuol dire che la pace si può costruire e si deve raggiungere. Certo, deve essere una pace giusta ma questo deve essere il nostro obiettivo”, ha spiegato Tajani definendo la lingua italiana un ponte di pace. “Abbiamo il dovere di difendere l’italiano”, ha aggiunto Tajani invitando gli studenti, anche italiani, a parlarlo correttamente. Il Ministro poi ha ricordato che l’italiano è lingua ufficiale anche in Paesi come Svizzera, San Marino, Vaticano, Slovenia e Croazia. “Nella prossima Conferenza Internazionale dell’Italofonia vogliamo coinvolgere anche tutti quei Paesi che hanno una tradizione di italofonia: gli italofoni nel mondo sono circa 80 milioni”, ha ricordato Tajani rendendo omaggio al padre della lingua italiana ossia Dante Alighieri e allo stesso tempo parlando dell’italiano come di un veicolo anche per la promozione del Made in Italy. Il Ministro ha poi segnalato come l’italiano abbia influenzato anche il modo di parlare di alcune comunità ispanofone, lì dove sono più presenti storicamente le comunità italiane: ovviamente il riferimento non poteva non andare all’America Latina. Tajani ha  poi segnalato la forzatura eccessiva che si vede nell’uso di termini inglesi al posto di espressioni equivalenti in italiano che, tra l’altro, hanno spesso anche sfumature più ampie e raffinate. A seguire è intervenuto il Ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, che ha parlato dell’idea della costituzione di una comunità globale dell’italofonia. “La promozione della lingua e della cultura italiane sono uno strumento chiave per diffondere i nostri valori e per diffondere il nostro saper fare e le eccellenze italiane”, ha spiegato Valditara parlando di strumenti per far crescere l’economia e più in generale la nazione. Il Ministro ha poi espresso soddisfazione per l’aumento di sezioni di lingua italiana nelle scuole straniere. “C’è necessità di espandere le scuole italiane all’estero”, ha aggiunto Valditara sottolineando che sempre più giovani sembrano essere appassionati alla nostra lingua e che il nostro è uno stile di vita che affascina. “Pensiamo a quello che ha rappresentato la cultura latina nel mondo o la storia di Roma e la civiltà cristiana”, ha precisato il Ministro suggerendo di tornare a un rapporto più stretto con il nostro passato. Dal canto suo il Presidente della Dante Alighieri, Andrea Riccardi, si è soffermato sul tema dell’italofonia considerato un punto importante per far avanzare l’orgoglio della lingua italiana. “Non siamo ingenui: sappiamo che la lingua italiana non è imperiale come quella di Spagna, Francia, Gran Bretagna e Portogallo ma non è neanche una lingua provinciale. Provinciale è l’atteggiamento rinunciatario verso la lingua”, ha spiegato Riccardi parlando di una lingua farcita delle parole di Dante e della Divina Commedia. “La patria non è tutta dentro i confini materiali dello Stato”, ha aggiunto Riccardi citando una frase di Carducci o meglio un concetto fondamentale per l’italofonia attuale che si nutre tra l’altro di una crescente simpatia nel mondo per il nostro idioma. Riccardi ha dunque evidenziato che l’italiano non è solo una lingua di uso interno ma attrae anche scrittori non italiani. Secondo il Presidente della Dante Alighieri l’italofonia è una rete che tiene insieme mondi diversi: riesce a farlo in “un mondo che, nella vertigine della globalizzazione, ha superato tante frontiere ma ne ha create di nuove”.

Fra gli altri interventi segnaliamo quello del Direttore Generale per la Diplomazia Pubblica e Cultura Alessandro De Pedys  che ha auspicato la creazione di una vera comunità attorno al concetto di italofonia: un progetto che naturalmente necessita di negoziazione con le controparti estere tramite le ambasciate, i consolati, gli Istituti di Cultura  e la Dante Alighieri. “Sarà un lavoro complesso per non sprecare quanto fatto finora”, ha aggiunto De Pedys sottolineando che dall’Italia ci si aspetta un’offerta culturale in grado di rispecchiare l’interezza del proprio patrimonio.  Allo stesso tempo bisognerà riflettere su quale possa essere il potenziale pubblico nelle diverse aree del mondo, in base anche alle sensibilità locali. Il Direttore Generale ha anche segnalato gli importanti investimenti messi in campo da altri Paesi per la promozione della propria lingua, superiori a quelli posti in essere dall’Italia. De Pedys ha anche sottolineato come questa edizione degli Stati Generali sia da intendere come tappa di avvicinamento alla Conferenza internazionale dell’italofonia quale punto di partenza per la costituzione di una comunità dell’italofonia. Un appuntamento, quello della Conferenza, che in futuro potrebbe ripetersi negli anni e diventare strutturale coinvolgendo realtà estere. Nei prossimi mesi verrà poi definita la struttura della nuova comunità, nonché gli enti partecipanti. (Inform/di 16)

 

 

 

 

Cittadinanza: il parere con osservazioni approvato dalla Commissione Esteri

 

ROMA - È stato approvato questa mattina in Commissione Affari Esteri al Senato il parere sul decreto – cittadinanza del 28 marzo, all’esame degli Affari Costituzionali. Stilato dal senatore Roberto Menia – relatore del testo in III Commissione – il parere annovera tra le osservazioni l’opportunità di riconsiderare il presupposto della nascita in Italia degli ascendenti, l’auspicio che si prevedano norme per il riacquisto della cittadinanza, l’opportunità di inserire test di lingua e che si prevedano “percorsi facilitati” per “discendenti di cittadini o ex cittadini italiani residenti in Paesi vittime di regimi dittatoriali, anche in direzione dell'acquisto agevolato della cittadinanza”.

Nel dibattito che ha preceduto il voto, Spagnolli (Aut (SVP-PATT, Cb)) ha dichiarato il voto contrario della propria parte politica sostenendo che “il provvedimento rappresenta, effettivamente, una sorta di espropriazione di competenze da parte del Governo nei confronti dell'organo legislativo, che dovrebbe essere titolato prima facie a regolamentare una materia così delicata come quella della cittadinanza”. Nel merito, “non può essere condivisa la filosofia di fondo, sottesa al decreto-legge, che, nei fatti, tende a non facilitare la vita dei vari connazionali che all'estero vogliono sentirsi italiani”.

Critico anche il senatore Alfieri (Pd) che ha comunque dato atto a Menia di aver “ulteriormente affinato la sua bozza di parere”; nonostante ciò “le molteplici criticità menzionate nel dispositivo contraddicono il tenore stesso del parere, che risulta formalmente favorevole”. Per il senatore Pd, con il decreto – cittadinanza, il Governo “ha deciso di passare, evitando ogni pur minima occasione di approfondimento, da una situazione che potrebbe essere definita di "lassismo", in materia di concessione della cittadinanza per le persone di origine italiana residenti all'estero, ad una situazione che improvvisamente dispone una disciplina tranchant e rigida nella materia”. Annunciando il voto contrario del Pd, Alfieri ha concluso “confidando nella possibilità di enucleare possibili emendamenti al testo durante l'esame nella Commissione di merito”.

Il voto contrario dei 5 Stelle è stato annunciato da Marton; divisioni nella Lega: se il voto favorevole del partito è stato confermato da Pucciarelli, il collega Dreosto ha deciso di astenersi vista “la delicatezza e la complessità di una problematica come quella riguardante la cittadinanza”.

Confermando il voto favorevole di Fratelli d’Italia, Barcaiuolo ha ricordato la possibilità di discutere “eventuali proposte migliorative” in I Commissione.

I senatori hanno quindi approvato il parere con osservazioni proposto da Menia.

“La Commissione affari esteri e difesa,

esaminato il disegno di legge in titolo per gli aspetti di propria competenza;

preso atto delle disposizioni di cui all'articolo 1, comma 1, che recano modifiche alle norme in materia di cittadinanza e che sono volte a rafforzare la necessità di un vincolo effettivo con l'Italia da parte dei figli nati all'estero da cittadini italiani;

valutate altresì le norme di cui all'articolo 1, comma 2, che dispongono in ordine alle controversie in materia di accertamento della cittadinanza, in particolare con riferimento all'onere della prova e all'inammissibilità di giuramento e prova testimoniale;

evidenziato come la materia oggetto del provvedimento risulti particolarmente complessa e necessiti di una valutazione attenta non solo in ordine alle conseguenze giuridiche derivanti dall'applicazione delle nuove norme ma anche in ordine ad un possibile affievolimento di diritti finora garantiti ai discendenti degli Italiani;

espressi sentimenti di preoccupazione circa la possibilità che interpretazioni eccessivamente restrittive delle nuove norme sulla cittadinanza per discendenza iure sanguinis potrebbero creare sentimenti di disaffezione nelle comunità degli Italiani all'estero e dei loro discendenti;

espresso il convincimento che il tema della cittadinanza italiana non riguardi unicamente uno status giuridico ma abbia a che fare con realtà vive, intessute di storia, di sacrifici e di legami familiari che andrebbero preservati, e ritenuto che la lingua costituisca un patrimonio e uno dei principi fondanti della trasmissione della cittadinanza stessa;

richiamata l'importanza anche di considerare il trend demografico in atto nel territorio nazionale al fine di individuare misure legislative che favoriscano l'aumento della popolazione italiana e il possibile ritorno in Italia di quanti abbiano un vincolo effettivo con il nostro Paese e intendano preservare e perpetuare tale legame anche attraverso l'accesso alla cittadinanza;

ritenuto altresì che le misure normative in via di approvazione debbano rafforzare i legami culturali e linguistici della comunità di origine italiana con la madrepatria, evitando, in particolare di escludere dall'accesso alla cittadinanza proprio coloro che intendano tenere viva l'italianità anche in contesti geografici lontani dal territorio nazionale;

auspicando attenzione crescente e maggiori risorse per la diffusione e valorizzazione della lingua e della cultura italiana all'estero ed in particolare presso le comunità degli Italiani iscritti all'Anagrafe Italiani residenti all'estero;

esprime, per quanto di competenza, parere favorevole, con le seguenti osservazioni:

- che il presupposto della nascita nel territorio nazionale di un ascendente di primo grado di genitore o adottante possa essere riconsiderato o ampliato;

- che nell'adozione delle nuove disposizioni in materia di cittadinanza si possano valutare elementi di riequilibrio del criterio territoriale della nascita;

- che si prevedano norme puntuali per il riacquisto della cittadinanza per quanti l'abbiano persa in ragione di normative restrittive previgenti, sia nazionali che estere;

- che si valuti l'opportunità di introdurre elementi per la valutazione della cittadinanza consapevole per i casi di nuovo accesso alla cittadinanza, accompagnando il percorso giuridico in direzione della cittadinanza con momenti di formazione e requisiti verificabili di conoscenze linguistiche e culturali;

- che si prevedano percorsi facilitati per l'accoglienza nella comunità nazionale a favore di discendenti di cittadini o ex cittadini italiani residenti in Paesi vittime di regimi dittatoriali, anche in direzione dell'acquisto agevolato della cittadinanza”. (aise/dip) 

 

 

 

 

“Verso una Comunità globale dell'Italofonia”

 

La dichiarazione conclusiva degli Stati Generali della Lingua italiana nel mondo 2025

ROMA - Si sono tenuti questa mattina, presso l’Auditorium del MAXXI di Roma, gli Stati Generali della lingua italiana nel mondo. Principale appuntamento sulla promozione della lingua italiana nel mondo, gli Stati Generali hanno fornito un momento di riflessione tra istituzioni e società civile in vista della Conferenza Internazionale dell’Italofonia che si terrà entro la fine dell’anno. Non a caso la manifestazione, giunta alla sua quinta edizione, è stata intitolata quest’anno “Verso una comunità globale dell’italofonia”, titolo dato anche alla Dichiarazione finale dei lavori.

Ne riportiamo di seguito il testo integrale.

“Consapevoli che la lingua, presupposto essenziale per il dialogo tra le culture e tra i popoli, è un prezioso strumento a servizio della costruzione e del mantenimento della pace, della prevenzione dei conflitti e della cooperazione tra gli Stati e tra le comunità di persone;

Considerando che l'italiano, per storia e per vocazione, è lingua privilegiata di dialogo, creatività e scambio, in grado di costruire ponti fra i popoli a sostegno di una visione dei rapporti internazionali fondata sul rispetto, sulla libertà, sulla tutela dei diritti umani e sulla cooperazione multilaterale:

Considerando che l'italiano, lingua di bellezza, cultura e scienza, ha fornito un contributo conoscitivo inestimabile al patrimonio letterario, artistico e musicale mondiale e al progresso scientifico dell'umanità;

Considerando che l'italiano, coniugando tradizione e innovazione, sapere umanistico e conoscenza scientifica, arte e industria, si fa portavoce di una contemporaneità che, sulla solidità delle proprie radici storiche e culturali, è proiettata verso il futuro;

Considerando che la lingua italiana è patrimonio di una comunità di territori, popoli e culture, che vedono in essa un elemento della propria identità e dei propri valori;

Riconoscendo il ruolo delle comunità di italo-discendenti, delle diaspore in Italia, degli italiani all'estero e di tutti gli italofili per la diffusione nel mondo della lingua italiana e la trasmissione della sua identità:

Riconoscendo il valore aggiunto di una rete di coordinamento e scambio tra Stati, popoli, soggetti privati, enti pubblici e persone - ed in particolare i giovani - uniti dalla conoscenza e dalla passione per la lingua italiana;

Coscienti che la funzione della lingua italiana quale motore di relazioni commerciali e vettore per l'internazionalizzazione delle imprese possa contribuire a rafforzare il partenariato economico tra le entità italofone e alimentare crescita e innovazione condivisa;

Consapevoli che l'interesse comune per l'Italofonia possa contribuire a promuovere le relazioni culturali, educative, accademiche e scientifiche tra Stati e società civili:

Riconoscendo il contributo che la diffusione della lingua italiana può offrire alla tutela del pluralismo linguistico quale elemento essenziale per la salvaguardia del patrimonio culturale universale e il

dialogo tra i popoli;

Sottolineando l'importanza di rafforzare la comunicazione pubblica in lingua italiana anche nello spazio digitale, come contributo alla diffusione di una informazione plurale, affidabile, libera da manipolazioni e discorsi d'odio;

Consci del ruolo dell'italiano nel mondo in quanto lingua di inclusione e civiltà, veicolo dei principi di solidarietà e strumento di dialogo tra culture, fedi e religioni diverse;

AUSPICHIAMO

l'istituzione di una Comunità dell'italofonia formata da Stati e rappresentanze della società civile unite dall'interesse e dalla passione per la lingua italiana, che abbia tra le sue finalità: la promozione del dialogo politico e della cooperazione internazionale; la promozione degli scambi e dei legami tra le società civili e le persone italofone; lo sviluppo delle relazioni culturali, economiche, scientifiche e accademiche tra i suoi membri.

INVITIAMO

a tutelare in ogni modo la lingua italiana, ampliandone ove possibile gli ambiti di utilizzo a livello internazionale così come nello spazio digitale.

COMPOSIZIONE

A tal fine, auspichiamo che la Comunità dell'Italofonia possa fondarsi sulla piena condivisione di obiettivi e modalità operative da parte dei suoi membri. Essa rappresenterebbe uno spazio di condivisione e promozione di iniziative volontarie, di scambio di contenuti e di arricchimento reciproco, senza generare obblighi per le parti coinvolte.

Invitiamo le Parti a considerare la creazione di un Segretariato della Comunità dell'Italofonia, che ne guidi l'operato, e la realizzazione di una Conferenza di Stati, persone, soggetti, Istituzioni e Associazioni che, su base biennale, quale piattaforma di dialogo politico, possa definirne le linee strategiche, definirne gli strumenti e discutere delle tematiche specifiche che dovessero essere poste alla sua attenzione.

Il Segretariato della Comunità dell'Italofonia riceverebbe impulso, nella sua attività di gestione, dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e dalla Società Dante Alighiert.

In tale schema, tutti i membri della Comunità sono parte di una piattaforma digitale che assicura la formazione di una rete di contatti e scambi, così come l'accesso e la condivisione di un ampio ventaglio di contributi che valorizzi in primis i circuiti già attivi, e il materiale e le esperienze già disponibili sul piano della promozione della lingua.

Ogni Stato e/o entità membro della Comunità dell'Italofonia nomina un referente responsabile di monitorare le iniziative di interesse e può a sua volta costituire e/o partecipare a reti più ristrette su base settoriale o tematica.

MANDATO

Per raggiungere le finalità sopra indicate, invitiamo i futuri membri della Comunità dell'Italofonia a valutare le seguenti azioni e aree di intervento, quale punto di partenza per un'azione che preveda e includa successivi e ulteriori orizzonti di collaborazione:

• Creazione di una rete tra gli amanti della lingua italiana, che dia un adeguato spazio anche alle comunità di italiani residenti all'estero, e che sia in grado di valorizzare le risorse e le specificità di ogni singola comunità dell'Italofonia;

• Rafforzamento e promozione dell'insegnamento della lingua italiana in ogni contesto formativo, con particolare riguardo ai percorsi educativi per fini professionali, e della formazione dei docenti, anche tramite il ricorso all'Intelligenza Artificiale;

• Valorizzazione e consolidamento dei Dipartimenti e delle cattedre di italianistica e dei Centri linguistici di lingua italiana nei contesti formativi superiori all'interno di un sistema di collaborazione tra tutte le componenti coinvolte;

• Rafforzamento della collaborazione accademica e della mobilità di studenti, docenti e ricercatori, anche mediante la predisposizione di corsi di laurea congiunti in lingua italiana, l'offerta di borse di studio per programmi di scambio e di ricerca, con particolare riferimento a quelli relativi alle discipline nel campo dell'italianistica, e l'organizzazione di Summer school "Italofonia", con la partecipazione di studenti da tutto il mondo;

• Potenziamento e valorizzazione della rete delle biblioteche e delle librerie italiane all'estero in quanto luoghi privilegiati per il dialogo e lo scambio interculturali e per la nascita di nuove comunità italofone;

• Rafforzamento della collaborazione nel settore editoriale, anche mediante programmi di incentivi ad hoc per la traduzione di opere da e verso l'italiano e la pubblicazione di opere in italiano, anche di carattere scientifico;

• Valorizzazione della lingua italiana quale strumento per la redazione di opere letterarie scritte da autori e autrici italofoni, costituendo - nell'ambito della Comunità - l'Assemblea degli scrittori e delle scrittrici italofoni;

• Messa a punto di iniziative collettive di comunicazione in lingua italiana, anche attraverso la definizione di progetti in ambito televisivo, radiofonico o più in generale mediatico.

• Organizzazione di iniziative culturali e/o promozionali, con particolare riferimento all'ambito del teatro, del cinema, della musica, della moda e della gastronomia, volte a dare espressione all'identità della Comunità dell'Italofonia e a rafforzare l'interesse e la conoscenza dell'italiano nel mondo, anche attraverso l'individuazione di figure di riferimento, e nell'ambito di ricorrenze e anniversari di rilievo;

• Organizzazione di iniziative volte a rafforzare gli scambi economici e commerciali tra i Paesi, come forum di imprese, anche nell'ottica del contrasto all'Italian sounding; Rafforzamento della collaborazione scientifica, con valutazione degli spazi per una maggiore presenza di contributi in lingua italiana all'interno dei programmi nazionali, con progetti specifici per Paesi e settori, e con incentivi alle pubblicazioni in lingua italiana nelle scienze dure e nelle discipline quali architettura e ingegneria;

• Sostegno ai contenuti in lingua italiana nello spazio digitale, nei settori tecnologici e nell'ambito dell'Intelligenza Artificiale, anche nell'ottica di favorire lo sviluppo di linguaggi e processi di lA in lingua italiana;

• Sviluppo di una rete in italiano delle istanze di solidarietà e cooperazione, che valorizzi uno degli ambiti a cui è maggiormente associata la lingua italiana”. (aise/dip 16)

 

 

 

 

 

 

Erste Maßnahmen geplant. Dobrindt will Asylpolitik „vom Kopf auf Füße stellen“

 

Im Wahlkampf war ein Kurswechsel bei der Zuwanderung eines der wichtigsten Themen. Umsetzen soll das nun CSU-Mann Dobrindt. Er gibt sich zuversichtlich und verweist auf seine ersten Pläne. Viele davon stehen bei Menschenrechtlern in der Kritik.

Die im Wahlkampf von der Union versprochene Wende in der deutschen Migrationspolitik steht ganz oben auf der Prioritätenliste des designierten Bundesinnenministers Alexander Dobrindt. „Wir müssen die Polarisierung in Deutschland zurückdrängen. Wir müssen die Balance wiederherstellen“, sagte der CSU-Politiker RTL/ntv. Beobachter verweisen darauf, dass die unionsgeführte Migrationsdebatte selbst erheblich zur gesellschaftlichen Spaltung beigetragen habe.

„Die Migrationsfragen müssen geklärt werden. Wir müssen die Migration wieder vom Kopf auf die Füße stellen und das heißt, dafür zu sorgen, dass die Zahlen runtergehen“, betonte Dobrindt. Er habe bereits erste Maßnahmen geplant: „Wir werden an den Grenzen dafür sorgen, dass die Zurückweisungen deutlich steigen. Wir werden den Familiennachzug aussetzen, und wir werden zurückführen, auch in Länder wie Syrien und Afghanistan.“ Solche Rückführungen gelten wegen der weiterhin unsicheren Lage in vielen dieser Staaten als menschenrechtlich hochproblematisch und werden von Hilfsorganisationen scharf kritisiert.

Dobrindt erwartet Diskussionen in der Koalition

Dobrindt erklärte, zwar müsse man sich innerhalb einer Koalition immer wieder abstimmen und das werde auch zu Diskussionen führen, „aber wir haben im Koalitionsvertrag harte Maßnahmen vereinbart, um die Migrationswende zu ermöglichen. Und meine Aufgabe ist es, die auch entsprechend umzusetzen und zu erfüllen.“ Viele dieser Maßnahmen betreffen Grundrechte von Geflüchteten, etwa durch Einschränkungen beim Familiennachzug oder durch beschleunigte Rückführungsverfahren.

Bereits vor der Bundestagswahl waren die Zuwanderungszahlen in Deutschland nach Angaben des Bundesinnenministeriums wieder deutlich gesunken. Im vergangenen Jahr hatten 229.751 Menschen erstmals in Deutschland einen Asylantrag gestellt. Das waren rund 100.000 Asylerstanträge weniger als im Jahr zuvor. Dennoch blieb Migration ein zentrales innenpolitisches Thema im Wahlkampf.

Im Koalitionsvertrag von CDU/CSU und SPD heißt es: „Wir werden in Abstimmung mit unseren europäischen Nachbarn Zurückweisungen an den gemeinsamen Grenzen auch bei Asylgesuchen vornehmen.“ Neue freiwillige Bundesaufnahmeprogramme wird es nicht geben. Mindestens zwei Jahre lang soll es keinen Familiennachzug zu Menschen mit eingeschränktem Schutzstatus geben. Diese Aussetzung trifft besonders schutzbedürftige Geflüchtete und stößt bei Menschenrechtsorganisationen auf deutliche Kritik. (dpa/mig 30)

 

 

 

 

 

Europäische Hochschulen als Motor der Veränderung in Europa

 

Im Rahmen der bundesweiten Europawochen im Mai veranstaltet der Deutsche Akademische Austauschdienst (DAAD) ab heute (30.4.) die „Wochen der Europäischen Hochschulen“. Die Themenwochen bieten rund um den Europatag am 9. Mai vielfältige Einblicke in die Arbeit der Europäischen Hochschulallianzen. 37 deutsche Hochschulen beteiligen sich mit rund 50 Angeboten in 20 Städten sowie online.

Bonn. „Die Europäischen Hochschulallianzen haben das Potenzial, die Hochschullandschaft in Deutschland und der gesamten EU mit innovativen Formen von Zusammenarbeit und Mobilität zu verändern. Dies kommt nicht nur Studierenden, Forschenden und Lehrenden zugute, sondern der gesamten europäischen Gesellschaft: Allein bis 2023 haben die Allianzen mehr als 600 gemeinsame Studiengänge entwickelt, davon rund 160 mit gemeinsamem Abschluss. 14 Allianzen haben zudem einen gemeinsamen rechtlichen Status geschaffen, um ihre Zusammenarbeit langfristig zu institutionalisieren – der erste Schritt zu wirklichen Europäischen Universitäten. So fördern die Europäischen Hochschulallianzen das, was Enrico Letta in seinem Bericht zur Zukunft des Binnenmarktes als ‚fünfte Freiheit‘ bezeichnet hat: Lernen, Studieren, Lehren und Forschen ohne Grenzen. Darauf wollen wir erneut mit den Themenwochen zu den Europäischen Hochschulen hinweisen“, sagte DAAD-Präsident Prof. Dr. Joybrato Mukherjee.

Themenwochen zum Europatag

Die DAAD-Themenwochen finden rund um den Europatag (9. Mai) vom 30. April bis 30. Mai statt. Sie bieten Einblicke, wie die Europäischen Hochschulallianzen die Vielfalt europäischer Forschung, Lehre, Innovation und Transfer in neuen Strukturen bündeln, um den Herausforderungen Europas zu begegnen. Geplant sind Podiumsdiskussionen, Informationsstände, Workshops, Social-Media-Kampagnen, Radiobeiträge und virtuelle Vorlesungen. Die Veranstaltungen richten sich an Studierende, Lehrende und Forschende sowie die interessierte Öffentlichkeit.

Folgende Aktionen sind unter anderem geplant:

* „From Advocacy to Action" eine öffentliche Podiumsdiskussion an der Universität Heidelberg.

* “European Union Week” ein hybrides Veranstaltungsformat an der Technische Universität München.

* „ENLIGHT Förderausschreibungen 2025: Unterstützung internationaler Zusammenarbeit“ eine Informationsveranstaltung der Georg-August-Universität Göttingen.

Europäische Hochschulallianzen

Die Europäischen Hochschulallianzen sind grenzüberschreitende Hochschulverbünde, die gemeinsam innovative Lehr- und Lernformate sowie neue Kooperationsformen bei Bildung, Forschung und Technologietransfer entwickeln. Aktuell fördert die EU im Rahmen von Erasmus+ 65 Allianzen mit mehr als 500 beteiligten Hochschulen. 67 deutsche Hochschulen sind an 59 Allianzen beteiligt – mehr als jedes andere EU-Land.

Nationales Begleitprogramm

In Deutschland fördert der DAAD die deutschen Hochschulen im Rahmen des vom BMBF finanzierten Begleitprogramms „Europäische Hochschulnetzwerke (EUN) – nationale Initiative“. Im Begleitprogramm erhalten die beteiligten deutschen Hochschulen zusätzliche finanzielle Förderung sowie Unterstützung für mehr Sichtbarkeit ihrer Allianzen. Dazu gehören Vernetzungsangebote für die beteiligten Hochschulen sowie Austauschformate mit der Politik auf Bundesebene und Ebene der Länder. Daad 30

 

 

 

 

 

Brandmuster. Trügerische Sicherheit

 

Anschläge auf Flüchtlingsunterkünfte gibt es nicht nur in Deutschland. Auch im Geflüchtetenlager Al-Mawasi im Südwesten Gazas sterben immer wieder Dutzende palästinensische Zivilist:innen – und es gibt kaum Diskurs darüber. Von Joel Schülin

Nach Angriffen der Israeli Defense Forces (IDF), dem israelischen Militär, am 17. April 2025 verschlingen Flammen Teile des Geflüchtetenlagers Al-Mawasi in Gaza. Mindestens zehn palästinensische Zivilist:innen sterben. Es ist jedoch bei weitem nicht der erste Angriff auf das Lager nördlich der Stadt Rafah. Eine Untersuchung des englischen Nachrichtensenders BBC zählt zwischen Mai 2024 und Januar 2025 allein knapp unter hundert IDF-Angriffe auf die „humanitäre“ Zone.

Darunter fallen Vorfälle wie die Militäraktion zur Tötung des Hamas-Funktionärs Mohammed Deifs im Juli 2024, bei dem 90 Personen sterben (der Tod von Deif wird von der Hamas nicht bestätigt).

Die Angriffe auf Al-Mawasi unterscheiden sich insofern von den anderen tausenden Vorfällen „kollateraler“ Schäden, dass es sich bei dem Küstenabschnitt bis zum Bruch der Waffenruhe im März 2025 um eine durch die IDF definierte „sichere Zone“ handelte. Bis heute fordert die IDF Zivilist:innen auf, nach Al-Mawasi zu evakuieren.

Humanitäre bzw. sichere Zonen dienen nach dem Völkerrecht einerseits als Schutzraum – Kriegshandlungen sind in solchen Zonen verboten –, andererseits sollen sie Zugang zu humanitärer Versorgung gewährleisten.

Wie die IDF in Infografiken immer wieder auf Social Media erklärt, sind Hamas-Infrastrukturen das Ziel der „präzisen“ Angriffe im Camp. Dass sich tatsächlich Hamas-Kämpfer in dem Geflüchtetenlager befinden, ist wahr. Die in Al-Mawasi lebenden Geflüchteten werden jedoch nicht immer vor Angriffen durch das Militär gewarnt, wie Bewohnende des Camps der Agence France-Presse mitteilten.

Dass das von der IDF-konstruierte Narrativ der Präzisionsschläge gegen militante Positionen nicht haltbar ist, zeigt unter anderem eine Recherche des palästinensisch-israelischen Nachrichtenmagazins +972.

„Die exorbitanten Kollateralschäden verdeutlichen die Folgen einer Kriegsführung, in der Menschen zu Zahlen reduziert werden.“

Im Beitrag beschreiben israelische Militärs, dass für die Tötung eines hochrangigen Hamas-Offiziellen kollaterale Schäden von über 100 Zivilpersonen autorisiert wurden. Wie kann hier noch von Proportionalität gesprochen werden? Die exorbitanten Kollateralschäden verdeutlichen die Folgen einer Kriegsführung, in der Menschen zu Zahlen reduziert werden.

Viele der aktuellen Angriffe in Al-Mawasi werden durch sogenannte SkyStriker Drohnen durchgeführt, die zu einem Teil in Deutschland produziert werden. Sie sind kleinere Geschütze, unbemannt und vollkommen autonom, „passend“ für dünnere Strukturen wie Zelte, der Zerstörungsradius ist „relativ“ gering, die hohe Zahl der zivilen Opfer tangiert das jedoch nicht.

„Während mit der einen Hand die Zerstörung vorangetrieben wird, erhebt die andere den moralischen Zeigefinger.“

Weiterhin ist Deutschland immer noch ein zentraler Waffenlieferant für Israel, auch in Zeiten der Waffenruhe in Gaza. Kritische Kommentare von Seiten Baerbocks gegenüber der Missachtung humanitärer Hilfeleistungen durch Israel lassen sich in diesem Kontext nur mit bitterem Beigeschmack betrachten. Während mit der einen Hand die Zerstörung vorangetrieben wird, erhebt die andere den moralischen Zeigefinger.

Derweil stoßen Versuche, in Deutschland einen konstruktiven Diskurs über Palästina zu führen, häufig an Grenzen – nicht selten wird mit Verweis auf die deutsche Staatsräson interveniert. Offiziell zur Sicherheit und zum Schutz jüdischen Lebens.

Der Kampf gegen Antisemitismus und der Schutz jüdischen Lebens in Deutschland ist essenziell, da besteht kein Zweifel. Ebenso wie der Kampf gegen jede andere Form der Diskriminierung.

Aber was bedeutet Antisemitismus, wenn selbst jüdische Stimmen in Deutschland aufgrund ihrer Kritik am Staat Israel in das antisemitische Spektrum fallen? Wenn eine kritische Auseinandersetzung mit Gaza durch politische Entscheidungen, wie bspw. die Antisemitismusresolution der Bundesregierung, im Keim erstickt wird?

„Kritische Auseinandersetzung“ bedeutet keineswegs, die Gewalttaten der Hamas am 7. Oktober 2023 und danach zu relativieren. Sie sind ein Akt der Unmenschlichkeit und müssen als solcher benannt werden. Der Krieg wird sowohl von der Hamas als auch der israelischen Regierung immer wieder provoziert.

Eine kritische Auseinandersetzung beinhaltet vielmehr, Stimmen aus gegensätzlichen Lagern einen Gesprächsraum zu geben und miteinander in Resonanz zu treten, um sich zu verstehen, aber auch sich zu widersprechen. Denn auch Dissonanzen sind Teil einer demokratischen Gesprächskultur.

Anstatt jedoch einen konstruktiven Dissens auszuhalten, in dem jüdische, israelische und palästinensische Positionen und Perspektiven Raum finden, führen die deutsche Regierung und Polizei im Namen der Sicherheit eine unerbittliche staatliche und polizeilich orchestrierte Repressions- und Zensurkampagne gegen palästinensische und nicht-palästinensische Individuen und Organisationen, die sich kritisch zur israelischen Rolle in Gaza und dem Westjordanland äußern.

Mit dem „Tunnelblick der Staatsräson“ kommentiert Kristin Helberg passend die Vermischung des Schutzes jüdischen Lebens mit der Unterstützung des Staates und der Politik Israels.

Anti-anti-semitisch sein in Deutschland heißt demnach auch, sich dem internationalen Haftbefehl von Netanjahu und Gallant zu widersetzen. So plant der künftige Bundeskanzler Friedrich Merz (CDU) Ersteren nach Deutschland einzuladen. Es gäbe „Mittel und Wege“, die Festnahme des Premiers zu umschiffen, so Merz. Internationales Völkerrecht adé!

Und was tut eigentlich Felix Klein, der Antisemitismusbeauftragte der Bundesregierung, in seinem Amt? In einem Interview äußerte er sich über die Situation im Gazastreifen und sprach davon, dass es ein radikales Neudenken brauche. Dabei zog er einen Vergleich, der in sozialen Medien kontrovers diskutiert wurde: „Während Sie Ihr Haus renovieren, schlafen Sie schließlich auch nicht darin“. Kritiker:innen werten diese Aussage als implizite Zustimmung zu einer vorübergehenden Umsiedlung von Palästinenser:innen – eine Interpretation, die für Empörung sorgte.

„Deutsche Medien greifen die Perspektive von Palästinenser:innen in Gaza und der Diaspora, wenn überhaupt, nur beschränkt auf.“

Während in Gaza tagtäglich dutzende Zivilist:innen durch israelische Bomben und Munition sterben, hören wir hier in Deutschland nur sporadisch darüber. Auch viele Deutsche und Menschen mit palästinensischer Migrationsbiografie haben Freund:innen und Angehörige in Gaza verloren, ihre Stimmen finden in Deutschland jedoch nur wenig Beachtung. Deutsche Medien greifen die Perspektive von Palästinenser:innen in Gaza und der Diaspora, wenn überhaupt, nur beschränkt auf.

Zurück zur Staatsräson: In einer Pressemitteilung der Bundesregierung wird einmal mehr betont, dass Israel das Recht hat, sich gegen die barbarischen Angriffe zu verteidigen. Deutschland steht an der Seite Israels.

Dass sich die IDF nicht gerade durch moralische Integrität auszeichnet, ja immer wieder Barbarismus an den Tag legt – wie das Flower Massacre, der Angriff auf die Al-Tabaeen Schule in Gaza City, in der Geflüchtete Schutz suchten, oder zuletzt das Massaker an 15 humanitären Helfern im März 2025 –, wird in der Pressemitteilung einfach unter den Teppich gekehrt.

Es scheint schlussendlich nicht um eine humanere und differenzierte Betrachtungsweise des Israel-Gaza-Konflikts zu gehen, nicht um die Reduzierung menschlichen Leids, um die persönliche Perspektive von Menschen im Gazastreifen, nicht um mehr Menschlichkeit. Es geht darum zu proklamieren, dass Deutschland aus der eigenen Geschichte gelernt hat.

Ob in Gaza oder Deutschland: die Frage bleibt offen, um welche Sicherheit es hier geht und wer oder was eigentlich geschützt wird. Mig 30

 

 

 

 

 

Amnesty beklagt globale Menschenrechtskrise: „Epochaler Bruch“

 

Die Kriege in der Ukraine und im Nahen Osten, die Politik der neuen US-Regierung unter Trump: Amnesty International sieht die Menschenrechte in vielen Teilen der Welt in Gefahr. Es gebe aber auch positive Entwicklungen.

Die Menschenrechtsorganisation Amnesty International hält der internationalen Staatengemeinschaft vor, beim Schutz der Menschenrechte global zu versagen. „Wir erleben einen epochalen Bruch: Rechtsstaat, Völkerrecht und Menschenrechtsschutz werden von einer Vielzahl von Staaten missachtet und angegriffen.“

Das erklärte die Generalsekretärin von Amnesty International in Deutschland, Julia Duchrow, zur Veröffentlichung des Jahresberichts der Organisation am Dienstag. Menschenrechtsverletzungen würden zudem nicht mehr geleugnet oder vertuscht, sondern ausdrücklich gerechtfertigt.

Globale Menschenrechtskrise

Der Bericht dokumentiere eine globale Menschenrechtskrise, so Duchrow. Bewaffnete Konflikte eskalierten und das Völkerrecht werde von seinen einstigen Verfechtern missachtet. Die Rechte von Geflüchteten und marginalisierten Gruppen würden in vielen Ländern beschnitten. Politiker mit autoritärer Agenda griffen Rechtsstaatlichkeit und Menschenrechte offen an. Zugleich gebe es aber auch positive Entwicklungen: So hätten sich im vergangenen Jahr weltweit viele Menschen gegen Unrecht und Unterdrückung zur Wehr gesetzt, etwa in Georgien und in Südkorea.

Kritik an Koalitionsverträgen 

Konkret kritisiert Amnesty etwa den von Union und SPD vorgelegten Koalitionsvertrag. Die darin angekündigte „Zeitenwende in der inneren Sicherheit“ bediene rassistische Feindbilder, instrumentalisiere das Aufenthalts- und Migrationsrecht, blähe die Überwachung auf und greife die Zivilgesellschaft an. Der US-Regierung unter Präsident Donald Trump warf Duchrow vor, ein Brandbeschleuniger der globalen Menschenrechtskrise zu sein. Amnesty hat für den Jahresbericht nach eigenen Angaben die Lage der Menschenrechte in 150 Ländern untersucht. (kna/amnesty 29)

 

 

 

 

 

100 Tage Trump: Gravierende Folgen für Menschenrechte und Afrika

 

Die neue US-Administration unter Donald Trump ist am 29. April 100 Tage im Amt. Beim Grenzschutz, Klimapolitik und Entwicklungshilfe greift die Administration hart durch. Der Überblick zeigt, wie umfassend Trump das Land verändert – weit über die Landesgrenzen hinaus:

US-Präsident Donald Trump hat die Vereinigten Staaten und die Beziehungen Washingtons zum Rest der Welt in einem atemberaubenden Tempo verändert. Seine Mitarbeiter sprechen gerne von Trump-Geschwindigkeit. Trump, der am Dienstag 100 Tage im Amt ist, schuf mit mehr als hundert Dekreten Fakten in fast allen Bereichen. Für viele Außenstehende ist dabei kaum zu verstehen, wie wenig Widerstand sich in den USA regt. Eine Auswahl der wichtigsten Entwicklungen:

Grenzschutz

Trump hat die Südgrenze befestigt und dort laut dem Sender CBS News rund 7.000 Streitkräfte stationiert. Der Präsident stellt die Migration aus Mittelamerika als „Invasion der Illegalen“ und als Bedrohung dar. Für seine Maßnahmen greift er auf ein „Gesetz gegen ausländische Feinde“ aus dem Jahr 1798 zurück, um ausländische Staatsbürger auszuweisen. Trump hat mit dem Präsidenten von El Salvador, Nayib Bukele, vereinbart, Migranten gegen Bezahlung einzusperren. Laut CNN hat die Regierung zudem mehr als eintausend ausländischen Studentinnen und Studenten Aufenthaltsgenehmigungen entzogen, teils wegen politischer Betätigung, teils wurden die Gründe nicht veröffentlicht.

Abschiebungen

Im Wahlkampf hatte Trump die größte Massenabschiebung in der Geschichte versprochen. Das ist nicht ganz eingetreten. Die Regierung legt keine aktuellen Zahlen vor. Nach Angaben der Informationsfreiheitsorganisation Transaction Records Access Clearinghouse hat Trump vom 26. Januar bis 8. März jeden Tag im Durchschnitt 661 Menschen abgeschoben. Das sind elf Prozent weniger als sein Amtsvorgänger Joe Biden in den ersten 100 Tagen seiner Amtszeit. Geschätzt rund elf Millionen Menschen leben in den USA ohne Papiere, etwa drei Prozent der Bevölkerung.

Groteske Abschiebung

Um die Zahlen anzukurbeln nimmt die Trump-Administration bisweilen groteske Wege: US-Staatsbürger abzuschieben oder in Abschiebehaft zu nehmen, ist laut Gesetz nicht möglich. Ein US-Bundesrichter prüft derzeit dennoch den Fall einer Zweijährigen, die wohl trotz ihrer US-Staatsbürgerschaft nach Honduras abgeschoben worden ist. Es gebe den dringenden Verdacht, dass die Regierung eine US-Bürgerin „ohne aussagekräftiges Verfahren“ abgeschoben habe, schrieb der Richter eines Bezirksgerichts in Louisiana, Terry A. Doughty, in einer Entscheidung am Freitag. Dem Gerichtsdokument zufolge wurde das Kind gemeinsam mit seiner Mutter, die illegal in die USA eingewandert sein soll, nach Honduras gebracht. „Die Regierung behauptet, dass dies alles in Ordnung sei, weil die Mutter wünsche, dass das Kind mit ihr abgeschoben werde“, schreibt Doughty.

Abschiebe-Richterin festgenommen

In einem weiteren aktuellen Fall geht es um die Festnahme einer Richterin im US-Bundesstaat Wisconsin – ihr wird vorgeworfen, einem Migranten ohne gültige Papiere geholfen zu haben. Es gebe Beweise dafür, dass die Richterin die Festnahme eines Migranten habe verhindern wollen, schrieb FBI-Direktor Kash Patel auf der Plattform X. Nach einer ersten Anhörung vor Gericht kam die Richterin zunächst wieder auf freien Fuß. Die Festnahme einer Richterin ist eine weitere Eskalation im Streit der Regierung von Präsident Donald Trump mit der Justiz über Abschiebungen.

Angriff auf Menschenrechte

Human Rights Watch wirft der Trump-Regierung einen „unerbittlichen Angriff“ auf die Menschenrechte vor. Trump habe in seinen ersten hundert Tagen den Menschenrechten „enormen Schaden“ zugefügt, erklärte Tanya Greene, Direktorin der US-Programme von Human Rights Watch. Die Regierung habe Migranten nach El Salvador abgeschoben unter Umständen, die einem „erzwungenen Verschwinden“ gleichkämen, führte Human Rights Watch aus. Zudem seien Asylsuchende unter Verletzung internationalen Rechts nach Panama und Costa Rica deportiert worden.

Entwicklungshilfe

Mithilfe von „Effizienzberater“ Elon Musk hat Trump zudem die Entwicklungsbehörde USAID de facto aufgelöst. Hilfsorganisationen haben von gravierenden Folgen berichtet. USAID sei von ihrem Auftrag der Stärkung nationaler Interessen abgewichen, begründete Außenminister Marco Rubio. Ende April machte Rubio bekannt, er werde sein Ministerium umstrukturieren. Unklar bleibt, ob und wie die Entwicklungshilfe darin Platz findet.

Kenia

In Kenia werden die Kürzungen unter anderem zu massiven Jobverlusten beispielsweise im Gesundheitssektor führen, sodass das Durchschnittseinkommen pro Kopf laut dem afrikanischen Thinktank ISS um 98 US-Dollar sinken wird. Zugleich besteht die Hoffnung, dass die Bevölkerung die Regierung künftig mehr zur Verantwortung zieht und neue Strukturen entstehen, die sich am tatsächlichen Bedarf und nicht an den Schwerpunkten der Förderer ausrichten.

Kongo

Im Kongo herrscht seit Jahren eine der größten humanitären Krisen. In den vergangenen Monaten hat sich die Lage durch die Gewalt im Land noch deutlich verschlechtert, 28 Millionen Menschen hungern nach UN-Angaben. Die USA haben entscheidend zu den UN-Bemühungen im Kampf gegen den Hunger beigetragen, zuletzt im November mit vier Millionen US-Dollar für Lebensmittel und die Verteilung von Hilfsgütern in abgelegenen Orten sowie medizinischer Hilfe und Sondernahrung für mangelernährte Kinder. Nun schlagen die UN Alarm, weil sich die Krise wegen fehlender Mittel verschärfen wird.

Uganda

66 Prozent der USAID-Förderung für Uganda wurde gestrichen, das ostafrikanische Land gehört zu den am stärksten von den Einschnitten betroffenen Staaten. Besonders gefährdet ist die Versorgung von HIV-Positiven. Noch gibt es nach UN-Angaben genug HIV-Testkits und Medikamente. Doch ein Teil davon kommt nicht mehr in den lokalen Kliniken an, weil viele mit US-Mitteln betriebene Einrichtungen reduziert arbeiten oder ganz geschlossen haben. Im Budget für das kommende Haushaltsjahr hat Uganda den Posten für Gesundheit erhöht – allerdings bei Weitem nicht auf den vom Gesundheitsministerium geforderten Betrag. Rund fünf Prozent der Bevölkerung leben mit dem HI-Virus, vor allem Frauen, etwa 20.000 Menschen sterben jedes Jahr an den Folgen.

Senegal

In Senegal wurde aufgrund des US-Hilfsstopps das größte Malariaprojekt geschlossen, das Moskitonetze, Medikamente und diagnostische Tests an Zehntausende Menschen verteilt hat. 2023 zählte die WHO knapp 1,2 Millionen Malaria-Fälle im Senegal, bei einer Bevölkerung von fast 19 Millionen. Die Regierung kündigte an, unabhängiger von internationaler Hilfe werden zu wollen, konkret wurde sie jedoch bisher nicht.

Burkina Faso

Programme für den Zugang der ländlichen Bevölkerung zu Trinkwasser und zur Anpassung an den Klimawandel wurden in Burkina Faso aufgrund der US-Kürzungen unter anderem eingestellt. Die Sahelzone gehört zu den am stärksten von der Erderwärmung betroffenen Regionen weltweit. Wasser wird dort zur immer knapperen Ressource, die bestehende Konflikte weiter verschärft. Laut einem Bericht der Organisation Insecurity Insight hat die Aussetzung der US-Finanzierung zudem die negative Wahrnehmung internationaler Hilfe verstärkt, während Russland im Vergleich als zuverlässiger und respektvoller Partner wahrgenommen wird.

Südafrika

Südafrika gehört laut Weltgesundheitsorganisation (WHO) zu den Ländern mit hoher Tuberkulose-Prävalenz, mit rund 54.000 Todesfällen 2022. Doch das Land konnte die Inzidenzen in den vergangenen zehn Jahren um über 50 Prozent senken. Dabei war die Finanzierung von USAID vor allem bei Diagnostik, Kontaktverfolgung und Versorgung mit Medikamenten entscheidend. Nun rechnen Experten mit einem deutlichen Anstieg der Ansteckungsrate sowie einer Zunahme resistenter Tuberkulose wegen Unterbrechungen der Medikamenteneinnahme.

Klima

Trump will amerikanische Energieressourcen „entfesseln“ und die Kohleindustrie fördern. Regulierende Vorschriften der Bundesstaaten bedrohten die „Energiedominanz“ der USA. Man erlebe ein „unglaubliches Zurückdrehen so ziemlich aller Klimavorschriften seit 1970“, sagte Klimaexperte Bill McKibben vom Verband 350.org im Rundfunksender NPR.

Das dürfte weitreichende und unumkehrbare Folgen für das Klima haben. Die größten Leidtragenden dürften wieder die ärmsten Länder haben im globalen Süden haben. Der Klimawandel ist inzwischen eines der größten Fluchtursachen weltweit. Millionen Menschen müssen ihre Heimat verlassen, weil zunehmende Naturkatastrophen ein Überleben in ihren Lebensräumen unmöglich machen. Die meisten Menschen flüchten in Nachbarländer, nicht wenige zieht es aber reiche Industriestaaten im globalen Norden. Da schließt sich der Kreis der trumpschen Migrations-, Entwicklungs- und Klimapolitik wieder. (epd/dpa/mig 29)

 

 

 

 

 

Angst und Verunsicherung. Steigender Abschiebedruck, mehr Kirchenasyl

 

Die Zahl der Kirchenasyl-Fälle hat spürbar zugenommen. Der Evangelische Kirche zufolge gibt es auch mehr Anfragen – zu viele. Grund sei der „gestiegene Abschiebedruck“ in Deutschland. Die Unruhe unter Schutzsuchenden wachse ebenfalls.

Die Nachfrage nach Kirchenasyl hat nach Einschätzung einzelner Flüchtlingsbeauftragter in den evangelischen Landeskirchen erheblich zugenommen – vor allem aus wachsender Angst vor Abschiebung. Die Rückmeldung von Flüchtlingsbeauftragten und den zuständigen Ansprechpersonen für Kirchenasyl machten deutlich, dass die Zahl der Anfragen stark gestiegen sei, erklärte die Evangelische Kirche in Deutschland (EKD) auf Anfrage der Tageszeitungen der Funke Mediengruppe.

Auf dpa-Nachfrage erläuterte eine Sprecherin, die EKD führe keine zentrale Erfassung von Kirchenasylfällen. Auch über Anfragen in einzelnen Kirchengemeinden oder Kirchenkreisen lasse sich keine bundesweite Statistik führen. Die Einschätzungen beruhten auf punktuellen Rückmeldungen aus einzelnen Landeskirchen – insbesondere von Flüchtlingsbeauftragten und Ansprechpersonen für Kirchenasyl.

„Nach deren Einschätzung ist die Zahl der Anfragen im Zuge eines gestiegenen Abschiebedrucks vielerorts deutlich angestiegen, teilweise haben sich die Anfragen mehr als vervierfacht“, so die Sprecherin. „Zugleich wird berichtet, dass aufgrund der großen Nachfrage oft kein Kirchenasyl gefunden werden kann und Betroffene schutzlos bleiben.“

Angst und Verunsicherung

Auch die Vorsitzende der Ökumenischen Bundesarbeitsgemeinschaft Asyl in der Kirche, Dietlind Jochims, berichtet über eine wachsende Angst und Verunsicherung bei Menschen mit ungesichertem Aufenthalt. Diese Angst führe auch zu einer stark steigenden Zahl von Anfragen nach kirchlichem Schutz, sagte Jochims den Funke-Zeitungen.

Wie die Mediengruppe unter Berufung auf das Bundesamt für Migration und Flüchtlinge (Bamf) berichtet, meldeten die evangelischen, katholischen und freien Gemeinden im ersten Quartal 2025 insgesamt 617 Fälle von Kirchenasyl. Im selben Zeitraum 2024 waren es demnach 604 Fälle. 2024 seien es insgesamt 2.386 Fälle gewesen. (dpa/mig 29)

 

 

 

 

 

 

Sipri-Bericht. Weltweite Militärausgaben erneut auf Höchststand

 

Im zehnten Jahr in Folge sind die weltweiten Militärausgaben gestiegen – besonders stark in Europa und im Nahen Osten. Deutschland ist als einziges westeuropäisches Land unter den Top fünf. Von Miriam Arndts

Die weltweiten Militärausgaben sind 2024 zum zehnten Mal in Folge gestiegen. Rund 2,72 Billionen US-Dollar (etwa 2,38 Billionen Euro) wandten alle Staaten zusammen für das Militär auf, wie das Stockholmer Friedensforschungsinstitut Sipri in seinem neuen Bericht mitteilte. Das waren inflationsbereinigt 9,4 Prozent mehr als 2023 – der größte Anstieg von einem aufs nächste Jahr seit dem Ende des Kalten Krieges im Jahr 1991.

Besonders stark war der Anstieg dem Institut zufolge in Europa und im Nahen Osten, was mit den Kriegen in der Ukraine und im Gazastreifen sowie dem Konflikt zwischen Israels und der Hisbollah im Libanon begründet werden könne.

Deutschland bleibt knapp hinter Nato-Zielmarke

Deutschland verbrauchte laut Sipri 88,5 Milliarden Dollar (rund 77,6 Milliarden Euro) für das Militär und lag somit zum ersten Mal seit der Wiedervereinigung vor allen anderen Ländern Zentral- und Westeuropas. Weltweit kam die Bundesrepublik auf Platz vier, hinter dem Spitzenreiter USA sowie China und Russland auf den Plätzen zwei und drei.

Mit einem Anstieg der deutschen Militärausgaben von 28 Prozent im Vergleich zum Vorjahr zeigte das 2022 beschlossene Sondervermögen für die Bundeswehr seine Wirkung. Trotzdem blieb die Bundesrepublik mit 1,9 Prozent knapp hinter dem Nato-Ziel, 2 Prozent des Bruttoinlandsprodukts (BIP) in die Verteidigung zu stecken.

Mehr Rüstung, mehr Flucht

Greenpeace kritisierte die steigenden Militärausgaben Deutschlands. Friedensexperte Thomas Breuer sagte: „Statt dringend in Bildung, Klimaschutz oder soziale Sicherheit zu investieren, verschulden sich Länder wie Deutschland weiter, um ihre Rüstungshaushalte mit enormen Summen auszubauen.“ Dies führe zu „einer neuen Rüstungsspirale, die Misstrauen zwischen Staaten schafft und damit zu wachsender Unsicherheit führt.“

Erhöhte Ausgaben für Waffen und Militär tragen nicht nur zu neuen Spannungen zwischen Staaten bei – sie sind auch eine der zentralen Ursachen für Flucht und Vertreibung weltweit. Nach Angaben des UN-Flüchtlingshilfswerks UNHCR sind gewaltsame Konflikte weiterhin der Hauptgrund dafür, dass Millionen Menschen ihre Heimat verlassen müssen. 2023 waren weltweit mehr als 114 Millionen Menschen auf der Flucht – so viele wie nie zuvor.

USA seit Jahren unangefochtene Nummer eins

Der Sipri-Bericht zeigt, dass alle europäischen Staaten – mit Ausnahme von Malta – ihre Militärausgaben 2024 erhöhten. Russland war mit 149 Milliarden Dollar (knapp 131 Milliarden Euro) das Land in Europa, das mit Abstand am meisten für sein Militär ausgab. Das entsprach 7,1 Prozent des russischen BIP.

Die von Russland angegriffene Ukraine verwandte 64,7 Milliarden Dollar (rund 56,7 Mrd. Euro) darauf. Mit 34 Prozent war die Ukraine weltweit das Land, das den größten Anteil seines BIP für seinen Militärapparat ausgab.

Die USA, seit Jahren die unangefochtene Nummer eins bei den Militärausgaben, machten mit 997 Milliarden Dollar (874 Milliarden Euro) 37 Prozent der weltweiten militärischen Aufwendungen aus. Ein erheblicher Anteil des US-Haushalts war dem Bericht zufolge für die Modernisierung der militärischen Fähigkeiten und des US-Atomwaffenarsenals vorgesehen.

China steigerte seine Aufwendungen um sieben Prozent und verzeichnete somit drei Jahrzehnte ununterbrochenen Anstiegs seiner Militärausgaben. Die schätzungsweise 314 Milliarden Dollar (etwa 275 Milliarden Euro) gab China dem Bericht zufolge unter anderem für den Ausbau seiner Fähigkeiten auf dem Gebiet des Cyberkriegs sowie seines Atomwaffenarsenals aus.

Bedrohung durch Russland und möglicher Nato-Rückzug der USA

Während 2023 elf Nato-Mitglieder die Zielmarke des Militärbündnisses, mindestens 2 Prozent ihres BIP für die Verteidigung auszugeben, erreichten, waren es 2024 gemäß der Sipri-Methodik 18 der 32 Nato-Mitglieder. Der rasche Anstieg der Ausgaben bei den europäischen Nato-Mitgliedern lässt sich laut Sipri-Forscherin Jade Guiberteau Ricard mit der andauernden Bedrohung durch Russland erklären sowie mit dem möglichen Rückzug der USA aus dem Bündnis.

Sie unterstrich, dass eine Erhöhung der Ausgaben allein jedoch nicht unbedingt zu einer deutlich größeren militärischen Leistungsfähigkeit oder Unabhängigkeit von den USA führe. „Das sind weitaus komplexere Aufgaben“, sagte die Sipri-Expertin.

Israels Militärausgaben-Anstieg der höchste seit 1967

Im Nahen Osten stiegen die Militärausgaben laut Sipri zwar insgesamt, aber eine markante Erhöhung verzeichneten nur Israel und der Libanon. Israels Ausgaben stiegen demnach mit 65 Prozent so stark wie seit dem Sechstagekrieg 1967 nicht mehr, auf 46,5 Milliarden Dollar (knapp 41 Milliarden Euro) – was mit dem andauernden Krieg im Gazastreifen sowie dem eskalierten Konflikt Israels mit der Hisbollah im südlichen Libanon zusammenhing.

Israels Erzfeind Iran war eines der Länder, dessen Militärausgaben 2024 dem Bericht zufolge sanken – und das, obwohl der Iran mehrere Gruppen in der Region, wie die Hamas und die Hisbollah, unterstützte. Die dem Land auferlegten Sanktionen führten laut Sipri zu einem Rückgang der Militärausgaben von 10 Prozent auf 7,9 Milliarden Dollar (knapp 7 Milliarden Euro).

Der jährlich erscheinende Sipri-Bericht zu den Militärausgaben in aller Welt gilt als umfassendste Datensammlung dieser Art. Die Friedensforscher stützen sich dabei auf offizielle Regierungsangaben zum Verteidigungshaushalt und auf weitere Quellen und Statistiken – deshalb weichen die Zahlen traditionell von den Angaben der Nato und einzelner Länder ab. Zu den Ausgaben zählt Sipri auch Aufwände für Personal, Militärhilfen sowie militärische Forschung und Entwicklung. (dpa/mig 29)

 

 

 

 

 

Rassismus-Debatte nach tödlichen Polizei-Schüssen entflammt

 

Nach den tödlichen Polizeischüssen in Oldenburg auf einen 21-jährigen Schwarzen sind viele Fragen ungeklärt. Warum gibt es keine Aufnahmen aus Bodycams? Und warum ermitteln Polizisten gegen ihre eigenen Kollegen? Der Fall bewegt viele Menschen.

Mehr als eine Woche nach dem gewaltsamen Tod von Lorenz A., ein junger Schwarzer Mann, durch Polizeischüsse in der Oldenburger Fußgängerzone sind noch immer viele Fragen offen – manche Umstände stoßen auf Unverständnis. Eine Initiative von Menschen mit Migrationshintergrund sieht in den Schüssen auf den 21-Jährigen den Beleg eines systemimmanenten Rassismus in der Polizei. Kritik gibt es zudem wegen fehlender Aufnahmen von den Bodycams der Einsatzkräfte.

In den sozialen Medien fordern Menschen lückenlose Aufklärung und Gerechtigkeit, die Stimmung ist aufgeheizt. Auch im Stadion des FC Bayern München bewegte der Fall die Menschen. „Rassistische Mörderbullen ermitteln gegen rassistische Mörderbullen“ und „Gerechtigkeit für Lorenz“ war während des Bundesliga-Spiels des deutschen Fußball-Rekordmeisters gegen Mainz auf Bannern im Stadion zu lesen.

Kritiker: Das Fehlen von Bodycam-Aufnahmen ist ein Skandal

Ein Polizist hatte in der Nacht zu Ostersonntag fünfmal in Richtung des 21-Jährigen geschossen. Laut Obduktion wurde Lorenz an der Hüfte, am Oberkörper und am Kopf verletzt. Drei Schüsse trafen ihn von hinten, ein vierter Schuss soll ihn am Oberschenkel gestreift haben. Der 27 Jahre alte Schütze wurde vorläufig suspendiert. Die Staatsanwaltschaft Oldenburg führt gegen den Beamten ein Verfahren wegen Totschlags. Beides ist in solchen Fällen üblich. Kritisch bewertet wird, dass die benachbarte Polizei-Dienststelle Delmenhorst die Ermittlungen übernimmt. Das Mobiltelefon des betroffenen Polizisten wird geprüft, der polizeiliche Funkverkehr aus der Nacht ausgewertet. Am Sonntag gab es zunächst keine neuen Erkenntnisse der Behörden.

Aufnahmen der Bodycams der Polizisten, die bei dem Einsatz dabei waren, stehen nicht zur Verfügung, weil die Geräte nicht eingeschaltet gewesen seien, hieß es von den Ermittlern. „Nach meiner Einschätzung hätte die Kamera in diesem Fall eingeschaltet sein müssen“, sagte der Anwalt von Lorenz‘ Mutter, Thomas Feltes, der „HAZ“. Eine laufende Kamera hätte dem Juristen zufolge einen präventiven Effekt haben können.

„Müssen System umfassend in den Blick nehmen“

Dass Polizisten zwar Bodycams trugen, aber nicht eingeschaltet hatten, bezeichnete Rafael Behr von der Akademie der Polizei Hamburg bei RTL/ntv als „Skandal“. In der Rückschau seien schon so viele Dinge passiert, für welche die Bodycam hätte Aufklärung bringen können.

Der Kriminologe Tobias Singelnstein kritisiert einen anderen Aspekt der polizeilichen Ermittlungen. „Ermittlungen durch die benachbarte Dienststelle ist das schlechteste Modell, was wir in Deutschland haben“, sagte Singelnstein der Deutschen Presse-Agentur. „Es gibt Bundesländer, die einen Schritt weiter sind und spezialisierte Dienststellen geschaffen haben, die beim Landeskriminalamt angesiedelt sind oder sogar ganz selbstständig sind.“

Kriminologe: unvoreingenommene Ermittlung kann schwierig sein

Aus Sicht des Kriminologen sind Ermittlungen von Polizisten in benachbarten Dienststellen eine problematische Konstellation. „Man muss gar nicht davon ausgehen, dass aktiv versucht wird, die Beschuldigten zu bevorteilen“, meint der Professor für Kriminologie und Strafrecht von der Goethe-Universität Frankfurt. „Nur wenn man selbst diese Situation oder sogar den Beschuldigten kennt, geht man mit einem anderen Verständnis an so ein Verfahren heran. Es ist dann schwierig, völlig unvoreingenommen zu sein.“

Die tödlichen Schüsse müssten kritisch untersucht werden. „Man wird sich sehr genau anschauen müssen, warum dieser Einsatz so eskaliert ist und was dazu beigetragen hat, dass es so eskaliert ist“, sagte Singelnstein. Die meisten Ermittlungen gegen Polizisten wegen rechtswidriger Gewalt werden schließlich eingestellt, wie der Forscher berichtet. „Nur etwa zwei Prozent der Fälle kommen am Ende vor Gericht.“

Nach Angaben der Ermittler hatte der Deutsche zuvor vor einer Diskothek Reizgas versprüht und mehrere Menschen leicht verletzt. Dann flüchtete er. Als Streifenpolizisten ihn hätten stellen wollen, sei er bedrohlich auf die Beamten zugegangen und habe Reizgas in ihre Richtung gesprüht.

Opfer zu Täter gemacht

„Ich frage mich tatsächlich, wie viele Leute eigentlich noch sterben müssen, dass man nicht nur von Einzelfällen spricht, sondern dass wir wirklich mal das System umfassend in den Blick nehmen, um solche Dinge zu verhindern“, sagte Tahir Della aus dem Vorstand der Initiative Schwarze Menschen in Deutschland (ISD) der Deutschen Presse-Agentur.

Er halte es für unfassbar, dass nach wie vor eine solche Tat geschehen könne, sagte Della. Immer noch würden nach solchen tödlichen Polizeieinsätzen von Medien und der Polizei nach Rechtfertigungen gesucht. „Dann werden die Opfer von Polizeigewalt zu Tätern stigmatisiert“, kritisierte Della. Es sei falsch, nur dann von rassistischen Handlungen zu sprechen, wenn man jemanden eine rassistische Haltung nachweisen könne oder ein Mensch eine rassistische Motivation offen zugebe.

Grünen-Politiker fordert Aufklärung

Der Tod des 21-jährigen Lorenz mache ihn betroffen, sagte der Grünen-Vorsitzende, Felix Banaszak. Der Co-Parteichef sagte der Deutschen Presse-Agentur: „Bei Menschen, die Rassismus, Diskriminierung und Ausgrenzung ausgesetzt sind, lösen solche Fälle existenzielle Ängste aus, sie sind verunsichert und erschüttert.“

Denn für sie gelte: „Sie wissen nicht, ob sie sich darauf verlassen können, dass sie hier sicher sind, dass sie dem Staat und seinen Institutionen vertrauen können“. Er betonte, die Polizei leiste tagtäglich wichtige Arbeit für die Gesellschaft. Es sei aber wichtig, dass „jegliche Zweifel an der Rechtmäßigkeit der Maßnahme restlos ausgeräumt und der Fall haarklein aufgearbeitet“ werde.

Tausende fordern bei Demo Aufklärung

Zu einer Kundgebung und Demonstration in der Oldenburger Innenstadt waren am Freitag Tausende gekommen. Es waren Menschen unterschiedlichen Alters und unterschiedlicher Hautfarbe. Sie fragten sich: Warum musste dieser junge Mann sterben?

Viele hielten Schilder hoch. „Er wurde ermordet. Kein Vergeben. Kein Vergessen.“ Andere formulierten mit Fragezeichen: „Tödliche Gewalt? Oder tödlicher Rassismus?“ Aus Sicht von ISD-Vorstand Della ist es nun notwendig, dass ein Verhalten wie das des Schützen in Oldenburg für die Polizeibeamten wirkliche Konsequenzen habe. Es sei nicht damit getan, sie in den Innendienst zu versetzen oder sie für ein paar Wochen vom Dienst zu suspendieren. „Es muss wirklich eine handfeste Bestrafung und eine handfeste Verfolgung von solchen Fällen geben“, sagte Della.

Nach der Demonstration sprach die Polizei von einem weitgehend störungsfreien Verlauf. Polizeivizepräsident Arne Schmidt sagte: „Der Tod von Lorenz A. bewegt viele Menschen zutiefst – auch innerhalb der Polizei.“

„Gerechtigkeit für Lorenz“ in sozialen Medien

In den sozialen Medien wächst derweil der Unmut. Viele befürchten, dass die Schüsse auf den Schwarzen einen rassistischen Hintergrund haben könnten. Unter den Hashtags #gerechtigkeitfürlorenz und #justiceforlorenz mehren sich Stimmen gegen Polizeigewalt und Rassismus. „Das war kein Einzelfall – das war tödliche Polizeigewalt“, heißt es etwa auf Instagram. Oft zu sehen ist ein Foto des Toten mit dem Zitat: „Wer vier Schüsse von hinten abgibt, will nicht stoppen – sondern töten!“

Zahl tödlicher Polizeischüsse 2024 auf Höchststand

Die Innenministerkonferenz der Bundesländer veröffentlicht jedes Jahr eine neue Statistik zum polizeilichen Schusswaffengebrauch des Vorjahres. In Deutschland ist die Zahl tödlicher Polizeischüsse im Jahr 2024 auf einen Höchststand gestiegen. Nach einer Auswertung von Polizeiberichten durch die Deutsche Presse-Agentur starben 2024 bundesweit 22 Menschen bei Schusswaffengebrauch durch die Polizei.

Die Fachzeitschrift „CILIP – Bürgerrechte & Polizei“ dokumentiert die Todesfälle und Hintergründe ab dem Jahr 1976 und gleicht diese mit Statistiken der Innenministerkonferenz ab. In den Vorjahren lag die Zahl deutlich niedriger: 2023 waren es zehn, 2022 elf und 2021 acht Tote. Insgesamt starben seit 2015 141 Menschen an tödlichen Polizeischüssen. (dpa/mig 28)

 

 

 

 

 

Integrationsministerkonferenz. Länder wollen Einwanderung von Fachkräften stärken

 

Migration wird nach Einschätzung der zuständigen Minister oft nur einseitig diskutiert. Weil der Bedarf etwa für den Arbeitsmarkt offensichtlich sei, sollen Hürden weg. In der Kritik steht aber auch die Integrationsministerkonferenz selbst.

Die Integration von Geflüchteten in den deutschen Arbeitsmarkt soll nach dem Willen der Länder weiter erleichtert und beschleunigt werden. Damit dies gelinge, müssen die Beratungs- und Unterstützungsstrukturen gestärkt werden, sagte Niedersachsens Sozialminister Andreas Philippi (SPD) nach einer zweitägigen Konferenz der für Integration zuständigen Länderminister in Göttingen.

„Mittlerweile hat mehr als jeder vierte Einwohner in der Bundesrepublik eine Migrationsgeschichte“, sagte Philippi als aktuell Vorsitzender der 20. Integrationsministerkonferenz. Die Erwerbszuwanderung sei auch wegen der demografischen Entwicklung notwendig. Der Anteil von Beschäftigten ohne deutsche Staatsangehörigkeit sei in vielen systemrelevanten Branchen hoch.

Kritik: Verfahren dauern grundsätzlich zu lang

„Allein in Schleswig-Holstein haben wir fast 10.000 Geduldete, von denen viele wegen hoher bürokratischer Hürden nur verspätet einen Zugang zum Arbeitsmarkt erhalten“, sagte die Integrationsstaatssekretärin Silke Schiller-Tobies aus Kiel. Die Verfahren dauern aus ihrer Sicht zu lange und sind zu aufwendig.

In aktuellen Diskussionen stehen Minister Philippi zufolge aber die Herausforderungen von Migration im Vordergrund. „Diese einseitig geführte Perspektive sorgt dafür, dass Ressentiments gegenüber Menschen mit Migrationsgeschichte zunehmen und ihr Vertrauen in unseren Staat und unsere Gesellschaft geschwächt wird“, sagte der Sozialminister aus Hannover.

Ungleiche Verteilung in den Ländern

In dem einstimmig verabschiedeten Leitantrag „Zusammen leben – zusammen arbeiten“ betonten die Minister, dass Deutschland auf Migration angewiesen sei, wenn der Wohlstand verteidigt werden solle. Aus dem aktuellen Monitoring zur Integration gehe aber eine unterschiedliche Verteilung in den Ländern hervor.

Während der Anteil der Bevölkerung mit Migrationsgeschichte in den Stadtstaaten sowie in Hessen und Baden-Württemberg bei über einem Drittel liege, sei den ostdeutschen Flächenländern nur rund jede zehnte Person selbst zugewandert oder habe mindestens ein zugewandertes Elternteil.

„Die Integrationsministerkonferenz bleibt hinter ihren Möglichkeiten zurück“, kritisierte die Grünen-Bundestagsabgeordnete Filiz Polat. „Ihre Empfehlungen verhallen ungehört, weil es ihr an Lautstärke, Klarheit und Gestaltungswillen fehlt“, sagte Polat. Integration sei kein Randthema – sie gehöre ins Zentrum der politischen Agenda. (dpa/mig 28)

 

 

 

 

 

Vatikan: Trump und Selenskyj vereinbaren Fortführung von Verhandlungen

 

Ein unerwarteter Haken päpstlicher Diplomatie: Am Rand des Requiems für Papst Franziskus auf dem Petersplatz fanden US-Präsident Trump und der ukrainische Präsident Selenskyj kurz die Gelegenheit, miteinander zu sprechen. Auch der französische Präsident Macron und Englands Premier Starmer gesellten sich dazu.

Der ukrainische Präsident Wolodymyr Selenskyj und US-Präsident Donald Trump haben sich kurz vor der Beerdigungsmesse von Papst Franziskus im Petersdom getroffen. Das Weiße Haus bezeichnete das 15-minütige Treffen als „sehr produktiv“; Selenskyj nannte es später „sehr symbolisch“ mit dem „Potenzial, historisch zu werden“, sollte man „gemeinsame Ziele erreichen“.

Die beiden Staatschefs wurden wenige Minuten vor dem Beginn der Beerdigung von Papst Franziskus inintensivem Austausch voreinander sitzend fotografiert. Das Treffen war vor der Beerdigung bereits als Möglichkeit angekündigt worden, war aber wegen der eventuellen Abwesenheit Selenskyjs bis zuletzt ungewiss.

Am Vortag hatte Trump nach Gesprächen zwischen seinem Gesandten Steve Witkoff und dem russischen Präsidenten Wladimir Putin am Freitag in Moskau erklärt, Russland und die Ukraine stünden „sehr kurz vor einer Einigung“. Es war das erste Mal, dass sich die beiden Staatschefs gegenübersaßen, seit das in Mondovision übertragene Gespräch zwischen Selenskyj und Trump im Oval Office des Weißen Hauses Ende Februar mit einem Eklat endete – diesmal fand der Austausch allerdings ohne indiskrete Zuschauer statt.

Produktiv und möglicherweise historisch

Dem Kommunikationsdirektor des Weißen Hauses, Steve Cheung, zufolge war der Austausch am Rand des Requiems „sehr produktiv“. Die ukrainische Präsidentschaft veröffentlichte ein weiteres gemeinsames Foto aus dem Vatikan, auf dem auch der britische Premierminister Keir Starmer und der französische Präsident Emmanuel Macron zu sehen waren. Laut dem ukrainischen Präsidentensprecher Serhii Nikiforov vereinbarten Selenskyj und Trump, die Verhandlungen fortzusetzen. Selenskyj sprach auf dem Nachrichtendienst X von einem „guten Treffen“, das „historisch werden könnte, wenn gemeinsame Ergebnisse erzielt werden“. Der ukrainische Präsident forderte insbesondere „einen vollständigen und bedingungslosen Waffenstillstand“ und „einen verlässlichen und dauerhaften Frieden, der den Ausbruch eines neuen Krieges verhindert“.

Ukrainischer Gegenvorschlag

Laut New York Times wurde in dem Gespräch auch über das ukrainische Gegengebot zum Vorschlag des Weißen Hauses zur Beendigung des Krieges gesprochen. Ein Plan, der den Einsatz eines „europäischen Sicherheitskontingents“ vorsieht, das von den USA unterstützt wird, ohne jedoch die vollständige Rückgabe der von Russland besetzten Gebiete oder den Nato-Beitritt Kyivs zu erwähnen – zwei Punkte, die Selenskyj seit Langem als nicht verhandelbar bezeichnet.

Unterdessen teilte der Kreml-Sprecher Dmitri Peskow aus Moskau mit, dass der russische Generalstabschef den Präsidenten Putin über den „Abschluss der Operation“ zur Befreiung der russischen Region Kursk informiert habe, die seit August 2024 teilweise von den Ukrainern besetzt war.

Gelegenheit für viele Begegnungen

Im Rahmen der Trauerfeier für Franziskus fanden an diesem Samstag viele weitere bilaterale Kurztreffen statt. Die Präsidentin der Europäischen Kommission, Ursula von der Leyen, veröffentlichte über ihre Social-Media-Kanäle ein Foto ihres heutigen Händedrucks mit Trump. Die Chefin der EU-Kommission und der US-Präsident – so betonte von der Leyens Sprecherin Paula Pinho – vereinbarten in ihrem kurzen Austausch auf dem Petersplatz ein weiteres Treffen – was als ermutigende Signale für den Weg des Dialogs wahrgenommen wird, besonders bedeutsam im aktuellen Kontext von Zöllen und internationalen Spannungen. (vn/bbc 26)

 

 

 

 

 

Steinmeier: Papst lebte „Kirche der Barmherzigkeit“ vor

 

Der deutsche Bundespräsident Frank-Walter Steinmeier hat den verstorbenen Papst als leuchtendes Vorbild der Barmherzigkeit gewürdigt. Der Argentinier habe immer wieder den Fokus auf Menschen am Rande gelenkt. Ähnlich äußerte sich EU-Kommissionspräsidentin Ursula von der Leyen, die auch am Requiem teilnahm. Von Anne Preckel

„Er war ein Papst, der die Menschen berührt hat, der ihre Herzen geöffnet hat“, formulierte der Politiker gegenüber Journalisten kurz nach dem Requiem am Samstag. „Und ich denke an seine Bescheidenheit, seine Spontaneität, seinen Humor, seinen tiefen Glauben, aber auch das Plädoyer für Barmherzigkeit.“

Kirche der Barmherzigkeit vorgelebt

Dabei habe sich Franziskus vor allem Menschen am Rande und Ausgegrenzten zugewandt, die „seiner Sorge, ja sogar Liebe sicher sein durften“, so Steinmeier: „Das hat er eigentlich vom ersten Tag seines Dienstes im Amt des Bischofs von Rom gezeigt. Mit Besuchen, die auch in der Kirche nicht unumstritten waren, mit Besuchen in Lampedusa, in Gefängnissen, in Flüchtlingseinrichtungen, bei Obdachlosen und vielen anderen, die sich vergessen fühlten, die am Rande der Gesellschaft stehen.“

Dass sich die Kirche um solche Menschen kümmern müsse, habe Franziskus deutlich gemacht. „Eine Kirche der Barmherzigkeit, das ist es, was er gefordert hat, was er gelebt hat, was er anderen vorgelebt hat.“

Besonderes Interesse auch für die deutsche Kultur

Steinmeier erinnerte an intensive Gespräche und Begegnungen, die er in den letzten sieben Jahren mit dem argentinischen Papst gehabt habe und die ihn sehr bereichert hätten, wie Steinmeier sagte. „Ich zähle mich zu den Glücklichen, die die Gelegenheit hatten, ihnen mehrere Male zu treffen.“

Dabei habe er auch ein besonderes Interesse dieses Papstes für Deutschland wahrgenommen. „Ich war beeindruckt von der Neugier und von dem Interesse, was er auch Deutschland entgegengebracht hat. Und ich habe ihn kennengelernt als jemanden, der ganz besonders deutsche Dichtung, deutsche Musik lebte und deshalb auch den Deutschen ganz zugewandt war.“

Franziskus habe Kraft und Hoffnung gespendet und sei ein Vorbild gewesen, so Steinmeier. „Wir werden ihn in unserer Erinnerung bewahren und auf immer dankbar sein.“

Trauer, keine Beerdigungsdiplomatie

Die Trauerfeier für Franziskus vom Samstag bezeichnete der Politiker als „bewegend“. Was der Papst den Menschen wirklich bedeutet haben, das habe man in den letzten Tagen in Rom sehen können, so Steinmeier mit Verweis auf den großen Andrang bei den Trauerfeierlichkeiten und die Schlangen am Petersdom bei Tag und Nacht.

Der Bundespräsident dämpfte Erwartungen, dass es bei den Ereignissen in Rom, zu denen viele Staatschef angereist sind, zu diplomatischen Durchbrüchen kommen könne. „Ich glaube, wir sollten nicht vergessen: das hier ist in erster Linie eine Trauerfeier gewesen, und wir sollten nicht zu viele Erwartungen in eine sogenannte Beerdigungsdiplomatie setzen. Natürlich - diejenigen, die sich untereinander kennen, begegnen sich hier, und es ist Gelegenheit für kurze Gespräche, aber eigentlich möchte ich davon abraten, zu erwarten, dass hier am Rande dieser Trauerfeierlichkeit große Außenpolitik betrieben wird.“

Das italienische Fernsehen hatte am Samstag Fotos aus dem Inneren des Petersdoms gezeigt, auf denen zu sehen war, wie sich im Stehen Frankreichs Staatschef Emmanuel Macron und der britische Premier Keir Starmer mit den Präsidenten Trump und Selenskyj unterhalten. Weitere Bilder zeigten ein offenbar intensives Gespräch, das allein Selenskyj und Trump aus zwei Stühlen einander gegenüber sitzend miteinander führten. Sowohl Selenskyj als auch Trump bezeichneten ihren Austausch vom Samstag laut Medienberichten im Anschluss als positiv.

„Ich hatte nicht den Eindruck, dass jetzt großartige Treffen am Rande oder nach der Trauerfeier vereinbart waren“, so Steinmeier am Samstag unmittelbar nach der Trauerfeier vor Journalisten. „Insofern müssen wir darauf setzen, dass Europas Interessen in Washington gehört werden, nicht nur auf dieser Trauerfeier, sondern auch jenseits davon.“

Über 150 offizielle Delegationen nahmen an der Trauerfeier auf dem Petersplatz teil, darunter zahlreiche Staats- und Regierungschefs. Aus Russland war Kulturministerin Olga Ljubimowa teil; für die russisch-orthodoxe Kirche war der Leiter ihres Außenamtes, Metropolit Antonij, vor Ort.

Von der Leyen: Vermächtnis der Barmherzigkeit, Gerechtigkeit und Hoffnung

Wie Steinmeier würdigte auch die EU-Kommissionspräsidentin Ursula von der Leyen Franziskus‘ Vorbild und sprach von „einem Vermächtnis der Barmherzigkeit, der Gerechtigkeit und der Hoffnung. Es wird weiterhin den Weg erleuchten“, so von der Leyen.

Franziskus habe „daran erinnert, dass die Liebe die Ränder erreichen muss, und er hat die weniger Glücklichen umarmt“, schrieb von der Leyen am Samstag im Onlinedienst X. Dazu gehörten die Vertriebenen, die Vergessenen und Menschen ohne Stimme.

Das Vermächtnis des Papstes sei schrieb von der Leyen nach der Totenmesse auf dem Petersplatz im Vatikan, an der sie teilgenommen hatte. „Papst Franziskus hat Brücken gebaut. Mögen wir sie beschreiten.“ (vn 26)

 

 

 

 

 

Überlebensfrage. An vorderster Front: Indigene im Klimawandel

 

Sie gelten als Schlüssel im Kampf gegen Erderwärmung, sind aber auch die ersten Opfer steigender Meeresspiegel und schmelzender Gletscher: Für Urvölker ist der Klimawandel eine Überlebensfrage. Von Denis Düttmann, Kristin Palitza und Carola Frentzen

Indigene auf der ganzen Welt sind so etwas wie das Frühwarnsystem für den Klimawandel: Da die Urvölker in Afrika, Asien, im Südpazifik und Lateinamerika häufig eng mit der Natur verbunden leben, spüren sie die Folgen der Erderwärmung als Erste. Aufgrund ihrer besonderen Kenntnisse über die Ökosysteme, in denen sie leben, gelten sie nach Einschätzung von Experten auch als Schlüssel im Kampf gegen den Klimawandel.

Wo indigene Gemeinschaften beispielsweise über verbriefte Rechte auf ihr Land verfügen, werden laut einer Studie der Welternährungsorganisation (FAO) deutlich weniger Flächen abgeholzt als in anderen Gebieten.

„Indigene Völker sind wichtige Akteure, denn obwohl sie nur fünf Prozent der weltweiten Bevölkerung ausmachen, verwalten sie rund 80 Prozent der weltweiten biologischen Vielfalt und sind die Hüter großer Waldgebiete und Ökosysteme, die für das Wohlergehen des Planeten entscheidend sind“, sagt Germán Freire von der Weltbank.

Schwere Dürren und steigende Meeresspiegel, Abholzung und Zerstörung ihres Lebensraums, Umweltverschmutzung und Wetterextreme – die Herausforderungen für indigene Gruppen sind vielfältig. Hier einige Beispiele, welchen Gefahren die Urvölker ausgesetzt sind, und wie sie damit umgehen:

Neue Heimat wegen steigender Meeresspiegel

Wegen der drohenden Überflutung infolge des steigenden Meeresspiegels wurden die Bewohner einer kleinen Insel in Panama im vergangenen Jahr auf das Festland umgesiedelt. Rund 1.350 Menschen der indigenen Volksgruppe der Guna zogen in die neu gebaute Siedlung Nuevo Cartí an Panamas Nordküste. Der Exodus der Guna gilt als einer der ersten durch den Klimawandel erzwungenen Umsiedlungen in Lateinamerika.

Die Insel Gardí Sugdub („Krabbeninsel“) liegt rund zwei Kilometer von der Atlantikküste Panamas entfernt. Experten gehen davon aus, dass sie bis 2050 wegen des Klimawandels komplett versinken dürfte.

Auch im Südpazifik werden sich die Bewohner von Inselgruppen wie Tuvalu, Kiribati oder Fidschi bald eine neue Heimat suchen müssen. Speziell das nordöstlich von Australien liegende Tuvalu wird in den nächsten Jahrzehnten weitgehend überschwemmt werden. Australien kündigte im vergangenen Jahr an, betroffene Menschen aus dem Südseestaat aufzunehmen und ihnen ein dauerhaftes Aufenthaltsrecht zu gewähren.

Klimawandel bedroht traditionelle Nahrungsquellen der Indigenen

Die Gemeinschaft von Walande auf den Salomonen südöstlich von Neuguinea musste bereits vor Jahren umziehen. Bis dahin lebten die 800 Indigenen auf einer kleinen Insel vor der Küste. Nach verheerenden Springfluten im Jahr 2009 siedelten alle Bewohner auf das Festland über. Aber auch dort ist das Volk nicht sicher, wie die Menschenrechtsorganisation Human Rights Watch (HRW) zuletzt warnte. „Am neuen Standort bricht Meerwasser durch die schützenden Deiche“, hieß es in einem Bericht.

Auch die traditionellen Nahrungsquellen sind bedroht: Gärten und Felder werden einfach weggespült, und es gibt immer weniger Fische. „Walandes Geschichte ist eine Warnung, dass Gemeinden die Klimakrise nicht allein bewältigen können“, sagte Erica Bower, Expertin für Klimavertreibung bei HRW. Die Regierung stehe in der Pflicht, den Betroffenen zu helfen.

Hirtenvölker in Afrika fliehen vor Dürre

In Ostafrika hingegen fehlt es an Wasser: Hirtenvölker wie die Massai, Turkana, Samburu und Borana müssen aufgrund anhaltender Dürren und unregelmäßiger Regenfälle ihre traditionellen Weidegebiete verlassen. Nach Angaben der Weltbank führten klimatische Bedingungen in der Region 2021 und 2022 zum Tod von mehr als zehn Millionen Nutztieren.

Laut der Beobachtungsstelle für Binnenvertreibung (IDMC) wurden 2022 allein in Somalia, Kenia und Äthiopien rund 2,1 Millionen Menschen zu Klimaflüchtlingen. Zudem seien zahlreiche Hirtenfamilien gezwungen, ihren nomadischen Lebensstil aufzugeben und in Städte zu ziehen.

Um die Klimaflucht der Hirtenvölker einzudämmen, zielen verschiedene Initiativen am Horn von Afrika darauf ab, degradierte Böden durch nachhaltige Weidetechniken und Aufforstung wiederherzustellen. Um Dürreperioden zu überbrücken, werden Wasserquellen durch den Bau von Regenwasserauffangsystemen und Dämmen geschützt. Auch gibt es Projekte zur Diversifizierung von Einkommensquellen für Hirten, beispielsweise durch den Anbau dürreresistenter Nutzpflanzen oder die Verarbeitung von Milchprodukten.

Traditionelle Lebensformen in Gefahr

Steigende Temperaturen sowie Dürren in der Kalahari-Wüste in Südafrika, Namibia und Botsuana bedrohen nach Angaben des Weltbiodiversitätsrats der Vereinten Nationen (IPBES) die Tier- und Pflanzenarten, auf die die indigene Volksgruppe der San, die hauptsächlich aus Jägern und Sammlern besteht, traditionell angewiesen ist.

Der Biodiversitätsverlust wirkt sich nach Angaben des Übereinkommens über die biologische Vielfalt (CBD) auch auf die spirituellen und Heilpraktiken der San aus. Beispielsweise ist die dornige Hoodia-Pflanze, die von den San seit Jahrhunderten für medizinische Zwecke genutzt wird, durch den Klimawandel, aber auch durch eine übermäßige Ernte durch die Pharmaindustrie stark bedroht.

Nachhaltige Landwirtschaft und Wiederaufforstung

Namibias Regierung hat der Volksgruppe kommunale Naturschutzgebiete zugewiesen, wie beispielsweise die Nyae Nyae Conservancy im Nordosten des Landes. Hier sollen die kulturellen und wirtschaftlichen Praktiken der San durch Wiederaufforstung, nachhaltige Jagd und Landwirtschaft sowie ökologische Bildungsmaßnahmen geschützt werden.

Landrechte als Schlüssel im Kampf gegen Klimawandel

Die indigenen Dayak Tomun aus dem Ort Kinipan auf Borneo kämpfen seit Jahren gegen das Vorrücken von Palmöl-Plantagen und für den Schutz des Regenwaldes, in dem sie leben. In der Region im indonesischen Kalimantan sind einige der letzten Orang-Utans und andere bedrohte Wildtiere heimisch.

Regenwälder spielen für das globale ?Klima? eine ganz entscheidende Rolle: Sie entziehen der Luft Treibhausgase und dienen als riesige Kohlenstoffspeicher. Aber gerade auf Borneo werden riesige Waldgebiete wegen des weltweiten Palmöl-Booms abgeholzt.

Schon seit Jahren versuchen die Dayak Tomun, sich die Rechte an dem Waldgebiet zu sichern. Dafür wurden schon mehrmals alle erforderlichen Dokumente und Gutachten eingereicht – bisher erfolglos. „In der Realität werden indigene Gemeinschaften nur nach großen Anstrengungen und äußerst selten anerkannt, obwohl sie hier lebten, lange bevor es den Staat Indonesien gab“, schrieb die Organisation „Rettet den Regenwald“. Firmen kämen hingegen leicht an Konzessionen für Holz, Plantagen und Bergbau, ohne dass die Indigenen überhaupt gefragt würden. (dpa/mig 25)

 

 

 

 

 

Monsun verschärft die Lage nach Erdbeben in Myanmar 

 

World Vision: Tausende Kinder von Krankheiten bedroht

Kinderhilfsorganisation sorgt für sicheres Trinkwasser 

Friedrichsdorf/Mandalay – Einen Monat nach dem verheerenden Erdbeben in Myanmar sind die Überlebenden jetzt auch noch einem ungewöhnlich frühen Monsun ausgesetzt. Die teils heftigen Regenfälle bedrohen die Gesundheit von tausenden Kindern und ihren Familien, die bei dem Beben ihr Zuhause verloren haben, berichtet die internationale Kinderhilfsorganisation World Vision. Anhaltende Nachbeben halten zudem viele Menschen davon ab, in beschädigte Häuser zurückzukehren.

World Vision ist seit dem ersten Tag im Nothilfe-Einsatz und kümmert sich um die Bedürfnisse der vom Erdbeben betroffenen Menschen. Einsatzteams verteilen neben Nahrungsmitteln, Wasser und Hygienesets auch Planen zum Schutz vor Regen. Moskitonetze, die World Vision besonders Familien mit kleinen Kindern zur Verfügung stellt, halten die Krankheiten verbreitenden Mücken fern.

Die Organisation bietet auch psychosoziale Unterstützung für betroffene Kinder an. In Kinderschutzzentren können sie spielen, basteln, lernen und sich so von den Erlebnissen erholen. World Vision hat sich zum Ziel gesetzt, in den nächsten sechs Monaten insgesamt 500.000 Menschen mit lebenswichtiger Hilfe zu erreichen. Bisher haben über 160.000 Menschen Unterstützung erhalten, hauptsächlich in der Region Mandalay. 

Während der Monsunzeit werden Überschwemmungen voraussichtlich die Lage vieler Menschen in beengten Notunterkünften dramatisch verschlechtern. An Lösungen müsse trotz erschwerter Zugänge und der Schäden an der Infrastruktur mit Hochdruck gearbeitet werden, erklärt der Landesdirektor von World Vision Myanmar, Dr. Kyi Minn: „Tausende Familien haben ihre Häuser verloren. Ihre Wasserquellen sind verunreinigt und die Ausbreitung von durch Wasser übertragenen Krankheiten steht unmittelbar bevor. Feuchte und überfüllte Lager gefährden zudem das Leben der Kinder durch Lungenkrankheiten wie Lungenentzündung.“

Mit dem Bau von Wassertanks und der Reparatur von Leitungen verbessert World Vision den Zugang zu sauberem Trinkwasser und hilft so, die Gefahr von Krankheitsausbrüchen zu verhindern. Familien werden auch mit Filtersystemen zur Wasserreinigung versorgt.

Trotz des Ausmaßes der Katastrophe, bei der mehr als 3.600 Menschen ums Leben kamen, ist die internationale Finanzierung nur langsam angelaufen. Der internationale Spendenaufruf für die Erdbebenhilfe in Höhe von 275 Millionen US-Dollar ist nach wie vor stark unterfinanziert, da bisher nur ein Bruchteil der notwendigen Gelder zugesagt wurden. 

Kyi Minn: „Die Kinder in Myanmar sind dringend auf Unterstützung angewiesen. Wir haben keine Zeit mehr zu verlieren. Die internationale Gemeinschaft muss ihre Anstrengungen deutlich verstärken.”

World Vision Deutschland ist für die Durchführung seiner Projekte auf Spenden angewiesen. 

World Vision Deutschland e.V. 

PAX-Bank eG 

IBAN DE72 3706 0193 4010 5000 07 

BIC GENODED1PAX 

Stichwort: Erdbeben Myanmar 

Online: Jetzt für Katastrophenhilfe spenden 

 

World Vision Deutschland ist Mitglied bei “Aktion Deutschland hilft” 

Aktion Deutschland Hilft e.V. 

DE62 3702 0500 0000 1020 30 

BIC: BFSWDE33XXX 

SozialBank 

Stichwort: Erdbeben Myanmar  

Online: Online Spenden - Spenden Sie hier. Aktion Deutschland Hilft

Danke für Ihre Unterstützung!  WVD 25

 

 

 

 

 

 

Was bleibt?

 

In Rom beginnt das Ringen um einen neuen Papst – und um die Richtung, welche die Kirche künftig einschlagen soll. Von Austen Ivereigh

Mit dem Tod von Papst Franziskus am Montag beginnt für die katholische Kirche eine ungewisse Ära, auf die er diese während seiner Lebzeit vorzubereiten versuchte. Schon bald werden die Kardinäle nach Rom einberufen, um im Konklave seinen Nachfolger zu wählen. Sie stehen nun vor der Frage, ob Franziskus’ Vision – eine barmherzige Kirche, in der alle willkommen sind – weiterhin der richtige Weg ist oder ob ein grundsätzlich anderer Ansatz gefragt ist, womöglich einer, der sich stärker an den Forderungen des christlichen Glaubens orientiert.

Bevor das Konklave beginnt, verbringen die Kardinäle bis zu zwei Wochen in Rom, um auszuloten, was für ein Papst nun gebraucht wird – für die Kirche sowie für die Welt insgesamt. Irgendwann werden sie sich dann die Frage stellen: „Wer von uns?“ Erst danach ziehen sich die 135 wahlberechtigten Kardinäle – also jene unter 80 Jahren – in die Sixtinische Kapelle zurück, um dort in Abgeschiedenheit ihre Entscheidung zu treffen.

Die Kardinäle werden sich des historischen Moments bewusst sein. In den letzten Monaten des Pontifikats von Franziskus schien der Westen ebenso zu zerfallen wie die regelbasierte Ordnung, die nach dem Zweiten Weltkrieg errichtet worden war. Die Welt erscheint heute wie ein Dschungel, in dem das Recht des Stärkeren gilt und in dem imperiale Zentren – die USA, China, Russland – immer heftiger um Einfluss ringen und dabei die Souveränität kleinerer Nationen missachten. Die Kardinäle werden auch die sozialen Zerfallserscheinungen innerhalb vieler Länder bedenken: den schwindenden gesellschaftlichen Anstand, die wachsende Wut, die hinter dem Aufstieg nationalistischer Populisten steht, die zunehmende Gewalt sowie die Aussicht auf weitere Kriege. Sie werden sich fragen, was all das von der Kirche – und vom Papsttum – verlangt.

Auch wenn viele Kardinäle um die Bedrohung von Demokratie und Rechtsstaatlichkeit besorgt sind, dürften die wenigsten dem Niedergang der liberalen Ordnung nachtrauern. Viele sehen darin vielmehr die logische Folge von Individualismus und der Verherrlichung des Marktes. Viele geben dem westlichen Liberalismus die Schuld an sozialen Ungleichheiten, moralischen Verfehlungen, dem Zerfall institutioneller Strukturen und der Vernachlässigung des Gemeinwohls.

Die meisten Kirchenmänner fühlen sich traditionell der Arbeiterklasse verbunden. Sie teilen den Zorn einfacher Menschen darüber, dass das Spiel zugunsten der Gebildeten und Reichen (und zum Nachteil der Armen) manipuliert scheint. In Afrika, Asien und Lateinamerika, aus denen fast die Hälfte der wahlberechtigten Kardinäle stammt, richtet sich die Kritik auch gegen eine marktorientierte Globalisierung. Viele von ihnen sind überzeugt, dass der Westen seine liberalen Werte dem Rest der Welt aufgezwungen hat, wodurch Vertrauen, Traditionen, Gemeinschaft und die Familie zerstört wurden.

Gleichzeitig dürften nur wenige Kardinäle von den neuen „starken Männern“ beeindruckt sein, die sich in die Fahnen von Nation und Religion hüllen. Viele von ihnen werden Donald Trump, Elon Musk und ihresgleichen als Nihilisten betrachten – Leute, die zerstören, aber nicht aufbauen können. Sie sind entsetzt über die Hetze gegen Migranten und über die ignorante Ablehnung von Umweltschutz, beides Kernanliegen der katholischen Soziallehre unter Franziskus, der vier Fünftel der wahlberechtigten Kardinäle ernannt hat. Sie werden in dem neuen Autoritarismus wahrscheinlich ein Zeichen dafür sehen, dass der Staat nicht mehr – wie von Augustinus gefordert – die „libido dominandi“, den Drang zur Herrschaft, zügelt und blicken skeptisch auf die Verehrung von Autokraten.

Die zentrale Frage, vor der die Kardinäle stehen, lautet daher: Wie kann die Kirche ihren Auftrag in dieser neuen Weltlage schützen und weiterentwickeln? Denn während der liberale Staat zwar gleichgültig gegenüber dem Glauben war, der Kirche aber zumindest karitatives Wirken zugestand, verlangen die neuen Autokraten von ihr, dass sie ihre heidnischen Ideologien absegnet – aber den Mund hält, wenn es um Schwache und Fremde geht.

Als langjähriger Beobachter des Vatikans und der Kirche glaube ich, dass die Kardinäle einen Papst wählen werden, der klare Grenzen zieht – zur Verteidigung der Freiheit der Kirche, ihre Werte zu verkünden, und gegen jede politische Vereinnahmung ihrer Lehre. Manche werden womöglich Parallelen zu den Zwanzigern und Dreißigern des letzten Jahrhunderts ziehen, als ein Papst die Kirche durch eine Epoche abnehmender Demokratien und aufkommender Autokratien führte. Damals, zur Zeit des Totalitarismus und der Vorboten des Zweiten Weltkriegs, verteidigte Pius XI. (1922–1939) eine pluralistische Zivilgesellschaft gegen die erdrückende Macht des Staates. Viele Kardinäle dürften der Meinung sein, dass der neue Papst Ähnliches leisten muss.

In einem der wichtigsten Lehrdokumente des 20. Jahrhunderts betonte Pius XI., dass das Gesetz nicht nur die Autonomie der Kirche, sondern auch aller sogenannten intermediären Institutionen schützen müsse – von Schulen über Wohlfahrtsverbände und Gewerkschaften bis hin zu zivilgesellschaftlichen Organisationen. Diese gehörten weder Markt noch Staat, sondern gingen aus dem Glauben und dem Engagement von Menschen hervor. Einen direkten Nachhall dieser Lehre sah man in dem Brief, den Franziskus im Februar an die US-Bischöfe richtete – eine implizite Reaktion auf die Kritik von Vizepräsident J. D. Vance, der dem Papst über Ostern einen Besuch abstattete. Vance hatte die Kirche wegen ihrer Unterstützung für Migrantinnen und Migranten kritisiert.

Das Vermächtnis von Franziskus wird bei den Entscheidungen der Kardinäle eine wichtige Rolle spielen – nicht nur seine Reformen, Lehren und Prioritäten, sondern auch sein Stil, die Art und Weise, wie er das Evangelium verkörperte und lebte. Bereits im März 2013, nach dem Rücktritt von Benedikt XVI. und vor dem Konklave, das Franziskus wählte, machten die Kardinäle deutlich, dass eine Reform der Strukturen und der Kultur des Vatikans Priorität habe. Franziskus verstand dies als Auftrag. Heute ist der Vatikan weitgehend frei von den Skandalen der Benedikt-Ära. Zu seinen größten Errungenschaften zählt eine neue Verfassung für den Vatikan, das Ergebnis jahrelanger Beratungen und Überarbeitungen. Viele Kardinäle werden fordern, dass sein Nachfolger diese Reformen festigt und fortführt.

Manche wünschen sich womöglich auch einen Papst, der Brücken schlägt – zu jenen Gruppen, die unter Franziskus enttäuscht waren: etwa zu Traditionalisten und Konservativen in den USA oder zu progressiven Kräften in Deutschland. Und nach dem ersten lateinamerikanischen Papst der Geschichte, der den Blick auf die Ränder der Welt richtete, könnten manche eine Rückbesinnung auf Europa fordern. Möglicherweise sehen sie heute eine stärkere wechselseitige Abhängigkeit zwischen der Europäischen Union, die in einem Geist katholischen Humanismus gegründet wurde, und der Kirche.

Was auch immer sonst die Prioritäten der Kardinäle sein mögen – wahrscheinlich wird Franziskus’ Idee der „Synodalität“ eine zentrale Rolle spielen. Damit ist eine alte kirchliche Praxis gemeint: das gemeinsame Zusammenkommen, Zuhören, Abwägen und Entscheiden. Franziskus hat diese Praxis in radikal inklusiver Weise erneuert, indem er alle Gläubigen zur Beteiligung einlud. Die Kardinäle könnten zu dem Schluss kommen, dass genau dies derzeit das stärkste Zeichen der Hoffnung ist, das die Kirche der Welt geben kann.

Diese „Kultur der Begegnung“, wie Franziskus sie nannte, mag in den Augen der Mächtigen belanglos erscheinen. Doch sie beruht auf einer Einsicht, die jenen, die nur nach Macht streben, unverständlich bleibt: die unantastbare Würde jedes Menschen, die Notwendigkeit, allen zuzuhören – besonders den Marginalisierten – und die Geduld, auf Einvernehmen zu warten. All das ist zentral für die Heilung eines zerrissenen gesellschaftlichen Gefüges.

In einer Welt voller Spannungen dürfte für die Kardinäle eines im Zentrum stehen: Was auch immer man sich sonst von einem neuen Papst wünschen mag – die drängendste Frage für die Menschheit ist, wie wir miteinander umgehen. NYT/IPG 24

 

 

 

 

 

 

NRW. Partnerschaft für nachhaltige Innovationen im Bauwesen

 

Bauindustrieverband NRW und BLB NRW unterzeichnen Vereinbarung zur

Förderung von Innovationen und Nachhaltigkeit im Bauwesen

Der Bau- und Liegenschaftsbetrieb des Landes Nordrhein-Westfalen (BLB

NRW) und der Bauindustrieverband Nordrhein-Westfalen e. V. haben

heute eine gemeinsame Vereinbarung zur Förderung von Innovation,

Nachhaltigkeit und Klimaschutz im Bauwesen unterzeichnet. Ziel ist

es, die Herausforderungen des nachhaltigen Bauens im öffentlichen

Bereich gemeinsam anzugehen und die Innovationskraft der Bauindustrie

gezielt in die Projekte des Landes einzubringen.

 

"Als einer der größten öffentlichen Auftraggeber in

Nordrhein-Westfalen kommt dem BLB NRW eine besondere Verantwortung

zu. Mit der Vereinbarung setzen wir ein klares Signal: Wir wollen als

starker Partner gemeinsam mit der Bauindustrie den Wandel hin zu mehr

Nachhaltigkeit aktiv gestalten", sagt Gabriele Willems,

Geschäftsführerin des BLB NRW.

 

Die Vereinbarung legt die Grundlagen für eine strategische

Kooperation zwischen dem öffentlichen Auftraggeber und der

nordrhein-westfälischen Bauindustrie. Im Mittelpunkt stehen dabei

Themen wie die Förderung ressourcenschonender Baumaterialien, der

Ausbau der Kreislaufwirtschaft, innovative Bauverfahren sowie die

Optimierung von Bauzeiten, Qualität und Wirtschaftlichkeit.

 

"Die nordrhein-westfälische Bauindustrie steht bereit, ihren Beitrag

zu klimafreundlichem, innovativem und wirtschaftlichem Bauen zu

leisten. Mit dieser Vereinbarung schaffen wir eine Plattform für den

kontinuierlichen Austausch und für die Entwicklung zukunftsweisender

Lösungen", erklärt Prof. Beate Wiemann, Hauptgeschäftsführerin des

Bauindustrieverbandes NRW.

 

Der BLB NRW bekennt sich in dem Papier ausdrücklich dazu, die

bestehenden Möglichkeiten - etwa durch funktionale

Leistungsbeschreibungen oder die verstärkte Berücksichtigung von

Nachhaltigkeitskriterien bei Landesbauprojekten - konsequent zu

nutzen, um Nachhaltigkeit und Innovation im öffentlichen Bauen zu

fördern. Darüber hinaus wird der regelmäßige Wissenstransfer zu

innovativen Baumaterialien und Bauverfahren intensiviert.

 

Die Vereinbarung ist Teil der gemeinsamen Anstrengungen, das Bauwesen

in Nordrhein-Westfalen zukunftsfest zu gestalten - ökologisch,

wirtschaftlich und sozial.

 

Der Bauindustrieverband Nordrhein-Westfalen verbindet als

Arbeitgeber- und Wirtschafts-verband nordrhein-westfälische

Unternehmen der Bauindustrie und benachbarter Branchen. Als

freiwilliger Zusammenschluss und größtes Kompetenzzentrum der

Bauindustrie in NRW betreut und repräsentiert der Verband

Bauunternehmen aller Bausparten. Von kleinen Familienbetrieben über

kleinere und große mittelständische Unternehmen bis hin zu

Niederlassungen international agierender Baukonzerne sind die

Mitgliedsunternehmen in allen Bereichen des Hoch- und Tiefbaus tätig.

Diese agieren als Partner sowohl von privaten als auch vielfach von

öffentlichen Auftraggebern. Der Bauindustrieverband

Nordrhein-Westfalen ist der größte bauindustrielle Landesverband in

der Bundesrepublik Deutschland.

Über den Bau- und Liegenschaftsbetrieb NRW (BLB NRW)

Der BLB NRW ist Eigentümer und Vermieter fast aller Immobilien des

Landes Nordrhein-Westfalen. Mit rund 4.000 Gebäuden und einer

Mietfläche von etwa 10,3 Millionen Quadratmetern verantwortet der BLB

NRW eines der größten Immobilienportfolios Europas. Seine

Dienstleistungen umfassen unter anderem die Bereiche Entwicklung und

Planung, Bau und Modernisierung sowie Bewirtschaftung und Verkauf von

technisch und architektonisch hoch komplexen Immobilien. Darüber

hinaus plant und realisiert der BLB NRW

im Rahmen des Bundesbaus die zivilen und militärischen Baumaßnahmen

der Bundesrepublik Deutschland in Nordrhein-Westfalen. Der BLB NRW

beschäftigt mehr als 3.000 Mitarbeiterinnen und Mitarbeiter an acht

Standorten. Weitere Informationen unter www.blb.nrw.de. BLB/dip 24

 

 

 

 

 

 

Eskalation statt Frieden

 

Trumps Vermittlungsversuch ist gescheitert, der Krieg geht weiter. Überlässt der Westen die Ukraine nun ihrem Schicksal? Von Nickolay Kapitonenko

Donald Trump ist gescheitert. Vor dem US-Präsidenten stand eine Mammutaufgabe: einen Krieg zu beenden, in dem beide Seiten keine erkennbare Kompromisszone hatten. Beide glauben weiterhin an einen möglichen Sieg – und für beide ist der politische Preis ernsthafter Zugeständnisse schlicht zu hoch.

Trumps Optimismus fußte offenbar auf der Annahme, die Ukraine lasse sich unter Druck setzen, während mit Russland eine Einigung möglich sei. Zudem hält der US-Präsident – durchaus zurecht – Kriege für ein äußerst ungeeignetes Mittel zur Lösung politischer Konflikte. Diese Einschätzung teilten viele schon vor ihm, doch wie die Geschichte zeigt, brechen Kriege dennoch immer wieder aus – auch wenn sie irrational erscheinen. Ist ein bewaffneter Konflikt erst einmal entfesselt, verselbständigt sich die Gewalt und erschwert jede friedliche Lösung erheblich.

Trumps Administration orientierte sich offenkundig unter anderem an historischen Beispielen erfolgreicher US-Vermittlungen – etwa Camp David oder Dayton. Diese Fälle zeigen allerdings nicht nur, dass Supermächte in der Lage sind, selbst in hochkomplexen Konflikten zu vermitteln. Sie zeigen auch, wie brüchig solche Lösungen oft sind. So waren Waffenruhen im Nahostkonflikt nie dauerhaft, eine nachhaltige Lösung blieb stets aus. Und das, obwohl die USA in den 1990er-Jahren über deutlich mehr globale Machtmittel verfügten als heute. Trumps Einflussmöglichkeiten hingegen sind begrenzt – nicht nur gegenüber Moskau, sondern zunehmend auch gegenüber Kiew. Viele hatten schon vor ihm geglaubt, man könne leicht mit Russland verhandeln oder Druck auf die Ukraine ausüben. Die Entwicklungen im russisch-ukrainischen Krieg vor 2022 haben diese Hoffnungen jedoch weitgehend widerlegt.

Und dennoch: Trump nahm die Vermittlerrolle an. Die USA schafften es, die Gespräche in Gang zu bringen, Positionen auszuloten und diplomatische Treffen nach dem Muster der Shuttle-Diplomatie zu initiieren. Doch als es um konkrete Entscheidungen ging, gerieten die Verhandlungen erneut in eine Sackgasse – ganz wie einst bei den Minsker Abkommen.

Kiew war mit Trumps Position unzufrieden: zu wenig Druck auf Moskau, keine Bereitschaft zur Verteidigung einer regelbasierten internationalen Ordnung, zu viel Verständnis für russische Forderungen. Aber wie hätte es anders laufen sollen? Jede andere Strategie hätte einer Rückkehr zur Biden-Linie bedeutet – die Trump mit einigem Grund für gescheitert hält.

Zwischenzeitlich zeichnete sich ein Plan zur Kriegsbeendigung ab: Einfrieren der Frontlinie, Verhandlungen über das Atomkraftwerk Saporischschja, die Ukraine außerhalb der NATO – das klang wie eine realistische Grundlage für Dialog, fernab der Maximalforderungen beider Seiten. Der Druck aus Washington schränkte Selenskyjs Spielraum ein, woraufhin die Ukraine sich auf eine Waffenruhe und sogar Gespräche mit Russland einließ – noch vor wenigen Monaten unvorstellbar. Gefangenenaustausche und eine Waffenruhe zu Ostern erinnerten an den „Lehrbuch“-Ansatz früherer Jahre, etwa an die große Austauschrunde und Waffenruhe 2019/20. Doch wie damals blieben auch diesmal weiterführende Schritte aus – die Grundinteressen der Konfliktparteien sind schlicht unvereinbar.

Vor diesem Hintergrund waren die Chancen auf ein weitreichendes Abkommen in London minimal – und sind es auch weiterhin. Moskau verlangt einen zu hohen Preis für eine Feuerpause, während Kiew das Risiko einer Fortsetzung des Krieges auch ohne amerikanische Hilfe für vertretbar hält. Beide Seiten sind weiter bereit, Risiken einzugehen und den Preis für diesen Krieg zu zahlen.

Russlands Anspruch, besetzte Gebiete zu behalten, ist im gegenwärtigen Zeitalter des Nationalismus kaum lösbar. Widersprüchliche Signale aus Moskau zu territorialen Fragen verstärken den Eindruck, dass ein Waffenstillstand dort gar nicht ernsthaft gewollt ist. Putins langes Festhalten an Ansprüchen auf vier ukrainische Regionen – Donezk, Luhansk, Saporischschja und Cherson – machte Verhandlungen de facto unmöglich. Nachrichten über ein mögliches Einfrieren entlang der Frontlinie blieben unbestätigt und kamen ohnehin zu einem Zeitpunkt, als das Scheitern der Londoner Gespräche bereits absehbar war. Ein Waffenstillstand entlang der aktuellen Front wäre ein denkbarer Schritt – aber nur ein temporärer. Anders als beim Korea-Krieg blieben zentrale Fragen ungelöst, allen voran die territoriale.

Für die USA nimmt die Lage eine unangenehme, aber keineswegs dramatische Wendung. Anders als in Afghanistan sind sie militärisch nicht involviert und an keine Verpflichtungen gebunden. Es steht allein die Reputation auf dem Spiel – und auch diese könnte Trump leicht der Vorgängerregierung anlasten, nicht den Vereinigten Staaten selbst.

Trump stehen andere Herausforderungen bevor: Handelskonflikte etwa sind nur Symptome einer tieferliegenden Auseinandersetzung um die globale Rolle Amerikas. Trumps Strategie – einseitiges Handeln, Ressourcenschonung, Lastenteilung in der Sicherheitspolitik – könnte durch einen Rückzug aus dem Ukraine-Krieg konsequent fortgesetzt werden. Das müsste nicht zwangsläufig die amerikanischen Bündnisse schwächen, wohl aber die Stellung derer, die auf Washington angewiesen sind. Ein Ende der US-Hilfe, Verantwortungsverschiebung nach Europa und punktuelle Gespräche mit Moskau sind eine reale Option für Washington.

Europa wirkt auf dieses Szenario kaum vorbereitet. Die hohen Kosten eines Krieges vor der eigenen Haustür sollten eigentlich Anreiz genug sein, dessen Ende zu suchen. Stattdessen treiben die Signale aus Washington Berlin und Paris in eine andere Richtung. Für die Ukraine bleibt damit nur, sich noch enger an Europa zu binden – ob diese Unterstützung dauerhaft und ausreichend sein wird, ist jedoch ungewiss.

Setzen sich die aktuellen Trends fort, dürfte es im Sommer und Herbst zu einer neuen Eskalationsrunde kommen. Die Ukraine wird mit den Folgen gekürzter Hilfen kämpfen müssen, Russland mit den Risiken einer erneuten Mobilmachung. Beide Seiten könnten mit diesen Herausforderungen umgehen – wenn auch unter großen Mühen. Eine neue Verhandlungsrunde noch in diesem Jahr erscheint daher wenig wahrscheinlich. IPG 24

 

 

 

 

 

Junge ausländische Fachkräfte hängen in der Luft

 

Gesetze, Regeln, Bürokratie: Ausländische Azubis können nach Abschluss der Lehre nicht ohne weiteres weiter arbeiten. Sie benötigen eine neue Aufenthaltserlaubnis. Bis das Papier ausgestellt ist, müssen sie warten.

Weil mit dem Ende der Ausbildung bei ausländischen Lehrlingen auch ihre Aufenthaltserlaubnis endet, fordert die IHK Region Stuttgart eine Übergangsregelung für die jungen Leute. Eine Weiterbeschäftigung sei erst möglich, wenn ein neuer Aufenthaltstitel vorliege und könne dauern, kritisierte Hauptgeschäftsführerin Susanne Herre. Gerade in Zeiten des Fachkräftemangels könne man es sich nicht leisten, motivierte, gut ausgebildete Leute zu verlieren, und dies wegen eines bürokratischen Flaschenhalses.

Die IHK Region Stuttgart setzt sich deshalb für die bundesweite Einführung einer Regelung für den Übergang von Ausbildung in den Beruf ein, die bereits von mehreren Ausländerbehörden in Deutschland praktiziert wird. Diese ermögliche es, direkt nach Ausbildungsende ins Arbeitsverhältnis zu starten – auch wenn der neue Aufenthaltstitel noch in Bearbeitung sei. Herre forderte Bund und Länder auf, dass Fachkräfteeinwanderungsgesetz praxisnäher zu gestalten. Wer in Deutschland eine Ausbildung oder ein Studium erfolgreich abgeschlossen hat, solle direkt ohne Einschränkungen arbeiten dürfen.

Migrationsministerium sieht Bund in der Pflicht

Ein Sprecher des Migrationsministeriums sagte, bislang könne ein Aufenthaltstitel zur Beschäftigung als Fachkraft erst erteilt werden, wenn der erfolgreiche Abschluss der Berufsausbildung nachgewiesen und die Bundesagentur für Arbeit die Zustimmung zur angestrebten Beschäftigung erteilt habe. Bis dahin gelte – sofern die Betroffenen rechtzeitig einen Antrag auf Erteilung der Aufenthaltserlaubnis gestellt haben – der bisherige Aufenthaltstitel als fortbestehend. Und man könne bis zu 20 Stunden in der Woche arbeiten.

Um die sich hieraus ergebende Lücke zeitlich zu verkürzen, hatte das Migrationsministerium schon 2023 die Ausländerbehörden darum gebeten, das Zustimmungsverfahren bei der Bundesagentur zügig und losgelöst von der Vorlage des Abschlusszeugnisses einzuleiten, sofern die Betroffenen andere glaubwürdige Nachweise vorlegen konnten, etwa eine Bestätigung der Schule oder des Ausbildungsbetriebs über den erfolgreichen Abschluss der Ausbildung, wie ein Sprecher mitteilte. Eine Regelung für den nahtlosen Übergang von der Ausbildung in den Beruf könne nur zusammen mit dem Bund getroffen werden.

Ein Sprecher der Unternehmer Baden-Württemberg sagte, das bisherige Verfahren sei zu kompliziert und dauere zu lange. Bis der Betroffene einen Termin bei der zuständigen Ausländerbehörde bekomme, vergehe oftmals zu viel Zeit. Der Verband schlug vor, dass die neue Landesagentur für die Zuwanderung von Fachkräften (LZF) in Baden-Württemberg künftig für das Thema zentral zuständig sein sollte. Dann könnte der Prozess sicherlich beschleunigt werden. (dpa/mig 23)

 

 

 

 

 

Rekordwerte in Bayern. Migranten immer häufiger Opfer von Straftaten

 

Die Stimmung im Land ist gereizt. Radikale Meinungsmacher und Parteien hetzen immer krasser gegen Flüchtlinge und andere Minderheiten. Längst bleibt es nicht nur bei Worten. In Bayern gibt es traurige Rekordwerte: Zahl antimuslimischer Straftaten hat sich in drei Jahren verdreifacht.

In Bayern gibt es seit Jahren eine deutliche Zunahme bei rassistischen Straftaten – insbesondere Migrantinnen und Migranten werden dabei immer häufiger Opfer. Nach Angaben des Innenministeriums wurden 2024 insgesamt 1.829 sogenannte rassistisch, ausländer- bzw. antisemitische motivierte Straftaten registriert.

Dies geht aus einer Antwort des Ministeriums auf eine Anfrage der Grünen im Landtag hervor, die der Deutschen Presse-Agentur in München vorliegt. Damit wurde der traurige Rekord aus dem Jahr 2023 (1.682) wieder übertroffen. 2022 waren es nur 1.073 Delikte.

230 Straftaten gegen geflüchtete Menschen

Insgesamt 230 dieser Straftaten richteten sich den Angaben zufolge explizit gegen Menschen, die aus einem anderen Land nach Deutschland geflüchtet sind und hier eigentlich einen besonderen Schutz bedürften. Darunter fielen auch 16 Gewalttaten, 5 Fälle von gefährlicher Körperverletzung und ein versuchter Totschlag. 207 dieser Straftaten (90 Prozent) werden Tätern mit einer rechtsextremen Gesinnung zugeordnet. Die Zahl der Straftaten gegen Geflüchtete blieb damit 2024 gegenüber 269 Delikten in 2023 und 129 Delikten in 2022 auf einem bedenklich hohen Niveau.

Grüne fordern besseren Schutz der Menschen gegen Rechtsruck

„Gerade in dieser Zeit, in der wir in Deutschland, Europa und der Welt einen gefährlichen Rechtsruck erleben, müssen wir die Rechte aller Menschen in Bayern besser schützen. Die Herkunft, das Aussehen, die Religion dürfen niemals Grund für Ablehnung sein“, sagte Cemal Bozo?lu, Sprecher der Fraktion für Strategien gegen Rechtsextremismus. Die neuesten Zahlen müssten die Staatsregierung alarmieren. „Es reicht nicht, sich beim Döneressen auf Social Media zu zeigen – es braucht klare Kante gegen rassistische Übergriffe. Die Stärke unserer Demokratie bemisst sich auch daran, wie der Staat gegen Benachteiligungen vorgeht.“

Täter überwiegend aus dem rechtsextremen Milieu

1.349 aller in dem Kontext registrierten Straftaten (74 Prozent) wurden Tätern aus dem rechtsextremen Milieu zugeordnet. Seit 2022 (929) zeigte sich damit ein Anstieg um 45 Prozent gestiegen. 2023 waren es 1.246 Delikte gewesen. Reichsbürgern, Querdenkern und Verschwörungsideologen wurden 2024 199 Straftaten (11 Prozent aller Delikte) zugeordnet. Seit 2022 (114 Fälle) ebenfalls ein massiver Anstieg um 75 Prozent.

579 antisemitische Straftaten – knapp unter Rekordwert

579 Straftaten waren den Angaben zufolge antisemitisch motiviert. Dieser Wert liegt nur knapp unter dem 2023 registrierten Höchststand von 589 Delikten. Immerhin konnten hier 426 Täter und Täterinnen ermittelt werden.

Den Angaben des Ministeriums zufolge wurden 2024 zudem 19 Straftaten gegen Sammelunterkünfte, Ankerzentren oder andere Einrichtungen für Asylbewerber registriert – darunter auch drei schwere Brandstiftungen in Unterkünften in Bayreuth, Putzbrunn und Krumbach (Schwaben).

Demirel: Migranten brauchen besseren Schutz

„Unsere vielfältige Gesellschaft, in der alle die gleichen Rechte haben, ist bedroht. Das zeigt der heftige Anstieg der Taten gegen Migrantinnen und Migranten ganz klar“, sagte Gülseren Demirel, Fraktionssprecherin für Integration. „Wir brauchen einen besseren gesetzlichen Schutz und eine Staatsregierung, die das liefert, statt wegzuschauen. Es ist höchste Zeit für ein Antidiskriminierungsgesetz und eine staatliche Beratungsstelle gegen Diskriminierung.“ Das entspreche dem Verfassungsauftrag an den Staat, die Würde aller Menschen zu schützen – „in Bayern herrscht hier aktuell Stillstand“.

212 islamfeindliche Straftaten

Zudem wurden 212 islamfeindliche Straftaten festgestellt. Im Jahr 2023 waren es 171 antimuslimische Taten im Bereich der Hasskriminalität. Im Jahr 2022 66 einschlägige Hassdelikte. Damit hat sich die Zahl der antimuslimischen Straftaten in den vergangenen drei Jahren laut Angaben mehr als verdreifacht. (dpa/mig 22)

 

 

 

 

 

Die Welt im Chaos

 

Die globale Krise hat tiefere Ursachen. Trump ist ein Symptom – doch die eigentlichen Probleme bestehen seit Jahrzehnten. Von Aaron Benanav

Die Welt ist ein Scherbenhaufen. Während US-Präsident Donald Trump den globalen Handel mit seinem Strafzöllen auf den Kopf stellt und Amerikas Bündnisse neu ordnet, versuchen Staats- und Regierungschefs verzweifelt, darauf angemessen zu reagieren. Doch viele sind schlecht auf solche Erschütterungen vorbereitet: Überall auf der Welt haben Regierungen angesichts wachsender Unzufriedenheit Wahlen verloren oder sich nur knapp an der Macht halten können. Von den Vereinigten Staaten bis Uruguay, von Großbritannien bis Indien erfasste 2024 eine Anti-Establishment-Welle die Demokratien der Welt. Aber nicht nur diese stecken in der Krise. Auch China kämpft mit sozialen Unruhen und wirtschaftlicher Instabilität. Konflikte sind heutzutage global.

Es gibt viele Erklärungsansätze für diesen beklagenswerten Zustand. Einige sehen in raschen sozialen Veränderungen – insbesondere in Fragen von Migration und Geschlechteridentität – den Auslöser eines kulturellen Backlashs. Andere argumentieren, dass Eliten bei der Bewältigung der Pandemie versagt oder sich zu weit von der Bevölkerung entfremdet hätten, was die Unterstützung für Anti-Establishment-Kräfte und autoritäre Anführer befeuert habe. Ein weiteres Argument lautet, dass algorithmengesteuerte soziale Medien die Verbreitung von Falschinformationen und Verschwörungstheorien erleichtern und so die Gesellschaften polarisieren.

An all diesen Theorien ist sicher etwas dran. Aber hinter dem heutigen Chaos steckt eine noch größere Einflusskraft: die wirtschaftliche Stagnation. Die Welt erlebt ein langfristiges Nachlassen der Wachstumsraten, das in den 1970er-Jahren begann, sich nach der globalen Finanzkrise 2008 verschärfte und bis heute anhält. Mit niedrigem Wachstum, sinkender Produktivität und einer alternden Erwerbsbevölkerung steckt die Weltwirtschaft momentan in einer Sackgasse. Diese wirtschaftliche Notlage ist der Hintergrund für die politischen und sozialen Konflikte auf der ganzen Welt.

Der Zustand der G20-Staaten, jener Zusammenschluss der größten Volkswirtschaften, sagt viel über die wirtschaftliche Gesundheit der Welt aus. Die Daten sind ernüchternd: Acht dieser Länder sind seit 2007 inflationsbereinigt um weniger als zehn Prozent gewachsen. Vier weitere liegen nur knapp darüber. Einige Länder wie Indien, Indonesien und die Türkei konnten ihre Wachstumsraten zwar halten, aber die meisten G20-Staaten leiden unter anhaltender wirtschaftlicher Schwäche.

Früher wuchsen die G20-Volkswirtschaften regelmäßig um zwei bis drei Prozent pro Jahr, was zu einer Verdopplung der Einkommen innerhalb von 25 bis 35 Jahren führte. Heute liegen die Wachstumsraten vielerorts nur noch bei 0,5 bis ein Prozent, was bedeutet, dass es 70 bis 100 Jahre dauert, bis sich die Einkommen verdoppeln – zu langsam, als dass die Menschen in ihrem Leben einen Fortschritt spüren könnten. Die Bedeutung dieses Wandels kann kaum überschätzt werden: Stagnation muss nicht flächendeckend spürbar sein, um Erwartungen zum Einsturz zu bringen. Wenn die Menschen nicht mehr daran glauben, dass ihre Lebensverhältnisse oder die ihrer Kinder sich verbessern, erodiert das Vertrauen in Institutionen und die Unzufriedenheit wächst.

Warum also ist das Wachstum so drastisch eingebrochen? Ein Grund ist der weltweite Wandel von der Industrie- zur Dienstleistungswirtschaft. Damit geriet der wichtigste Motor des Wirtschaftswachstums ins Stocken: die Produktivitätssteigerung. Produktivität – die Leistung pro Arbeitsstunde – kann im verarbeitenden Gewerbe rasch steigen. Eine Autofabrik, die robotergesteuerte Fertigungsstraßen einführt, kann beispielsweise ihre Produktion verdoppeln, ohne mehr Mitarbeiter einzustellen, vielleicht sogar einige entlassen. In der Dienstleistungswirtschaft hingegen lässt sich Effizienz nur schwer steigern. Ein gut besuchtes Restaurant braucht mehr Bedienungen. Ein Krankenhaus, das mehr Patienten versorgt, benötigt zusätzliche Ärzte und Pflegekräfte. In dienstleistungsbasierten Volkswirtschaften steigen Produktivitätsraten daher nur sehr langsam.

Dieser tiefgreifende Wandel, der seit Jahrzehnten im Gange ist, trägt einen Namen: Deindustrialisierung. In Amerika und Europa kennen wir die Folgen: den Verlust von Industriearbeitsplätzen und eine sinkende Nachfrage nach industriellen Erzeugnissen. Doch die Deindustrialisierung ist kein Phänomen der reichen Länder allein. Sie erfasst die gesamte G20 und drückt nahezu überall auf die Wachstumsraten. Heute sind rund 50 Prozent der weltweiten Arbeitskräfte im Dienstleistungssektor beschäftigt.

Es gibt noch einen weiteren Grund für die globale Stagnation: das verlangsamte Bevölkerungswachstum. Nach dem Zweiten Weltkrieg kam es zu einem Geburtenboom, der die Nachfrage nach Wohnraum und Infrastruktur anheizte und den wirtschaftlichen Aufschwung beförderte. Demografen gingen lange davon aus, dass sich die Geburtenrate auf dem Niveau der Reproduktionsrate stabilisieren würde, also bei etwa zwei Kindern pro Familie.  Doch tatsächlich fiel sie vielerorts darunter – erst, weil Familien weniger Kinder bekamen, und inzwischen, weil überhaupt weniger Menschen Familien gründen. Diese Entwicklung betrifft mittlerweile Länder wie Malaysia, Brasilien, die Türkei und sogar Indien.

Für die Wirtschaft ist das ein großes Problem. Schrumpfende Erwerbsbevölkerungen bedeuten kleinere zukünftige Märkte, was Unternehmen davon abhält, zu expandieren – gerade in Dienstleistungsökonomien, wo neben begrenztem Produktivitätswachstum die Kosten tendenziell steigen. Investitionen bleiben aus. Gleichzeitig belastet der wachsende Anteil älterer Menschen gegenüber Erwerbstätigen die sozialen Sicherungssysteme und zwingt Staaten, entweder Steuern zu erhöhen, Schulden aufzunehmen oder Leistungen zu kürzen.

In diesem stagnierenden Umfeld haben Unternehmen ihre Strategien geändert. Statt Gewinne in Expansion, Neueinstellungen und Innovation zu investieren, setzen viele auf Aktienrückkäufe und Dividenden und geben damit finanziellen Ausschüttungen Vorrang, die den Aktienkurs und die Managergehälter in die Höhe treiben. Das Ergebnis ist ein Teufelskreis aus wachsender Ungleichheit, schwacher Nachfrage und niedrigem Wachstum. Dieses Muster zeigt sich weltweit. Kein Wunder, dass der Internationale Währungsfonds bereits von einem „lauen Jahrzehnt“ warnt – und das noch vor Trumps neuem Handelskrieg.

Was ist zu tun? Für einige ist künstliche Intelligenz der Weg aus der Stagnationsfalle. Sollte KI die Effizienz in arbeitsintensiven Bereichen wie dem Gesundheitswesen und Bildung verbessern können, könnte dies das Wachstum ankurbeln. Doch bislang sind die Produktivitätsgewinne durch generative KI, bei allem Hype, begrenzt geblieben – und es zeichnet sich eher eine Verlangsamung der Fortschritte ab als eine Beschleunigung. Roboter werden die globale Wirtschaft nicht retten.

Andere setzen auf Reindustrialisierung durch strikten Protektionismus. Das zumindest scheint der Plan der Trump-Regierung zu sein. Doch auch hier sind Zweifel angebracht. Der Rückgang der Industriearbeitsplätze lag nicht nur am internationalen Handel. Selbst Exportgiganten wie Deutschland und Südkorea verzeichnen einen Rückgang industrieller Beschäftigung. Zudem bieten die neuen Industriesektoren – etwa Halbleiter, E-Mobilität und erneuerbare Energien – nur wenige Arbeitsplätze. Die Ära, in der die Industrie massenhaft Jobs schuf, ist vorbei.

Wenn sich das Produktivitätswachstum nicht wesentlich steigern lässt, könnte eine stärkere Bevölkerungsentwicklung helfen. Das ist der Gedanke hinter den Geburtenförderungsmaßnahmen, die die Menschen dazu auffordern, mehr Kinder zu bekommen. Doch selbst Länder mit großzügiger Familienpolitik, wie Schweden oder Frankreich, erleben sinkende Geburtenraten. Die andere Option ist eine hohe Einwanderung, die nach wie vor das wirksamste Mittel ist, um das Wirtschaftswachstum in alternden Gesellschaften aufrechtzuerhalten. So wuchsen die USA in den letzten Jahrzehnten stärker als Japan oder Deutschland, auch dank höherer Immigration. Aber angesichts der aktuellen migrationsfeindlichen Stimmung und eines Präsidenten Trump wirkt diese Lösung derzeit fast utopisch.

Es gibt jedoch zwei plausible Möglichkeiten, auf die Stagnation zu reagieren: Die erste besteht darin, dass die Länder mehr ausgeben und Defizite in Kauf nehmen. Viel wird über die relative Stärke der US-Wirtschaft im Vergleich zu Europa gesprochen. Der zentrale, oft unterschätzte Grund dafür ist einfach: Die USA verzeichnen seit 2009 hohe Haushaltsdefizite – durchschnittlich über sechs Prozent des BIP –, während Europa hauptsächlich auf Haushaltsdisziplin gesetzt hat.

Defizitfinanzierte Investitionen – etwa in die grüne Transformation – könnten das Wachstum ankurbeln. Selbst in Europa, wo haushaltspolitische Zurückhaltung Tradition hat, bereiten Regierungen derzeit ein Ausgabenprogramm nach amerikanischem Vorbild vor – allerdings konzentrieren sich diese Ausgaben größtenteils auf die nationale Sicherheit und den Ausbau des Militärs und weniger auf die wirtschaftliche Erneuerung.

Der zweite Ansatz ist die Umverteilung. Jahrzehntelang galt die Devise, dass die Anhäufung von Wohlstand an der Spitze Wachstum von oben nach unten befördere – ein Versprechen, das sich als falsch erwiesen hat. Stattdessen könnten Staaten höhere Steuern für Reiche einführen und Einkommen an breitere Bevölkerungsschichten umverteilen. Das wäre zwar politisch schwer durchzusetzen, aber es würde große Vorteile mit sich bringen, indem es die Verbrauchernachfrage ankurbeln und die Märkte im In- und Ausland stärken würde.

Das Ziel sollte nicht nur darin bestehen, das Einkommensniveau anzuheben, das Studien zufolge zunehmend von Glück unabhängig ist, sondern auch stabilere und gerechtere Gesellschaften in einer Welt mit langsamerem Wachstum aufzubauen. Dazu gehören Investitionen in bessere Lebensverhältnisse: in die Wiederherstellung von Ökosystemen, den Ausbau von Infrastruktur und die Schaffung von Wohnraum. Dies könnte auch Entwicklungsländern ermöglichen, faire und verlässliche Bedingungen für exportgetriebenes Wachstum zu nutzen.

Natürlich wäre auch dann keine weltweite Stabilität garantiert. Neue politische Konflikte würden entstehen. Aber angesichts der aktuellen Lage scheint es einen Versuch wert zu sein. IPG 22

 

 

 

 

 

„Bist du Ausländer?“ Mann schießt auf offener Straße auf Ausländer

 

Ein Mann spricht einen Passanten auf offener Straße an und fragt ihn nach seiner Herkunft. Der gibt sich als Ausländer zu erkennen. Dann fallen Schüsse. Die Generalstaatsanwaltschaft ermittelt, der Tatverdächtige sitzt in Haft.

Ein Mann soll in Tuttlingen im Süden Baden-Württembergs mit einer Gasdruckwaffe auf offener Straße mehrmals auf einen zufällig vorbeikommenden Passanten geschossen haben, weil dieser sich auf Nachfrage als Ausländer zu erkennen gab. Das Staatsschutzzentrum bei der Generalstaatsanwaltschaft Stuttgart hat nun die Ermittlungen übernommen, wie ein Sprecher sagte. Der 43-jährige deutsche Tatverdächtige befindet sich in Haft.

Er habe sein Opfer im Februar nach der Frage zu dessen Herkunft unvermittelt und zielgerichtet mit der Waffe beschossen. Dabei erlitt der 39-jährige Syrer Verletzungen im Gesicht und am Oberkörper. Der Geschädigte habe die Tat erst einige Wochen später zur Anzeige gebracht und sich ärztlich behandeln lassen.

Waffe samt Munition sichergestellt

Bei einer Durchsuchung der Wohnung des Beschuldigten konnten eine Gasdruckwaffe samt Munition sowie mehrere Magazine sichergestellt werden. Seit dem 11. April befinde sich der Verdächtige in einer Justizvollzugsanstalt.

Begründet wurde die Übernahme durch die Generalstaatsanwaltschaft laut Sprecher mit der Außergewöhnlichkeit des Falles – mit den extremistisch motivierten Schüssen auf offener Straße – und dem damit verbundenen öffentlichen Interesse. (dpa/mig 22)

 

 

 

 

 

 

Earth Day 2025: Deutsche verlieren Interesse am Klimaschutz

 

Hamburg – Jetzt selbst handeln, um den Klimawandel im Interesse künftiger Generationen zu bekämpfen: Nur noch jeder zweite Deutsche (53 %) sieht sich hier in der Verantwortung. Zum Vergleich: Im Jahr 2021 waren es noch mehr als zwei Drittel der Bevölkerung (69 %). Das zeigt eine Studie des Markt- und Meinungsforschungsinstituts Ipsos, die jedes Jahr zum Tag der Erde (22. April) durchgeführt wird. Sie untersucht die Einstellungen der Menschen zum Klima- und Energiewandel in 32 Nationen und liefert auch aktuelle Erkenntnisse für Deutschland.

Klimabewusstsein nimmt weltweit ab, stark betroffene Länder besorgter

Generell ist die Zustimmung zum Klimaschutz in allen Ländern, die bereits 2021 befragt wurden, in diesem Jahr deutlich zurückgegangen – am stärksten in einigen der fortschrittlichsten Volkswirtschaften der Welt wie Deutschland. So sind aktuell nur noch zwei von fünf Bundesbürgern (41 %) der Ansicht, dass Deutschland mehr gegen den Klimawandel tun sollte. Damit liegt die Bundesrepublik im weltweiten Vergleich auf dem letzten Platz aller 32 befragten Länder (globaler Durchschnitt: 62 %). Vor zwei Jahren zeigten sich die Deutschen mit 55 Prozent Zustimmung noch deutlich engagierter.

Auffällig ist, dass sich nur 62 Prozent der Deutschen um die Auswirkungen des Klimawandels im eigenen Land sorgen, während sich mit 78 Prozent deutlich mehr Bundesbürger um andere Länder sorgen. In den meisten anderen Ländern der Welt ist diese Tendenz entweder weniger stark ausgeprägt oder sogar umgekehrt.

Die Studie zeigt auch: Dort, wo die Auswirkungen des Klimawandels am deutlichsten spürbar sind, sind auch die Sorgen größer – und die Überzeugung, dass die jeweilige Landesregierung mehr dagegen tun sollte.

Wenig Faktenwissen zum Klima- und Energiewandel

Drei von fünf Deutschen (59 %) glauben, dass der Umstieg auf erneuerbare Energien zu höheren Energiepreisen führen wird – so viele wie in keinem anderen Land. Jeder zweite Bundesbürger (50 %) ist zudem der Meinung, dass Elektroautos genauso schlecht für die Umwelt sind wie konventionelle Autos. Auch hier ist der Anteil der Skeptiker in Deutschland so hoch wie in kaum einem anderen Land – mit Ausnahme von Frankreich (58 %) und Polen (55 %).

Immerhin glaubt fast jeder zweite Bundesbürger (45 %), dass der Klimawandel die größte Gesundheitsbedrohung für die Menschheit darstellt. Allerdings ist auch mehr als jeder Vierte (27 %) davon überzeugt, dass es unter Klimawissenschaftlern bis heute keinen Konsens über die Auswirkungen des Klimawandels gibt. Weltweit wird diese These im Durchschnitt sogar noch häufiger vertreten (29 %), am häufigsten in Ungarn (40 %) und Frankreich (39 %).

Energiewende: Positive Effekte, aber auch Zweifel

Weltweit werden die positiven Auswirkungen der Energiewende – weg von fossilen hin zu erneuerbaren Energieträgern – durchweg stärker wahrgenommen als die Nachteile. Mit Blick auf die konkreten Vorteile sieht zwar eine knappe Mehrheit (52 %) der Deutschen positive Folgen für die Luftqualität, aber nur jeder Vierte für das Gesundheitswesen (26 %). Dass sich die Energiewende positiv auf die Zahl der Arbeitsplätze auswirkt, glaubt sogar nur jeder fünfte Bundesbürger (19 %). Deutlich mehr, nämlich 42 Prozent, bezweifeln dies. Und nur 15 Prozent der Deutschen haben die Hoffnung, dass erneuerbare Energien Armut und Ungleichheit in der Welt verringern.

Geringes Vertrauen in Politik und Wirtschaft

Nur noch 18 Prozent der Deutschen glauben, dass die scheidende Bundesregierung am Ende ihrer Amtszeit einen klaren Plan für die Zusammenarbeit von Politik, Wirtschaft und Zivilgesellschaft im Kampf gegen den Klimawandel verfolgt. Im vergangenen Jahr hatten noch drei von zehn Deutschen (30 %) diesen Eindruck. Gleichzeitig gibt fast die Hälfte der Bevölkerung (45 %) an, sich von der Regierung im Stich gelassen zu fühlen, wenn sie beim Klimaschutz jetzt nicht handelt. 2022 waren noch 60 Prozent der Bundesbürger dieser Überzeugung. Ein ganz ähnliches Bild zeigt sich beim Blick auf die Wirtschaft: 43 Prozent der Deutschen glauben, dass Unternehmen ihre Mitarbeiter und Kunden im Stich lassen, wenn sie nichts gegen den Klimawandel tun – das sind 19 Prozentpunkte weniger als noch vor drei Jahren (62 %). Ipsos 22

 

 

 

 

 

Die alte Ordnung zerfällt

 

Trump, Putin und Co. verändern die Welt. Europa muss lernen, im neuen Zeitalter der Unsicherheit zu bestehen. Von Mark Leonard

Überall in Europa wird US-Präsident Donald Trump als Chaot betrachtet, der das Gegenteil eines goldenen Händchens besitzt: Alles, was er anfasst, wird schlechter. Doch trotz seiner anachronistischen Ansichten zu den meisten Themen verkörpert er unsere Zeit perfekt.

In meinem 2021 veröffentlichten Buch The Age of Unpeace argumentierte ich, dass wir beginnen müssen, die Regeln der internationalen Beziehungen für ein Zeitalter der Hyperkonnektivität neu zu denken. Alle Institutionen und Vereinbarungen, die uns eigentlich zusammenbringen sollten, sind zu Waffen geworden. Die heutige Weltpolitik ähnelt einer gescheiterten Ehe. In dieser kann einer der entfremdeten Partner gemeinsame Dinge wie das Ferienhaus, den Hund oder die Kinder nutzen, um dem anderen zu schaden. In ähnlicher Weise werden Handel, das Internet, Energiequellen, Lieferketten, Migrationsströme, wichtige Rohstoffe und Spitzentechnologien eingesetzt, um geopolitischen Einfluss auszuüben und anderen wehzutun.

In dieser neuen Welt verschwimmen die Grenzen zwischen Krieg und Frieden. Wir haben uns leider geirrt, als wir angenahmen, dass wir mit dem Ende des Kalten Krieges ein goldenes Zeitalter des Friedens erreicht hätten. In Wirklichkeit gab es überall Gewalt, aber in Gestalt von Sanktionen, Exportkontrollen, Energieblockaden, Wahleinmischung und der Nutzung von Migration als Waffe – alles Maßnahmen, die unterhalb der Schwelle eines formalen Krieges liegen.

Seit Putins großangelegter russischer Invasion in der Ukraine richtet sich die weltweite Aufmerksamkeit weitgehend auf die traditionellen Elemente des Krieges und die Notwendigkeit, sich gegen russische Panzer, Flugzeuge und Raketen zu verteidigen. Experten und politische Entscheidungsträger griffen in ihrer Analyse auf die Lehren der Vergangenheit zurück, statt ihren Fokus auf die völlig neue Situation zu richten. Doch der Krieg in der Ukraine war immer einzigartig – eine seltsame Mischung aus 19. und 21. Jahrhundert, mit Soldaten und Schützengräben, aber auch mit Sanktionen, Drohnen, künstlicher Intelligenz und einem Kampf um Einfluss in den sozialen Medien.

US-Präsident Joe Biden, der französische Präsident Emmanuel Macron und Bundeskanzler Olaf Scholz reagierten auf die russische Aggression mit dem Versuch, die alte Ordnung wiederherzustellen. Doch insbesondere seit Trumps Wiederwahl ist klar, dass wir eine neue Sicht auf die Welt brauchen. Die Trump-Regierung hat alle alten Gewissheiten in einen Mixer geworfen und zu einem Brei verarbeitet. Es gibt keine klare Unterscheidung mehr zwischen Krieg und Frieden, Verbündeten und Feinden, nationalen und privaten Interessen oder links und rechts. Angesichts von Trumps Handelskrieg gegen den Rest der Welt, seines Versuchs, die Ukraine um Mineralien zu erpressen, sowie seiner Bedrohung der territorialen Integrität Grönlands und Panamas gelten die alten Regeln der internationalen Ordnung nicht mehr.

Leider geht es hierbei nicht nur um „Unordnung“, denn dies würde ja voraussetzen, dass es eine grundlegende Einigung darüber gibt, wie „Ordnung“ aussehen sollte. Das aber ist nicht der Fall. Die Betrachtung der internationalen Ordnung ist von den Ereignissen völlig überholt worden. Jahrelang haben sich die Regierungen durch Krisen gewurschtelt, die ihre Wurzeln in der Hyperkonnektivität und Interdependenz haben – vom Börsencrash des Jahres 2008 über die syrische Flüchtlingskrise bis hin zur Pandemie. Dabei ging das Vertrauen der Bürger in die Politik verloren. Die Politik stützte sich vielfach auf Notmaßnahmen und Ausnahmezustände, doch inzwischen gibt es so viele Ausnahmen, dass das internationale Regelwerk eher einem Schweizer Käse gleicht. Aus einer regelbasierten Ordnung ist eine Ordnung geworden, die auf Ausnahmen beruht.

Trump hat dies verstanden. Er hat die Frustration der Bevölkerung über die Eliten genutzt, die vorgaben, auf alles eine Antwort zu haben, aber ihre Versprechungen nicht erfüllen konnten. Wie bereits viele andere Nationen auf der Welt halten die Amerikaner die liberale internationale Ordnung zunehmend für einen Schwindel – für so etwas wie das Heilige Römische Reich, das weder heilig noch römisch noch ein Reich war. Die liberale internationale Ordnung kann nach den Gräueltaten in Abu Ghraib oder Guantánamo Bay nicht mehr als liberal bezeichnet werden. Sie ist auch kaum international, da viele Regionen der Welt weiterhin in Bürgerkriegen versinken. Und sie kann angesichts dieser Missstände auch nicht mehr als Ordnung bezeichnet werden.

Während die Europäer aufrüsten, um der russischen Aggression zu begegnen, müssen sie zugleich herausfinden, wie sie im Zeitalter des „Nichtfriedens“ überleben können, welches Trump, Putin, Xi Jinping und andere „starke Männer“ derzeit einläuten. Eine der größten Herausforderungen wird darin bestehen, gegenseitige Abhängigkeit wieder mit einem Gefühl der Sicherheit zu verknüpfen. Die Ukraine zu unterstützen und zur Bewältigung von Handelskriegen unsere Wirtschaftsmodelle zu überdenken, ist zwar notwendig, aber nicht hinreichend. Wir müssen auch intensiv über die Migrations-, Sozial- und Gesundheitspolitik nachdenken und darüber, wie Politiker mit ihren Wählern kommunizieren. Mit anderen Worten: Die Europäer brauchen eine neue Art, Politik zu machen – eine, die den Menschen ein Gefühl der Kontrolle zurückgibt. PS/IPG 17

 

 

 

 

 

Grün statt Schotter

 

Hamburg.  Zwar sind Schottergärten in immer mehr Bundesländern und Kommunen verboten, noch aber belasten viele künstliche Steinwüsten das Klima in Wohnquartieren. Das bundesweite Netzwerk Nachbarschaft ruft jetzt mit der Aktion „Jede Wiese zählt!“ zum Rückbau von Schottergärten auf.

Ihre „Blütezeit“ erlebten Schottergärten vor rund 20 Jahren. Sie galten als modern, puristisch und irrigerweise auch als pflegeleicht. Seitdem hat sich das Blatt gewandelt: In immer mehr Bundesländern und Kommunen sind sie verboten. Allein im Emsland (Niedersachsen) wurden jüngst die Besitzer von 253 Schottergärten dazu verdonnert, ihre umweltschädlichen Schottergärten umzugestalten. Laut Informationen des NaBu geben heute alle Landesbauordnungen vor, dass nicht bebaute Flächen zu begrünen und wasserdurchlässig zu gestalten sind. „Versiegelte Flächen belasten das Mikroklima. Im Gegensatz zu Grünflächen, die Feuchtigkeit verdunsten und die Umgebung kühlen, heizt sich der Boden von Schottergärten im Sommer extrem auf. Weder Pflanzen noch Tiere finden dort Lebensraum“, sagt Erdtrud Mühlens vom bundesweiten Netzwerk Nachbarschaft. Schottergärten verschlechterten zudem die Luft durch den fehlenden Feinstaubfilter der Pflanzen, Wasser könne nicht versickern.

Rückbau jetzt!

Die Annahme, Kieselflächen seien pflegeleicht, hat sich nicht bewahrheitet. Vielmehr belastet die Vernichtung von sogenanntem Unkraut mit Spezialmitteln, Hochdruckreiniger oder Abflammgeräten die Umwelt zusätzlich. Der Rückbau von Schottergärten ist daher ein Gebot der Stunde. Doch wohin mit dem alten Schotter? Eine fachgerechte Entsorgung ist die beste Lösung. Vielerorts wird die Renaturalisierung von Kieselflächen durch die Bepflanzung mit Sträuchern, Wiesenblumen und Bäumen sogar von der Kommune gefördert. Die Umwelt gewinnt: Selbst auf kleinen Flächen reinigen Pflanzen die Luft und kühlen sie an heißen Sommertagen. Die neuen Grünoasen bieten ein breites Nahrungsangebot für Vögel und Insekten und schlucken zudem Schall und Verkehrslärm.

Bunt statt grau wird belohnt!

Netzwerk Nachbarschaft ruft Anwohnergemeinschaften dazu auf, ihren Schottergärten jetzt wieder grünes Leben einhauchen. Im Rahmen der Aktion „Jede Wiese zählt!“ prämiert die bundesweite Aktionsgemeinschaft die schönsten Begrünungsprojekte 2025 mit insgesamt 2.500 Euro und einer Plakette von Janosch.

Mehr Infos unter: www.netzwerk-nachbarschaft.net/wettbewerbe/jede-wiese-zaehlt   N.N. 17

 

 

 

 

 

 

Migrationsziel Chile. Der lateinamerikanische Traum

 

In Südamerika gilt Chile als besonders stabil und wirtschaftlich erfolgreich. Für manche Migranten ist es daher eine Alternative zum schweren Weg in die USA. Aber auch in Chile sind sie nicht unbedingt wohlgelitten. Von Malte Seiwerth

Ein kleiner Graben trennt Chile von Peru, rundherum nur Sand. Ein paar Militärs stehen etwas hilflos an der Straße, während Hunderte Menschen einen der größten Grenzposten Chiles überqueren. Seit den 90er Jahren ist Chile dank seiner vergleichsweise starken Währung und stabilen Wirtschaft zu einem Migrationsziel geworden – die chilenische Wirtschaft profitiert davon, doch die Gesellschaft reagiert mit Misstrauen und Hass.

Nur ein paar Kilometer entfernt in der nördlichen Grenzstadt Arica leitet Dayana Mares eine der wenigen Anlaufstellen für Migrantinnen und Migranten. Die vom katholischen Bund der Jesuiten getragene Einrichtung berät monatlich zwischen 350 und 450 Personen. „Teilweise kommen die Menschen durstig an und bitten einfach nur um Wasser“, erzählt Mares. Die Beratungsstelle begleitet sie dann in den ersten rechtlichen Schritten, vergibt Lebensmittel und Kleidung und hilft bei der Suche nach Wohnraum. Doch die Ressourcen sind knapp. „Wir müssen häufig jene priorisieren, die unter den Bedürftigen, am bedürftigsten sind.“

Leben im Untergrund

„Es ist schwieriger geworden, die Grenze irregulär zu überqueren“, sagt Mares. Viele Menschen versuchten daher, übers Meer nach Chile zu gelangen. Seit 2022 muss zudem das erste Arbeitsvisum im Ausland beantragt werden. Vielen Migrantinnen und Migranten bleibt daher nur ein Leben im Untergrund. „Es bleibt die Hoffnung, sich mit einer Person mit chilenischem Pass zu verheiraten.“

In dem südamerikanischen Land lebten im Jahr 2023 von den rund 19 Millionen Einwohnern schätzungsweise knapp zwei Millionen ohne chilenischen Pass. Das waren fast 1,7 Millionen mehr als 2010. Ein Großteil von ihnen stammt aus Venezuela, Peru, Kolumbien und Haiti. Bei den Betreibern von Landwirtschaftsbetrieben sind die Geflüchteten als billige Arbeitskräfte beliebt, teilweise beuten sie die Menschen unter sklavenähnlichen Bedingungen aus. Zugleich sorgt die hohe Einwanderungszahl im vergangenen Jahrzehnt auch für scharfe Auseinandersetzungen. In mehreren Städten wurden die Migrantinnen und Migranten angegriffen, die aus Mangel an Unterkünften in Zeltstädten hausen. „Viele Chilenen machen die Migranten für das überlaufene öffentliche Gesundheits- und Bildungssystem verantwortlich, dabei existieren die Probleme schon deutlich länger als die Menschen hier sind“, sagt Helferin Mares.

Grenzausbau und -kontrollen

In der nördlichsten Region Chiles ist Camila Rivera die lokale Vertreterin der Zentralregierung in Santiago. „Präsident Gabriel Boric hat wichtige Investitionen getätigt, um die Grenze auszubauen, die Kontrolle zu stärken, aber auch um den regulären Übertritt zu vereinfachen“, sagt sie. Seit Mai 2024 sei daher der Grenzposten im Norden Aricas 24 Stunden am Tag offen. Man arbeite gemeinsam mit den verschiedenen Sicherheitsbehörden, um irreguläre Grenzübergänge und auch Menschenhandel zu bekämpfen.

Offizielle Anlaufstellen für Migrantinnen und Migranten gibt es so gut wie keine. Deshalb gehen viele Einwanderer zu Organisationen wie dem Hilfsdienst der Jesuiten.

Der Venezolaner Mijael Castellano ist erst seit ein paar Tagen in Chile. Seine Schwester lebt bereits mehrere Jahre in Arica und kam über die Landgrenze aus Peru. Castellano und seine Familie reisten mit dem Flieger und einem Touristenvisum ein. Nun sucht er in der Beratungsstelle der Jesuiten Hilfe, um seine Kinder zu legalisieren. Denn im Gegensatz zu Erwachsenen erhalten Minderjährige unabhängig von ihren Eltern automatisch ein Visum und haben Zugang zu Bildung und Gesundheit.

Weniger Rassismus als in Kolumbien

Sie verließen Venezuela wegen der schlechten wirtschaftlichen Lage und lebten zuerst in Kolumbien. An Chile schätzen sie die hohe Lebensqualität und den funktionierenden Staat. Rassismus hätten sie deutlich weniger erlebt als zuvor in Kolumbien, sagt Castellano. Chile sei der „lateinamerikanische Traum“, ergänzt seine Schwester Sherezade Castellano. Zwar nicht so reich wie die USA, aber trotzdem mit der Perspektive, ein besseres Leben führen zu können.

Derweil blickt Mares skeptisch in die Zukunft. Sie erwartet, dass durch die harte Migrationspolitik des neuen US-Präsidenten Donald Trump mehr Menschen nach Chile wollen. Aber die chilenische Regierung sei darauf nicht vorbereitet, sagt die Helferin. (dpa/mig 17)

 

 

 

 

 

Sudan: Zwei Jahre Krieg

 

Es ist ein bitterer Jahrestag: Vor zwei Jahren, am 15. April 2023, brach im Sudan ein brutaler Konflikt aus. Opponenten sind die sudanesischen Streitkräfte (SAF) und die paramilitärischen „Rapid Support Forces“ (RSF).  Stefano Leszczynski

Der Krieg hat die schlimmste humanitäre Krise der Welt ausgelöst – und ist dennoch ein vergessener, ein verdrängter Konflikt, überschattet von den Meldungen aus der Ukraine und dem Gazastreifen. Dabei droht die Katastrophe am Nil noch weiter zu eskalieren: Vertreibungen, Hunger, Seuchen, eine zusammengebrochene Gesundheitsversorgung. Große Teile Ostafrikas drohen in Mitleidenschaft zu geraten, das Leben von Millionen von Menschen ist gefährdet.

Vom Krieg ausgelaugt

„Was im Sudan geschieht, ist eines der treffendsten Beispiele für das, was Papst Franziskus ‚den dritten Weltkrieg in Stücken‘ nennt.“ Das sagt Claudio Ceravolo, Präsident von „Coopi/International Cooperation“, einer NGO, die seit über zwanzig Jahren im Sudan tätig ist. „Vor dem Krieg waren wir im Land mit Projekten in den Bereichen landwirtschaftliche Entwicklung, Umweltsicherheit und Frauenförderung tätig, aber all diese Projekte wurden durch den Krieg zunichte gemacht. Seit Mitte April 2023 leisten wir nur noch dringliche, erste Hilfe für die vom Krieg ausgezehrte Bevölkerung.“

Eine humanitäre Katastrophe

Nach übereinstimmenden Angaben mehrerer UNO-Organisationen wurden seit Ausbruch des Krieges vor zwei Jahren mehr als zwölf Millionen Menschen im Sudan vertrieben. Von ihnen haben fast vier Millionen jenseits der Grenzen Zuflucht gesucht, in Ländern wie Ägypten, Tschad und Südsudan – Ländern, die ebenfalls schon unter großem humanitärem Druck stehen. Fast ein Drittel der sudanesischen Bevölkerung ist auf der Flucht, und die Hälfte davon sind Kinder.

„Seit Beginn des Konflikts gab es mehr als 29.000 Todesopfer, darunter 7.500 Zivilisten.“ Das sagt Chiara Zaccone, die Coopi-Programmkoordinatorin für den Sudan, die nach Ausbruch des Krieges das Land bereist hat. „Aber die wirkliche Zahl der Toten ist noch viel höher, wenn wir auch die Menschen berücksichtigen, die an Ursachen gestorben sind, die indirekt mit dem Krieg zusammenhängen. Der Sudan ist bis heute ein Land, in dem mehrfach an unterschiedlichen Orten eine ernste Ernährungsunsicherheit und Hungersnot ausgerufen wurde.“

Zwei Jahre Krieg im Sudan und humanitäres Desaster - Radio Vatikan

Von der Ernährungskrise sind 24 Millionen Menschen betroffen, mindestens 270.000 Personen haben keinen Zugang zu Trinkwasser. Selbst die Grundversorgung ist beeinträchtigt: In den am stärksten vom Konflikt betroffenen Gebieten sind nur noch 25 Prozent der Gesundheitseinrichtungen funktionsfähig. Wassermangel und die prekären hygienischen Bedingungen begünstigen derweil die Ausbreitung von Krankheiten wie Cholera, Denguefieber und Malaria.

Hilfsgelder? Fehlanzeige

„Trotz dieser enormen Bedürfnisse scheint die internationale Gemeinschaft wenig daran interessiert, dieser Krise mit finanziellen Hilfen zu begegnen.“ Das sagt Filippo Ungaro, ein Sprecher des UNO-Flüchtlingswers UNHCR. „Unser Regionalplan für den Sudan ist nur zu neun Prozent finanziert; das führt zu großen Sorgen um das Überleben der Flüchtlinge und Vertriebenen.“ Der Exodus der Zivilbevölkerung, die vor dem Konflikt im Sudan flieht, betrifft alle Nachbarstaaten und hat destabilisierende Folgen für die ohnehin schon fragilen Gesellschaften. Der Tschad hat an die 800.000 Sudanesen aufgenommen und hält seine Türen weiterhin offen. Ägypten nahm anderthalb Millionen auf, Libyen mehr als 250.000 und Uganda mehr als 700.000.

„Es liegt auf der Hand, dass die Unfähigkeit der internationalen Gemeinschaft, internationale Konflikte mit friedlichen Mitteln zu lösen, und die Knappheit der Mittel, die für Nothilfemaßnahmen bereitgestellt werden, diesen Strom von Menschen auf der Flucht in andere Staaten nur noch weiter verstärken werden. Wenn diese Menschen nicht in ihre Heimat zurückkehren können, werden sie auf jede erdenkliche Weise versuchen, sich anderswo ein neues Leben aufzubauen, selbst um den Preis der Überfahrt über das Meer.“ Das ist ein Wink mit dem Zaunpfahl an Europa.

Die Interessen hinter dem Krieg

Mehr finanzielle Hilfen allein würden allerdings nicht ausreichen, um das Leid der Sudanesen zu lindern. Darauf macht Claudio Ceravolo von „Coopi“ aufmerksam. „Selbst wenn die Wirtschaftshilfe morgen um das Hundertfache aufgestockt würde, so wäre ohne ein ernsthaftes politisches Engagement zur Beendigung des Krieges kaum etwas gelöst. Wie lässt sich eine solche politische Trägheit auf internationaler Ebene rechtfertigen? Eine Untätigkeit, die in fast allen Konfliktsituationen weltweit zu beobachten ist. Offenbar sind wirtschaftliche Interessen heute so allgegenwärtig, dass der Krieg heute als Wirtschaftspolitik mit anderen Mitteln betrachtet wird.“

Auf einer internationalen Konferenz in London haben die Vertreter von Staaten am Dienstag finanzielle Hilfen mobilisiert und nach Auswegen aus dem Krieg gesucht. Die EU und ihre Mitgliedstaaten sagten zusammengenommen über 550 Millionen Euro an Finanzhilfen zu. Besorgt zeigten sich die Teilnehmer der Konferenz über die jüngste Eskalation im Sudan. Bei einem Angriff der RSF auf das Flüchtlingslager Zamzam in Darfur sollen ungefähr hundert Menschen ums Leben gekommen sein; Zehntausende sind auf der Flucht aus dem Lager.

(vn 16)

 

 

 

 

 

Zwei Jahre Krieg im Sudan: Not, Erschießungen, sexuelle Gewalt

 

Zwei Jahre Bürgerkrieg haben aus dem Sudan ein zerstörtes Land gemacht. Die Vereinten Nationen sprechen von der weltweit schlimmsten humanitären Krise – doch dringend benötigte Hilfe fehlt. Von Eva Krafczyk und Mudathir Hameed

Die Hauptstadt liegt in Trümmern, ein Viertel der Bevölkerung ist auf der Flucht, die Hälfte von akutem Hunger bedroht – das ist nur ein Teil der verheerenden Bilanz nach zwei Jahren Bürgerkrieg im Sudan. Die Kämpfe zwischen den Regierungstruppen und der paramilitärischen Miliz RSF um die Vorherrschaft in dem nordostafrikanischen Land haben laut Helfern zur weltweit größten humanitären Krise geführt.

Menschenrechtsgruppen werfen beiden Konfliktparteien Kriegsverbrechen vor – den Regierungstruppen etwa willkürliche Bombardierungen und der RSF schwere sexuelle Gewalt, Erschießungen und ethnische Vertreibungen. Ein Ausweg aus dem Blutvergießen ist nicht in Sicht. In London will man heute bei einer Konferenz über eine Lösung des Konflikts und eine Verbesserung der humanitären Hilfe beraten. Die geschäftsführende Außenministerin Annalena Baerbock warnte zur Eröffnung eindringlich davor, die Folgen des Bürgerkriegs im Sudan zu ignorieren. Deutschland stelle zusätzliche 125 Millionen Euro an Unterstützung für den Sudan und benachbarte Länder bereit, so die Grünen-Politikerin. Doch keine Summe an Hilfe werde ausreichend sein, wenn der Konflikt weitergehe. „Dieser Krieg muss aufhören“, forderte Baerbock. An der Konferenz nehmen Vertreter von rund 20 Staaten teil, darunter auch Vertreter der Afrikanischen Union und der Europäischen Union.

Die wichtigsten Fragen und Antworten zu der Krise:

Welche Konfliktparteien stehen sich gegenüber?

Der Sudan war nach dem Sturz von Langzeitmachthaber Omar al-Baschir im April 2019 vom Militär unter der Führung von General Abdel-Fattah al-Burhan regiert worden. Die Junta stand unter wachsendem Druck, die Macht an eine zivile Regierung abzugeben. Im Zuge dessen sollte die paramilitärische Miliz RSF unter al-Burhans Stellvertreter Mohamed Hamdan Daglo im Frühjahr 2023 in die Streitkräfte integriert werden. Die Spannungen zwischen den beiden Militärführern rund um den Übergang zu einer zivilen Regierung nahmen zu. Am 15. April 2023 brachen in der Hauptstadt Khartum Kämpfe zwischen der Armee unter al-Burhan und der RSF-Miliz unter Daglo aus.

Während des größten Teils des Konflikts schien die RSF die Oberhand zu haben. Sie belagerte laut Denkfabrik International Crisis Group (ICG) erst von der Armee kontrollierte Gebiete im Raum Khartum und eroberte anschließend den Großteil Darfurs, mit Ausnahme Nord-Darfurs, sowie einen Großteil der Region Kordofan im Süden. Die Erfolge der RSF erreichten laut ICG jedoch Mitte 2024 ihren Höhepunkt, als die Armee im September eine Gegenoffensive an mehreren Fronten startete.

Anfang 2025 erzielten demnach die Regierungstruppen im Großraum Khartum Fortschritte, die in einer Reihe verheerender Niederlagen für die RSF gipfelten. Ende März eroberte die Armee in einem wichtigen Sieg den Präsidentenpalast in der Hauptstadt zurück.

Droht eine weitere Eskalation?

Die Denkfabrik ICG hält das für wahrscheinlich. Statt den Fortschritt bei der Kontrolle der Hauptstadt „für den Frieden zu nutzen, scheint die Armee auf einen totalen Sieg zu drängen, während die RSF den Krieg auf neue Gebiete ausweiten will“, heißt es im jüngsten ICG-Bericht. „Beide Seiten erhalten weiterhin reichlich Unterstützung von außen, um ihre Kämpfe fortzusetzen.“

Während die Armee politische Unterstützung und Waffenlieferungen arabischer Staaten – insbesondere Ägyptens – erhalte, habe die RSF vor allem in den Vereinten Arabischen Emiraten Rückhalt, heißt es. Eine weitere Eskalation könnte zum Zerfall des Landes führen.

Welche Auswirkungen hat der Konflikt für die Menschen im Sudan?

Zwei Jahre nach Beginn des Konflikts ist nicht klar, wie viele Tote es bisher gibt. Die UN gehen von mehr als 20.000 aus. Es gebe aber auch Schätzungen von bis zu 150.000 Toten, so die Hilfsorganisation International Rescue Comittee.

„Nach allen Maßstäben ist dies die größte humanitäre Krise der Welt“, sagt Shaun Hughes, beim UN-Welternährungsprogramm WFP zuständig für den Sudan. Fast 13 Millionen Menschen seien auf der Flucht und 25 Millionen Menschen von akutem Hunger bedroht, warnt Hughes vor dem, was im dritten Jahr des Konflikts noch kommen könnte: „Das Ausmaß von dem, was im Sudan geschieht, droht vieles von dem, was wir in den vergangenen Jahrzehnten erlebt haben, in den Schatten zu stellen.“

Hilfsorganisationen beklagen, dass die Aufmerksamkeit für den Sudan weit hinter der für die Kriege im Nahen Osten und in der Ukraine liegt. Das macht sich auch bei der Finanzierung von Hilfsmaßnahmen bemerkbar: Bisher sind nur neun Prozent der Gelder für den internationalen Hilfsplan für den Sudan vorhanden. Benötigt werden laut UN mindestens 1,8 Milliarden US-Dollar. Der Sudan hat gut 50 Millionen Einwohner, mehr als 30 Millionen sind auf Hilfe angewiesen. Auch deshalb sind die Erwartungen an die Konferenz in London hoch. Mehrere diplomatische Anläufe, um eine Waffenruhe und Friedensverhandlungen zu erreichen, waren erfolglos geblieben.

Wie leben die Menschen derzeit in Khartum?

Trotz vieler grausamer Bilder und dramatischer Statistiken: Es gab zuletzt auch Anzeichen für neues Leben in der Hauptstadt. Das Zentrum ähnelt vielerorts weiter einer Geisterstadt, in manche Viertel wagen sich erste Einwohner aber zurück, beobachtete ein dpa-Reporter: An den Kreuzungen warten Teeverkäufer auf Kunden, Kinder spielen auf der Straße Fußball. Lebensmittel aber sind dreimal so teuer wie vor dem Bürgerkrieg.

Wie ist die Lage in Darfur?

In einer zunehmend verzweifelten Lage sind die mindestens 500.000 Menschen im Flüchtlingslager Samsam unweit von El Fascher in Nord-Darfur. Das Lager wurde mehrfach von der RSF angegriffen, mittlerweile ist die Miliz Berichten zufolge in das Lager eingedrungen, nachdem bei einem Angriff vergangene Woche mehr als 100 Menschen getötet wurden. Unter ihnen waren auch rund 20 Kinder und neun Mitarbeiter einer Hilfsorganisation. Zivilgesellschaftliche Organisationen warnen vor der Gefahr eines weiteren Völkermords in Darfur, das schon vor 20 Jahren Schauplatz von Massakern durch arabische Milizen an der einheimischen Bevölkerung war.

Wie wirkt sich der Bürgerkrieg auf die Nachbarstaaten aus?

Beobachtern zufolge besteht die Gefahr einer Destabilisierung der Nachbarländer des Sudan, insbesondere des Tschad und des Südsudan. Die beiden Nachbarn, zwei der ärmsten und wirtschaftlich schwächsten Staaten der Welt, gehören zu den wichtigsten Aufnahmeländern sudanesischer Flüchtlinge. „Der Sudan-Konflikt droht eine ohnehin verletzliche Region zu destabilisieren und hat weitreichende Auswirkungen auf Sicherheit, Wirtschaft und soziale Spannungen“, heißt es in einem Bericht des Internationalen Komitee vom Roten Kreuz (IKRK) zum zweiten Jahrestag des Konflikts. (dpa/mig 16)