Webgiornale 1-15
febbraio 2023
Presente e futuro dei rapporti Italia-Ue
L’agenda europea e
quella dell’Italia sono state profondamente segnate dall’aggressione russa
all’Ucraina del 24 febbraio 2022 e dal cambio dell’esecutivo alla guida del
Paese.
Mario Draghi ha
perseguito le due tradizionali linee portanti della politica estera italiana:
il sostegno alle relazioni transatlantiche e una forte spinta all’integrazione
europea. A sostegno dell’Ucraina e al fianco degli alleati europei e americani,
il governo Draghi ha promosso un’azione politica incentrata sull’aiuto militare
a Kyiv e sull’imposizione di sanzioni alla Russia. Draghi è stato
eccezionalmente attivo sui temi europei e a favore di riforme strutturali:
spingendo per una revisione del Patto di stabilità e crescita, promuovendo una
maggioranza qualificata in materia di politica fiscale ed estera, proponendo un
tetto al prezzo del gas in risposta alla crisi energetica e consolidando un
fronte congiunto con Francia e Germania per la concessione dello status di
paese candidato a Ucraina e Moldavia.
Draghi ha anche
attuato le prime riforme del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) che
hanno consentito l’erogazione, da parte della Commissione, delle prime tranche
di fondi Ue (oltre ai 24,9 miliardi di euro in anticipo del 2021, due rate da
21 miliardi di euro a febbraio e settembre 2022).
L’approccio
intergovernativo del governo Meloni
L’esperienza della
pandemia e l’approvazione di Next Generation EU, di cui l’Italia è primo
beneficiario, hanno progressivamente svuotato la narrativa populista di
un’Europa poco solidale e azzerato qualsiasi velleità di uscita dall’Ue. Di
fronte a questo nuovo scenario, la nuova premier Giorgia Meloni ha rimarcato di
essere intenzionata a rispettare gli impegni e le regole condivise attualmente
in vigore, oltre a sostenere la causa ucraina.
L’approccio
complessivo di Meloni è ispirato a una visione intergovernativa del processo di
integrazione, da cui deriva una grande cautela rispetto a riforme di impronta
sovranazionale. La premier ha criticato il processo di integrazione dell’Unione
che ha “allargato a dismisura le sue sfere di competenza”, individuando nel
rafforzamento del principio di sussidiarietà la ricetta migliore per politiche
efficaci. In questo senso, Meloni ha dichiarato di voler ribaltare l’approccio
che vuole più Europa in Italia per portare più Italia in Europa, per tutelare
meglio l’interesse nazionale.
Primi
provvedimenti tra pragmatismo e toni identitari
L’analisi dei
primi provvedimenti adottati dalla premier suggerisce una logica
“transazionale” nei confronti di Bruxelles. Da una parte, si nota il tentativo
di conservare i toni sovranisti e la tutela dei temi identitari (ad esempio,
negli attacchi alla migrazione incontrollata e al ruolo delle Ong nel
Mediterraneo) a beneficio dell’elettorato nazionale. Dall’altro, il governo ha
cercato un dialogo proficuo con i referenti istituzionali europei. La nomina di
due figure di considerevole esperienza politica europea come Antonio Tajani e
Raffaele Fitto a guidare i ministeri chiave degli Esteri e degli Affari Europei
(con delega al Pnrr e ai fondi di coesione), rispettivamente, e la scelta di
Bruxelles come sede della prima missione all’estero di Meloni da presidente del
Consiglio sono emblematici.
In parallelo, è cambiata
la posizione della premier sul Pnrr: inizialmente il suo partito, Fratelli
d’Italia, aveva promesso di rinegoziarlo, mentre successivamente nel programma
elettorale era stato proposto di rivederne alcuni aspetti nei limiti
consentiti; dopo l’insediamento del nuovo governo, le prime interlocuzioni con
Bruxelles fanno prefigurare una parziale rimodulazione volta al raggiungimento
degli obiettivi di REPowerEU alla luce della crisi energetica. Tutti gli
obiettivi previsti per il 2022 sono in ogni caso stati raggiunti, grazie anche
all’ottimo lavoro del governo Draghi. Inoltre, lo stesso commissario Gentiloni
ha espressamente escluso un possibile rinvio della scadenza finale del Piano.
Sul tema
energetico, il governo Meloni si è posta in continuità con il governo
precedente nella richiesta di una soluzione europea sul tema dell’aumento del
costo dell’energia e del tetto al prezzo del gas. Sul fronte del Patto di
stabilità e crescita, ha accolto con generale favore le proposte della
Commissione europea che puntano a una revisione delle regole verso una maggiore
flessibilità e differenziazione su base nazionale.
In generale, una
sfida cruciale per Giorgia Meloni sarà quella di riuscire a mantenere un solido
ancoraggio a Parigi e Berlino. A differenza dell’esecutivo guidato da Draghi,
FdI non ha mai avuto interlocuzioni particolarmente distese con Francia e
Germania, il cui appoggio è tuttavia indispensabile per portare avanti riforme
all’interno della zona euro. Ci sono stati segnali incoraggianti, come la volontà
di proseguire la cooperazione avviata con il governo Draghi nella cornice del
Trattato del Quirinale con la Francia e del Piano di azione bilaterale
italo-tedesco. Tuttavia, i rapporti con Parigi si sono subito incrinati per la
controversia legata alla Ocean Viking, la nave dell’Ong Sos Mediterranée che è
stata respinta dall’Italia e costretta a dirigersi verso le coste francesi a
novembre, portando a una crisi diplomatica con la Francia.
Guardando avanti:
Mes e migrazione
Rispetto al
completamento dell’Unione economica e monetaria, l’Italia è al momento l’unico
Paese a non aver ancora ratificato il Meccanismo europeo di stabilità (Mes),
che in passato aveva visto l’opposizione di FdI e Lega. La presidente del
Consiglio si è impegnata a non attivare lo strumento, ma ha aperto alla
ratifica attraverso l’approvazione parlamentare. Più in generale, il governo
vuole puntare a introdurre meccanismi che permettano di rafforzare la
resilienza e reattività agli shock dell’area euro ed evitare un’eccessiva deregolamentazione
in tema di aiuti di stato, che potrebbero avere ricadute pericolose per
l’Italia.
In tema di
migrazione, il governo Meloni insiste sulla necessità di trovare soluzioni
europee attraverso meccanismi che permettano una redistribuzione equa tra gli
Stati membri, enfatizzando la difesa dei confini dell’Unione, la creazione di
una missione europea per bloccare le partenze dalla sponda Sud del
Mediterraneo, l’apertura di hotspot nei paesi del Nord Africa e l’aumento degli
sforzi di cooperazione allo sviluppo nei paesi di origine. Il governo punta
infatti in maniera decisa a un rilancio del partenariato con i paesi del
Vicinato meridionale, inclusa la proposta di un “Piano Mattei per l’Africa“,
più volte rilanciata da Meloni.
A fronte della
sostanziale continuità tra le politiche europee di Draghi e i primi
provvedimenti di Meloni, resta da verificare la capacità del nuovo governo di
continuare nel solco di un’interlocuzione costruttiva con Bruxelles di qui alla
cruciale scadenza delle prossime elezioni europee. Nel 2023, l’Unione sarà
chiamata a elaborare strategie di riforma di lungo termine che le permettano di
affrontare debolezze strutturali e nuove possibili crisi future, con
l’obiettivo di riguadagnare credibilità tra i cittadini. Se l’Italia non sarà
protagonista e non saprà collaborare con gli altri grandi paesi fondatori a un
consolidamento della governance europea, questo compito sarà ancora più
difficile.
Nicoletta Pirozzi.
AffInt. 30
Migranti: l’Europa ha rialzato i muri. Oltre 2mila chilometri di “barriere”
Bruxelles –
Tornano a crescere i flussi migratori e riappare la parola «magica»: muri alle
frontiere esterne. Il tema è tornato alla ribalta, sulla scorta dei dati
diffusi da Frontex (l’agenzia delle frontiere esterne Ue): il 2022 ha
registrato 330.000 ingressi irregolari, il «più elevato numero dal 2016». Il
tema è stato evocato ieri al Consiglio informale dei ministri dell’Interni Ue a
Stoccolma e lo sarà al Consiglio europeo informale del 9 e 10 febbraio.
Partiamo subito da un punto: i «muri» sono già ampiamente realtà. Secondo un
documento pubblicato dal Parlamento Europeo lo scorso ottobre, a fine 2022 si
contavano 2.048 chilometri di barriere ai confini Ue in 12 Stati membri, nel
2014 erano appena 315, nel 1990 zero. A dare l’esempio fu
la Spagna, che tra il 1993 e il 1996 realizzò 20,8 chilometri di
recinzione intorno alle sue exclave in Marocco di Ceuta e Melilla.
Pochi anni dopo è
stato il turno della Lituania, che ha costruito barriere (71,5
chilometri) con la Bielorussia già tra il 1999 e il 2000, dunque
prima di entrare nell’Ue (muri poi «ereditati» dall’Ue). In seguito alla crisi
dei profughi “inviati” da Minsk in Europa, la repubblica baltica ha ampliato la
recinzione a 502 chilometri. Possiamo citare i 37,5 chilometri di barriera (con
pali d’acciaio alti cinque metri) al confine tra Grecia e
Turchia lungo il fiume Evros, Atene ha già annunciato che costruirà altri
35 chilometri. Anche la Bulgaria ha eretto al confine turco una
recinzione a partire dal 2014, che oggi conta 235 chilometri. Come
dimenticare l’Ungheria, che tra il 2015 e il 2017 ha costruito 158 chilometri
di recinzione al confine serbo e 131 al confine con la Croazia (oggi membro Ue
e di Schengen). Muri li troviamo anche ai confini esterni in Polonia,
Estonia, Lettonia, in Francia all’imbocco del tunnel della
Manica, per non parlare dell’Austria che nel 2015 ha «innovato»,
costruendo la prima recinzione (3,7 km) al confine con uno Stato Schengen, la
Slovenia.
I muri insomma
“crescono” e molti Stati membri vogliono che a finanziarli sia l’Ue (il primo a
chiederlo fu il premier ungherese Viktor Orbán). Ed è di questi giorni la
richiesta del cancelliere austriaco Karl Nehammer che Bruxelles eroghi due
miliardi di euro per rafforzare la barriera eretta dalla Bulgaria al confine
con la Turchia. Richiesta ribadita ieri a Stoccolma dal suo ministro
dell’Interno Gerhard Karner. «So che è oggetto di dibattiti accesi – ha detto
ottimista – ma penso anche che recentemente ci sia stato un movimento sul tema,
perché molti Paesi sono coinvolti e le frontiere esterne hanno bisogno di
aiuto». L’Austria è sotto forte pressione migratoria, come lo è l’Olanda
(soprattutto per i flussi secondari da altri Stati Ue), che ha dato man forte a
Vienna. A suo sostegno anche il presidente del Partito Popolare Europeo,
Manfred Weber. «A nessuno piace costruire recinzioni – ha dichiarato – ma dov’è
necessario, deve essere fatto». Già nell’ottobre 2021, dodici Stati membri
(Austria, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Grecia, Ungheria,
Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia e Slovacchia) hanno inviato alla
Commissione una lettera chiedendo finanziamenti Ue per i “muri”. « Barriere
fisiche – scrivevano – appaiono un’efficace misura di protezione dei confini
che servono gli interessi di tutte l’Ue» e dunque «devono essere oggetto di
fondi aggiuntivi adeguati dal bilancio Ue con la massima urgenza ». La
Commissione per ora ha resistito. « Non ci saranno fondi per fili spinati e
muri» replicò allora la presidente Ursula von der Leyen. Il presidente del
Consiglio Europeo, Charles Michel, è stato però più morbido, parlando di
«finanziamento giuridicamente possibili». E ieri a Stoccolma la commissaria
agli Affari Interni Ylva Johansson è apparsa più sfumata. «Gli Stati membri –
ha detto – sono quelli che meglio sanno quali sono le misure più efficaci per
proteggere le frontiere esterne». Quanto ai soldi, «gli Stati membri hanno
tagliato i fondi proposti dalla Commissione per il bilancio 2021-27 per la
gestione delle frontiere e la migrazione, se si vogliono finanziare nuove
misure bisogna tagliare altrove». E l’Italia? La premier Giorgia Meloni,
che all’opposizione chiedeva il “blocco navale” davanti alla Libia, oggi parla
di resuscitare la missione navale Ue nel Mediterraneo antiscafisti Sofia (chiusa
nel 2020, per volontà dell’allora governo italiano), in particolare la “fase
tre” mai attuata, che prevede il pattugliamento nelle acque libiche. Ci
vorrebbe il via libera della autorità di Tripoli.
Giovanni Maria del
Re, Avvenire 27
La lunga marcia verso un’“Europa verde e globale”
“La più grande
trasformazione industriale dei nostri tempi – forse di tutti i tempi”: con
queste parole la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha
descritto nel suo recente intervento al World Economic Forum il percorso
necessario a raggiungere lo scenario di zero emissioni di qui al 2050. Le
opportunità economiche che ne derivano sono potenzialmente enormi: entro il
2030, il mercato globale delle tecnologie energetiche pulite triplicherà,
arrivando a un valore complessivo di 650 miliardi di dollari.
Di fronte a questa
sfida, l’Europa dovrà continuare nella direzione inaugurata con il Green Deal,
il Next Generation EU e il Just Transition Fund, investendo nel rafforzamento
della propria base industriale e aprendosi maggiormente all’innovazione e agli
investimenti. Nel percorso verso le emissioni zero, sarà importante preservare
le partnership in essere – in primis quella con gli Stati Uniti –, ma evitando
di creare “nuove dipendenze”. Di qui l’idea della Commissione di sviluppare un
vero e proprio Piano industriale del Green Deal, strutturato intorno a quattro
pilastri: il quadro regolamentare, gli investimenti, le competenze e il
commercio.
Dilemmi e
trade-off
L’idea del Piano
Industriale del Green Deal va letta nel quadro di quella ricerca di una
maggiore autonomia strategica europea sul piano economico ed energetico di cui
parla Nathalie Tocci nel suo recente A Green and Global Europe. Lungo questo
percorso, non mancheranno dilemmi e trade-off da valutare attentamente. Il caso
forse più eclatante è quello dei rapporti con la Cina, attuale leader nella
produzione di tecnologie per l’energia solare, ma con un record assai
discutibile sul piano del rispetto dei diritti dei lavoratori e dei diritti
umani più in generale.
Nel suo intervento
al Wef, von der Leyen ha sottolineato che l’approccio Ue al momento non è
orientato a un “disaccoppiamento” dell’economia europea da quella cinese, ma
piuttosto a una “riduzione del rischio”: la richiesta principale a Pechino è
che venga garantito un “level playing field” – il principio che era alla base
anche del Comprehensive Agreement on Investment sottoscritto da Pechino e
Bruxelles a fine 2020 e attualmente congelato. Come evidenzia Tocci, tuttavia,
se da parte cinese la richiesta di abbandonare pratiche commerciali sleali
verrà disattesa, l’Ue potrebbe trovarsi spinta verso un maggior protezionismo a
tutela del proprio comparto industriale.
L’importanza della
politica
Più in generale, come
ci ricorda Tocci nel suo libro, la strada verso la decarbonizzazione
dell’Europa è – e sarà sempre più – costellata da decisioni che hanno una
natura non meramente tecnica, ma anche politica; decisioni che vanno prese
valutandone attentamente le ripercussioni non solo sul piano interno, ma anche
sui paesi del “vicinato” europeo e a livello globale.
All’interno
dell’Unione, sottolinea Tocci, è fondamentale mitigare gli effetti
redistributivi delle politiche di decarbonizzazione, che potrebbero esacerbare
le disuguaglianze sociali e territoriali: solo introducendo adeguate misure a
supporto dei gruppi e delle regioni più vulnerabili – come il citato Just
Transition Fund o il Social Climate Fund – sarà possibile evitare un colpo di
coda dei populismi.
Anche nel
Mediterraneo allargato e in Medio Oriente, al di là delle contingenze legate
alla diminuzione delle importazioni europee dalla Russia, gli effetti delle
politiche di decarbonizzazione sono destinati a essere asimmetrici: i paesi le
cui economie sono maggiormente dipendenti dall’esportazione di combustibili
fossili verso l’Europa potrebbero trovarsi particolarmente esposti a
instabilità politiche dovute alla diminuita disponibilità di risorse derivanti
dagli idrocarburi. Per questo, è indispensabile che l’Unione incoraggi e si
faccia partner di iniziative che mettano a frutto il potenziale di produzione
di energia pulita nel proprio vicinato.
Infine, a livello
globale, l’Ue non dovrà soltanto fare i conti con le possibili implicazioni che
un’accresciuta rivalità tra Usa e Cina potrebbe avere per il futuro della
cooperazione climatica e sul piano delle interdipendenze produttive; cruciale
sarà anche evitare che paesi come Russia e Cina strumentalizzino a proprio
vantaggio le rivendicazioni dei paesi del Sud del mondo più esposti alle
conseguenze catastrofiche dell’emergenza climatica.
Un’Europa verde e
globale
Una cosa è certa:
la posta in gioco è altissima. Proprio perché l’Ue si è affermata da ormai tre
decenni come leader globale nel contrasto dell’emergenza climatica e – più di
recente – nell’impegno per la transizione energetica, un eventuale fallimento
del progetto di decarbonizzazione europeo sarebbe esiziale. Come evidenzia
Tocci, per scongiurare questo rischio è indispensabile non solo che la visione
di un’ “Europa verde e globale” si affermi a tutti i livelli come il principio
guida del progetto europeo, ma anche che sia accompagnata da un’ambiziosa e
attenta gestione politica, che renda l’epocale processo di “trasformazione” in
atto sostenibile all’interno dell’Unione e catalizzatore per il resto del
mondo. Leo Goretti, AffInt 26
La relazione complicata ma necessaria tra Italia e Germania
Forse non è un
caso che quella dichiarazione solenne destinata a rafforzare e sistematizzare i
rapporti bilaterali fra Italia e Germania, che era stata messa in cantiere in
concomitanza con la firma del Trattato del Quirinale non si sia ancora
concretizzata. E a tutt’oggi quello strumento, che doveva in qualche modo
bilanciare un emergente asse italo-francese, sembra scomparso dalle agende dei
due governi.
Due nuovi governi,
due economie interdipendenti
Si potrà osservare
che sia a Berlino che a Roma si sono insediati due nuovi governi, e che i nuovi
esecutivi hanno avuto bisogno di approfondire l’argomento. O che l’attuazione
del Trattato del Quirinale sembra risentire del diverso contesto politico
emerso in Italia dopo le elezioni del 25 settembre dello scorso anno. Ma resta
comunque la sensazione che i rapporti politici e diplomatici fra Roma e Berlino
non siano all’altezza del livello di interdipendenza delle due economie o del
ruolo che i due Paesi dovrebbero giocare in Europa.
Antiche e
consolidate reciproche diffidenze, stereotipi ugualmente consolidati nel corso
degli anni sulle rispettive percezioni dei due Paesi e dei due popoli, e più di
recente le scarse affinità politiche fra i partiti che compongono le
maggioranze che sostengono i due governi in questa congiuntura, non hanno
facilitato finora un più intenso rapporto collaborativo, che pure sarebbe pienamente
giustificato dai fondamentali delle relazioni economiche e dai dati relativi
all’integrazione delle catene del valore e ai volumi dell’interscambio
commerciale.
Tra convergenze e
sospetti
Se si guarda
all’economia numerose sono le convergenze fra i due Paesi: struttura produttiva
caratterizzata da una importante componente del manifatturiero, economie
orientate all’export, ma anche rilevante dipendenza dall’estero per gli
approvvigionamenti energetici. E analogamente sul piano degli assetti politico-istituzionali,
Italia e Germania condividono un modello di democrazia parlamentare, la prassi
consolidata di Governi di coalizione (anche se definitivamente più stabili in
Germania che in Italia) e un sistema di decentramento amministrativo che si
caratterizza in forme variamente articolate di autonomie locali/regionali.
Cionostante nel
corso degli anni più recenti (salvo qualche parentesi) i rapporti bilaterali
italo tedeschi sembrano essere stati caratterizzati più da sospetti e
diffidenza che da reale volontà di collaborazione. Eppure una solida intesa fra
Roma e Berlino resta la condizione necessaria (anche se non sufficiente)
soprattutto per affrontare alcune sfide essenziali che sono oggi al centro
della agenda europea.
Almeno tre esempi
dovrebbero chiarire l’importanza di una maggiore convergenza fra i due governi.
Sostegno
all’industria europea
In concomitanza
con l’adozione da parte degli Usa di un vasto programma di aiuti all’economia
all’industria americana è tornato di attualità il tema di una politica
industriale europea che consenta alle economie del Vecchio Continente di
recuperare competitività, di sviluppare innovazione e nuove tecnologie e di
fronteggiare ad armi pari la concorrenza degli Usa ma anche della Cina.
Due strumenti sono
sulla carta utilizzabili per garantire un sostegno all’industria europea: un
ulteriore allentamento del regole europee sugli aiuti Stato o un fondo comune
europeo (magari alimentato da nuovo debito comune) o una combinazione di
entrambi. Il primo è di più rapida attuazione (la Commissione europea ci sta
già lavorando), ma è destinato a privilegiare quegli Stati che dispongono di
maggiori margini di bilancio (come la Germania) e a penalizzare quegli Stati
(come l’Italia) che non si possono permettere politiche di bilancio espansive.
Il secondo costituirebbe una soluzione autenticamente europea, ma richiede
tempi più lunghi, notevoli complessità tecniche e il superamento di resistenze
politiche. Una sintesi efficace fra queste due soluzioni presuppone
necessariamente da una intesa fra Roma e Berlino.
La sintesi sul
Patto di stabilità
La Commissione
europea ha poi presentato qualche settimana fa una proposta per una revisione
delle regole vigenti in materia di disciplina di bilancio (il Patto di
stabilità). La proposta si pone l’obiettivo di semplificare e rendere più
trasparenti le nuove regole, definendo un sistema di sorveglianza sui bilanci
nazionali in grado di conciliare la disciplina di bilancio con politiche di
sostegno agli investimenti necessari per garantire una crescita sostenibile e
le transizioni energetica e digitale.
In estrema
sintesi, il nuovo sistema proposto dalla Commissione prevede il passaggio da un
quadro unico di regole valide per tutti, all’idea di percorsi di aggiustamento
definiti per ciascuno Stato membro sulla base di una interlocuzione fra
Commissione e singoli Governi. Inoltre la Commissione propone di utilizzare,
come criterio per valutare la sostenibilità dei piani nazionali di riduzione
del debito, non più il saldo netto strutturale, ma quello della evoluzione
della spesa pubblica primaria (al netto cioè della spesa per interessi e per
interventi straordinari e congiunturali), che dovrà essere tale da consentire
una “riduzione plausibile” del debito.
I due governi per
ora non si sono espressi pubblicamente su questa proposta. Ma sembra che
Berlino la valuti come un rischioso allentamento delle regole in materia di
disciplina di bilancio con poteri eccessivamente discrezionali per la
Commissione. Mentre a Roma si guarda con preoccupazione alla possibilità che la
Commissione possa condurre analisi sulla sostenibilità dei debiti pubblici dei
Paesi maggiormente a rischio. Anche in questa caso una soluzione condivisa
dovrebbe fondarsi verosimilmente su un qualche compromesso fra le posizioni di Italia
e Germania.
Transizione
energetica e tetto al prezzo del gas
Sul fronte delle
politiche energetiche, eccezionalmente sollecitate in Europa come conseguenza
del conflitto in Ucraina, Italia e Germania sono apparsi fin dall’inizio della
crisi come i due Paesi europei più esposti e più vulnerabili. Entrambi
sostanzialmente privi di fonti proprie di energia, ancora molto dipendenti da
fonti fossili (dopo la rinuncia al nucleare), e soprattutto eccessivamente
dipendenti dalle forniture di gas dalla Russia, entrambi impegnati in un
complesso processo di transizione e decarbonizzazione.
Malgrado però
questi oggettivi elementi di convergenza, Italia e Germania hanno sperimentato
non poche difficoltà a trovare una posizione comune in sede europea nella
ricerca di una risposta comune alla crisi energetica. Con l’Italia più
determinata a contenere gli aumenti del prezzo del gas e la Germania più
preoccupata di garantire la sicurezza degli approvvigionamenti, di fatto Roma e
Berlino per mesi si sono confrontate da posizioni opposte ad esempio sull’idea
di una riforma dei meccanismi di fissazione dei prezzi dell’elettricità o sulla
proposta di un tetto al prezzo del gas (fino all’accordo su un ragionevole
compromesso). Anche in questo caso un minimo denominatore comune fra Italia e
Germania si è rivelata condizione necessaria per la definizione di una
posizione comune europea.
Gli esempi
ricordati sono solo una minima parte dei casi in cui una solida convergenza fra
le posizioni dei due governi di Italia e Germania sarebbe non solo
nell’interesse dei due Paesi ma anche determinante per far avanzare l’agenda
europea. Se ne potrebbero citare molti altri: dalla gestione dei flussi
migratori alla politica estera, alla difesa, alle riforme istituzionali
destinate a migliorare il funzionamento della Ue. Forse è arrivato il momento
di invertire la tendenza e pensare operativamente a come superare diffidenze e
completare il rapporto fra le due economie con un’intesa politica fra i due
governi. Ferdinando Nelli Feroci,
AffInt 19
Cosa prevedono gli aiuti militari all’Ucraina decisi a Ramstein
Negli ultimi
undici mesi di guerra di aggressione russa, l’Italia e l’Europa hanno fatto
molto per sostenere la difesa dell’Ucraina. Negli scorsi giorni il ministro
degli Esteri Antonio Tajani ha reso noto che Roma fornirà il sistema di difesa
aerea avanzato Samp/T e ha rivelato che gli aiuti italiani complessivi ammontano
a oltre un miliardo di euro. Questo sforzo è inquadrato in una vasta coalizione
internazionale che va oltre i Paesi Nato e Ue.
Lo scorso 20
gennaio i 40 Paesi del gruppo di contatto di Ramstein hanno deciso, nel vertice
tenutosi nell’omonima base militare americana in Germania, quali sistemi d’arma
includere nel prossimo pacchetto di aiuti all’Ucraina. Gli Stati Uniti
doneranno 2.5 miliardi di dollari in sistemi d’arma, munizioni e veicoli,
l’equivalente di circa due brigate di manovra ex novo. La Danimarca donerà
tutti e 19 sistemi di artiglieria Caesar in suo possesso; il Regno Unito cederà
14 carri Challenger 2 (il 6 per cento dello stock posseduto); le discussioni
sul trasferimento di carri armati Leopard 2 da parte di Polonia e altri Paesi
continuerà invece nei prossimi giorni dipendendo dall’autorizzazione del
governo tedesco alla riesportazione dei mezzi prodotti dalla Germania.
Aiuti di tale
entità faranno molto per supportare la difesa dell’Ucraina e dimostrano il
continuo sostegno occidentale a Kyiv a quasi un anno dall’inizio del conflitto.
I Paesi dell’Unione Europea e della Nato non sono direttamente coinvolti nel
conflitto; tuttavia, il loro fondamentale supporto a Kyiv li ha costretti a
confrontare i propri arsenali militari con il paradigma di una guerra ad alta
intensità, combattuta con forti perdite di soldati e materiale contro un
avversario tecnologicamente avanzato.
Ciò è riflesso
anche dagli equipaggiamenti ricevuti dall’Ucraina, funzionali a una guerra di
manovra. La novità di questo pacchetto di aiuti è infatti la preponderanza di
mezzi per rendere più mobili le forze ucraine e permettergli di organizzare
controffensive che rompano lo stallo attuale: blindati da trasporto per la
fanteria Bradley e Stryker, sistemi antiaerei mobili Gepard e cacciacarri su
ruote AMX10RC. Allo stesso tempo, gli aiuti ricevuti continuano a comprendere
anche il tipo di sistemi necessari per l’attuale fase di logoramento, come
sistemi antiaerei Patriot e Samp-T, e pezzi d’artiglieria M777 di grosso calibro.
Stock europei in
esaurimento
Questo cambio di
marcia è tutt’altro che banale. Il fatto che gran parte del materiale donato
all’Ucraina derivi da stock di mezzi corazzati accumulati come riserve è
rivelatorio. Esistono solo due modi per poter trasferire una tale mole di armi
e veicoli: o si effettua un aumento del numero di sistemi prodotti annualmente
dall’industria, o si ricorre alle scorte compresi sia equipaggiamenti non allo
stato dell’arte e sia riserve strategiche.
La cessione di
questi mezzi non è però priva di costi. Pur non essendo attivamente impiegati,
i sistemi “accantonati” sono spesso utilizzati in altri modi. Per esempio, a
partire dagli anni 2000, circa 200 dei carri armati Leclerc presenti negli
stock francesi sono stati “cannibalizzati” per derivarne pezzi di ricambio. I
margini di manovra sono ancora più stretti se si considera che non tutti i
mezzi in servizio attivo sono necessariamente operativi e potrebbero non essere
disponibili a causa di riparazioni, manutenzione e aggiornamenti di routine.
L’aumento della
capacità industriale sembra ormai ineluttabile anche considerando la qualità
dei sistemi d’arma attualmente ceduta. Se in un primo momento il grosso degli
aiuti consisteva soprattutto in sistemi di produzione sovietica, l’aumento di
donazioni di prodotti di progettazione occidentale richiederà una fornitura
costante di munizioni, pezzi di ricambio e aggiornamenti. Ciò obbligherà i
Paesi Nato a riservare parte del proprio output industriale alle esigenze delle
forze armate ucraine.
Aumentare la
produzione: più facile a dirsi che a farsi
Il potenziamento
delle capacità produttive non è una sfida impossibile. L’amministratore
delegato di Hensoldt, azienda tedesca produttrice di radar e sensori
controllata da Leonardo, ha annunciato che a partire da aprile inizierà a
produrre un radar TRML-4D (per la difesa aerea) al mese, a prescindere dagli
ordini effettivi, in modo da averne a disposizione in caso di richieste
accorciando i tempi di consegna, I produttori del Leopard 2, Krauss-Maffei Wegmann
e Rheinmetall, hanno invece fatto sapere di poter consegnare all’Ucraina un
panzer alla settimana a partire dal terzo quadrimestre del 2023.
Detto questo, un
tale impegno da parte dell’industria europea sarà possibile soltanto se
l’aumento degli investimenti nella difesa da parte dei governi sarà strutturale
e ancorato ad una volontà politica di lungo periodo. Verosimilmente, questo è
il motivo per il quale non abbiamo ancora assistito a grossi investimenti di
capitale e all’apertura di nuove catene di montaggio (con l’eccezione di
Rheinmetall, che nel quadro di un accordo con il governo ungherese ha
recentemente annunciato l’avviamento di una fabbrica di munizioni per cannoni
da 30, 120 e 155 mm).
La cautela
industriale è comprensibile, ma va considerata anche alla luce degli
aggiornamenti alle guidance per il 2022 dei principali produttori qua citati,
cioè le informazioni aziendali e finanziare aggiornate per l’anno passato.
Molte aziende hanno visto un aumento degli ordini: Leonardo ha registrato un
più 26 per cento; Rheinmetall indica un aumento degli ordini ancora da evadere
del 32 per cento, mentre Airbus ha visto un incremento fra il 6 e il 21 per
cento a seconda del segmento di prodotti. Tuttavia i dati sugli ordini
effettivamente evasi nel 2022 sono più variegati: ciò può indicare una lentezza
fisiologica nella chiusura di nuovi contratti, ma anche limiti a quanti nuovi
progetti possono essere avviati dall’industria.
Non è (solo) un
problema politico
La certezza
politica non è però l’unico ostacolo a un repentino aumento di produzione. Le
catene di valore dei sistemi d’arma si appoggiano su reti di fornitori
complesse e difficili da coordinare in caso di un picco improvviso della
domanda. Alcune aziende stanno pensando a sistemi di supply chain management
integrali digitalizzati, che diano una panoramica complessiva sull’intera
catena di valore, ma problemi di cybersicurezza e preoccupazioni riguardanti la
protezione di segreti industriali ne ostacolano l’adozione.
Inoltre,
l’inflazione e l’impossibilità di rifornirsi di materie prime dalla Russia ha
un impatto importante sui costi di produzione: il prezzo dell’acciaio è
quintuplicato, mentre l’alluminio (la cui maggior produttrice è la Cina, con il
46 per cento, seguita dalla Russia al 6) è triplicato. Infine, c’è il tema del
personale qualificato: un problema condiviso anche con l’industria civile che
renderà difficile un improvviso incremento delle capacità industriali.
È evidente quindi
che ci vorrà tempo e impegno sia politico sia industriale affinché la
produzione militare raggiunga livelli sufficienti per sostenere l’Ucraina, così
come per tornare a riempire i magazzini di armi e munizioni. Negare per questo
gli aiuti a Kyiv sarebbe però un grave errore. Sia per la loro utilità nella
legittima difesa del Paese aggredito, sia perché, a0ù prescindere da quanto
durerà questo conflitto, la guerra in Ucraina ha dimostrato che sarà
impossibile non riflettere su come rendere più flessibili le capacità
produttive europee anche nel medio-lungo periodo. Michelangelo Freyrie, Iai 23
Si celebrano i
sessant’anni del Trattato dell’Eliseo, che Charles De Gaulle e Konrad Adenauer firmarono
il 22 gennaio 1963. Ma negli ultimi tempi a ogni occasione, Scholz ha preso
Macron in contropiede e la vicenda dei Leopard è solo l’ultima in ordine di
tempo
Parigi non vale i
Leopard. E questa mattina, pur accolto in gran pompa da Emmanuel Macron, Olaf
Scholz arriva nella capitale francese senza aver ancora deciso se dare il
segnale verde alla fornitura dei formidabili carri armati tedeschi all’Ucraina.
L’ennesimo amletismo del cancelliere, specularmente opposto al decisionismo del
presidente francese che è stato il primo ad annunciare la cessione di carri da
combattimento (i sia pur leggeri Amx) a Kiev, esemplifica plasticamente lo
stato dei rapporti tra Francia e Germania.
Nella solennità
della Sorbona e del Pantheon, tra i fregi dorati dell’Assemblée Nationale e
infine sotto i lampadari di cristallo del palazzo presidenziale, Macron e
Scholz, accompagnati da uno stuolo di ministri, celebrano i sessant’anni del
Trattato dell’Eliseo, che Charles De Gaulle e Konrad Adenauer firmarono il 22
gennaio 1963. Non fu solo «il sigillo alla riconciliazione tra i due Paesi»,
come aveva detto il generale al cardinal Marty qualche mese prima a Reims, ma
anche l’atto di nascita di quell’intesa franco-tedesca, che sarebbe stata il
vero motore dell’integrazione europea nei successivi decenni.
Dietro le luci e
l’ostentazione di unità del giubileo, il vertice parigino, inizialmente
previsto in ottobre e poi cancellato, si vuole come il tentativo di ricomporre
le troppe fratture di un rapporto, che l’annus horribilis appena concluso ha
svelato logoro e a tratti inconciliabile.
Non è la prima
volta che la coppia franco-tedesca attraversa una crisi. Senza andare troppo
indietro, già nello scorcio finale dell’età di Angela Merkel, Macron non aveva
nascosto delusione e fastidio per il rifiuto dell’eterna cancelliera di
seguirlo nei suoi ambiziosi piani di rilancio del progetto europeo. L’intesa
sul Next Generation Eu li aveva però riavvicinati. Uscita di scena Merkel,
l’esuberante presidente francese non ha potuto o saputo trovare alcun varco
nell’indole anseatica, fredda e spesso silente di Olaf Scholz.
Ma senza la guerra
in Ucraina, la frattura tra Francia e Germania non sarebbe venuta così allo
scoperto. L’aggressione russa è stata uno smacco per entrambi i Paesi, ognuno a
modo suo illusosi sulla buona fede di Vladimir Putin. Berlino rendendosi quasi
totalmente dipendente dal gas di Mosca, Parigi facendo continue aperture
diplomatiche al leader del Cremlino. Di fronte alla sfida aperta alla loro
leadership europea da parte dei Paesi del Centro e del Nord, Polonia in testa,
che rivendicano superiorità morale per aver visto giusto sulle vere intenzioni
di Putin, i due leader hanno reagito in ordine sparso. Macron ne ha
approfittato per rilanciare l’autonomia strategica e la difesa europee,
naturalmente sotto l’egida dell’industria militare francese. Scholz per
annunciare una Zeitwende, una svolta epocale, dietro cui si cela il panico e la
fretta della Germania di rivedere da cima a fondo il modello di sviluppo che
l’ha fatta volare alto per tre decenni ma ora non più sostenibile, basato
com’era su tre esternalizzazioni: il gas alla Russia, il mercato alla Cina, la
difesa agli americani.
Nulla è stato più
lo stesso dopo il 24 febbraio 2022 tra Parigi e Berlino. A ogni occasione,
Scholz ha preso Macron in contropiede, mettendo davanti a tutto gli interessi
della Germania: l’acquisto degli F-35 dagli Usa, il progetto di scudo
antimissile senza la Francia, i 200 miliardi di euro per proteggere i tedeschi
dal caro energia decisi senza alcuna consultazione, la visita in solitario a
Pechino, il lungo rifiuto al tetto sul prezzo del gas. «Non è un bene per
l’Europa quando la Germania si isola», chiosava in ottobre il presidente
francese, che tuttavia non ha avuto nessuna remora a seppellire il Midcat, caro
a Berlino, la pipeline che avrebbe portato il gas dalla Penisola iberica in
Germania.
La vicenda dei
Leopard è l’ultima in ordine di tempo. Scholz è sotto accusa, non solo degli
ucraini che ieri hanno ricordato il prezzo che pagano in vite umane ma anche
all’interno della sua maggioranza, per l’esitazione a fornire quelli della
Bundeswehr e autorizzare a farlo gli altri 12 Paesi che li hanno. Ma il
cancelliere è chiaramente infastidito dal fatto che nonostante Berlino abbia
fornito più aiuti finanziari e militari a Kiev di tutti gli altri europei,
Macron si è visto spesso riconoscere i maggiori crediti.
Oggi sulla Senna
tutto questo rimarrà dietro le quinte e nel segreto dei colloqui riservati.
Perché una rottura tra Germania e Francia, che insieme rappresentano il 42% del
Pil dell’Unione a 27, non è pensabile né auspicabile per nessuno in Europa.
Condannate a intendersi a dispetto delle loro divergenze, Parigi e Berlino
devono però ripensare un rapporto, che solo includendo altri Paesi come Italia,
Spagna e Polonia, potrà restituire spinta propulsiva al progetto comune. di
Paolo Valentino, CdS 22
Visita dell’ambasciatore Varricchio a Stoccarda
BERLINO – La
collaborazione politica, economico-commerciale e culturale con il Baden-Württemberg
è stata al centro della visita a Stoccarda dell’ambasciatore d’Italia in
Germania Armando Varricchio a Stoccarda, il 19 e il 20 gennaio.
Il Land è un
partner commerciale di prima importanza per l’Italia, con 26 miliardi di euro
di interscambio nel 2021.
In agenda colloqui
con il ministro presidente del Land Winfried Kretschmann e il sindaco Frank
Nopper, il segretario di Stato per Economia, lavoro e turismo, dr. Patrick
Rapp, e gli Amministratori delegati della IHK Region Stuttgart, Susanne Herre,
e della Messe Stuttgart, Roland Bleinroth.
Momento centrale
del programma anche l’incontro con la comunità italiana nel Baden-Würrtemberg
(197.000 gli iscritti all’AIRE presso il Consolato Generale di Stoccarda) e i
suoi rappresentanti, il personale del Consolato Generale d’Italia in Stoccarda
e dell’Istituto Italiano di Cultura di Stoccarda.
È seguita la
visita al Ginnasio Königin-Katharina-Stift, dove opera una sezione bilingue
italo-tedesca, e alla Staatsgalerie Stuttgart, che nel 2023 e 2024 ospiterà due
importanti mostre dedicate all’arte italiana (Modigliani e primo Rinascimento a
Venezia). (Inform/dip 24)
Acli Germania, Tabbì: „Le ’nuove mobilità‘ possono fare molto”
Conversazione con
il neo eletto presidente delle ACLI Germania Pino Tabbì, a cura di Paola
Colombo
“Noi
rappresentiamo gran parte della vecchia emigrazione, le ‘nuove mobilità’ sono
presenti nel movimento Acli ma non come desidereremmo. Con il Congresso abbiamo
definito linee di programmazione per ritrovare la nostra presenza in Germania a
fronte di una realtà di emigrazione cambiata” così, Pino Tabbì neopresidente
delle Acli Germania eletto nel Congresso di novembre ad Augsburg, nel quale è
stato rinnovato anche il Consiglio. Pino Tabbì, volto non nuovo, già presidente
delle Acli Baden-Württemberg, succede a Duilio Zanibellato. Acli Germania è
presente in Baviera, nel Nord-Reno Vestfalia, Baden-Württemberg e anche a
Francoforte (vedi box a pag. 15). Il Congresso è arrivato con un po’ di ritardo
rispetto alle scadenze naturali, a causa sia della pandemia sia della
situazione interna. I due anni di pandemia hanno infatti lasciato il segno: le
AcliGermania hanno perso soci e alcuni circoli sono stati chiusi perché non ci
si poteva incontrare in presenza. Con il recente Congresso le Acli Germania
hanno presentato la loro linea programmatica per il prossimo quadriennio. Ne
parliamo con il neo presidente Pino (Giuseppe) Tabbì.
Come pensate di
rilanciare il movimento?
Molto spesso chi diventa
socio di un’associazione lo fa perché riceve un servizio. E questa è spesso
l’immagine che si ha delle Acli. Ma noi non siamo e non vogliamo dare più
l’impressione di essere solo un’associazione che offre servizi. Siamo un
Movimento che porta avanti un modo di essere, un pensiero, un’azione sociale
ancorata alle nostre tre fedeltà: al mondo del lavoro, alla democrazia e al
Vangelo. E sull’affermazione di questi valori auspichiamo che la gente aderisca
alle Acli.
Pino Tabbì,
presidente ACLI Germania dal novembre scorso.
Come pensate di
farlo?
Abbiamo prestato
attenzione alla nuova immigrazione con dei progetti a Stoccarda, rivolti
specificatamente alla nuova migrazione: con “Famiglia Amore”, riservato a
giovani mamme, e con il progetto di consulenza “Vivere e lavorare in Germania”
per rispondere alle esigenze della nuova immigrazione; infatti quelli che
arrivano non sono tutti ingegneri, professionisti qualificati che non hanno
difficoltà a trovare lavoro, ma c’è una immigrazione che ha ancora bisogno di
aiuti concreti, di sostegni e noi siamo intervenuti in questi anni su queste
necessità lavorando in rete con le istituzioni tedesche, ma anche italiane.
Forse non abbiamo comunicato con chiarezza che il nostro agire nasce dal nostro
essere un’associazione che ha a cuore la dignità del lavoro e dei lavoratori.
Si tratta di un’azione delle Acli e non di un servizio generico. Per questo
dico che dovremmo un lavorare di più sulla nostra visibilità per far capire chi
realmente siamo e quali valori animano la nostra associazione.
Come intendete
entrare in contatto con la realtà della recente immigrazione non solo per far
conoscere le vostre iniziative ma anche per trovare persone che si impegnino
con voi e che portino nuova linfa al movimento?
Vorremmo far rivivere
i circoli come luogo di aggregazione portandovi il dibattito politico-sociale
sui temi che toccano la nostra gente di emigrazione, per esempio, sul salario
minimo, sul Bürgergeld (reddito dei cittadini), sui temi che interessano la
realtà dove viviamo. Oggi tutto lo cammina su Facebook, su Instagram, sui
social, però manca l’aggregazione concreta delle persone per discutere e
progettare l’aiuto concreto, ossia aiutare a trovare lavoro. In questo la nuova
emigrazione con le sue competenze, potrebbe mettersi a disposizione e
intervenire per darci una mano. Ci definiamo l’associazione per la giustizia
sociale e questo per noi si collega al nostro impegno per dare dignità al
lavoro, un lavoro che permetta alle persone di vivere e lavorare
dignitosamente. Per questo vorremmo organizzare prossimamente dei dibattiti
nell’opinione pubblica, aperti a tutti in Germania, perché abbiamo perso un po’
questa abitudine di discutere sui grandi temi che interessano la nostra
comunità; vorremmo farci promotori di interventi del genere perché c’è un gran
bisogno di discutere con le persone.
La “nuova
mobilità” è fatta anche in parte di persone che arrivano in Germania allo
sbaraglio. Se ne parlava, ed era intervenuto anche Lei su questo, durante la
presentazione del RIM, Rapporto Italiani nel Mondo (2021) lo scorso anno.
Arrivano persone pensando di arrangiarsi in qualche modo, ma che poi finiscono
spesso nelle maglie dello sfruttamento; c’è addirittura chi finisce sotto i
ponti, chi chiede l’elemosina per racimolare i soldi per il biglietto di
ritorno in Italia. Che cosa si può fare per aiutare la gente a partire con un
progetto di emigrazione più consapevole e non “a rischio sconfitta”?
Su quasi tutte le
varie pagine Facebook degli italiani in Germania si leggono annunci di giovani
che cercano lavoro come: “Lavapiatti, con vitto e alloggio”. Questi giovani
sanno che cosa significa accettare queste condizioni di lavoro? Sanno che
spesso vanno incontro a condizioni di sfruttamento e di posizioni lavorative
irregolari? Il nostro compito è tematizzare queste situazioni d’illegalità per
dare un’idea alle persone di ciò a cui vanno incontro, perché il problema
spesso non è trovare un lavoro, ma trovare un lavoro dignitoso. Problematizzare
le situazioni critiche che ci sono per creare giustizia sociale è nel nostro
spirito. Si potrebbe pensare anche a un servizio negli uffici di patronato in
Italia che dia informazioni a chi è intenzionato a partire. Questo tipo di
servizio richiede un grande sforzo di collaborazione, di lavoro in rete tra
diversi attori anche perché è quasi assodato che chi vuole partire, nel momento
di bisogno, non si reca al patronato ma usa più facilmente Facebook o altro per
avere informazioni che però non sempre sono corrette o complete.
… quindi uno
sportello informativo per chi voglia emigrare in Germania?
Sì, un lavoro di
collaborazione tra associazioni / istituzioni che operano all’estero e le
istituzioni locali in Italia – patronati, comuni, sindacati – con l’apertura di
sportelli informativi per ricevere informazioni concrete sul vivere e lavorare
all’estero. Bisogna creare le condizioni affinché chi vuole partire abbia gli
strumenti concreti – “la cassetta degli attrezzi” direbbe la mia amica Delfina
Licata (curatrice del RIM, n.d.r) – per affrontare la vita in emigrazione e non
un “vieni tanto il lavoro lo trovi, poi ti arrangi”. Si potrebbe stilare un
decalogo, come avevo fatto una volta, che presenta le condizioni base a cui si
va incontro quando si emigra. Chi riesce a rispondere positivamente a più della
metà delle domande, allora è pronto per partire, altrimenti ci deve riflettere
due volte. In ogni caso chi emigra deve avere chiaro il suo progetto di vita.
Può fare un
esempio dove è meglio rinviare la partenza?
Quando ci sono
figli in età scolare la situazione è molto delicata. Bisogna chiedersi a quali
problemi si va incontro con l’inserimento scolastico dei figli. In questo caso
– nella nostra realtà tedesca – non si può dare un’informazione generale,
perché il sistema scolastico è di competenza del Land e quindi diverso da
regione a regione. È meglio comunicare direttamente con la persona interessata
e cercare la risposta caso per caso. Proprio ultimamente mi ha scritto un padre
che voleva venire a Stoccarda per lavoro con tutta la famiglia comprendente un
figlio al quarto anno di liceo. Gli ho consigliato di rinviare la partenza, per
non distruggere il percorso scolastico del figlio, perché qui difficilmente
riuscirebbe a chiudere il percorso scolastico con la maturità precludendosi
quindi un eventuale percorso universitario. Queste sono le situazioni che un
servizio di informazione deve tenere presente, caso per caso.
Prima diceva che
avete collaborato con le istituzioni tedesche per realizzare alcuni progetti.
Pensate anche a collaborazioni con i Comites?
La partecipazione
alla vita democratica è sempre stata un principio cardine delle Acli. Da sempre
abbiamo svolto un ruolo attivo per l’affermazione dei diritti di rappresentanza
degli italiani all’estero tramite le sue istituzioni Comites e Cgie. In queste
istituzioni, da quando sono nate, siamo stati sempre presenti e attivi anche se
in alcuni Comites il rapporto non è sempre stato idilliaco. Il Congresso ha
riaffermato, in linea di principio, la collaborazione con i Comites
specialmente su temi e progetti attinenti ai bisogni della nostra emigrazione.
E un esempio concreto della disponibilità a collaborare è avvenuto direttamente
durante il congresso dove la presidente del Comites di Monaco di Baviera –
Daniela Di Benedetto, gradita ospite al nostro congresso – contattata da alcuni
presidenti di circoli Acli bavaresi ha programmato incontri con loro per azioni
comuni su temi che riguardano la comunità. Aperti quindi a collaborare. Da
associazione di credenti è importante per noi – oltre alla partecipazione alla
vita cristiana – anche rafforzare le collaborazioni con le comunità cattoliche
italiane. È già una realtà consolidata che dirigenti di circoli Acli sono
componenti anche dei Consigli Pastorali e viceversa; in passato con la comunità
cattolica di Esslingen dove c’era don Gregorio, ora delegato delle Mci, abbiamo
organizzato una collaborazione tra la diocesi di Pozzuoli, la Comunità
Cattolica di Esslingen e le Acli, per un progetto di accompagnamento e
assistenza a 24 giovani provenienti dalla diocesi campana. La Cci di Esslingen
ha provveduto all’accoglienza, la diocesi di Pozzuoli al sostegno finanziario,
noi abbiamo messo gratuitamente a disposizione tutte le nostre competenze
tecniche per dar loro – nel corso di due settimane formative (12 persone a
settimana) – tutte le informazioni e istruzioni necessarie per potersi
trasferire in Germania: dal riconoscimento dei titoli di studio, alla
traduzione del curriculum, al corso di tedesco, al sistema sanitario e così
via. Da quell’esperienza è nato il progetto Ciane, Centro Informazione Acli
Nuove Emigrazioni, che rispondeva a una situazione di arrivo continuo di
connazionali nella zona di Stoccarda negli anni 2015 ’16 ’17 e ‘18. Sono state
centinaia le persone che vi si sono rivolte, tutte con un bisogno
d’informazioni, di consulenza per capire come funziona il sistema. Non solo
informazione e consulenza, ma anche accompagnamento all’inserimento nel lavoro,
assistenza nel riconoscimento dei diritti. Oltre alle nostre competenze,
avevamo creato – ed esiste ancora – una rete di collaboratori tecnici per
rispondere a quelle esigenze che superavano le nostre competenze: traduttrici
giurate che lavoravano gratuitamente per tradurre CV e lettere di
presentazione; l’esperta di diritto del lavoro per la verifica dei contratti di
lavoro. Questa idea di solidarietà, di voler essere al servizio della gente è
stata fondamentale per portare avanti questo progetto a titolo gratuito. Il
Covid ha rovinato tutto, le regole anti covid non permettevano l’assistenza in
presenza e il progetto è stato sospeso. Oggi, finita la pandemia, sono
subentrati ulteriori problemi per cui lo si continua sotto forma di contatti
via email, telefonate e così via.
Per una presenza
più incisiva sul territorio pensate di aumentare il numero dei circoli, oppure
volete rafforzare la vostra presenza laddove è già ben radicata e attiva?
Sì, la nuova
dirigenza si è assunta l’impegno di sostenere e rafforzare l’azione dei circoli
esistenti per riavvicinare vecchia e nuova emigrazione alle Acli. Vogliamo
avviare azioni che permettano la riapertura di quei circoli che a causa del
Covid hanno chiuso. Cercheremo di avviare dei cambiamenti, laddove ci sono
circoli vogliamo intensificare la presenza locale con i patronati, per
sostenere nei loro bisogni il maggior numero di persone possibili e rafforzare
le sedi esistenti. Il nostro obiettivo è quello di un doppio rafforzamento,
quello dei circoli e quello del patronato. CdI gennaio
Le recenti trasmissioni di Cosmo italiano, ex Radio Colonia
27.01.2023. La
memoria dell'Olocausto tra Germania e Italia
Come è avvenuta la
rielaborazione del passato nazista? Lo storico Tommaso Speccher ricostruisce in
un libro le diverse fasi attraversate dalla Germania, dal dopoguerra a oggi,
perché «fare i conti con il passato è un processo complesso che si muove lungo
tutta la storia tedesca». Nel frattempo si chiudono gli ultimi processi ai
nazisti con le condanne all'ex segretaria e alla guardia nazista del campo di
Stutthof, o alla guardia SS ultracentenaria di Sachsenhausen. L'approfondimento
è di Cristina Giordano. Il processo per la memoria dell'Olocausto riguarda
anche l'Italia, dove a lungo venne rimossa, ad esempio, la storia della Risiera
di San Sabba, unico campo di sterminio in territorio italiano. Ce ne parla la
storica Chiara Becattini.
26.01.2023. In
Germania mancano troppe case. Trovare casa è sempre più difficile. Più studi
segnalano questa tendenza, mai così pochi alloggi negli ultimi vent’anni. Tra i
motivi, anche la crisi del settore edilizio. Cristina Giordano ha raccolto dati
e studi. I costi della casa sono un fattore determinante per il rischio
povertà. Il sussidio del «Wohngeld» promette un aiuto. Ma come? Ne parliamo con
Luigi Brillante, consigliere comunale a Francoforte. Diamo uno sguardo anche a
Berlino, eterno cantiere: ce ne parla l’architetto Federico Beulcke.
25.01.2023. Un
Bundestag con troppi deputati
La Germania vuole ridurre
il numero dei parlamentari, arrivato oggi a 736, il più alto numero di sempre.
La riforma di Spd, Verdi e Fdp punta a correggere il meccanismo che sta alla
base del doppio voto e responsabile di questo allargamento. Cristina Giordano
ne spiega i dettagli. In Italia invece, dove i parlamentari sono stati già
ridotti, è la volta di una nuova proposta
24.01.2023. I
Leopard, Pistorius e l'esercito tedesco. Carri armati del tipo Leopard per
l'Ucraina, sì o no? La Germania è sotto pressione internazionale e ancora fatica
a decidere. Un inizio spinoso per il nuovo ministro della Difesa Pistorius, che
deve comunque risolvere altri gravi problemi dell’esercito tedesco. Prima di
lui ci hanno già provato in molti. Ce ne parla Cristina Giordano, mentre con
Pietro Batacchi, direttore di Rivista Italiana Difesa, diamo uno sguardo anche
alle condizioni degli altri eserciti europei, compreso quello italiano.
23.01.2023. Le
reazioni in Germania all'arresto di Messina Denaro
Come è stato
raccontato dai media tedeschi l’arresto del boss Matteo Messina Denaro? E cosa
significa questo colpo inferto a Cosa nostra per le ramificazioni della mafia
in Germania? L’approfondimento di Cristina Giordano. Nell’intervista alla
giornalista siciliana di Adnkronos Elvira Terranova, i dettagli e gli
aggiornamenti sull’arresto dell’ultimo capo mafia, responsabile delle stragi
mafiose del '92 e latitante da 30 anni.
20.01.2023. Forte
aumento delle richieste di asilo in Germania
In Germania, il
numero di domande di asilo è salito in modo significativo nel 2022, soprattutto
nel mese di dicembre. È quanto emerge da un rapporto del Bundesamt für
Migration und Flüchtlinge, cioè l'Ufficio federale per la migrazione e i
rifugiati. Ce ne parla Giulio Galoppo. Sulle conseguenze di un tale aumento per
il sistema di accoglienza tedesco abbiamo sentito il parere di Wiebke Judith,
portavoce di Pro Asyl. L'avvocato Salvatore Fachile fa, invece, il punto della
situazione sul sistema di accoglienza in Italia.
19.01.2023. Come
ripensare il traffico su strada in Germania e in Italia?
La Germania deve
ridurre rapidamente e drasticamente le emissioni di gas serra nel settore dei
trasporti, se vuole raggiungere i suoi obiettivi climatici. Ce ne parla Giulio
Galoppo. Mentre Giulio Mattioli, ricercatore alla TU di Dortmund, spiega cosa
porterebbe l’introduzione del limite di velocità sulle autostrade tedesche. Dal
Comune di Milano, l’assessora alla mobilità Arianna Censi, ci racconta come si
è deciso di imporre un limite di 30 km/h in città a partire dal 2024.
18.01.2023.
Corruzione in Germania: servono norme più severe
Che fine ha fatto
lo scandalo delle mascherine in Germania? Gli esponenti della Unione che hanno
incassato altissime provvigioni non risultano punibili per la legge tedesca.
Ora vanno chiariti i rapporti tra il ministro delle Finanze Lindner ed una
banca tedesca, che fanno discutere. Ma in molti sono d'accordo: la norma contro
la corruzione dei politici va riformata. Ce ne parla Lisa Böhm
dell'osservatorio Abgeordnetenwatch, mentre Giulio Galoppo ricostruisce per noi
lo scandalo delle mascherine.
17.01.2023. Tutti
i disagi e i problemi di Deutsche Bahn, e le loro cause
Il 2022 è un anno
che le ferrovie tedesche preferirebbero dimenticare. Ritardi, cancellazioni,
treni troppo affollati. La Deutsche Bahn sembra soccombere a problemi
strutturali accumulatisi nel corso di molti anni. COSMO italiano ha raccolto le
esperienze, e i disagi, di alcune ascoltatrici e ascoltatori, oltre a quelle
dei colleghi Fillipo Proietti e Giulio Galoppo, che, poi, spiegano quali siano
le cause di un così cattivo funzionamento delle ferrovie tedesche. Bernhard
Knierim, dell’associazione Allianz Pro Schiene, ci porta alla radice del
problema, mettendo in evidenza gli investimenti sbagliati o completamente assenti
delle ferrovie.
16.01.2023.
Carenza di medicinali in Germania e in Italia
Da settimane in
Germania mancano medicinali: antipiretici, antidolorifici, antibiotici, antitumorali,
ma anche farmaci per la riduzione del colesterolo o contro il diabete. Ne
risentono i pazienti le farmacie e gli studi medici che si trovano ad
affrontare una forte ondata influenzale. Come si è arrivati a questa
situazione? E come ha intenzione di agire il governo per risolvere la crisi? Ce
ne ha parlato Giulio Galoppo. Fiorenza Grieco, farmacista italiana a Colonia,
ci dà un’idea di cosa ciò significhi per chi i medicinali li vende. Dove vanno
ricercate le cause di questa carenza ce lo spiega Andrea Mandelli, presidente
della Federazione degli Ordini dei Farmacisti Italiani.
Vivere in Germania
Scopri il nostro
formato video per rispondere alle domande più frequenti degli italiani che
vivono in Germania. O che stanno pensando di trasferirsi. Guarda i video con
Luciana Mella sulle cose più importanti da sapere sull’AIRE, sull’assicurazione
sanitaria - la Krankenkasse -, sul sistema scolastico ma anche sul mondo del
lavoro, su Hartz IV e altri sussidi e sulla ricerca di una casa:
Musica italiana
non stop. Il nostro web channel COSMO Italia inoltre ti offre due ore di musica
non stop, che puoi ascoltare 24 ore su 24 sulla nostra pagina internet, sulla
app di COSMO e su Spotify.
https://www1.wdr.de/radio/cosmo/channels/italia-channel-100.html
13.01.2023.
Soccorritore, mestiere ad alto rischio. In Germania non passa giorno senza che
poliziotti, vigili del fuoco e soccorritori vengano insultati, minacciati,
spinti, fatti oggetto di sputi o malmenati. Gli ultimi casi di aggressioni a
vigili del fuoco e altri soccorritori si sono registrati a Berlino a Capodanno.
Ma simili attacchi sono in aumento sia in Germania che in Italia, ce ne parla
Agnese Franceschini. Sulle cause di queste aggressioni abbiamo parlato con
Christian Miller, capo dei pompieri di Colonia, e con la criminologa italiana
Roberta Bruzzone. https://www1.wdr.de/radio/cosmo/programm/sendungen/radio-colonia/il-tema/soccoritore-mestiere-alto-rischio-100.html
12.01.2023. Cosa
succede a Lützerath e perché?
Prosegue lo
sgombero di Lützerath e degli attivisti che si sono barricati nel paese,
intanto cresce la spaccatura nei Verdi tedeschi. Il passaggio da partito
ambientalista a partito di governo sembra andare a discapito del clima, secondo
i critici. Ma qual è il significato di Lützerath e perché gli attivisti non
vogliono abbandonare questo piccolo paese del Nordreno-Vestfalia? Ascolta la
puntata di COSMO italiano con Agnese Franceschini, che spiega gli argomenti
delle varie parti coinvolte, e Rio Goldmann dell'associazione "Lützerath
lebt".
11.01.2023. La
pandemia è finita o sta per ricominciare?
Nelle ultime
settimane, dopo che la Cina ha allentato la sua politica "zero Covid"
a favore di una strategia di coesistenza con il virus, il paese ha subito
un'ondata di contagi senza precedenti. Agnese Franceschini fa il punto della
situazione e descrive la reazione da parte europea. Con il virologo Fabrizio
Pregliasco facciamo il punto sulla pandemia e sulla pericolosità delle nuove
varianti. Ilaria Massa, Consigliere della Camera di Commercio Italiana in Cina,
ci racconta la sua esperienza durante il lockdown imposto dal governo cinese.
https://www1.wdr.de/radio/cosmo/programm/sendungen/radio-colonia/il-tema/corona-update-cina-100.html
10.01.2023. La
controversa eredità di Papa Ratzinger. Le reazioni alla morte del Papa emerito
sono state molto diverse in Italia e in Germania. In Italia decine di migliaia
di fedeli hanno chiesto di farlo "santo subito" e i media hanno
sottolineato le sue grandi qualità di teologo. In Germania si sono ricordati,
invece, i lati più reazionari di Benedetto XVI e il suo coinvolgimento nello
scandalo pedofilia. Ne parliamo con Agnese Franceschini, mentre il teologo italiano
dell’Università di Aachen, Simone Paganini, descrive il rapporto di Ratzinger
con la sua Chiesa. https://www1.wdr.de/radio/cosmo/programm/sendungen/radio-colonia/il-tema/ratzinger-morte-reazioni-italia-germania-100.html
09.01.2023. Le
polemiche dopo gli scontri di Capodanno. Nella notte di Capodanno in diverse
città tedesche, agenti di polizia e vigili del fuoco sono stati attaccati con
petardi e fuochi d’artificio. Soprattutto a Berlino abbiamo assistito a scene
di guerriglia urbana, con ambulanze, mezzi di pompieri e polizia attirati in
agguati. Il punto di Agnese Franceschini sui fatti e sulle polemiche. L’opinione
di Luigi Pantisano, consigliere comunale a Stoccarda per la Linke, sulla
strumentalizzazione politica di questa vicenda. Il criminologo Christian
Pfeiffer ci fa un quadro della violenza giovanile negli ultimi anni in
Germania.
06.01.2023.
Artisti fra Italia, Germania e il Mediterraneo. Gianna Nannini, Nu Genea e
Peppe Voltarelli hanno tutti un rapporto speciale con la Germania, in
particolare con Colonia e Berlino. E amano la contaminazione musicale e
culturale, le altre lingue e i dialetti del Mediterraneo: così anche Eugenio
Bennato. Li riascoltiamo in questo omaggio ai nostri ospiti musicali dell'anno
appena concluso. https://www1.wdr.de/radio/cosmo/programm/sendungen/radio-colonia/il-tema/gianna-nannini-italia-germania-mediterraneo-100.html
05.01.2023.
Rientrare in Italia o restare in Germania? Nel 2020 sono stati oltre 7.000 gli
italiani rientrati dalla Germania in Italia. Ma quali passi burocratici bisogna
fare prima di rientrare? Ne parliamo con Elisa Pugliese che svolge la
professione di consulente per expat, aiuta chi arriva in Germania e chi fa
ritorno in Italia. Poi Elisa Martellosio ci racconta la sua storia e i motivi
che l’hanno spinta a ritornare nel Belpaese. Particolare invece la vicenda
della professoressa Daniela Santus che continua a vivere da pendolare tra Brema
e Torino.
04.01.2023. La guerra
in Ucraina vista dalla Germania
Non si ferma
l’ondata di profughi ucraini verso la Germania. Il tema infiamma il confronto
nel mondo politico tedesco come anche la fornitura di armi: il punto con Enzo
Savignano. Poi con il direttore della rivista di geopolitica Analisi Difesa,
Gianandrea Gaiani, cerchiamo di comprendere i possibili sviluppi del conflitto
russo-ucraino e la strategia italiana ed europea sugli aiuti militari a Kiev.
03.01.2023. Tutte
le novità del 2023 in Germania. Dal 1 gennaio sono scattati gli aiuti per le
famiglie, gli aumenti del Kindergeld e del Wohngeld e il tetto alle bollette di
gas e luce. Al via anche il Bürgergeld che sostituisce il sussidio di
disoccupazione Hartz IV. Per il biglietto ferroviario da 49 euro
bisognerà aspettare, invece, il 1 aprile. Enzo Savignano fa il punto sui nuovi
provvedimenti. Poi con l’esperto di energia Marco Bulfon cerchiamo di capire
quale potrà essere l’andamento dei prezzi di gas, petrolio ed energia nel corso
del 2023.
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“I colori del Novecento”: l’Accademia nazionale di Santa Cecilia alla Alte Oper di Francoforte
Francoforte sul
Meno - È stato un gioco di elementi classici, rococò e jazzistici contrapposti
alle profondità e sonorità nordiche, ma soprattutto un incontro di mondi
musicali e sinfonici diversi quello ascoltato venerdì 27 gennaio nella
prestigiosa sala di concerti dell’Alte Oper di Francoforte, quando l'Orchestra
dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia di Roma, in tournée in Germania dal
25 gennaio fino all’1 febbraio, con il suo direttore musicale Sir Antonio
Pappano ha presentato al pubblico della città sul Meno il concerto “I colori
del Novecento”, suddiviso in tre parti, con musiche di Prokofiev, Ravel e
Sibelius.
Se da una parte il
concerto si è chiuso con "La Quinta Sinfonia" del compositore
finlandese Sibelius, sinfonia di rara esecuzione, epico-sinfonica, con squarci
naturalistici e screziature malinconiche, tuttavia fortemente coinvolgente, al
contrario l’inizio della serata si è aperto con un tono gioioso, leggero e
umoristico, ovverosia con la prima sinfonia di Prokofiev, la "Sinfonia
classica", composta quasi contemporaneamente a quella di Sibelius nella
seconda decade del ‘900.
In effetti, in
questo breve, intenso e brillante brano di Prokofjev, il compositore russo ha
saputo mirabilmente conciliare la tradizione con l'innovazione del suo tempo,
unendo un'armonia e un'orchestrazione semplificata nella quale la struttura
della base tonale è evidentissima. La sinfonia riflette perfettamente
l'elegante stile settecentesco, ma il tessuto tonale di Prokofiev è molto più
ricco, spazia e si declina in maniera più ariosa. Il suo classicismo è sì
stilizzato, ma anche estremamente raffinato, sempre intriso di leggera ironia e
sostenuto costantemente da una varietà ritmica che è una delle principali
connotazioni della musica di Prokofiev.
Anche la seconda
parte concertistica della serata, ovvero il concerto per pianoforte e orchestra
in sol maggiore di Maurice Ravel, ha mostrato elementi classici abilmente
costruiti con elementi sonori coloristici tipici della musica francese nonché
citazioni di armonie jazz della fine degli anni Venti del Novecento, questi
ultimi soprattutto nel primo e terzo movimento.
Invece, il secondo
movimento è stato un dolcissimo e onirico adagio, condotto quasi esclusivamente
dal pianoforte, dove i pochi interventi orchestrali successivi sono stati
affidati alle brillantezze degli archi e ai giochi di flauto, oboe, corno
inglese, clarinetto e fagotto in un'alternanza musicale post-impressionista e
pienamente novecentesca.
Ravel dichiarò già
a suo tempo di aver realizzato un "concerto nel senso più esatto e
letterale di quelli di Mozart e Saint-Saëns", affermando: "Sono
infatti dell'opinione che la musica di un concerto possa essere allegra e
brillante, e che non sia necessario sforzarsi per ottenere profondità ed
effetti drammatici".
Il pianista
coreano Seong-Jin Cho, solista al piano della serata francofortese, conosce da
molti anni la quanto mai tecnicamente difficile ed intensa esecuzione del brano
di Ravel ed ha eseguito il Concerto per pianoforte e orchestra in sol maggiore
con diverse orchestre rinomate. Tra queste l'Orchestra dell'Accademia Nazionale
di Santa Cecilia, una delle principali orchestre internazionali con cui il
pianista coreano ha già lavorato, esibendosi anche nel suo paese d'origine,
dove è celebrato come una vera e propria pop star.
Insomma è stato un
programma affascinante, una serata all’insegna di una tavolozza di colori
musicali molto variegata e ricca di sonorità novecentesche quella che l’Orchestra
dell’Accademia di Santa Cecilia ha superbamente eseguito nonché regalare al
quanto mai esigente e preparato pubblico della Alte Oper di Francoforte. (M.S.
dip 29)
Eletta la Presidenza delle Acli-Germania
Stoccarda. Il 21 Gennaio
scorso, nei locali del Bischof-Leiprecht-Zentrum di Stoccarda, ha avuto luogo
la prima Riunione del Consiglio Nazionale delle ACLI Germania, eletto in
occasione del XIII Congresso, celebrato ad Augsburg il 26 Novembre 2022.
Ad accogliere i
Consiglieri al loro arrivo il "vecchio" Presidente Duilio Zanibellato
e il Neopresidente Giuseppe Tabbì.
Particolarmente
importanti i punti all'ordine del giorno, trattati nel corso della conferenza;
primo fra tutti l'elezione dei Membri di Presidenza.
Come da lettera di
convocazione inviata da Tabbì, i lavori — a causa delle avverse
condizioni atmosferiche — sono cominciati, con un leggero ritardo. Presenti i
Consiglieri del Baden-Württemberg: Giuseppe Tabbì, Duilio Zanibellato,
Norbert Kreuzkamp e la Coordinatrice dei Patronati in Germania, Daniela
Bertoldi; i Consiglieri della Baviera: Carmine Macaluso, Fernando A. Grasso,
Gisella Brasseler, Lucio Giamattei e Pasquale Bibbò; e i Consiglieri del
Nord-Reno Westfalia: Calogero Mazzarisi, Giuseppe Sortino, Giorgio Aleci e
Giovanni Cossu.
Consiglieri che —
a turno — si sono presentati, fornendo qualche breve notizia sulla propria
famiglia, sul proprio lavoro e, soprattutto, sulle circostanze in cui
hanno conosciuto le ACLI. Grasso tra le altre cose ha parlato addirittura di un
suo soggiorno in una colonia estiva, organizzata dalle ACLI siciliane nei
lontani anni Cinquanta. Altri, come: Sortino, Zanibellato, Tabbì, Mazzarisi,
Bertoldi, Giamattei e Macaluso — oltre a dare qualche notizia personale — ne
hanno fornita qualcuna legata alla loro decennale appartenenza alle ACLI, nelle
quali hanno svolto importanti funzioni e attività in tutti questi anni; come
Zanibellato nell'Enaip, o altri in sedi di Patronato; o altri ancora,
integrando nel proprio Circolo — come Macaluso — Gruppi sportivi o artistici
(Folk-ACLI di Kaufbeuren); o collaborando come Tabbì a progetti
(FamigliAmore di Stoccarda).
Subito dopo queste
presentazioni si è passati alla nomina per acclamazione dei due Vicepresidenti:
Carmine Macaluso, Presidente delle ACLI della Baviera e Calogero Mazzarisi,
Presidente delle ACLI del Nord-Reno Westfalia. Giuseppe Tabbì, continuerà
a ricoprire la carica di Presidente delle ACLI del Baden-Wurttemberg.
Gli altri
componenti della Presidenza, anch'essi eletti per acclamazione: Duilio
Zanibellato con la carica di Segretario Organizzativo e Amministrativo;
Giuseppe Tabbì e Carmine Macaluso Responsabili per i rapporti con la FAI;
Giuseppe Sortino e Norbert Kreuzkamp, Incaricati per i rapporti con il KAB; la
Coordinatrice dei Patronati in Germania Daniela Bertoldi, Incaricata per
i Rapporti tra il Movimento e i Patronati; e Fernando Grasso, Incaricato per la
presenza in Internet delle ACLI Germania.
Inoltre sono stati
eletti come Probi Viri: il Presidente Emerito delle ACLI Baviera, Giuseppe
Rende, Pasquale Peduto e Giuseppe Pisano; e come: Revisori dei Conti: Giovanni
Cossu e Gisella Brasseler.
È stata poi la
volta della presentazione della mozione congressuale, redatta in occasione del
XIII Congresso di cui sopra, da Norbert Kreuzkamp, Patrizia Mariotti e Elio
Pulerà. Esaminati i 12 punti — dopo uno scambio di opinioni sulla formulazione
di alcuni passaggi — si è convenuto di apportarvi alcuni emendamenti prima
della sua approvazione definitiva.
Per una buona
parte della giornata è stato collegato con i Consiglieri il Vicepresidente
della FAI Matteo Bracciali, che ha partecipato attivamente ai lavori
dell'assemblea, integrando quanto esposto da Zaibellato, Tabbì e Macaluso
sulla situazione attuale del Movimento e Bertoldi sul futuro delle sedi del
Patronato e delle presenze nelle periferie, in seguito anche all'ultima
Conferenza del Patronato. Si è parlato anche di un seminario in novembre.
Tabbì, dopo aver presentato la rendicontazione — anch'essa approvata — ha
anche comunicato di aver già prenotato le tessere per il 2023.
Dopo la
corroborante pausa pranzo con delle lasagne veramente gustose — spolverate
completamente — e accompagnate da qualche fettína di formaggio, e da un
ottimo vino e caffè, si è continuato con il completamente del
programma.
Tra gli altri
punti toccati, sia da Tabbì, che da Zanibellato e da Macaluso: la necessità
di un maggiore coinvolgimento delle giovani generazioni con diverse
strategie: Macaluso ha parlato nuovamente del suo Folk-ACLI (vedi sopra) e
Tabbì di progetti come: FamigliAmore (vedi sopra)... Ma si è insistito
soprattutto sulla necessità di promuovere maggiori contatti con: il KAB,
le Missioni, i Comites, altre associazioni, non solo italiane, e, — non
da ultimo — anche con l'Amministrazione; promuovendo una maggiore presenza sui
social.
Sono stati
programmati inoltre i prossimi incontri per i quali Tabbì proporrà alcune date.
E a proposito di indirizzo e-mail ha annunciato anche la creazione di un
indirizzo proprio delle ACLI Germania.
Esauriti i temi in
programma e qualche altro dettaglio il Presidente ha concluso i lavori
dell'Assemblea alle 16:30, dando appuntamento al prossimo Consiglio, magari un
po' più allargato, indicativamente dopo Pasqua.
Fernando A.
Grasso, de.it.press 23
L’ Istituto Italiano di Cultura di Amburgo ha presentato “Apnea”, di Lorenzo Amurri
Amburgo – Sono
riprese venerdì 20 gennaio, dopo la pausa per le festività natalizie e di fine
anno, le manifestazioni culturali dell’Istituto Italiano di Cultura di Amburgo.
Come già reso noto da fine agosto 2022 l’Istituto è diretto da una giovane
direttrice, Francesca Fazion, che è subentrata a Nicoletta Di Blasi, rientrata
al Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione Internazionale per fine
mandato. L’Istituto Italiano di Cultura ha realizzato nel corso dell’anno
passato 157 eventi, molti digitali, come ad esempio le rassegne online
#andarpergiardini, #andarpercaffè e Spazi Italiani, e molti in presenza,
riaprendo le porte dopo il periodo di pandemia al proprio pubblico, al quale si
è presentato un Istituto rinnovato. Si è infatti approfittato del Covid per
ristrutturare la sede dell’Istituto: una illuminazione moderna delle sale
eventi ed espositive, pavimenti levigati e lucidati forniti di nuove stuoie sulla
scala di ingresso e altri abbellimenti.
Per il 2023 sono
stati messi in cantiere molti progetti interessanti e idee nuove. Il nuovo
programma delle manifestazioni culturali relative al primo trimestre è già
pubblicato sulla pagina web e anche i canali social sono sempre aggiornati. Con
un augurio per un anno nuovo che porti a tutti tanta salute e soddisfazioni,
l’Istituto Italiano di Cultura di Amburgo venerdì 20 gennaio ha presentato il
romanzo autobiografico di Lorenzo Amurri intitolato “Apnea”, pubblicato nel
2013 da Fandango Libri. La presentazione, in tedesco, è stata curata dalla
traduttrice del romanzo, dr. Ruth Mader-Koltay, e dalla editor di Amurri, Irene
Pacini.
Il romanzo è uscito
sul mercato tedesco nel 2022, edito dalla casa editrice nonsolo Verlag di
Friburgo in Brisgovia con il titolo “Bis ich wieder atmen konnte”. Durante la
serata sono stati letti brani tratti dal libro italiano e dall’edizione tedesca
e proiettate interviste (sottotitolate in tedesco) ai familiari di Lorenzo
Amurri. L’evento, organizzato in collaborazione con la casa editrice Nonsolo
Verlag di Friburgo, si è tenuto presso la Rudolf Steiner Haus di Amburgo
(Mittelweg 11-13) per poter accogliere anche persone con limitazioni di
movimento.
Il romanzo,
finalista al Premio Strega 2013, racconta la storia personale dell’autore e di
come la sua vita sia cambiata a causa di un incidente sulle piste da sci
all’età di 26 anni. Una vita fino a quel momento vissuta intensamente, da
ragazzo spensierato: sesso, droga & Rock’n Roll questo era il motto di
Lorenzo, appassionato musicista che aveva collaborato con importanti musicisti
e gruppi musicali italiani. All’improvviso quel terribile incidente sugli sci
gli stravolse la vita, compromettendo la spina dorsale e rendendolo da quel
momento paraplegico. Solo dopo dolorosi mesi trascorsi in una clinica di
riabilitazione, numerosi insuccessi e molte battute d’arresto, Amurri iniziò a
lottare per tornare a vivere. Come dopo una lunga immersione sentì finalmente
di poter respirare di nuovo. Il romanzo inizia con la descrizione
dell’incidente: la faccia immersa nella neve, come ovatta soffice che gli
toglie il fiato. È la vertigine dell’apnea. Pochi attimi prima Lorenzo stava sciando
insieme a Johanna, la sua fidanzata. Poi la corsa in ospedale in elicottero, il
coma farmacologico e un’operazione di nove ore alla colonna vertebrale. Dai
capezzoli in giù la perdita completa di sensibilità e movimenti. D’ora in
avanti Lorenzo e il suo corpo vivranno da separati in casa. L’unica cosa che
conta, adesso, sono le mani. Poter riprendere a muoverle, poter ricominciare a
suonare la chitarra, perché la musica è tutta la sua vita. Dalla terapia
intensiva ai lunghi mesi di riabilitazione in una clinica di Zurigo, fino al
difficile reinserimento in un mondo dove all’improvviso tutto è irraggiungibile
e tutti sono diventati più alti, giganti minacciosi dalle ombre imponenti. Con
coraggio e determinazione Lorenzo Amurri racconta il suo ritorno alla vita: la
voglia di vedere, di toccare, di sentire; di riprendere a far tardi la notte
insieme agli amici, di abbandonarsi all’amore della sua donna e riconquistare
la libertà che gli è stata rubata. Ogni tappa è una lenta risalita verso la
superficie, un’apnea profonda che precede un perfetto e interminabile respiro.
Il romanzo autobiografico di Amurri è di un’intensità mozzafiato. Cristallino e
senza fronzoli, fluido nello stile e profondamente toccante dal punto di vista
emotivo, ci fa soffrire con il protagonista, sperare, ridere. Come un vortice
che difficilmente ci permette di mettere da parte questo libro. Lorenzo Amurri
nasce a Roma nel 1971. Musicista e produttore musicale, ha suonato e
collaborato con diversi artisti (Tiromancino, Lola Ponce, Lory D, Asia Argento,
Franco Califano). All’età di 26 anni, durante una discesa sugli sci al
Terminillo, si scontra contro il pilone di una seggiovia e rimane quasi
completamente paralizzato dal collo in giù. Alla sua lunga esperienza di
riabilitazione fisica ed emotiva sono legati due romanzi autobiografici
pubblicati da Fandango Libri. Il primo è Apnea del 2013, un esordio considerato
un successo editoriale, finalista al Premio Strega 2013, vincitore del Premio
Strega Giovani e del Premio dell’Unione Europea per la letteratura 2015. Il
secondo è Perché non lo portate a Lourdes?, pubblicato nel 2014, cronaca del
suo viaggio da non credente a Lourdes. E infine Tracce di ruote, una raccolta
dei suoi primi scritti tratti dall’omonimo blog, esce a cinque anni dalla sua
scomparsa, sopraggiunta il 12 luglio 2016. Irene Pacini, toscana, germanista,
vive da oltre 30 anni in Germania dove lavora come traduttrice ed editor
freelance. Da oltre 10 anni si dedica al volontariato per la promozione della
lingua e della cultura italiana. La sua perfetta padronanza di entrambe le
lingue – che la rende anche un’apprezzata interprete in ambito culturale – e la
sua decennale esperienza nella trascrizione di testi creativi e giornalistici
le permettono non solo di dare una verifica finale al lavoro del traduttore, ma
anche di fornire un supporto passo dopo passo nella sua realizzazione e di
aiutare a risolvere problemi di traduzione particolarmente difficili. Nella sua
funzione di editor o redattore, Irene Pacini lavora ininterrottamente con
l’autore e la casa editrice per rendere i testi adatti alla pubblicazione,
perseguendo in questo modo il suo obiettivo principale e cioè quello di
individuare ed eliminare qualsiasi ostacolo tra il testo e la mente del
lettore. Per questo motivo, presso nonsolo Verlag – a differenza della maggior
parte delle case editrici – il controllo di qualità della traduzione inizia con
il primo capitolo e prosegue ininterrottamente fino al completamento. Inoltre,
Irene Pacini consiglia l’editore nella selezione dei titoli e
nell’organizzazione degli eventi, in cui spesso volge anche la funzione di
interprete. Ruth Mader-Koltay, nata nel 1968 a Weingarten/Württ.; ha trascorso
diversi anni della sua infanzia in Sicilia e in Ticino e ha studiato
letteratura italiana e francese e letteratura tedesca moderna a Saarbrücken,
Friburgo e Bologna. Durante la stesura del suo dottorato in letteratura
italiana, ha tradotto un romanzo autobiografico e diversi racconti
dall’italiano per la casa editrice S.Fischer. Dopo il dottorato ha lavorato
come docente di letteratura italiana presso l’Università di Friburgo, dove vive
attualmente e dove continua a lavorare come libera docente di italiano presso
la Società Dante Alighieri e come traduttrice letteraria. Dal 2018 lavora anche
come adattatore di testi per l’emittente franco-tedesca ARTE. Per la casa
editrice nonsolo Verlag la Mader Koltay ha tradotto sei racconti, un articolo
di giornale e i romanzi di Anna Pavignano (“In bilico sul mare”), Nicola H.
Cosentino (“Vita e morte delle aragoste”), Igiaba Scego (“Dismatria”) Paolo di
Paolo (“Vite allo specchio”), Giulia Corsalini (“La lettrice di Cechov”).
(Inform/dip)
In Ambasciata a Berlino la tavola rotonda “Rare Earth elements…”
BERLINO - Come
possono Italia e Germania collaborare per definire le giuste priorità
nell’agenda europea per l’approvvigionamento di materie prime e terre rare? Se
ne è parlato nel corso dell’evento “Rare Earth elements and the materials for
the twin transition: a challenge for the European strategic autonomy”, ospitato
ieri, 24 gennaio, in Ambasciata a Berlino.
La tavola rotonda
ha alimentato uno scambio di idee tra molti dei soggetti più direttamente
coinvolti in questo tema di crescente rilievo strategico. Tra questi il
segretario di Stato al Ministero dell’Economia e per la Protezione del Clima,
Franziska Brantner, i direttori di ERMA - Alleanza europea per le materie
prime, Massimo Gasparon, e di DERA - Agenzia tedesca per le risorse minerarie,
Peter Buchholz, e il coordinatore del Tavolo sulle materie prime al Ministero
per le imprese e il made in Italy, Giacomo Vigna. Hanno partecipato all’evento
anche rappresentanti qualificati dell’associazione industriale tedesca BDI e di
altre associazioni di settore, di Confindustria, del Bundestag ed esponenti
della comunità scientifica e di think-tank.
Punto di partenza
della conferenza di ieri è stata la consapevolezza che la domanda di materie
prime critiche necessarie per sostenere le transizioni gemelle (digitale e
sostenibile) è destinata a breve ad aumentare sensibilmente, in conseguenza del
graduale abbandono delle tecnologie fossili a favore di nuovi processi di
trasformazione. Nell’estrazione e nella lavorazione di tali minerali l’Europa e
la Germania con essa sono fortemente dipendenti da alcuni Paesi: oltre l’80%
delle terre rare viene estratto o lavorato in Cina, mentre il Sudafrica e la
Russia detengono una posizione dominante nell’estrazione di platino e palladio.
Con l'esponenziale aumento della domanda prevista per tali commodities, queste
dipendenze potrebbero diventare ancora più radicate, generando effetti negativi
sulle economie nazionali.
Germania e Italia,
prima e seconda potenza manifatturiera di Europa, condividono l’interesse ad
assicurare anche a livello europeo la definizione di una strategia sostenibile
e di resilienza dell’industria europea. In questo senso, con la tavola rotonda
in Ambasciata si è voluta facilitare una convergenza di posizioni anche in
merito al lavoro che si sta conducendo in Europa verso la definizione dello “European
Critical Raw Materials Act”, la cui finalizzazione è attesa per marzo.
“Il biennio
2021-2022 passerà probabilmente alla storia come un momento decisivo di
cambiamento, che ha aperto a una ridefinizione del ruolo della geopolitica e
delle relazioni internazionali”, ha detto l’ambasciatore Armando Varricchio in
apertura dell’incontro. L’offerta globale delle cosiddette materie prime
critiche non si sottrae a questa dinamica e ne è anzi già parte integrante, ha
proseguito l’ambasciatore, che ha quindi sottolineato la necessità di trovare
un nuovo, complesso equilibrio tra la ricerca dell’autonomia strategica europea
e la tutela del libero mercato internazionale.
Per il segretario
di Stato Franziska Brantner, eventi come la pandemia e la guerra in Ucraina hanno
fatto emergere con chiarezza la dipendenza dalle catene di approvvigionamento
globali e i rischi per le forniture di materie prime. “Questo vale per tutti i
Paesi UE, ma in particolare per Germania e Italia come economie manifatturiere.
Da qui la necessità urgente di una diversificazione delle linee di
approvvigionamento, soprattutto per via della dipendenza asimmetrica dalla
Cina”. (aise/dip)
Il 27 gennaio a Berlino l’evento “C’era una volta il ghetto”
BERLINO -
L’Ambasciata d’Italia a Berlino ha ospitato, in occasione della Giornata della
Memoria, l’evento “C’era una volta il ghetto…itinerari musicali ebraici
nell’isola della rugiada divina” in occasione del Giorno della Memoria. Il
titolo rimanda all’ebraico “I-tal-yah” o “isola della rugiada divina”, nome
dato nell’antichità dagli Ebrei alla penisola italica.
Nel corso della
serata si è esibita la cantante, compositrice, psicanalista ed etnomusicologa
Miriam Meghnagi, nata a Tripoli da una famiglia di origine sefardita e
affermatasi a livello internazionale tra massimi interpreti della tradizione
musicale ebraica. Attraverso un viaggio nei canti della tradizione ebraica
Meghnagi – accompagnata dal pianista e compositore Alessandro Gwis – ha
ripercorso la secolare storia della comunità ebraica in Italia, offrendo un
ritratto musicale di città come Venezia e Roma, dove per secoli le comunità
ebraiche hanno vissuto tra integrazione e confinamento: il “ghetto”, luogo nato
per isolare e per dividere, nasce nel Cinquecento proprio a Venezia. L’esibizione
è stata accompagnata anche dall’intervento divulgativo del Prof. Giulio Busi,
docente ordinario di giudaistica e direttore dell’Istituto di studi ebraici
presso la Freie Universität di Berlino.
Il percorso tra
musica e parole ha quindi trasformato, in un ideale cambio di prospettiva,
ruolo e percezione dei ghetti che, da luoghi di isolamento, sono diventati al
giorno d’oggi cuore pulsante di molte città. Ricorrendo all’uso di diverse
lingue e tradizioni musicali, si è restituita un’immagine della vitalità,
passata e presente, della cultura ebraica in Italia.
“Celebrare la
cultura ebraica italiana in occasione della Giornata che ricorda lo sterminio
perpetrato nel secolo scorso è anche un modo per celebrare il fallimento di
quel progetto, messo su carta a pochi chilometri da questo palazzo”, così
l’Ambasciatore Armando Varricchio nel discorso di apertura. L’Ambasciatore ha
sottolineato quindi l’imprescindibile contributo dato alla cultura italiana e
tedesca dalla civiltà ebraica: “È impossibile pensare alla cultura italiana
senza l’apporto che numerosissimi intellettuali, scienziati, artisti ed
economisti di religione ebraica le hanno dato nel corso dei secoli. Lo stesso
vale anche per la Germania”. (aise/dip 27)
Amburgo – Il diario di Anne Frank: nell’ambito delle celebrazioni del Giorno
della Memoria all’Istituto Italiano di Cultura di Amburgo il 1° febbraio si
terrà un incontro con Matteo Corradini che ha curato per Rizzoli l’edizione
filologica del diario. L’incontro – che inizierà alle ore 19 – è organizzato
insieme agli Istituti Italiani di Cultura di Stoccarda e Monaco di Baviera.
Moderazione e traduzione di Francesca Bravi. Simbolo della Shoah, il diario di
Anne Frank è una luce nel buio della storia e ancora oggi illumina la vita di
milioni di persone. Questa nuova edizione, che riporta il testo alla sua
primaria lucentezza, è frutto di una scrupolosa ricerca filologica, lessicale e
letteraria condotta dal curatore Matteo Corradini direttamente sulla stesura
originaria di Anne, liberata da interventi e tagli operati dopo la scomparsa
della giovane autrice. I numerosi approfondimenti finora inediti, la preziosa
traduzione dall’olandese di Dafna Fiano, la straordinaria testimonianza di Sami
Modiano – che nella prefazione ripercorre per noi la dolorosa esperienza del
campo – offrono a questa edizione autorevolezza, forza e una ritrovata
freschezza. Da queste pagine la voce di Anne parla ai contemporanei schietta e
cristallina come non mai, riaccende la memoria e la prolunga nel presente.
Matteo Corradini, nato nel 1975 è ebraista e scrittore, si occupa di
didattica della Memoria e di progetti di espressione. Prepara reading musicali
e regie teatrali. Fa ricerca sulla Shoah in Olanda e sul ghetto di Terezín, in
Repubblica Ceca, recuperando storie, oggetti e soprattutto strumenti musicali.
È curatore della nuova edizione italiana del Diario di Anna Frank, per Bur
Rizzoli. Nel 2018 ha curato anche l’edizione italiana del diario di Inge
Auerbacher (“I am a star” / Io sono una stella ). Matteo Corradini ha ricevuto
il Premio Andersen 2018 come protagonista della cultura per l’infanzia. Lo
stesso anno, la giuria di letteratura per ragazzi in Germania, ha selezionato
l’edizione tedesca del suo romanzo “La repubblica delle farfalle”, dal titolo
“Im Ghetto gibt es keine Schmetterlinge” (Random House, 2017) tra i migliori
romanzi pubblicati nel 2017. Scrive libri per ragazzi. I suoi libri sono
tradotti da RandomHouse in Germania e da Gallimard in Francia. Ingresso libero,
ma è richiesta la registrazione tramite il portale Eventbrite. Durante la permanenza
in Istituto è raccomandato l‘uso di mascherine (chirurgica/FFP2). (Inform/dip
31)
Brevi di politica e cronaca tedesca
Berlino fa
arrabbiare Washington: azionato il freno di emergenza Giunge al termine
una discussione che nei giorni scorsi aveva portato la Germania a isolarsi
diplomaticamente dai suoi alleati: anche Berlino ora dà il via libera alla
fornitura di 14 carri armati "Leopard 2” all'Ucraina. Il rifiuto degli
ultimi giorni aveva causato forti difficoltà diplomatiche alla Germania. I
temporeggiamenti di Scholz (SPD) sono stati fortemente criticati tanto dalla
stampa estera, quanto in Germania. È stata soprattutto la stampa statunitense
ad attaccare il governo tedesco. "È come se un acido distruggesse poco a
poco ogni strato di fiducia. L'esitazione della Germania potrebbe avere
conseguenze durature per il resto dell'Europa”, ha denunciato un alto
diplomatico della NATO alla CNN: "80 anni fa i carri armati tedeschi non
uccisero anche gli ucraini? Ora potrebbero difenderli dai barbari attacchi
russi”. Così sono state spiegate agli spettatori americani le possibili
motivazioni dell'atteggiamento esitante della Germania: il successo della
Germania nel 21° secolo si basa principalmente sull'approvvigionamento di gas a
basso costo proveniente dalla Russia e sulle garanzie di sicurezza degli Stati
Uniti. Il Paese più ricco d'Europa ha beneficiato enormemente di questi due
elementi: "La Germania è protetta dalla NATO e allo stesso tempo ha
relazioni economiche con partner discutibili”, queste le parole riferite alla
CNN. Anche molti media europei la pensano allo stesso modo.
La domanda ora è
se il cambio di rotta del Cancelliere arriverà in tempo per mettere da parte la
sfiducia. Nel frattempo, il governo polacco aveva chiesto in via ufficiale a
Berlino il permesso di consegnare carri armati Leopard all'Ucraina dalle sue
scorte. Per Varsavia il via libera è arrivato a tempo di record, complici anche
le forti pressioni del ministro degli Esteri Annalena Baerbock (Verdi) e del
leader dei Liberali dell'FDP per giungere a una decisione favorevole in tempi
brevi. Entrambi i partner della coalizione hanno recentemente espresso la loro
insoddisfazione per la linea titubante del Cancelliere Scholz, scontrandosi
anche con l'irritazione dei Socialdemocratici dell'SPD: un insieme di
divergenze che minacciava di trasformarsi in una vera e propria crisi di
coalizione.
La CDU/CSU
chiede un cambio di governo
Alla luce
alle tensioni nella coalizione semaforo, la CDU ha esortato FDP e Verdi a
forzare la rottura della coalizione e a chiedersi se siano disposti ad
"assumersi la responsabilità, contro le loro stesse convinzioni, di questo
fallimento”, afferma l'esperto di politica estera, Norbert Röttgen, secondo il
quale la politica ucraina del Cancelliere e dei Socialdemocratici "in
questo banco di prova storico per la guerra in Europa conduce la Germania al
fallimento proprio in un momento cruciale”. Anche Thorsten Frei, capogruppo
parlamentare dell'Unione (CDU/CSU) nel Bundestag, ha esortato l'FDP e i Verdi ad
agire "finalmente in modo coerente”, considerate le differenze, e a
cercare un "nuovo inizio sotto mutate circostanze”.
Frei ha proposto
una "coalizione giamaicana” (basata sui colori dei partiti, quindi nero,
verde e giallo) guidata da CDU/CSU: "Siamo comunque pronti ad assumerci le
nostre responsabilità”. Il dibattito della coalizione semaforo sulle forniture
di carri armati all'Ucraina, secondo il politico della CDU, gli ricorda
"una procedura di divorzio”. Dopo la riunione dei sostenitori dell'Ucraina
a Ramstein, i politici dei Verdi e dell'FDP hanno criticato aspramente il
rinvio della decisione in merito alla consegna dei Leopard 2. Negli ultimi
sondaggi l'Unione, costituita da CDU e da CSU, è in testa con quasi il 30% di
preferenze.
Parigi e Berlino
celebrano il Trattato dell'Eliseo
Il Trattato
dell'Eliseo sottoscritto il 22 gennaio 1963 dal Cancelliere Konrad Adenauer
(CDU) e dal Presidente francese Charles de Gaulle per suggellare l'amicizia e
la cooperazione tra Francia e Germania compie 60 anni . Dopo le forti tensioni
degli ultimi mesi, in occasione del 60° anniversario del Trattato, Germania e
Francia hanno ricordato l'importanza della loro amicizia per il futuro
dell'Europa. Il Presidente francese Emmanuel Macron, durante una cerimonia tenutasi
a Parigi, ha scelto parole precise per affermare che Germania e Francia sono
come "un corpo e un'anima”. "Per un francese parlare della Germania
significa parlare di una parte di sé stesso”, ha dichiarato davanti a più di 30
ministri di entrambi i governi e 200 parlamentari.
A queste
dichiarazioni hanno fatto seguito i ringraziamenti del Cancelliere Scholz, nel
sottolineare il lavoro congiunto "per rafforzare la sovranità
dell'Europa”. Il Cancelliere Scholz ha anche affrontato le divergenze di opinione
tra i due Paesi: "Il motore franco-tedesco è una macchina di compromessi –
ben oliata, ma a volte anche rumorosa e segnata dal duro lavoro. Non trae il
suo impulso da chiacchiere flautate e da un vuoto simbolismo, ma dalla nostra
ferma volontà di trasformare costantemente le controversie e le differenze di
interessi in azioni capaci di orientarsi nella stessa direzione”. Nelle loro
consultazioni congiunte, i membri del governo tedesco e francese hanno parlato,
tra l'altro, della guerra in Ucraina, della crisi energetica e del cambiamento
climatico.
Esportazioni
tedesche verso la Russia ai minimi storici
Nel 2022 le
esportazioni tedesche verso la Russia hanno toccato il loro record storico
negativo dal 2003. Rispetto al 2021, il calo è stato di circa il 45%. È quanto
emerge dai dati della Commissione Est dell'economia tedesca presentati a
Berlino. Si tratta del risultato più basso da quasi 20 anni. Il motivo
principale della forte diminuzione sono le sanzioni inflitte alla Russia come
conseguenza della guerra in Ucraina. "La guerra e le sue conseguenze –
sanzioni, recessione e perdita di potere d'acquisto in Russia, nonché il
continuo ritiro delle imprese tedesche dal mercato russo – ci riportano
indietro di decenni nelle relazioni commerciali bilaterali”, denunciano i
membri.
Con l'aumento dei
prezzi del petrolio e del gas, le importazioni tedesche sono cresciute
dell'11%. Di conseguenza, nel 2022 il deficit commerciale tedesco con la Russia
ha raggiunto un valore record: le importazioni hanno superato le esportazioni
di circa 22 miliardi di euro. Per l'anno in corso, gli economisti prevedono per
la Germania una crescita minima di appena 0,2%.
Vaticano:
cartellino rosso alla "via speciale” tedesca
Roma dice no
all'istituzione di un "Consiglio sinodale” in Germania. È quanto emerge da
una lettera del Vaticano indirizzata alla Conferenza Episcopale tedesca. Nella
lettera inviata da Roma in data 16 gennaio si afferma chiaramente che né il
"Cammino sinodale” tedesco (da non confondere con l'Incontro episcopale
mondiale sulla sinodalità, che avrà luogo in Vaticano il prossimo autunno), né
una conferenza episcopale nazionale hanno la discrezionalità di istituire un
tale organismo. La lettera reca la firma del cardinale Segretario di Stato
Pietro Parolin e dai cardinali della Curia Luis Ladaria e Marc Ouellet ed è
stata approvata da Papa Francesco. Nella stessa nota si precisa inoltre che i
vescovi tedeschi non sono obbligati a partecipare alla "Commissione
sinodale”, risposta data ai vescovi di Colonia, Eichstätt, Augusta, Passau e
Ratisbona che si erano rivolti a Roma perché dirimesse la questione.
In una prima
reazione, il Presidente della Conferenza episcopale tedesca, Georg Bätzing, e
un'importante associazione di laici cattolici hanno dichiarato di voler
rispettare i piani del Cammino sinodale. Un conflitto con Roma sembra ormai
inevitabile. Ciò potrebbe avere a che fare con la discussione in corso sui
vertici della Curia romana, dato che lì spirano venti contrari alla possibile
nomina del vescovo tedesco Heiner Wilmer per il dicastero per la dottrina della
fede. Secondo quanto riferito in Vaticano, il cardinale decano Giovanni
Battista Re, Presidente del Collegio cardinalizio, avrebbe espresso dubbi in
merito al possibile insediamento in Vaticano del vescovo diocesano di
Hildesheim, considerato da molti troppo progressista per la carica.
Luoghi da
visitare in Germania: Ravensbrück
Ci sono luoghi
in Germania i cui nomi saranno per sempre adombrati dalla vergogna della
dittatura nazista e dei crimini della Shoah. Nella lista vi è anche il
villaggio di Ravensbrück (oggi parte della città di Fürstenberg an der Havel)
nel Land del Brandeburgo, situato a circa 90 chilometri a nord di Berlino,
dove, dal 1939 al 1945, si trovava il più grande campo di concentramento
femminile del regime. Chi era troppo debole per svolgere i lavori forzati
veniva trasferito al campo di sterminio di Auschwitz e assassinato, oppure
selezionato per i crudeli esperimenti del medico del campo di concentramento
Mengele.
A partire dal
1945, mentre gli Alleati proseguivano la loro avanzata verso Berlino, decine di
migliaia di prigionieri, per lo più ebrei, furono deportate da Auschwitz in una
spietata marcia della morte invernale verso Ravensbrück, dove la maggior parte
dei sopravvissuti alla marcia della morte veniva ucciso in "camere a gas
mobili” da un commando speciale delle SS. La senatrice Liliana Segre, che prese
parte come prigioniera alla marcia della morte e apprese della morte dei suoi
genitori dopo la liberazione da parte dell'Armata Rossa, è una delle poche
sopravvissute agli orrori di Ravensbrück. L'ex area del campo di
concentramento, dove trovarono la morte circa 40 mila persone, è ora un
memoriale e centro di documentazione degli orribili crimini. Sotto la
successiva dittatura comunista della DDR, Ravensbrück servì come città di
guarnigione sovietica.
Ministro della
Difesa: un uomo di seconda scelta? Dopo le dimissioni del ministro della
Difesa Christine Lambrecht (SPD) in seguito alle molteplici pressioni subite,
il Cancelliere Olaf Scholz chiama a guidare l'esercito tedesco un outsider
proveniente dalla provincia tedesca: Boris Pistorius, l'ex ministro dell'Interno
della Bassa Sassonia. Il Cancelliere Scholz definisce il suo sodale di partito
Pistorius "politico di grande esperienza, perito nell'amministrazione e
attivo da anni nel campo della politica di sicurezza. Grazie alla sua
competenza, alla assertività e al suo grande cuore, è la persona giusta per
guidare la svolta epocale della Bundeswehr”. Nella politica tedesca la nomina
ha destato una forte sorpresa, dato che si era scommesso su altri candidati con
più esperienza con la Bundeswehr. Inoltre, con questa scelta il Cancelliere
rinuncia al principio della parità di genere del gabinetto di governo, e gli
addetti ai lavori riferiscono che Pistorius è solo una "seconda scelta”
dettata dai no dei candidati desiderati da Scholz. Mentre Socialdemocratici,
Verdi e Liberali, hanno accolto con favore la decisione della nomina, la
CDU/CSU ha criticato la decisione: "In questo modo il Cancelliere dimostra
di non prendere sul serio la sua svolta epocale”, ha affermato l'esperto
militare del gruppo parlamentare della CDU/CSU, Johann Wadephul. "Ancora
una volta, la competenza e l'esperienza con la Bundeswehr sembrano non avere
alcuna importanza”, per cui la designazione del ministro è "quella di
qualcuno proveniente da una squadra di serie B”. Il Cancelliere Olaf Scholz è
riuscito a fare una vera sorpresa ma purtroppo non positiva. Secondo le
dichiarazioni del politico della CDU, per far avanzare la Bundeswehr non
servono solo soldi, ma anche competenze.
La dimissionaria
Lambrecht lascia al suo successore diversi dossier aperti: l'annunciato
ammodernamento delle forze armate tedesche, cui sono destinati gli aiuti del
fondo speciale pari a 100 miliardi di euro, è solo all'inizio dell'opera. Resta
ancora in sospeso il nodo su come proseguiranno le forniture di armi all'Ucraina,
mentre in questo momento le forze armate tedesche devono far fronte a carenze
in numerosi sistemi d'arma come il mezzo corazzato Puma e riscontrano
difficoltà nel procurarsi munizioni. Altra questione importante è
l'organizzazione del ritiro ordinato dal Mali, nazione africana in crisi, che
secondo la volontà del governo federale dovrebbe avvenire entro maggio
2024.
Ministero
della Difesa: chi è il neo ministro Boris Pistorius?
Anche a
Berlino sono in molti a chiedersi chi sia il nuovo Ministro della Difesa.
Pistorius fece il suo ingresso nell'SPD all'età di 16 anni e dal 2017 è membro
della presidenza del partito, stesso anno in cui ha preso parte come figura
della politica interna dei Socialdemocratici al team della campagna elettorale
dell'allora candidato alla Cancelleria Martin Schulz; in quel contesto approntò
un documento programmatico in 10 punti in cui chiedeva, tra le altre cose,
un'azione decisa contro le minacce terroristiche, un rafforzamento del
personale della polizia federale e una maggiore lotta contro la criminalità
informatica, esprimendosi inoltre a favore di una polizia di frontiera europea
perché consapevole del fatto che la sicurezza delle frontiere esterne è
"uno dei difetti congeniti dello spazio di Schengen”.
Nel 2019 l'ex
sindaco di Osnabrück si è candidato senza successo alla presidenza dell'SPD. È
considerato un rappresentante dell'ala destra dei Socialdemocratici ed è noto
per la sua linea dura contro i terroristi islamici, tanto da essersi meritato
nei media il titolo di "sceriffo rosso”. Finora il ministro, a parte il
tempo in cui svolse il servizio militare, non ha avuto esperienze dirette con
la Bundeswehr. Pistorius terrà la sua prima grande apparizione pubblica come
ministro federale nella giornata di domani, durante la quale il gruppo di
contatto degli alleati di Kiev si riunirà presso la base aerea americana di
Ramstein, in Renania-Palatinato, per discutere le nuove modalità di sostegno al
paese in guerra.
Guerra in
Ucraina: Baerbock vuole il Cremlino in tribunale
Il ministro
degli Esteri Annalena Baerbock vuole istituire un tribunale internazionale
speciale per la guerra di aggressione russa contro l'Ucraina al fine di
consegnare il Cremlino alla Giustizia, indagando sui crimini dei vertici
politici russi per poi processarli, oltre a esaminare i sospetti di genocidio
legati agli attacchi russi a danno della popolazione civile e delle
infrastrutture critiche. Parallelamente a ciò il ministro Baerbock propone una
riforma del diritto penale internazionale, idea che è stata anche oggetto di
discussione con il suo collega ucraino Dmytro Kuleba la scorsa settimana in
occasione della sua visita in Ucraina orientale.
Per il ministro
l'importanza verte sul carattere internazionale della proposta, sottolineando
ad esempio la necessità di una sede al di fuori dell'Ucraina che, contando sul
sostegno finanziario dei partner e sulla partecipazione di procuratori e
giudici internazionali, permetterebbe di rafforzare l'imparzialità e la
legittimità di questo tribunale. La sua conclusione è che bisogna lanciare
"un messaggio molto chiaro alla leadership russa e quindi a tutti gli
altri a livello globale per affermare che una guerra di aggressione in questo
mondo non rimane impunita”.
La riforma
per ridimensionare il Bundestag
Con un
totale di 736 deputati, il Bundestag tedesco è uno dei più grandi parlamenti al
mondo, e il suo ridimensionamento è da tempo al centro dell'interesse dei
politici. Ora le polemiche ruotano tutte attorno al "come”. I gruppi
parlamentari della coalizione di governo hanno appena presentato un disegno di
legge per una riforma elettorale che mira a far tornare il parlamento alla
"dimensione standard” di 598 deputati. Le ultime elezioni federali hanno
fatto accrescere ancora di più il numero di deputati in Parlamento: la ragione
risiede nel sistema elettorale che accorpa liste proporzionali e collegi
elettorali uninominali. Poiché i risultati percentuali dei due voti che
l'elettore deve esprimere non sempre coincidono nella loro totalità, per
compensare questa discrepanza vengono assegnati ulteriori mandati, con il
risultato di far aumentare il numero dei seggi in Parlamento.
Secondo il disegno
di legge, in futuro solo i secondi voti determineranno l'assegnamento dei seggi
dei rispettivi partiti nel Bundestag – definiti "voti principali”
(Hauptstimmen) – ma la complessità dei risultati aritmetici potrebbe comunque
portare a situazioni assurde che negherebbero l'ingresso in parlamento ai
candidati vittoriosi nella loro circoscrizione. La CSU ritiene incostituzionali
i piani della coalizione semaforo: "Negare il mandato ai candidati eletti
a livello di circoscrizione è un palese atto di disprezzo nei confronti della
volontà degli elettori, dello stato di diritto e del principio alla base della
democrazia”, questo il coro che si leva dal partito. Anche la CDU mette in
guardia da un "modello con un tetto massimo incostituzionale” e ha già
minacciato di presentare una denuncia alla Corte costituzionale tedesca.
Energia:
come la Germania uscirà indenne dall'inverno
Il
Presidente dell'Agenzia tedesca per l'energia, Klaus Müller, conta sul fatto
che la Germania può affidarsi a sufficienti riserve di gas per passare bene
l'inverno: "Siamo molto ottimisti nell'affermare che per quest'inverno non
dovremo più temere una carenza di gas”. L'anno scorso in Germania è stato
infatti risparmiato il 14% di gas e gli impianti di stoccaggio sono ancora
pieni per oltre il 90%. Nel frattempo sono entrati in funzione due terminali
GNL, cui presto se ne aggiungerà un altro. Anche il ministro dell'Economia
Robert Habeck si è mostrato fiducioso e ha dichiarato con toni ottimistici che
anche per la prossima stagione invernale ci saranno "legittime speranze di
avere i serbatoi pieni”, così l'approvvigionamento sarà assicurato anche a
prezzi vantaggiosi.
In caso di carenze
non si dovrà assistere a "lotte di distribuzione” europee per le forniture
di elettricità e gas; le norme vigenti regolamentano il risparmio e le catena
di aiuti in caso di emergenze, motivo per cui "non ci saranno battaglie
per difendersi, ma una logica votata alla solidarietà”, ha annunciato Habeck a
margine del World Economic Forum di Davos.
Luoghi da visitare
in Germania: Lützerath
In questi giorni
questo piccolo villaggio situato tra i giacimenti di lignite della Renania è
salito ai tristi onori della cronaca. Durante le violente proteste degli
attivisti per il clima ci sono stati feriti sia nelle file della polizia sia in
quelle dei manifestanti. Il casus belli è la demolizione del borgo in questione
per far posto all'estrazione del carbone: seppur la fine dell'era della
produzione di carbone sia stata già decisa, i tempi della crisi energetica
impongono un passo indietro. Il governo tedesco, parte attiva nella vicenda, lo
sa bene.
In questi giorni
gli attivisti per il clima hanno quindi inscenato sit-in, blocchi stradali e
occupazione di alberi per impedire l'arrivo delle ruspe. A dare man forte ai
manifestanti è arrivata anche Greta Thunberg, portata poi via dalle forze di
sicurezza. L'enorme miniera di carbone si trova tra il capoluogo della Renania
Settentrionale-Vestfalia, Düsseldorf, e la storica città imperiale di
Aquisgrana. Kas 29
Pistorius è il nuovo ministro tedesco della Difesa: Lambrecht travolta dalle gaffe
La scelta del
cancelliere Olaf Scholz dopo le dimissioni di Christine Lambrecht, tra volta da
una gestione costellata di gaffe. Responsabile degli Interni in Bassa Sassonia,
il prescelto è poco conosciuto a livello nazionale. Il nodo dei carrarmati
Leopard - di Paolo Valentino
BERLINO — Coglie
tutti di sorpresa Olaf Scholz, nominando nuovo ministro della Difesa Boris
Pistorius, fin qui responsabile degli Interni nel Land della Bassa Sassonia e
poco conosciuto sulla scena politica nazionale.
Il cancelliere
tedesco chiude così in fretta la mini-crisi aperta dalle dimissioni di
Christine Lambrecht, travolta da una gestione costellata di gaffe e chiaramente
non adeguata ad affrontare le gravi sfide del momento.
Scholz ha definito
Pistorius, che giurerà domani davanti al Bundestag, «un uomo politico di grande
esperienza, che ha lavorato a lungo nell’amministrazione e si è occupato da
anni dei temi della sicurezza». Con la sua competenza, la sua assertività e il
suo grande cuore, ha aggiunto, «è la persona giusta per guidare la Bundeswehr
in questa svolta epocale».
Sessantadue anni,
vedovo, due figlie, una vita nella socialdemocrazia, già borgomastro di
Osnabrück, città natale di Scholz e luogo dove venne firmata la Pace di
Vestfalia che mise fine alla Guerra dei Trent’anni, Pistorius è stimato a
livello regionale come politico pragmatico ed efficiente. Nei dieci anni in cui
è stato ministro degli Interni ad Hannover, si è distinto soprattutto nel campo
della sicurezza cibernetica e della protezione civile.
Ma quello verso la
ribalta nazionale è per lui un salto molto rischioso e pieno di incognite. E
non solo perché tradizionalmente il ministero della Difesa in Germania è stato
la tomba di molte ambizioni politiche, al punto da essere definito «il sedile
eiettabile». Basti pensare che, a fronte di appena nove cancellieri in 70 anni,
il governo federale ha visto avvicendarsi ben venti ministri della Difesa. Di
più, per anni cenerentola del bilancio federale, l’esercito tedesco è ora al
centro delle attenzioni del cancelliere, che dopo l’inizio della guerra in
Ucraina ha annunciato uno stanziamento straordinario di 100 miliardi di euro
per la sua modernizzazione. Il rinnovamento però segna il passo, a parte alcune
decisioni di lungo periodo come l’acquisto dei caccia F-35 e degli elicotteri
da trasporto Chinook. Tocca quindi al nuovo ministro, dopo il fallimento di
Lambrecht, raccogliere la sfida e fare della Bundeswehr un’armata moderna,
funzionale e pronta al combattimento. Gli analisti citano a suo credito il
fatto che ha assolto il servizio militare, quindi conosce l’esercito
dall’interno.
In realtà,
Pistorius avrà un battesimo del fuoco quasi immediato. Berlino è infatti sotto
pressione per fornire a Kiev i carri armati pesanti Leopard, considerati
essenziali per consentire alle forze ucraine di riprendere l’offensiva dopo i
successi dei mesi scorsi. Finora Scholz si è rifiutato di farlo, temendo un
ampliamento del conflitto e invocando l’argomento che non può essere la
Germania, in ragione del suo passato, il primo Paese occidentale a cedere armi
così offensive e sofisticate. Ma ora che anche il Regno Unito e la Francia
hanno annunciato la fornitura dei loro carri armati, la posizione tedesca sta cambiando,
anche perché all’interno stesso del governo tedesco Verdi e liberali premono
per la fornitura dei Leopard o quanto meno per l’autorizzazione a farlo
(necessaria trattandosi di sistemi made in Germany) a chi li vuole dare, come
Polonia e Finlandia. Negli arsenali dei Paesi europei, ci sono al momento
complessivamente circa 2 mila esemplari di Leopard 1 e 2.
La decisione
spetta al cancelliere. Ma è Pistorius adesso il volto della politica di Difesa
tedesca e sarà lui a incontrare giovedì a Berlino il capo del Pentagono, Lloyd
Austin, alla vigilia di un appuntamento cruciale: il vertice dei ministri della
Difesa del gruppo di contatto per la Difesa dell’Ucraina, cui aderiscono una
cinquantina di Paesi donatori, in programma il giorno dopo nella base aerea di
Ramstein. La fornitura dei carri armati pesanti all’Ucraina sarà in cima
all’agenda dei lavori e tutti aspettano di sapere quale sarà la risposta
tedesca.
La nomina di
Pistorius altera per il momento la parità di genere all’interno del governo federale,
dove finora il numero di ministri donne e uomini era uguale, che era stata un
impegno elettorale di Olaf Scholz. CdS 18
La socialdemocrazia tedesca e il nodo della Difesa
In Germania la
nomina di Boris Pistorius a ministro della Difesa, sembra avere appianato la
crisi scatenata dalle dimissioni di Christine Lambrecht. La posizione dell’ex
ministra socialdemocratica aveva visto un rapido deterioramento a causa di
piccoli scandali, superficialità e mancanza di leadership. All’interno dello
stesso governo, Lambrecht aveva invano cercato di far avere più peso alle
istanze della Difesa, incontrando disinteresse se non ostilità. La nomina di
Pistorius è per certi versi inattesa, perché lo stesso Scholz aveva
manifestato l’intenzione di mantenere la parità di genere nell’esecutivo.
In questa
prospettiva la candidata più accreditata era Eva Högl, socialdemocratica e
compagna di partito di Pistorius che già ricopriva la carica – importante nel
sistema istituzionale tedesco – di Commissario parlamentare per le Forze
armate. Ha inoltre suscitato stupore per il fatto che Pistorius non proviene da
una delle correnti più forti del partito: nella corsa per la leadership del
partito aveva avanzato la sua candidatura in supporto a quella di Petra
Köpping. Il tandem della bassa Sassonia non era però riuscito a ottenere
neanche il 15% dei consensi.
“Una poltrona
scomoda”
Si può indugiare
quanto si vuole sul crollo di Lambrecht e sulle vere ragioni del suo fallimento
come anche sulle ragioni che hanno portato alla scelta di Pistorius. Questo può
però risultare di interesse relativo per i non addetti alla politica tedesca.
Al contrario, si può prendere questa vicenda per svolgere alcune riflessioni
sia sul “senso” del ministero della Difesa nella politica tedesca sia sulla
svolta che si sta compiendo nell’approccio tedesco alla forza militare.
Proprio a causa
della particolarità dell’approccio tedesco all’uso della forza, che scaturisce
dal rigetto dell’esperienza bellicista nel periodo nazista, il ministero della
Difesa della Repubblica Federale ha da sempre rappresentato una posizione
peculiare. Negli anni della guerra esso rappresentava da una posizione di
garanzia, nella misura in cui rappresentava il dicastero che, d’intesa con il
cancelliere, garantiva l’integrazione della Bundesrepublik nel sistema
difensivo occidentale. Al contempo, esso rappresentava il convitato di pietra
di un sistema politico e sociale che pur avendo il bisogno di essere difeso e
di essere armato rifiutava di concepire le forze armate come una componente
della propria politica interna ed estera.
Per questo motivo
il ministero della Difesa ha rappresentato per anni una poltrona scomoda, il
cui titolare doveva saper garantire gli impegni in ambito soprattutto
internazionale senza sollecitare troppo l’opinione pubblica. Se si aveva questa
capacità la Difesa poteva rappresentare un trampolino di lancio: questo è stato
vero per alcune importanti figure del passato, come Helmut Schmidt o Manfred
Wörner (che sarebbe poi diventato segretario generale della Nato) ma anche per
politici di oggi, non ultima Ursula von der Leyen. Il caso di Franz Josef
Strauss, che 1962 fu costretto alle dimissioni per aver illegalmente ordinato
la chiusura del settimanale Spiegel reo di aver pubblicato alcuni dossier
della difesa, è però altrettanto paradigmatico della rischiosità di quella
poltrona.
Ucraina punto di
svolta
A oltre trent’anni
dalla riunificazione tedesca molti dei presupposti e dei condizionamenti
dell’età bipolare sono venuti meno. Una delle convinzioni più diffuse è che i
tedeschi abbiano superato le loro tradizionali riserve circa le forze armate e
l’intervento militare. Questo è vero ma solo in parte: analizzando le crisi e i
conflitti dell’ultimo ventennio, dall’intervento in Afghanistan del 2001 a
quelli più recenti, si vede però come la Germania abbia sempre cercato di
integrare “civilmente” il contributo delle altre potenze maggiormente esposte
sul fronte militare. Il vero giro di boa è l’aggressione russa all’Ucraina, che
per le modalità in cui si è verificata, ha portato a un forte schieramento dei
tedeschi e ha spinto il governo a un ripensamento della propria politica in
termini di impegno militare.
Il problema è che
la crisi ucraina ha accelerato questo processo di ripensamento e ha
parzialmente spiazzato il sistema dei partiti, dove si è venuta a creare una
situazione per certi versi contraddittoria. Di fronte alla questione ucraina,
infatti, i Verdi, pur muovendo da posizioni di tradizionale chiusura rispetto
ai temi militari, hanno compiuto una svolta che li ha portati a sostenere, in
modo della tutela dei diritti umani e di sostegno all’aggredito, l’invio di
armi all’Ucraina. Al contrario, il mondo socialdemocratico si è trovato diviso
tra una nuova idea di impegno e i vecchi sentimenti di opposizione all’uso
della forza e all’impegno militare. Si può certamente guardare al caso
Lambrecht come al risultato di una serie di scandali anche personali, ma
sarebbe sbagliato non vedere come dietro ad esso si celi un nodo ancora
irrisolto per la socialdemocrazia tedesca. Federico Niglia, AffInt. 23
La Corte suprema tedesca interviene sui fondi ai partiti
Dichiarato incostituzionale
l’aumento di 25 milioni di euro del finanziamento pubblico, che il Parlamento
federale si era concesso nel 2018 - di Paolo Valentino
Venti di
populismo, ma costituzionale, in Germania. Si tratta della fiducia delle
persone nella politica e dell’impressione che i partiti si servano troppo
disinvoltamente del denaro dei contribuenti. Con questa motivazione, la Corte
suprema tedesca ha dichiarato ieri incostituzionale l’aumento di 25 milioni di
euro del finanziamento pubblico, che il Parlamento federale si era concesso nel
2018. I giudici di Karlsruhe hanno accolto il ricorso di Verdi, Fdp e Afd,
allora tutti all’opposizione, contro la decisione votata a maggioranza dalla
Große Koalition formata da Cdu-Csu e Spd.
I tre partiti di
governo avevano allora fondato la proposta di alzare da 165 a 195 milioni di
euro il tetto annuale al contributo statale alle forze politiche, con gli
investimenti imposti dalla digitalizzazione per fronteggiare nuove sfide e
minacce come hacker, fake news, protezione dei dati. Una motivazione che il
Bundesverfassungsgericht ha riconosciuto valida in linea di principio,
contestando tuttavia il fatto che i proponenti non abbiano spiegato in modo
convincente e circostanziato l’aumento di 25 milioni. «I partiti devono pensare
al sostegno e all’approvazione dei cittadini non solo sul piano politico, ma
anche su quello organizzativo ed economico», ha detto la vice-presidente, Doris
König.
I 216 deputati
dell’opposizione liberale, verde e di estrema destra, per una volta uniti,
avevano votato contro l’aumento, che avevano definito sproporzionato e dannoso
per l’immagine della politica. Questo non ha impedito ovviamente che in questi
anni anche loro hanno approfittato dei maggiori fondi del finanziamento.
La questione più
interessante si apre adesso, visto che mancando la base giuridica, l’aumento
decade all’origine. Dunque, in teoria si pone un problema di restituzione dei
soldi in eccesso ricevuti negli ultimi cinque anni. Ma le toghe rosse di
Karlsruhe su questo non hanno detto nulla.
Una scappatoia,
tutto il mondo è Paese, comunque esiste: i partiti tedeschi potrebbero
approvare in corsa una nuova legge, nella quale i bisogni di finanziamento
siano più dettagliati, come richiesto dai giudici costituzionali. «Esiste un
margine di manovra», ha ammesso König, aggiungendo però che dovranno essere
calcolati anche i risparmi resi nel frattempo possibili da nuovi sviluppi
tecnologici. CdS 24
Gli orizzonti della cooperazione Nato-Ue
Il 10 gennaio è
stata pubblicata la nuova dichiarazione congiunta tra Nato e Unione europea. Il
documento condanna in maniera inequivocabile quella che viene definita come una
guerra “brutale” della Russia all’Ucraina e presenta la crescente assertività
della Cina come una sfida. Sulla scia delle precedenti dichiarazioni del 2016 e
2018, la dichiarazione individua le aree in cui le due organizzazioni intendono
rafforzare e approfondire la cooperazione. In passato, sono stati introdotti in
agenda temi come le minacce ibride e cyber, o la mobilità militare (military
mobility), arrivando ad identificare addirittura 42 aree di cooperazione su 7
temi diversi.
Tre nuove aree di
cooperazione
La terza
dichiarazione fa un passo in più e individua nuove aree sulle quali concentrare
gli sforzi di cooperazione. In particolare, il documento elenca i seguenti
settori: la competizione geostrategica, la resilienza, la protezione delle
infrastrutture critiche, le tecnologie emergenti, lo spazio e le implicazioni
di sicurezza del cambiamento climatico, le interferenze e la manipolazione
delle informazioni esterne.
Temi come la
competizione geostrategica e la resilienza rimangono intenzionalmente piuttosto
generici per lasciare un ampio margine di manovra e di implementazione alle due
parti. Alcuni di questi – in particolare resilienza, tecnologie emergenti e
dirompenti, cambiamento climatico – sono stati anticipati già dalla Bussola
strategica dell’Ue pubblicata a marzo 2022, che li individuava come aree in cui
esplorare maggiore cooperazione tra Nato e Ue. La Bussola specificava inoltre
che tale collaborazione dovrebbe tener conto dei punti di forza di entrambe le
organizzazioni.
Per quel che
riguarda le tecnologie emergenti e la protezione delle infrastrutture critiche,
la Nato e l’Ue stanno lavorando su varie iniziative in parallelo. Vale la pena
menzionarne due. L’Alleanza atlantica ha lanciato dopo il summit di Bruxelles
nel 2021 il programma DIANA – l’acceleratore dell’innovazione in difesa della
Nato (Defence Innovation Accelerator for the North Atlantic) che vedrà la città
di Torino ospitare uno dei poli dedicato all’aerospazio e a progetti con TRL
(Technology Readiness Level) 3-7. Il Consiglio dell’UE l’8 dicembre 2022 ha
adottato l’attesa direttiva sulla resilienza e la protezione delle entità
critiche (Directive on the resilience of critical entities) che espande
notevolmente la definizione di infrastrutture critiche, e che rappresenta un
sostanziale, quanto necessario, salto di qualità rispetto alla precedente
direttiva del Consiglio 2008/114/EC.
Esa-Nato-Ue: un
sodalizio possibile
Di particolare
rilevanza l’inserimento dello spazio tra i temi sui cui approfondire la
collaborazione. La Nato ha riconosciuto lo spazio come nuovo dominio operativo
nel 2019 e ha formulato una propria politica spaziale, tuttavia l’Alleanza non
possiede capacità spaziali proprie e utilizza gli asset di quegli alleati che
ne sono dotati. Di contro, l’Unione europea, tramite i programmi Copernicus e
Galileo e nuovi investimenti in connettività, comunicazioni governative
satellitari sicure e resilienza delle infrastrutture spaziali, si sta
posizionando tra gli attori internazionali con capacità spaziali proprie e
cercherà di avere un ruolo nella governance internazionale dello spazio.
Proprio su
quest’ultimo punto, l’Europa, tramite le attività in ambito Ue e ESA, è
attualmente in fase di definizione e assestamento della governance spaziale del
Vecchio continente. L’Ue presenterà inoltre nel corso del 2023 una Strategia
spaziale per la sicurezza e la difesa. Un tema su cui il margine di cooperazione
è molto ampio per le due organizzazioni è lo Space traffic management (Stm) e,
in particolare, la formulazione di norme condivise per operare in uno spazio
sempre più congestionato, competitivo e contestato.
L’Ue ha giù
pubblicato a febbraio 2022 una comunicazione congiunta (Joint Communication on
an EU approach to Stm) in cui definisce quello che è il suo approccio, seppur
iniziale e abbastanza generico, allo space traffic management. La comunicazione
prevede la creazione di partnership internazionali e un coinvolgimento
multilaterale sullo Stm. L’esplorazione di una partnership tra Nato e Ue su
questo tema (con coinvolgimento potenziale anche dell’Esa) che risulti in un
allineamento degli approcci allo Stm, o persino nella formulazione di una
visione comune, porterebbe il peso politico delle tre organizzazioni nella
dimensione spaziale, lanciando un segnale a quei paesi che hanno adottato
comportamenti irresponsabili in orbita, come Russia e Cina.
Una difesa europea
integrata
La dichiarazione
riconosce inoltre il valore di una difesa europea più forte e capace,
complementare alla Nato e interoperabile con essa. Questo è un punto
particolarmente importante considerate le difficoltà e le tensioni emerse tra
gli europei su come interpretare il rafforzamento della difesa e dell’industria
della difesa europee.
Alla luce dello
scenario internazionale in rapido mutamento e della doccia fredda che per molti
paesi europei è stata l’aggressione russa all’Ucraina, una stretta,
continuativa e strutturata cooperazione tra le due organizzazioni appare più
importante che mai. In primis in chiave di garanzia alla sicurezza
euro-atlantica. In secondo luogo, in chiave di contenimento di potenze
autoritarie che interferiscono con le liberal-democrazie per indebolirle.
In questo senso, è
incoraggiante leggere nel 7° Rapporto sul progresso della cooperazione NATO-UE
pubblicato a giugno 2022 che il dialogo e le consultazioni politiche tra le due
organizzazioni sono state approfondite. Non si tratta di un dialogo facile, ma
quanto mai necessario, per garantire la sicurezza dell’area euro-atlantica e
delle sue democrazie. Karolina Muti, IAI 16
Una nuova sicurezza per una nuova Europa
La partnership
strategica tra Unione europea e Nato rappresenta la chiave di volta per la
sicurezza euro-atlantica e la terza dichiarazione congiunta giunge in un
momento complesso e al contempo cruciale per la nostra comunità di sicurezza.
La guerra in Ucraina, la minaccia russa alla stabilità e alla sicurezza
europea, la recessione internazionale e l’antagonismo cinese stanno comportando
la caduta di molti equilibri su cui per anni avevamo fondato la nostra azione.
Una cooperazione Ue-Nato rafforzata è dunque un passo decisivo per l’unità
euro-atlantica, per promuovere i valori democratici, la pace e la sicurezza
internazionale.
Un documento
politico
Le dichiarazioni
congiunte del 2016 e 2018 avevano siglato l’inizio di una nuova fase di cooperazione
grazie al lancio di progetti cardine e dialoghi strutturati. La dichiarazione
del 2023, però, propone delle novità e, al contempo, delle complessità non
secondarie che sono destinate a cambiare per sempre la percezione stessa del
concetto di sicurezza internazionale.
In primo luogo, il
documento contiene una forte dimensione politica, indice della forte coesione
della comunità euro-atlantica. Se all’indomani dell’invasione dell’Ucraina, la
reazione di Ue e Nato è stata immediata ed univoca, tale spinta e convinzioni
si consolidano. La dichiarazione ribadisce le priorità strategiche di Unione e
Alleanza e mette nero su bianco alcuni degli attori contro cui concentrare la
nostra azione – Russia e Cina.
La drammatica
deriva autoritaria che imperversa in molti Paesi nel mondo è un campanello
d’allarme che ci porta a riaffermare i nostri valori democratici e i nostri
obiettivi: pace e prosperità. Se da un lato è positivo che questa sia la prima
dichiarazione congiunta in cui vengono nominati in maniera netta regimi
autoritari e aggressivi come Russia e Cina, dall’altro, si rende necessaria una
riflessione sullo scopo geografico della cooperazione tra le due organizzazioni
e soprattutto sulla marginalità con cui sono trattate aree geografiche per noi
cruciali, quali il Mediterraneo. Va infatti ricordato che una delle aree di
cooperazioni tra UE e NATO insiste proprio nel bacino Mediterraneo – la
cooperazione marittima. Unione e Alleanza non possono permettersi di
distogliere la loro azione dal Mediterraneo, disinteressarsi dei partner
nell’area e delle cruciali questioni di sicurezza del vicinato sud.
In secondo luogo,
la dichiarazione cerca di risolvere quella ambiguità strategica che troppo a
lungo ha contraddistinto i rapporti Ue-Nato. Grazie ai progressi fatti con i
dialoghi politici tra le due organizzazioni e la stesura in contemporanea della
Bussola Strategica dell’Unione e il Concetto Strategico dell’Alleanza, la
dichiarazione ha il vantaggio di essere sorretta da una forte intesa strategica
e sinergia tra le due organizzazioni. Nella dichiarazione si abbozza una sorta
di divisione dei compiti e se la Nato rimane la struttura fondante per la
sicurezza collettiva, si riconosce il “valore di una difesa europea più forte e
capace” che sia complementare e interoperabile con quella dell’Alleanza.
Diffidenza
atlantica
La risposta
Ue-Nato all’invasione russa non lascia alcun dubbio in merito alla
complementarietà tra le due organizzazioni. L’Unione e l’Alleanza hanno agito
insieme, coordinandosi e lanciando iniziative là dove era necessario in base
alle proprie capacità e peculiarità, e gli strumenti dell’Unione si sono
dimostrati cruciali.
Ciò nondimeno, il
linguaggio della dichiarazione sottende due elementi: il primato della Nato
sull’Ue; una generale diffidenza nei confronti dell’Unione della Difesa, che
ricorda, ahimè, una retorica che appartiene al passato. Per una piena intesa
strategica, dobbiamo tracciare una divisione dei ruoli, realizzare un’autonomia
strategica europea in grado di sostenere i costi dell’architettura della
sicurezza euro-atlantica. Uniti siamo più forti e non è possibile non intendere
l’europeismo se non anche come il compimento dell’atlantismo. Questo vale sia
in questo segmento del dibattito che nel posizionamento globale della politica
estera di qualsiasi Stato.
Infine, al valore
politico e strategico, si accompagna la dimensione propriamente operativa. La
dichiarazione puntualmente illustra le aree in cui approfondire o espandere la
cooperazione. La sempre più complessa rete di minacce che gravano sui nostri
cittadini rendono evidenti le responsabilità e le urgenze a cui Ue e Nato sono
chiamati a far fronte. Emerge sempre di più l’esigenza di una expertise civile
e di strumenti regolatori che sembrano, in effetti, dare un forte impulso
all’azione Ue più che alla Nato.
I limiti della
cooperazione euro-atlantica
Questo rinnovato
protagonismo dell’Unione si accompagna, tuttavia, a due serie di problematiche:
definizioni vaghe e l’assenza di piani dettagliati; le resistenze tra Stati membri
che non permettono un’armonizzazione di tali obiettivi, una sorta di barriera
invisibile che infine ostacola l’espansione e l’approfondimento della
cooperazione. Dalla dichiarazione emerge infatti l’assenza di una piena
collaborazione di taluni Stati, una condizione che ha ritardato la firma della
dichiarazione, che riduce l’incisività di un approccio pragmatico e ci ricorda
che, nonostante il lancio di task force, gli stati membri e gli alleati devono
cooperare in un vero spirito di solidarietà.
Per una comunità
euro-atlantica più forte e coesa sarà necessario lavorare insieme
sull’attuazione di un approccio equilibrato che prenda in considerazione tutte
le esigenze strategiche, sull’abbattimento delle diffidenze per realizzare una
cooperazione trasparente e mutualmente benefica ed infine sulla piena
solidarietà tra stati membri e alleati.
Pina Picierno, AffInt 19
Mentre sul fronte della
Rappresentatività politica della nostra numerosa Comunità all’estero si sono
venute a individuarsi delle contraddizioni, il progetto per dare concretezza al
DIE (Dipartimento per gli Italiani all’Estero) resta uno degli obiettivi
’primari” che dovrebbe essere varato da questa Maggioranza di Centro/Destra.
Il DIE intende
essere la risultante di un progetto internazionale. Ora dovremmo essere in
grado di dare voce a chi non ne ha mai avuta a sufficienza. La nostra sarà una
Rappresentatività “attiva”, indipendente da ogni legame politico interno e
consentirà d’essere un ponte informativo tra chi vive lontano dal Bel Paese e
l’Italia.
Il tutto anche
tramite un modo meno tradizionale di fare informazione; senza avvantaggiare
nessuno a discapito di altri. Il DIE rimarrà, un’istituzione autonoma, con
referenza presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri e con la finalità di
mettere a fuoco i problemi, piccoli o grandi, che coinvolgono gli italiani nel
mondo. Senza, però, ignorare anche quelli dell’”Emigrazione” di ritorno.
Il convincimento
di riuscire c’è dato dall’esperienza maturata proprio sul fronte della Stampa
d’Emigrazione e per i diretti contatti con le nostre Comunità d’oltre frontiera.
Un patrimonio di requisiti che ci hanno fatto assumere migliore coscienza ai
problemi dei milioni d’italiani nel mondo. Diritti che hanno d’avere, anche in
Patria, una loro valenza garantita da un gruppo di “saggi” che si riveleranno
strada facendo. Insomma, intendiamo dare “voce” operativa a chi ne ha avuta
sempre poca. Giorgio Brignola, de.it.press
UE, passaggio all’euro riuscito in Croazia
ROMA – La Croazia
ha completato con successo il passaggio all’euro. Il periodo di doppia
circolazione di 14 giorni (durante il quale è stato possibile utilizzare sia la
kuna sia l’euro) si è concluso il 14 gennaio. I pagamenti non possono più
essere effettuati in kune. Secondo un sondaggio condotto dalla Commissione il
13 e 14 gennaio, quasi tutti (89%) i pagamenti in contanti nei negozi sono
stati effettuati in euro e praticamente tutti i consumatori (99%) hanno
ricevuto il resto in euro. Il 67% dei croati ha dichiarato di avere già con sé
solamente banconote in euro, mentre il 68% dichiara di usare solo monete in
euro. Il settore del commercio al dettaglio croato ha affrontato bene il
passaggio all’euro e la gestione parallela delle due valute. Non sono stati
segnalati problemi di rilievo per quanto riguarda le code o alle casse. Anche
la conversione agli sportelli automatici (distributori automatici di banconote)
è avvenuta senza intoppi. Per tutelare i consumatori e rispondere alle
preoccupazioni relative agli aumenti abusivi dei prezzi nel periodo di
transizione, le autorità croate stanno adottando misure attive in linea con le
norme sull’introduzione dell’euro. La doppia indicazione dei prezzi in kune e
in euro è diventata obbligatoria il 5 settembre 2022 e si applicherà fino al 31
dicembre 2023. È stato introdotto un codice deontologico per le imprese volto a
garantire la stabilità dei prezzi dei beni e dei servizi aiutando le imprese a
ricalcolare e visualizzare correttamente i prezzi, senza aumenti
ingiustificati. Un organismo di controllo nazionale ha il compito di monitorare
e controllare i prezzi e può adottare misure adeguate in caso di infrazioni. Le
banconote e le monete in kune possono essere cambiate gratuitamente con
banconote e monete in euro presso l’Agenzia finanziaria e gli uffici postali
fino al 30 giugno 2023. Il cambio presso le banche commerciali è possibile fino
al 31 dicembre 2023. La banca centrale croata sostituirà le banconote in kune a
tempo indeterminato e le monete fino al 31 dicembre 2025. Il servizio è
gratuito. (Inform/dip 18)
L’invasione russa e la fine dell’“ambiguità occidentale” in Ucraina
Dopo il crollo
dell’Unione Sovietica, in Ucraina la società e l’establishment politico hanno
scelto un percorso di trasformazione diverso rispetto alla Russia. L’Ucraina ha
ottenuto la sua indipendenza pacificamente e senza conflitti interni grazie a
un accordo tra l’opposizione nazional-democratica ei cosiddetti
“nazional-comunisti”.
Ucraina:
pluralismo ‘by default’
L’Occidente ha
capito che 1) l’Ucraina è stato il primo stato della Comunità degli Stati
Indipendenti (CSI) a tornare a eleggere sia il presidente che il parlamento
nelle elezioni democratiche del 1994; 2) in contrasto con la costituzione russa
del 1993, che ha stabilito un modello di autoritarismo strisciante in quanto ha
conferito una massiccia autorità al presidente, la costituzione ucraina del
1996 era un compromesso tra il presidente e il parlamento; 3) sempre in
contrasto con la Russia, l’opposizione politica in Ucraina era molto più forte.
Infatti è stato rieletto un solo presidente, Leonid Kuchma (1994-2004).
Gli altri, ad
eccezione del fuggitivo Viktor Yanukovich (2010-2014), hanno perso le elezioni
a favore dei rivali dell’opposizione. Nelle elezioni parlamentari i partiti di
opposizione hanno sconfitto i rivali al potere nel 2006, 2007 e 2019. Tutti i
governi ucraini hanno dovuto tenere conto anche degli interessi delle diverse
regioni del paese. Pertanto, questo sistema era molto più equilibrato del
modello russo. Dal punto di vista della scienza politica occidentale, in
Ucraina è emerso il “pluralismo per default, intrinseco”, ovvero il pluralismo
non pianificato e non intenzionale.
La visione
distorta dell’Ucraina
Prima di
EuroMaidan, la maggior parte dei politici e degli studiosi americani ed europei
guardava all’Ucraina attraverso le lenti delle sue somiglianze superficiali con
la Russia piuttosto che delle sue importanti differenze da essa. L’eredità
sovietica, la storia comune e le pratiche post-sovietiche, in particolare le
istituzioni deboli, la corruzione endemica e la politica informale hanno messo in
ombra il ruolo crescente della società civile e il rafforzamento dell’identità
nazionale degli ucraini. Di conseguenza, l’Ucraina è stata descritta come “zona
grigia” o stato vassallo russo.
Ma anche dopo
EuroMaidan, l’annessione della Crimea da parte della Russia, le intrusioni nel
Donbass e l’aggressione ibrida contro l’Ucraina, le istituzioni dell’Ue e la
maggior parte degli Stati membri hanno continuato a trattare l’Ucraina solo
come uno stato confinante con la Russia, che avrebbe dovuto trovare una soluzione
ai suoi problemi economici e di sicurezza, causati dalla Russia, attraverso i
negoziati e nel rispetto degli interessi dell’invasore. Tale trattamento ha
reso i leader ucraini cauti nei confronti delle politiche e delle intenzioni
occidentali, sebbene il percorso verso la piena adesione all’Ue e alla Nato
fosse ancora considerato lo strumento principale per rafforzare la sicurezza e
la sovranità della nazione.
L’Ue ha mancato il
cuore della questione quando sperava che l’Ucraina e la Russia (sia gli Stati
che le società) potessero trovare modi per riconciliarsi. Nel 2016, solo il 10%
degli ucraini credeva nella possibilità di normalizzare le relazioni bilaterali
tra Ucraina e Russia nel prossimo futuro. Nel frattempo, quasi la metà della
popolazione ucraina (49%) ritiene che la normalizzazione delle relazioni possa
avvenire solo in un lontano futuro e quasi un quarto dei cittadini ucraini
(24%) non crede affatto a tale prospettiva.
Inoltre, mentre la
Russia continuava i suoi passi aggressivi nei confronti dell’Ucraina, come la
chiusura completa del Mar d’Azov (2018), la distribuzione dei passaporti russi
alle persone che vivevano nelle aree occupate delle regioni di Donetsk e
Luhansk e le aperte minacce di invasione (2019), gli ucraini stavano diventando
sempre più determinati a resistere con forza alla pressione russa.
2022: fine
dell’ambiguità europea
L’aggressione
russa nel Donbass e le aperte minacce di invasione, infatti, hanno portato a un
rafforzamento dell’unità del sistema politico ucraino, che si stava coalizzando
e sviluppandosi dal 1991 e ha acquisito una nuova risolutezza durante
Euromaidan. Gli ucraini hanno determinato da soli chi sono in senso geopolitico
e vogliono che il loro paese sia un membro dell’Ue e della Nato.
Nel febbraio 2022,
nonostante la crescente minaccia di invasione, il 43% degli ucraini era
contrario a qualsiasi concessione alla Russia, anche se il Cremlino aveva
promesso di fermare la sua aggressione. Tuttavia, la maggior parte dei
governi dell’Ue credeva che in caso di invasione su vasta scala da parte della
Russia, che l’Ucraina sarebbe crollata in una settimana o giù di lì e sono
rimasti piuttosto sorpresi dalla riuscita resistenza degli ucraini.
I cambiamenti
nell’opinione pubblica ucraina dalla prima invasione russa nel 2014, hanno
aiutato gli europei a comprendere meglio l’Ucraina e il suo desiderio di
integrarsi in Europa. Il sostegno, anche se tardivo, dato all’Ucraina da paesi
che in precedenza erano riluttanti a fornire assistenza militare (tra i quali i
più importanti sono Germania, Francia e Italia), ha migliorato la sua posizione
in Ucraina.
Il presente: gli
aiuti occidentali e la resistenza
Gli ucraini sono
consapevoli che la sopravvivenza e la vittoria nazionale dipendono dal sostegno
occidentale. Nell’agosto 2022, il 63% degli intervistati concordava con
l’affermazione secondo cui l’Ucraina potrebbe sopravvivere solo se l’Occidente
fornisse aiuti economici e il 74% concordasse sul fatto che l’Ucraina potesse
sopravvivere solo se l’Occidente fornisse aiuti militari.
Allo stesso tempo,
i governi europei devono tenere presente che è improbabile che la riduzione o la
sospensione degli aiuti militari all’Ucraina influenzi la sua posizione. Nel
dicembre 2022, il 50% degli ucraini riteneva che la leadership militare e
politica del Paese dovesse continuare la guerra anche se gli aiuti dai Paesi
occidentali diminuissero o si interrompessero del tutto. Il 15% ha affermato
che in tali condizioni sarebbe meglio cercare di congelare il conflitto, ma non
accettare le condizioni della Federazione Russa. Solo l’11% degli intervistati
ha convenuto che la leadership del paese dovrebbe avviare negoziati con la
Federazione Russa ed essere pronta a fare concessioni per raggiungere la pace.
Il restante 24% era indeciso. Olexiy Haran - Petro Burkovskyi, AffInt 26
BRUXELLES –
L’Ambasciata d’Italia in Belgio segnala agli utenti che è tato prorogato
al 31 dicembre 2023 il termine relativo all’accesso dei cittadini ai servizi in
rete della Pubblica Amministrazione con credenziali diverse da SPID, CIE e CNS.
“L’art. 13, comma 1, del c.d. “Decreto Milleproroghe” (D.L. n. 198 del 29
dicembre 2022) ha disposto la proroga fino al 31 dicembre 2023 del termine
relativo all’accesso dei cittadini ai servizi in rete della PA con credenziali
diverse da SPID, CIE e CNS.
Inoltre, coloro
che sono in possesso di credenziali rilasciate prima del 31 dicembre 2023
potranno continuare a utilizzarle fino al 31 marzo 2024 per accedere ai servizi
consolari in rete, senza impiegare lo SPID o la Carta d’identità elettronica.
Il portale per i servizi consolari FAST-IT potrà quindi continuare a essere
utilizzato entro il termine suddetto per trasmettere le richieste di iscrizione
in AIRE e per usufruire delle altre funzionalità anche con credenziali tradizionali.
Tuttavia gli utenti che accedono con SPID hanno già oggi il vantaggio di non
dover presentare un ulteriore documento d’identità all’operatore consolare”.
L’Ambasciata
ricorda infine che “l’acquisizione dell’identità digitale è un passo
fondamentale verso la progressiva digitalizzazione della Pubblica
Amministrazione, perché consente al cittadino di accedere ai servizi online in
maniera semplice, sicura e rapida, e all’Amministrazione di essere certi
dell’identità dell’utente e di garantire il rispetto di alti standard di
sicurezza sia in fase di autenticazione che di accesso ai servizi”. (Inform/dip
17)
Dato che
dovrebbero esserci “novità” sul fronte socio/politico nazionale, ci sembra
opportuno rilevare ciò che può essere utile mostrare agli italiani, in Patria e
all’estero, alcune considerazioni fondamentali che abbiamo, da sempre,
sostenuto. Su quattro principi, tutti importanti, non sono state ancora
evidenziate posizioni politiche attinenti. Li riportiamo per mantenerne “viva”
l’urgenza.
1- Il vincolo di
mandato: nessun eletto può cambiare schieramento politico senza, prima, dare le
dimissioni da parlamentare.
2 –ammissione di
un numero di cittadini per la nomina del Capo dello Stato.
3- Cancellazione
dei Senatori a vita.
4- Aggiornamento
della “rappresentatività” politica dei Connazionali all’estero; prendendo in
esame il varo di un Dipartimento per gli Italiani all’Estero (DIE), con
attinenza alla Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Giorgio Brignola,
de.it.press
L’ambasciatore Riccardo Guariglia sarà il nuovo segretario generale della Farnesina
Roma –
L’ambasciatore Riccardo Guariglia sarà il nuovo segretario generale della Farnesina.
La nomina è stata deliberata nella tarda serata del 19 gennaio, dal Consiglio
dei Ministri riunito a Palazzo Chigi sotto la presidenza di Giorgia Meloni.
Guariglia
succederà da marzo all’ambasciatore Ettore Francesco Sequi, cui sono giunti i
ringraziamenti del vicepresidente del Consiglio e ministro degli Affari Esteri,
Antonio Tajani, “per il servizio reso con grande senso dello Stato in questi
anni”.
Diplomatico di
grande esperienza, l’ambasciatore Guariglia è attualmente Capo della Missione
diplomatica a Madrid.
Entrato in
carriera diplomatica nel 1985, ha prestato servizio al Cairo, a Bruxelles in
qualità di console, alla Rappresentanza Permanente presso la NATO come
consigliere politico e a Brasilia come vice capo Missione. Direttore centrale
per i Paesi europei dal 2008 al 2011, è stato nel 2011 nominato ambasciatore a
Varsavia, per poi assumere nel 2014 le funzioni di capo del Cerimoniale
Diplomatico della Repubblica. Dal 2018 al 2019 ha svolto le funzioni di capo di
Gabinetto.
Nato a Chicago nel
1961, di famiglia napoletana, è laureato in economia e commercio presso
l’Università di Roma.
L’evento “Roma
Expo 2030: la candidatura e il ruolo del mondo accademico italiano”, tenutosi
alla Farnesina alla presenza del Vice Presidente del Consiglio e Ministro degli
Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Antonio Tajani, del Ministro
dell’Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini, del Presidente del
Comitato Promotore, Giampiero Massolo, e dei Rettori e Prorettori delle
Università italiane, ha permesso di suggellare il sostegno del mondo accademico
alla candidatura di Roma a ospitare Expo 2030.
Auspicando che
tale proficua collaborazione continui con rinnovato vigore, il Ministro Antonio
Tajani ha sottolineato che anche se “la competizione per EXPO 2030 è molto
serrata, come Italia abbiamo tutte le carte in regola per vincere la partita”
grazie anche all’eccellenza del nostro sistema di formazione che il Governo è
determinato a valorizzare al meglio quale effettivo ed efficace strumento di
politica estera.
“Su Roma Expo 2030
il Ministero dell’Università e della Ricerca (il MUR) – ha spiegato il Ministro
Bernini – è impegnato in prima linea, così come tutto il sistema delle
università che da subito ha messo a disposizione la rete di relazioni
internazionali a sostegno della candidatura di Roma. Il MUR vuole essere un
collettore di opportunità e per questo vogliamo offrire al Comitato Roma Expo
2030 la nostra struttura di relazioni per rendere ancor più conoscibile
l’offerta”.
All’incontro hanno
preso parte anche il Presidente SNA e Presidente Comitato Scientifico Expo 2030
Roma Paola Severino, il Consulente creativo della visione strategica di Expo
Roma 2030 Carlo Ratti, il Presidente CRUI e Rettore Università degli Studi di
Messina e Salvatore Cuzzocrea, che hanno valorizzato l’impegno finora profuso
dal mondo accademico italiano a favore della candidatura, anche attraverso la
disponibilità a dedicare alla campagna circa 800 borse di studio.
Come ricordato
anche dal Comitato Promotore, il lavoro sinergico con il mondo accademico è uno
dei pilastri della candidatura italiana, che vede nella formazione un fattore
fondamentale per la costruzione a livello globale di una nuova generazione
della sostenibilità.
Al termine
dell’evento è stata firmata una dichiarazione programmatica, sottoscritta dalla
Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (CRUI) in rappresentanza degli
atenei e dal Comitato Promotore, che delinea le linee dell’impegno
dell’accademia a sostegno della candidatura e richiama il mondo accademico a
uno sforzo ulteriore sui temi della sostenibilità, centrali nel dossier di
candidatura. (focus\ aise 22)
Ministero degli Esteri e Google insieme per la sicurezza dei viaggi all’estero
ROMA – “Sono fiero
che, anche grazie a Google, il Ministero degli Esteri possa offrire servizi
d’avanguardia ai viaggiatori italiani”, dichiara il ministro degli Affari
Esteri Antonio Tajani.
Grazie a un
accordo tra il Ministero e Google per l’utilizzo gratuito di inserzioni con
“Google Ad Grants”, gli utenti italiani che faranno ricerche per i loro viaggi
vedranno tra i risultati il sito www.viaggiaresicuri.it gestito
dall’Unità di Crisi. Gli utenti vedranno comparire ad ogni loro ricerca le
informazioni di sicurezza su ogni Paese del mondo che sia monitorato dalla
Farnesina. Accanto a questo comparirà l’invito a scaricare l’App “Unità di
Crisi”, che permette di registrare i viaggi dal cellulare sul sito www.dovesiamonelmondo.it, facilitando gli interventi in
caso d’emergenza.
Diego Ciulli, head
of Government Affairs and Public Policy di Google Italia, ha dichiarato da
parte sua: “Vogliamo che Google sia uno strumento di costante aiuto per gli
italiani, e con questa collaborazione aiutiamo il Ministero degli Affari Esteri
e della Cooperazione Internazionale a far emergere contenuti autorevoli – a
beneficio innanzitutto delle persone che usano Google per trovare informazioni
di qualità”.
Grazie alla
collaborazione con A2A avviata lo scorso dicembre, è stato dato inoltre un
nuovo slancio alla diffusione della cultura della sicurezza per chi si sposta
all’estero per viaggi professionali e nell’ambito dell’attività di impresa.
Tutti i servizi
dell’Unità di Crisi sono liberamente accessibili a imprese e cittadini, e
comprendono il portale di avvisi di viaggio ViaggiareSicuri, con profili sempre
aggiornati su oltre 220 Paesi e territori, il sito di registrazione
Dovesiamonelmondo e soprattutto la nuova APP “Unità di Crisi”. L’applicazione,
del tutto gratuita, offre l’accesso a entrambi i portali e consente di
geolocalizzarsi per ricevere messaggi d’emergenza, nel rispetto dei dati
personali.
(Inform/dip
17)
Nasce il CIMIM: istituito il Comitato per il Made in Italy nel mondo
ROMA - Si è svolta
il 26 gennaio alla Farnesina la prima riunione del Comitato per il Made in
Italy nel mondo (CIMIM), organismo istituito dal Governo lo scorso novembre e
co-presieduto dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale
con il Ministero delle Imprese e del Made in Italy. Alla riunione hanno
partecipato anche i ministri dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti
(in video collegamento), dell'Agricoltura e della Sovranità Alimentare e delle
Foreste, Francesco Lollobrigida, e del Turismo, Daniela Santanchè.
A co-presiedere il
Comitato saranno, dunque, i Ministri Antonio Tajani e Adolfo Urso, che hanno aperto
l’incontro di oggi, cui ha preso parte anche Valentino Valentini, Vice Ministro
al Mimit con le deleghe alla promozione e valorizzazione del Made in Italy nel
mondo.
Obiettivo del
CIMIM sarà quello di dare indirizzi strategici per accompagnare le imprese
nella loro crescita nei mercati all’estero, definendo le politiche per
l’internazionalizzazione dell’Italia.
Durante
l’incontro si è parlato anche dei
prossimi appuntamenti internazionali, a cominciare dalle tappe che attendono la
candidatura di Roma a Expo2030 e dal Giubileo 2025 in programma a Roma.
Le linee guida e
di indirizzo strategico in materia di promozione e internazionalizzazione delle
imprese elaborate dal CIMIM verranno adottate dalla prossima Cabina di Regia
per l’internazionalizzazione che la Farnesina ha ospitato il 31 gennaio. Dip 31
Dai risultati
dell’Anagrafe Italiani Residenti all’Estero (AIRE), i Connazionali “altrove”
erano 5.124.470. In definitiva, un numero che rappresenta l’8,5% della
popolazione residente nel Bel Paese. Più della metà di questa fitta umanità
oltre confine vive in Paesi UE (5,8 %).
La restante percentuale è sparsa in Stati
geograficamente maggiormente lontani. La comunità italiana più numerosa, fuori
d’Europa, resta in Argentina (820.000), poi si torna nel Vecchio Continente.
745.000 italiani vivono in Germania, 615.000 in Svizzera, 451.000 si trova in
Francia. Questi sono i numeri più espressivi. Anche se le Comunità italiane
all’estero, piccole o grandi, hanno tutte sviluppato un loro ruolo. Entrando in
merito all’età, se si escludono gli italiani nati all’estero, il 18% ha un’età
compresa tra i 45 e i 65 anni. Da qualche tempo, stanno aumentando anche le
richieste di visto migratorio per l’Australia e Nuova Zelanda, dove già vivono
25.000 Connazionali impegnati nei diversi settori produttivi di questi lontani
Paesi.
Di tutta questa fitta umanità, circa il 65% ha
regolari contatti, economici e sociali, con la Patria. Il 26% intenderebbe
rientrare, definitivamente, nella Penisola terminato il ciclo lavorativo. Tra
l’altro, sono aumentate le proprietà immobiliari, soprattutto nell’Italia
meridionale, da parte di Connazionali residenti all’estero. Proprio a fronte di
quest’altra Italia nel mondo, la nostra attenzione nei loro confronti continua
ed è motivo di riflessione e confronto. Vivere “altrove” era, e rimane, un
aspetto della nostra cultura che seguiteremo a monitorare. Sia sotto gli
aspetti economici, che culturali. Riteniamo, infatti, che ne valga la pena.
Giorgio Brignola,
de.it.press
L’Italia dal governo Draghi al governo Meloni
Per la politica
italiana, il 2022 è stato l’anno del passaggio dal governo guidato da Mario
Draghi, dimessosi a luglio, a quello di Giorgia Meloni, uscita chiara
vincitrice dalle elezioni di settembre. Se il primo era un esecutivo tecnico
guidato da una personalità di riconosciuto prestigio, sostenuto da una
maggioranza trasversale, il secondo si caratterizza come governo politico,
dichiaratamente di parte ed espressione della coalizione di centrodestra. Fino
a che punto questa diversità nei profili dei due governi abbia portato a una
discontinuità nella politica estera dell’Italia è il filo conduttore del
Rapporto sulla politica estera italiana 2022, redatto da un gruppo di
ricercatori dello IAI nel quadro della partnership strategica con la Fondazione
Compagnia di San Paolo.
Il governo Draghi
Nella prima metà
del 2022, il governo Draghi si era concentrato sul contrasto al Covid e
sull’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza – presentato come
programma di modernizzazione del paese dal cui successo dipenderà anche la
possibilità di riproporre iniziative simili a livello europeo – riportando
risultati complessivamente positivi su entrambi i versanti.
In seguito
all’invasione russa dell’Ucraina del 24 febbraio, il governo ha assunto da
subito una posizione di ferma condanna dei confronti di Mosca, manifestando
solidarietà a Kyiv non solo da un punto di vista politico, ma anche con
assistenza economica, finanziaria e umanitaria e con forniture militari. In
parallelo, l’esecutivo si è impegnato per ridurre la dipendenza italiana dal
gas russo, attraverso un’ampia gamma di accordi volti a garantire forniture
alternative, in primis nel Mediterraneo allargato.
Su un piano più
generale, il governo Draghi ha confermato la tradizionale collocazione
dell’Italia a sostegno dell’Unione europea e dell’Alleanza atlantica. In
Europa, il governo si è mosso in maniera particolarmente autorevole,
contribuendo a definire la strategia Ue su alcuni dei dossier più significativi,
come il cambiamento climatico e la transizione energetica. Sul fronte
migratorio, il governo ha partecipato allo sforzo collettivo di solidarietà nei
confronti dell’Ucraina, accogliendo circa 168 mila ucraini tramite l’istituto
della protezione temporanea (di fatto un riconoscimento “pro tempore” dello
status di rifugiato politico). Minori risultati sono stati ottenuti nella
definizione di politiche migratorie comuni in sede europea: la solidarietà nei
confronti dei profughi ucraini non si è tradotta in una parallela disponibilità
a una politica di apertura nei confronti di altri migranti diretti in Europa.
Il governo Meloni
Il governo Meloni
si è insediato a ottobre in un contesto segnato da inflazione a due cifre,
crisi energetica e rischi di recessione. Di fronte a queste sfide, il nuovo
esecutivo ha dovuto fare i conti con la difficile eredità di credibilità ed
autorevolezza del governo Draghi, e con le perplessità rispetto al suo futuro
posizionamento internazionale manifestate da paesi partner, media
internazionali e mercati finanziari.
Già in campagna
elettorale, tuttavia, Giorgia Meloni si era espressa chiaramente a sostegno di una
linea “atlantista” e di ferma condanna dell’aggressione russa e di solidarietà
con l’Ucraina aggredita, in piena continuità con il precedente esecutivo.
Questa posizione, che comprende anche un impegno a proseguire le forniture
militari a Kyiv, è stata confermata in maniera netta nei giorni immediatamente
precedenti e successivi l’insediamento del nuovo governo.
Più incerta
appariva invece la possibile evoluzione dei rapporti con l’Unione europea e con
i tradizionali alleati dell’Italia in Europa. Proprio per fugare questi dubbi,
Meloni ha scelto Bruxelles come destinazione della sua prima visita all’estero
e le istituzioni Ue come primi interlocutori. Nelle settimane successive, non
sono mancati tuttavia segnali contrastanti nella linea dell’esecutivo. Se da un
lato è parsa evidente la volontà del governo di evitare lo scontro sul fronte
della finanza pubblica e del rispetto delle regole comuni in materia di
disciplina di bilancio, dall’altro la presidente del Consiglio ha colto varie
occasioni per ribadire una linea più assertiva, volta a far valere l’interesse
nazionale dell’Italia in Europa, in sintonia con una visione da “Europa delle
patrie” caratteristica anche di altri partiti di destra in Europa.
La legge di
bilancio per il 2023 ha scontato un ricorso al deficit superiore (anche se
limitatamente) rispetto alle previsioni del precedente governo. Ma nei suoi
“fondamentali” (volume complessivo di spesa prevista e livello del deficit), in
ogni caso, ha confermato la consapevolezza dell’esecutivo della necessità di
evitare aumenti di deficit e debito che potrebbero mettere in allarme i mercati
finanziari e creare tensioni con la Ue.
La politica estera
italiana nel 2023
Uno dei temi
cruciali per il 2023 sarà ancora quello del Pnrr: il Piano italiano rappresenta
una sorta di banco di prova del successo di Next generation Eu nel suo
complesso, ragion per cui la sua attuazione verrà monitorata con la massima
attenzione a Bruxelles e nelle maggiori capitali europee. In un primo momento,
il governo Meloni ha cercato di rinegoziarne i tempi di attuazione, riaprendo
una fase complicata di interlocuzione con la Commissione europea, condotta in
ogni caso in uno spirito di leale collaborazione.
Nell’ultimo
scorcio del 2022, si è poi riproposto il tema del Meccanismo europeo di
stabilità (Mes), dopo che a seguito del via libera alla ratifica da parte della
Germania, l’Italia è rimasta l’ultimo paese a non aver ancora ratificato le
modifiche allo statuto originario del Mes. Con l’eccezione di Forza Italia, gli
altri partiti della maggioranza si erano in passato battuti contro il Mes e le
sue modifiche, rendendo la questione particolarmente delicata per il governo.
Sul finire dell’anno Giorgia Meloni ha implicitamente riconosciuto, con
inevitabile pragmatismo, che l’Italia difficilmente potrebbe opporsi
all’entrata in vigore del nuovo Mes, anticipando così una futura ratifica
italiana, sia pur accompagnata dal solenne impegno a non ricorrere
all’assistenza del Meccanismo. Verosimilmente, la questione tornerà al centro
del dibattito in questi primi mesi del 2023.
Sul fronte della
gestione dei flussi migratori, infine, alcune iniziative di carattere
identitario assunte un po’ frettolosamente dal governo, unite a qualche errore
di comunicazione, hanno creato tensioni e polemiche con la Francia e, in parte,
con la Commissione europea. La successiva comunicazione della Commissione sulle
sfide poste dai flussi migratori ha parzialmente contribuito a ricostruire un
clima di maggiore collaborazione. è verosimile, tuttavia, che proprio su questo
tema possano riemergere in futuro difficoltà nei rapporti fra il governo Meloni
e alcuni partner europei, magari in concomitanza con un aumento degli arrivi di
migranti via mare. Ferdinando Nelli Feroci, IAI 30
Arrestato il boss mafioso Messina Denaro, era latitante da 30 anni
Matteo Messina
Denaro è stato arrestato dopo una latitanza di 30 anni. E la cattura del boss
mafioso è arrivata a 30 anni esatti dall'arresto di Toto Riina, preso il 15
gennaio 1993.
Una latitanza
record quella di Messina Denaro. Trent'anni trascorsi sotto traccia prima
dell'arresto di oggi da parte dei carabinieri del Ros in una clinica privata di
Palermo dove si era recato per effettuare alcune terapie. L'ex Primula rossa,
indicato dall'Europol nel 2016 tra i latitanti più pericolosi d'Europa, dopo
l'arresto di Totò Riina e Bernardo Provenzano, era ritenuto capo di Cosa
nostra, ultimo grande latitante di mafia.
Figlio del
capomafia di Castelvetrano, Francesco Messina Denaro e alleato dei corleonesi
già dalla guerra di mafia dei primi anni '80, nel 1992 fece parte del gruppo di
fuoco scelto per uccidere Giovanni Falcone e il ministro Claudio Martelli,
usando kalashnikov, fucili e revolver, che lui stesso aveva procurato. Lo stop
all'attentato a Roma fu dato da Riina, che decise che il magistrato dovesse
essere ammazzato a Palermo.
L'ex super
latitante è stato condannato all'ergastolo per gli omicidi, tra l'altro, del
piccolo Giuseppe Di Matteo, sequestrato per costringere il padre Santino a
ritrattare le sue rivelazioni sulla strage di Capaci, strangolato e poi sciolto
nell'acido; e per le stragi del 1992 costate la vita a Giovanni Falcone e Paolo
Borsellino. Un ruolo importante 'U siccu' e 'Diabolik' come venne
soprannominato lo ebbe anche nelle stragi del 1993 in Continente per le quali è
stato condannato all'ergastolo. Dopo l'arresto di Riina, Messina Denaro fu
favorevole alla continuazione della strategia stragista. La sua lunga latitanza
inizia nell'estate del 1993, quando nei suoi confronti viene emesso un mandato di
arresto. Fu, però, solo nel gennaio del 1996 con l'operazione 'Omega' dei
carabinieri che emerse il suo ruolo di primo piano all'interno di Cosa nostra
trapanese grazie anche alle dichiarazioni dei pentiti che ricostruirono 20 anni
di omicidi.
Nel 2000, al
termine del maxi processo 'Omega' nato proprio da quel maxi blitz e che si
celebrò nell'aula bunker del carcere di Trapani, che Messina Denaro venne
condannato in contumacia alla pena dell'ergastolo. Negli anni gli investigatori
hanno stretto il cerchio attorno all'ormai ex superlatitante, arrestando
fiancheggiatori, prestanomi e uomini a lui vicini. Oggi, dopo 30 anni, e
all'indomani dell'anniversario dell'arresto di Totò Riina, la fine della sua
latitanza. Adnkronos 17
ROMA - La
Farnesina ha convocato il 19 gennaio le organizzazioni sindacali per aprire il
confronto sul Piano Triennale della Formazione per il personale scolastico
inviato in missione all’estero nelle scuole, corsi e lettorati. A rappresentare
il Ministero è stato il Consigliere Marco Cerbo, che dal 24 novembre scorso ha
preso il posto della Consigliera Valentina Setta a capo dell’Ufficio V della
Direzione generale per la diplomazia pubblica e culturale.
Obiettivo del
piano, oltre che favorire la crescita professionale del personale coinvolto,
anche quello di sviluppare le competenze utili alla promozione e alla
diffusione della lingua e della cultura italiana nel mondo. La legge di
bilancio n.178 del 2020 ha apportato modiche al D.Lgs 64 del 2017 (recante la
disciplina del sistema delle scuole italiane all'estero) attribuendo alla
Farnesina le competenze inerenti la gestione, il coordinamento e la vigilanza
sul sistema della formazione italiana mondo.
Il piano di
formazione, come specificato dal consigliere Cerbo, è stato predisposto tenendo
conto gli esiti del questionario di rilevazione dei bisogni formativi
somministrato al personale destinato all'estero, nonché degli esiti dei tavoli
di lavoro organizzati nell'ambito delle giornate della formazione italiana nel
mondo. Le azioni formative saranno articolate in attività pre-posting, a
supporto del personale in procinto di assumere servizio all'estero, e
formazione in servizio, che terrà conto dello specifico contesto culturale di
riferimento. Le priorità formative verteranno sulle tematiche relative a
Innovazione e sostenibilità, inclusione, progettazione e valutazione, dialogo
interculturale e sicurezza.
Presente ai
lavori, la delegazione della Flc Cgil ha posto l’accento sulla
esigibilità della formazione e sulla modifica dei coefficienti di sede previsti
dalla legge di bilancio. Sul primo punto, il sindacato ha spiegato che
“avvenendo fuori dall’orario di lezione, abbiamo richiesto al MAECI di
prevedere forme di compensazione, o economica o oraria. Pur riconoscendo il
lavoro svolto e la qualità dei contenuti della proposta presentata, abbiamo
colto l’occasione per ricordare al MAECI l’intesa del maggio 2019 con l’Aran,
con la quale si conviene che la materia della formazione e della mobilità da e
per l’estero rientri nell’alveo della contrattazione nazionale”.
La Uil scuola Rua,
invece, ha segnalato la necessità che, sul piano del metodo, il Confronto
richiesto dal Maeci, tenga conto della trattativa in corso per il rinnovo della
parte normativa del Ccnl scuola, anche alla luce degli impegni in materia di
formazione ribaditi nell’atto di indirizzo del Ministro per la P.A. ,
evidenziando che “la formazione continua è un diritto e un dovere del personale
scolastico che si esplica all’interno dell’orario di servizio”. La UIL scuola
ha sottolineato ancora una volta, come in ogni precedente occasione di
confronto con il Maeci e il MIM, l’urgenza di restituire al più presto possibile
la materia della mobilità professionale alla contrattazione nazionale, al fine
di superare con norme pattizie condivise le ormai innegabili difficoltà di
applicazione delle disposizioni del dlgs 64 (Buona Scuola).
La
Cisl Scuola, presente con il Segretario Nazionale Salvo Inglima,
sottolineando come la formazione sia la leva strategica dei processi di
miglioramento degli apprendimenti, ha espresso apprezzamento per la qualità dei
contenuti formativi e sul metodo di lavoro adottato, improntato al dialogo costruttivo.
Nel merito delle questioni, il sindacato ha richiamato l'esigenza di “porre
particolare attenzione, considerata l'elevata missione svolta dal personale
scolastico in servizio all'estero, nella scelta degli enti a cui sarà affidata
la formazione. Va inoltre assicurata una forte sinergia con il Ministero
dell'Istruzione e del Merito nelle azioni finalizzate alla promozione della
lingua e della cultura italiana nel mondo”. (aise/dip 20)
Il disagio è palese.
L’attuale momento politico internazionale ha solo accelerato i tempi per una
situazione della quale non siamo ancora in grado di stimare gli effetti. Chi si
azzarderebbe a negarlo?
L’arcano resta
fitto. Dopo gli abbagli per un’Italia meno povera, si è tornati a fare i conti
con un’economia assai variegata. I servizi sociali, quelli di pubblica utilità,
sono stati i primi a soffrirne. Tutto il resto, che non è poco, non è stato
risparmiato. L’idea di uno Stato protezionista si è tramutata nell’immagine di
un Paese delle supposte riforme e dell’incoerenza.
Intanto, molti
politici continuano a essere comparse su una scena la cui potenzialità non può
essere trascurata. Ciò che à stato impossibile alle loro alleanze di cordata,
sembra raggiunto, almeno nella sua fase iniziale, da un’emergenza politica da
tamponare. La situazione resta in evoluzione. I problemi del Paese ci sono
ancora tutti e, forse, se ne aggiungeranno degli altri. Non è il caso
d’ipotizzare miglioramenti che potrebbero non esserci.
Potrà sembrare
strano, ma anche da noi si stanno schematizzando, pur senza una tattica
combinata, due “fronti”. Come a scrivere che chi è da una “parte” non dovrebbe,
poi, transitare a un’’”altra”. Nel Paese è già successo. Da noi, la politica
del “passaggio” non è una novità e neppure i suoi nefasti risultati.
Giorgio Brignola,
de.it.press
Roma – Lufthansa
rompe gli indugi e annuncia di aver inviato al Ministero dell’economia una
lettera d’intenti per l’acquisizione di una partecipazione in Ita Airways che,
inizialmente, sarà di minoranza.
“Deutsche
Lufthansa – si legge in una nota – sta cercando di acquisire una partecipazione
nel vettore nazionale italiano ITA Airways. Inizialmente, verrà definito
l’acquisto di una quota di minoranza e saranno concordate opzioni per il
successivo acquisto delle azioni rimanenti. In data odierna, il Gruppo
Lufthansa ha presentato una lettera di intenti al Ministero dell’Economia e
delle Finanze italiano. Qualora entrambe le parti decidano di firmare il
memorandum d’intesa, ulteriori negoziati e discussioni saranno condotti su base
esclusiva”.
“Gli ulteriori
colloqui di approfondimento – prosegue la compagnia tedesca – andranno quindi a
concentrarsi principalmente sulle forme e modalità del possibile investimento
azionario, sull’integrazione commerciale e operativa di ITA nel Gruppo
Lufthansa e sulle sinergie che ne deriveranno. Nell’eventualità di un raggiungimento
di un accordo contrattuale, l’effettiva attuazione sarà soggetta
all’approvazione delle autorità competenti”.
“Per il Gruppo
Lufthansa – conclude la nota -, l’Italia rappresenta il mercato più importante
al di fuori dei mercati domestici e degli Stati Uniti. La volontà di integrare
ITA Airways all’interno delle compagnie del Gruppo risiede nel forte
interscambio del Paese a livello globale, tramite viaggi d’affari e privati,
nella sua forte economia orientata all’esportazione e nel suo essere uno dei
luoghi turisticamente più attrattivi in Europa”. (askanews 18)
La sfida delle intelligenze artificiali
La promessa di un potenziamento,
e quindi d’una trasformazione, sia dell’uomo sia della società, che le
tecnologie convergenti del gruppo NBIC (Nanotecnologie; Biotecnologie;
Information technologies; Cognitive sciences) oggi fanno, dà conto della
straordinaria attenzione che la tecnoscienza va ricevendo in una pluralità di
ambiti: da quello culturale a quello scientifico, da quello economico a quello
politico. Il fine non è solamente il potenziamento della mente, e neppure
solamente l’aumento della capacità diagnostica e terapeutica nei confronti di
tutta una gamma di patologie, e neppure ancora il miglioramento dei modi di
controllo e manipolazione delle informazioni. Ciò verso cui si vuole tendere è
l’artificializzazione dell’uomo e, al tempo stesso, l’antropomorfizzazione
della macchina. È a Julian Huxley che si deve l’invenzione della parola
transumanesimo, per descrivere un mondo futuro in cui avremo una continua
ibridazione dell’umano. Come movimento globale, il transumanesimo si è
sviluppato nella Silicon valley, in seguito alla fondazione, vent’anni fa, in
California dell’Università della singolarità a opera di Ray Kurzweil. Ritengo
sia giunto il momento di sollevare su tale questione il velo del silenzio,
aprendo un confronto di alto profilo filosofico e teologico.
Il dibattito etico
sull’Intelligenza artificiale (IA) risale agli anni Sessanta, ma è solo in
tempi recenti che si sono andati definendo i problemi della delega e quelli
della responsabilità da attribuire alla IA. Sono le smart machines agenti
morali, responsabili oppure no? Saranno gli algoritmi a governarci in tutti
quei casi in cui le persone non sono in grado di prendere decisioni? Dai robot
di terza generazione applicati al reclutamento del personale nelle aziende,
alla diagnostica medica, dai social network ai voli aerei, dai big data ai
motori di ricerca: ci affidiamo sempre più a complesse procedure cui
deleghiamo, di fatto, l’esecuzione di operazioni che noi esseri umani, da soli,
non sapremmo eseguire. Eppure, se un programma algoritmo commette un errore non
ne paga le conseguenze. E allora?
Per comprendere la
portata dell’algoritmico, si consideri che se si disattiva, mediante
stimolazione magnetica transcranica, una particolare zona della corteccia
cerebrale, i soggetti aumentano notevolmente il loro comportamento prosociale,
e questo li porta a fidarsi degli altri in misura accresciuta. In particolare,
somministrando per via nasale una certa quantità di ossitocina (un ormone
prodotto dall’organismo di molti mammiferi), si è scoperto che ciò deattiva
l’attività cerebrale di una specifica regione del cervello (l’amigdala)
deputata a controllare il comportamento degli individui nelle relazioni
intersoggettive. Si pensi, inoltre, a interventi volti al potenziamento
cognitivo che agiscono su attributi come l’attenzione, la memoria, la riduzione
dell’affaticamento intellettuale. Già vengono praticate tecniche come la
stimolazione cerebrale profonda (deep brain stimulation), che prevede
l’impianto di un microchip nel cervello; oppure come la stimolazione transcranica
a corrente diretta (transcranical direct current stimulation), che prevede la
stimolazione dell’encefalo con dosi di corrente elettrica. E così via.
Si osservi che il
tentativo di attribuire l’origine del senso morale alla biologia – tentativo che
riduce il senso morale a mera chimica cerebrale – se da un lato può sortire
effetti desiderati rispetto a ciò che è funzionale al buon andamento degli
affari, dall’altro annulla lo spazio della libertà e quindi lo spazio della
responsabilità individuale. Vedere il pensiero morale come intrinseco al
cervello umano, piuttosto che come prodotto di volontà e di cultura,
comporterebbe un arretramento serio e pericoloso rispetto al modello di
civilizzazione costruito negli ultimi due millenni.
Cosa succede se ci
fidiamo delle previsioni degli algoritmi predittivi, cui affidiamo sempre
maggiori responsabilità? È vero che le nuove macchine sono in grado di
apprendere continuamente dalla realtà, modificando i propri comportamenti
(machine learning). Ma l’algoritmo è “allenato” su dati storici che quasi mai
riflettono la situazione corrente, col rischio di generare distorsioni e/o
discriminazioni. È così che si diventa ostaggi di profezie che si autoavverano,
limitando la nostra libertà di azione. Ma v’è di più. Si tende oggi a
dimenticare che la più parte dei sistemi di IA sono proprietà di aziende
private che vogliono farci credere e, quindi, farci fare cose nel loro
esclusivo interesse.
Quello del
transumanesimo, che si propone il superamento di ciò che è umano, è una sfida
di estrema radicalità. Esso è all’opera in gran parte delle agende di ricerca
nei campi più avanzati del sapere. Il transumanesimo si propone l’alterazione
della condizione umana attraverso la ragione e la tecnologia, per aiutare
l’umanità a entrare in una fase caratterizzata non più dalla selezione
naturale, ma dalla selezione intenzionale. Come si esprimono Nick Bostrom e Max
More, si tratta di passare dall’homo sapiens all’homo technologicus: la machina
loquens si va umanizzando, e l’uomo si va macchinizzando sempre più.
Si può
comprendere, allora, quant’è urgente lanciare un progetto neo-umanista che
ponga al centro la persona. Una delle ultime conquiste dell’IA sono i modelli
linguistici di notevoli dimensioni (large language models), che possono
scrivere testi o dipingere quadri sulla base dei dati sollecitati da una
persona. I risultati sono sbalorditivi. Ma possiamo fidarci di una IA super
efficiente nell’imitazione, ma che non sa chiedersi il perché di ciò che fa? Di
fronte a questo scenario la teologia cattolica che cos’ha da dire? In tutta
onestà, non possiamo non riconoscere un preoccupante ritardo nell’elaborazione
di un progetto neo-umanista capace di porsi come alternativa credibile
all’avanzamento del transumanesimo (e del post-umano). È allora giunto il tempo
di mettersi a pensare seriamente, come sempre la Chiesa ha saputo e voluto
fare. Stefano Zamagni, Vita Past. genn.
La politica estera dell’Italia tra 2022 e 2023
Com’è cambiata la
politica estera italiana nel passaggio dal governo Draghi a quello Meloni?
Quali sono stati gli elementi di continuità o invece di rottura nella gestione
dei principali dossier, come l’aggressione russa all’Ucraina e la crisi
energetica? E quali sono le prospettive per la politica estera italiana nel
2023? Sono queste le domande al centro del Rapporto sulla Politica estera
italiana 2022 redatto da un gruppo di ricercatori dell’Istituto Affari
Internazionali nel quadro della partnership strategica con la Fondazione
Compagnia di San Paolo.
Le emergenze del
2022
Rispetto alla
guerra contro l’Ucraina, l’approccio italiano non è cambiato nel passaggio tra
i due governi: ferma condanna dell’aggressione russa, sostegno politico,
umanitario e finanziario a Kyiv, forniture di armamenti all’esercito ucraino,
sanzioni nei confronti dell’establishment russo definite di concerto con le
istituzioni europee. La solidità della posizione di condanna italiana ha colto
di sorpresa Mosca, come ha ammesso più volte lo stesso ministro degli esteri
russo Lavrov.
Se il governo
Draghi aveva da subito preso posizione a difesa della sovranità ucraina e aveva
svolto un ruolo proattivo nel rilanciare la candidatura di Kyiv all’ammissione
nell’Unione europea, i dubbi emersi in campagna elettorale riguardo alla
presenza di formazioni filorusse nella coalizione di centrodestra sono stati
prontamente fugati dalle parole e dalle decisioni prese da Giorgia Meloni dopo
l’insediamento del nuovo governo. Ulteriore riprova della fermezza della
posizione italiana è la recente proroga dell’autorizzazione al governo a
fornire aiuti militari all’Ucraina per tutto il 2023.
Anche l’altro
dossier caratterizzante il 2022 della politica estera italiana, quello
energetico, ha visto i due governi muoversi in sostanziale continuità. Nella
prima metà dell’anno, Draghi e i suoi ministri sono stati particolarmente
attivi nel cercare forniture di gas alternative che consentissero di ridurre
sostanzialmente la dipendenza da Mosca: gli accordi sottoscritti tra gli altri
con Algeria, Congo e Angola hanno definito una roadmap verso l’indipendenza
dalla Russia incentrata in particolar modo sul rafforzamento dei rapporti con i
partner africani, recentemente rilanciata da Giorgia Meloni nel corso della sua
visita ufficiale ad Algeri. Meno centrali nell’agenda dei due governi sono
state le iniziative volte a incrementare la produzione di energia rinnovabile
in Italia e a contenere la domanda, e il governo italiano non ha svolto un
ruolo particolarmente attivo in occasione della Cop27 di Sharm-el-Sheik a
novembre.
Le alleanze
tradizionali
Sul piano dei
rapporti con l’Europa, il governo Draghi poteva contare sul capitale di
autorevolezza del presidente del Consiglio, che ha consentito all’Italia di
svolgere un ruolo da protagonista sui principali dossier. Particolarmente centrale
nell’azione dell’esecutivo è stata l’attuazione del Piano nazionale di ripresa
e resilienza e le riforme a esso connesse. All’indomani delle elezioni, per
rispondere alle perplessità legate alla presenza di posizioni populiste ed
euroscettiche nella nuova coalizione di governo, la presidente Meloni ha da
subito cercato di stabilire un dialogo con le istituzioni europee, scegliendo
Bruxelles come destinazione della sua prima missione all’estero. Nel complesso,
la premier sembra aver fatto propria una narrativa centrata sull’affermazione
dell’interesse nazionale all’interno della cornice europea, alla ricerca di un
difficile equilibrio tra pragmatismo e toni identitari. Se nelle scelte di
politica economica – a partire dalla legge di bilancio – è sembrato prevalere
il primo aspetto, andrà verificata la capacità di mantenere uno spirito di
collaborazione con Bruxelles a fronte di probabili malumori interni alla
maggioranza su temi quali la ratifica del Meccanismo europeo di stabilità e la
gestione dei flussi migratori.
Per quel che
riguarda i rapporti transatlantici, le relazioni con Washington si sono
rivelate solide sotto entrambi i governi. Significative sono state le prese di
posizione dell’esecutivo Meloni contro il rinnovo del Memorandum d’intesa con
la Cina sulla Nuova via della seta e il voto contrario in sede Onu dell’Italia
al coinvolgimento della Corte internazionale di giustizia sulla gestione da
parte di Israele delle terre occupate in Palestina – oltre naturalmente al
costante sostegno italiano a Kyiv.
Negli ambiti della
difesa e della sicurezza, l’Italia ha partecipato al potenziamento della
presenza Nato sul fianco est dell’Alleanza, confermando inoltre il proprio
impegno al comando di missioni di peacekeeping e capacity building di alto profilo,
come Kfor in Kosovo, Nato Training Mission in Iraq o Unifil in Libano. Di
fronte alla rinnovata centralità per la Nato del fianco est e – in un’ottica di
medio-lungo termine – dell’Indo-Pacifico, sarà però fondamentale per Roma
mantenere viva l’attenzione anche sul fianco sud, di primaria importanza
strategica per il paese.
Il Mediterraneo e
le migrazioni
Il tratto
caratterizzante dell’approccio dei due governi verso il Mediterraneo allargato
– da sempre uno degli assi primari della politica estera italiana – è stato un
focus marcato sulla questione degli approvvigionamenti energetici e, più in
generale, sui rapporti commerciali. Sono rimaste invece in secondo piano le
tematiche relative alla stabilità e agli assetti politici regionali.
La presenza italiana
nell’Africa sub-sahariana ha trovato un nuovo slancio, che si è concretizzato
negli accordi per le forniture di gas sottoscritti dal governo Draghi e, più di
recente, nel progetto di un “Piano Mattei per l’Africa” rilanciato a più
riprese da Giorgia Meloni: negli intenti del governo, il piano dovrebbe
rafforzare i legami di cooperazione con i paesi del continente su un piano
paritario, consentendo all’Italia di proporsi come porta d’accesso per le
forniture energetiche africane verso l’Europa e rafforzando al contempo la
cooperazione nella lotta al terrorismo e nella gestione dei flussi migratori.
Quest’ultimo
aspetto ha ripreso centralità nella narrazione del governo dopo l’insediamento
di Giorgia Meloni. Da un lato, è stato confermato l’impegno italiano a favore
dei profughi ucraini attraverso il dispositivo della protezione temporanea;
dall’altro, non si è registrata un’analoga apertura verso i migranti
provenienti da altri paesi. Al contrario, a novembre, il divieto di sbarco nei
confronti di navi di ong battenti bandiera straniera impegnate in operazione di
ricerca e salvataggio nel Mediterraneo ha creato tensioni con alcuni partner
europei, poi mitigate dall’introduzione da parte della Commissione europea di
un Piano per la rotta del Mediterraneo centrale. Per il 2023, il governo sarà
chiamato a cercare di conciliare la richiesta di una maggiore solidarietà
europea sul tema con le preoccupazioni di paesi come la Francia e la Germania
relativamente ai movimenti secondari, evitando al contempo possibili derive
identitarie sul tema da parte di forze interne alla maggioranza.
Cina e
multilateralismo
Nei confronti della
Cina, il governo Draghi aveva adottato una linea dura ma pragmatica, nel cui
solco sembra inserirsi anche l’operato del governo Meloni. Oltre alla questione
di Taiwan, resta centrale il tema delle possibili operazioni di fusione e
acquisizione di aziende italiane da parte di investitori cinesi: a riguardo, il
governo ha manifestato l’intenzione di rafforzare i meccanismi di scrutinio
sugli investimenti diretti esteri, in continuità con quanto fatto dai propri
predecessori. In generale, l’orientamento fortemente atlantista del nuovo
governo potrebbe portare in futuro a una maggiore assertività italiana verso
Pechino, come sembrano indicare anche le recenti misure volte a monitorare
l’epidemia di Covid-19 tra i viaggiatori in arrivo dalla Cina.
Infine, sul piano
del contributo italiano alle organizzazioni multilaterali, oltre alla
significativa partecipazione a missioni di peacekeeping e alle iniziative a
tutela della sicurezza alimentare globale, va segnalato l’impegno italiano per
una riforma del Consiglio di sicurezza dell’Onu nella direzione di un
ampliamento del numero di membri non permanenti e di una limitazione del
diritto di veto. In un contesto di “policrisi” come quello attuale, l’approccio
alla cooperazione allo sviluppo del nuovo governo sembra andare verso
un’accentuazione della logica dell’utile, ponendo l’accento sui benefici della
cooperazione soprattutto in termini di prevenzione dell’immigrazione e sviluppo
delle imprese italiane. Leo Goretti,
AffInt 30
In una Penisola, dove
la percentuale dei disoccupati è sempre elevata, c’è poco da essere fiducioso.
Solo nel realismo, che ho, da sempre, cercato di seguire, è possibile trarre
delle ipotesi attendibili sul futuro prossimo nazionale. Indipendentemente
dalla maggioranza che tiene in vita questo Esecutivo.
La teoria del
“fare" poco, ma farlo “bene” era valida nel secolo scorso. Nel Nuovo
Millennio non è più possibile far conto su valori che, nel concreto, non hanno
soluzione di continuità. L’equità sociale non può dipendere solo dalla politica
“emergente” e dalle promesse a lungo termine. Ed ecco che ritorna in campo il
concetto di “promessa”. Nei termini che ho evidenziato in apertura di questa
mia riflessione. E’ proprio nell’incertezza politica che potrebbero arenarsi anche
le “promesse” più adeguate.
Ne consegue che
non è più possibile far conto solo sulle “promesse”, quando le stesse esulano,
sempre di più, dalla condotta di quelli che le hanno formulate. Le operazioni
d’altrui utilità, tanto per essere chiaro, potrebbero essere più di facciata
che di sostanza. Non sarebbe purtroppo una novità.
Giorgio Brignola,
de.it.press
L'Araldo: online il 1° numero del mensile dell’Associazione Identità Italiana - Italiani All'estero
ROMA - È online il
primo numero del mensile "L'Araldo della lingua e della cultura italiana
all'estero", diretto da Aldo Rovito e pubblicato a cura dell’Associazione
Identità Italiana – Italiani all’estero.
Nel primo numero
diversi argomenti trattati: "L'italiano in Costituzione", un commento
alla proposta di legge del Senatore Roberto Menia per dichiarare in
Costituzione che l'Italiano è la lingua ufficiale della Repubblica; "Le
lingue dalmatiche" di Mario Vigna, sull'evoluzione della lingua e vicende
storiche delle popolazioni dalmate; "Emigrazione in bianco e nero" di
Simone Sperduto su come veniva presentata la nostra emigrazione nei
cinegiornali del dopoguerra; "Dante e l'Istria" di Valentina Petaros,
in cui si parla di Dante Alighieri e della sua fortuna letteraria in Istria.
Il mensile viene
inviato gratuitamente a chiunque sia interessato e ne faccia richiesta inviando
il proprio indirizzo di posta elettronica a: identit.itestero@libero.it, oppure
scrivendo su Whatsapp al numero 0034605067676.
Di seguito,
l’editoriale che dà il via a questa nuova avventura, dal titolo “Anno nuovo,
nuovo mensile”:
“Comincia con
questo numero l’avventura de L’Araldo, al servizio della Lingua e della Cultura
Italiane nel Mondo. Lavoreremo per far conoscere in ogni angolo del mondo la
grandezza della nostra Cultura, non solo di quella passata, ma anche di quella
contemporanea; sarà un mensile culturale, costruito non per le èlites pseudo
intellettuali del nostro radicalismo straccione, ma per il popolo italiano
tutto, dentro e fuori dei confini d’Italia, fatto da milioni e milioni di
persone che la cultura del bello, del ben fatto, del ben costruito, del ben
detto la posseggono perchè scorre nel loro sangue, l’hanno respirata nell’aria
del paesello in cui sono nati o l’hanno vista nei palazzi e nei monumenti delle
città, delle rocche, dei castelli accanto ai quali sono cresciuti, l’hanno
apprezzata e imparata e fatta propria nei racconti delle loro nonne o delle
loro madri. Sopratutto daremo battaglia per la tutela della nostra Lingua Madre
da tutti i forestierismi e anglicismi con i quali la pseudo cultura delle
èlites cerca di impedire che il “dolce sì suoni” distruggendone l’unicità e la
bellezza”. (aise 20)
Pillole di psicologia. Malessere giovani
E’ ormai allarme
sofferenza. Un disagio non solo generazionale ma ancor più evidente tra i
giovani. La frustrazione caratterizza sempre più il nostro tempo.
Contemporaneamente si assiste ad una profonda fragilità dell’Io accompagnata
frequentemente da un disimpegno e disorientamento degli adulti.
Esistenze caratterizzate
spesso da assenza di entusiasmo e slanci emozionali, in cui appare una totale
contrapposizione tra la vita reale e quella virtuale rappresentata
immaginariamente sui social. Quest’ultima, sempre felice, dove vengono
riprodotte situazioni artefatte e perfette, immagini di sé completamente
artificiali e alterate. Vite talmente manipolate e contrapposte da far emergere
una totale scissione. Ed è così che vengono postate foto solo filtrate, in cui
occorre necessariamente e in modo ossessivo mostrare di essersi conformati ad
un modello di bellezza ispirato dai tanti influencer, dove ciò che conta è
soltanto la rappresentazione visiva, tutto il resto non necessita di essere
mostrato. Tutto è
di apparente
perfezione, un corpo da mostrare senza alcuna presenza di un minimo difetto o
caratteristiche proprie. Tutto è omologazione, tutto è bisogno estremo di
andare a compensare una carenza in realtà ben più profonda ed un grande senso
di inadeguatezza. Ed è così che di contro vediamo emergere una chiusura nei
confronti della vita in totale contrasto con quello che invece dovrebbe
avvenire proprio durante la fase adolescenziale, con il propagarsi di agiti
autolesionistici e sintomi sempre più diffusi: senso di solitudine, ansia,
attacchi di panico, isolamento, fobie sociali, depressione, difficoltà
relazionale, ma anche disturbi alimentari e uso di alcool, sostanze
stupefacenti e psicofarmaci.
Giovani irrisolti,
spaventati e smarriti, intrappolati dal senso di inadeguatezza percepito, dove
spesso gli adulti faticano ad essere presenti e a fornire modelli rassicuranti
e stabili. La pandemia ha dato una forte accelerazione ad un disagio però già
in essere. Elisa Caponetti, Dip 30
Tavolo Asilo e Immigrazione: abrogare il DL 1/2023 e impedire modifiche legislative discriminatorie
Roma – Il Tavolo
Asilo e Immigrazione esprime “sconcerto” per gli emendamenti presentati da
alcuni rappresentanti della coalizione di maggioranza nelle Commissioni
congiunte Affari Costituzionali e Trasporti della Camera, relativi al Disegno
di Legge C 750 di conversione del Decreto Legge 1/2023. “Esprimiamo altresì
soddisfazione per la dichiarazione di inammissibilità da parte dei presidenti
delle due Commissioni coinvolte”, si legge in una nota nella quale si
sottolinea che il provvedimento, di cui le associazioni e movimenti del Tavolo
Asilo hanno chiesto l’abrogazione in sede di audizione alla Camera, ha “infatti
registrato la presentazione di un gruppo di emendamenti, dichiarati
correttamente inammissibili, che avrebbero peggiorato pesantemente la
disciplina sull’immigrazione e il diritto d’asilo, restringendo gli spazi di
ingresso legale e alimentando l’area di irregolarità. Fra le misure
proposte e respinte – spiega il Tai – figurano la cancellazione della
Protezione Speciale, l’aumento degli ostacoli per i ricongiungimenti familiari
– canale principale di accesso regolare al territorio nazionale secondo i dati
ISTAT -, l’azzeramento delle garanzie per gli stranieri in attesa di espulsione
dai centri di detenzione (CPR), l’introduzione di una procedura accelerata alle
frontiere che punta a impedire di fatto
l’accesso al
diritto d’asilo. Si tratta quindi del tentativo, per adesso fallito, di
ripristinare un approccio che distingue fra i richiedenti asilo e i titolari di
protezione internazionale, nonostante le direttive europee e le Convenzioni
internazionali, considerando i primi come non aventi diritto e quindi da
accogliere separatamente e senza che sia prevista alcuna attività di
integrazione. Pensiamo che il nostro Paese non abbia alcuna necessità di
alimentare irregolarità ed emarginazione, ma che al contrario si debba
concentrare sull’assicurare canali legali di accesso e sul garantire una
maggiore tutela e inclusione a coloro che cercano protezione sul territorio
nazionale ed europeo. Facciamo appello al governo e al Parlamento affinché
si fermi immediatamente qualsiasi tentativo di portare indietro l’orologio
della storia e dei diritti, e chiediamo l’abrogazione del Decreto Legge
1/23. Continueremo a mobilitarci attraverso tutti i canali disponibili in
tutta Italia per dar voce a quella parte della società che non vuole arrendersi
alla discriminazione e alla propaganda contro le persone migranti e contro
quelle organizzazioni che si adoperano per la loro tutela. Una propaganda che
rappresenta un veleno per la nostra democrazia”. Migr.on. 26
“Festival delle Spartenze 2023 – Migrazioni e Cultura verso l’anno del Turismo delle Radici”
Potenza – Si è
tenuta in Basilicata, a Potenza, la presentazione del “Festival delle
Spartenze 2023 – Migrazioni e Cultura verso l’anno del Turismo delle Radici”
curata dal Centro studi internazionali Lucani nel mondo e dalla Filef. Dopo un
incontro con gli studenti e l’apertura del Campus AsSud con un seminario sulla
Storia dell’Emigrazione Italiana e Lucana, si è quindi tenuto presso la Sala
Consiliare della Provincia un incontro-dibattito dal titolo “Restanze, ritorni
e Mezzogiorno d’Italia”. “Il numero dei lucani nel mondo è consistente e tale
che c’è un’esigenza di guardare a questa opportunità che il Ministero sta
mettendo a disposizione attraverso i fondi del PNRR. Le comunità dei lucani nel
mondo devono poter conoscere il loro territorio d’origine”, ha rilevato Luigi
Scaglione (Presidente Centro studi internazionali Lucani nel mondo) sottolineando
come il tema centrale sia quello dello spopolamento che è “da ribaltare
immaginando che ci possa essere un ripopolamento”. Giuseppe Ticchio (Presidente
Associazione Regionale Famiglia Lucana di Winterthur) ha portato in
video-collegamento i suoi saluti essendo tra gli organizzatori della
conferenza. Antonio Sanfrancesco (Filef Basilicata) ha raccontato come sia
stato già testimone di un’esperienza di turismo di ritorno. Sanfrancesco ha
evocato l’aneddoto di un ragazzo che aveva saputo di questa fontana del suo
paese d’origine dai racconti dei nonni e ha voluto vederla. “Il settore del
turismo di ritorno è molto particolare perché non è un turismo di massa”, ha
spiegato il rappresentante della Filef Basilicata. Christian Giordano
(Presidente Provincia di Potenza) ha ricordato come il tema dell’emigrazione,
del turismo delle radici e dello spopolamento in questo periodo storico
rappresenti uno degli elementi che caratterizzeranno il futuro dei territori
soprattutto montani. “Il turismo delle radici è sicuramente una delle strategie
da poter mettere in campo per favorire turisticamente la nostra Regione”, ha
spiegato Giordano. Carmine Cicala (Presidente del Consiglio Regionale della
Basilicata e della Commissione dei Lucani nel Mondo) ha invitato a fare rete e
condividere le iniziative messe in campo vedendo questi incontri come un faro
per determinare un punto di partenza. Oltre 140 sono al momento le associazioni
dei Lucani nel mondo, con una grande presenza nelle Americhe, in Europa e anche
in Australia. “Per me è sempre un’occasione importante per cogliere le loro
esigenze e dare un indirizzo su questi temi”, ha spiegato Cicala sottolineando
come anche i giovani sono chiamati ad essere attori. “Sono sempre molto
ricettivi e curiosi e mi piace stimolarli affinché si attivino”, ha aggiunto
Cicala. Antonio Ionio (Viceconsole di Zurigo) ha ricordato come, accanto alle
attività ordinarie, il Consolato sia anche partecipe delle attività promosse
dai Comites o dal mondo associativo degli italiani all’estero. “Penso che
questa iniziativa del turismo collegato alle radici sia veramente
interessante”, ha rilevato Ionio nella certezza che operando in sinergia si
possano raggiungere dei positivi risultati. L’invito del Viceconsole è inoltre
quello di coinvolgere maggiormente i giovani nel mondo dell’associazionismo.
Giuseppe Sommario (Direttore Piccolo Festival delle Spartenze) ha ricordato le
ragioni che hanno visto la nascita del Festival. Sommario, che per ragioni di
ricerca, ha trascorso del tempo in Argentina ha evidenziato come proprio lì in
America Latina ci sia la comunità italiana più consistente per incidenza nel
tessuto sociale locale. Sommario ha spiegato che, tornato dall’Argentina, ha
riflettuto su come in Italia non si parli di emigrazione, ma affrontare la
questione degli stessi viaggi delle radici significa parlare anche di storie di
emigrazione. “Quanto spazio è dedicato nei manuali di storia alla nostra storia
emigrante? Poco”, ha precisato Sommario sottolineando come ad oggi manchi una
cattedra specifica di storia dell’emigrazione italiana in ambito accademico,
benché solo il fenomeno emigratorio che abbia segnato così a lungo la storia
d’Italia. Delfina Licata (Fondazione Migrantes e autrice del libro “L’Italia e
i figli del vento”) ha parlato della complessità del fenomeno emigratorio ,
dove parlare a livello nazionale è diverso dall’affrontare il tema dal punto di
vista territoriale. “Una rete di più partner che entrano in collaborazione
diventa fondamentale con la conoscenza di quello che è stato e di quello che
sarà. Se non si conoscono i fenomeni migratori e se non si ha attenzione
particolare al fenomeno della mobilità, non si avrà neanche la consapevolezza
delle azioni fondamentali da porre in essere tanto a livello nazionale che
territoriale”, ha commentato Licata sottolineando poi l’importanza
dell’approccio storico-sociologico al fenomeno. “Quello che ho cercato di fare
con il volume è dire che da un piano nazionale si deve passare per un piano
territoriale: dal macrocosmo arrivare ai microcosmi. Nelle nostre famiglie c’è
un passato e presente di partenze e ritorni”, ha infine evidenziato Licata. Nel
corso dell’incontro sono poi intervenuti in video collegamento quattro
parlamentari del Pd eletti nella circoscrizione Estero: Christian Di Sanzo,
Tony Ricciardi, Fabio Porta e Nicola Caré. “La Basilicata è una terra cui sono
molto legato e questa idea del turismo delle radici è particolarmente
importante per noi che ci occupiamo di italiani all’estero”, ha sottolineato il
deputato Di Sanzo sottolineando come nella sua circoscrizione in particolare,
ossia il Nord America, le associazioni lucane siano molto presenti. Sempre sul
turismo delle radici, Di Sanzo ha parlato di un’opportunità da dover cogliere
con l’intero tessuto sociale dal mondo politico a quello associativo. Ricciardi
ha consigliato la lettura del libro di Delfina Licata per poter interpretare
correttamente cosa sia il turismo delle radici. “Il turismo delle radici – ha
rilevato il Deputato – nasce per dare un’opportunità a quei luoghi dell’entroterra
da sempre marginalizzati”. Sempre per il turismo delle radici secondo il
deputato, considerate le risorse messe a disposizione dal PNNR, sarebbe
importante selezionare dei Comuni nei quali fare delle sperimentazioni al fine
di individuare modelli a scala ridotta da diffondere poi a livello nazionale.
Porta si è detto particolarmente legato al Festival delle Spartenze che ha
saputo valorizzare i piccoli borghi e l’unione che esiste tra le varie
migrazioni. Porta ha invitato quindi al recupero del rapporto tra Italia ed
emigrazione e a ripartire dalle scuole per far conoscere questo argomento in
maniera multidisciplinare. Dal canto suo Caré ha sottolineato l’importanza
delle seconde e terze generazioni che sono portatori della conoscenza trasmessa
dai genitori o dai nonni ma che non hanno ancora visitato direttamente i
territori d’origine. “E’ quindi importante invogliare queste generazioni per
far sì che il cordone ombelicale che hanno dal punto di vista emotivo diventi
anche un cordone ombelicale per la promozione dell’Italia”, ha spiegato Caré.
Tra i numerosi interventi segnaliamo infine quello di Michele Schiavone
(Segretario Generale del Cgie) che ha ricordato con orgoglio come la sua
formazione studentesca sia stata legata al territorio lucano. Sul convegno
invece Schiavone ha parlato di un momento di confronto per dare una prospettiva
alle questioni trattate sulla base del lavoro di Sommario e Licata. “Come detto
anche da Fabio Porta deve esserci l’impegno a divulgare la storia dell’emigrazione
italiana in tutte le scuole pubbliche di primo e secondo grado ed anche nelle
superiori”, ha aggiunto Schiavone parlando di un impegno partito sotto i buoni
auspici di quanto dibattuto anche in seno alla Conferenza Stato-Regioni-PA-Cgie
del dicembre 2021. “Il Cgie è un organismo di rappresentanza sito nel Ministro
degli Esteri ed è impegnato a sostenere e promuovere le politiche per le nostre
comunità in giro per il mondo”, ha poi spiegato Schiavone ricordato il dato
attuale dei circa 6,5 milioni di iscritti AIRE. Schiavone ha a sua volta
parlato di una grande opportunità da cogliere con le iniziative sugli italiani
all’estero che godono del sostegno messo in campo dal PNRR. (Inform/dip 29)
ROMA. Anche gli alunni delle scuole italiane all’estero potranno
partecipare al Concorso di poesia “Lo spirito degli alberi” organizzato per la
prima volta quest’anno dall’Accademia Mondiale della Poesia in collaborazione
con la Comunità Radiotelevisiva Italofona e il Ministero dell’Istruzione e del
Merito – Comitato nazionale per l’apprendimento pratico della musica.
Obiettivo del concorso quello di “diffondere la conoscenza della poesia fra
i giovani rendendoli protagonisti, valorizzare e stimolare la produzione
artistica giovanile promuovendo, inoltre, il tema della salvaguardia della
natura e della sostenibilità ambientale”.
Possono partecipare al concorso, in forma individuale o in gruppo, gli
studenti e le studentesse delle scuole - statali e paritarie - secondarie di
primo e secondo grado in Italia e all’estero e delle sezioni di italiano presso
le scuole straniere internazionali ed europee.
Dopo aver approfondito in classe, attraverso la collaborazione dei docenti,
il tema del concorso e i principali fenomeni di trasformazione del linguaggio
poetico, gli studenti e le studentesse sono invitati a creare un’opera su “Lo
spirito degli alberi”: saranno ammesse una poesia; poesia e immagine; polaroid
(sulla fotografia scrivere un verso); videopoesia (sperimentazione artistica
che integra testo poetico e arte dei nuovi media) e Spoken music (Spoken Music
o Rap).
Le opere saranno valutate da una Giuria composta da poeti, artisti e
critici letterari di fama internazionale e da rappresentanti dei soggetti
promotori.
L’invio delle opere dovrà avvenire entro il 15 marzo 2023.
I vincitori saranno comunicati entro il 15 aprile. Il bando integrale è
disponibile qui: https://accademiamondialepoesia.com/files/2018/08/bando-concorso-scuole.pdf.
(aise/dip 31)
Ukraine. Wenn sich der Nebel des Krieges lichtet …
Die Lieferung der Leopard-2-Panzer
führt zu unkalkulierbaren Eskalationsrisiken – doch für welches Ziel? Szenarien
für den weiteren Kriegsverlauf. Helmut W. Ganser
Die Entscheidung der Bundesregierung
und anderer NATO-Staaten, der Ukraine moderne Kampfpanzer und Schützenpanzer
zur Verfügung zu stellen, hebt das westliche Engagement in der Ukraine auf eine
neue Stufe. Vermutlich wird es im weiteren Kriegsgeschehen nicht bei den bisher
genannten Stückzahlen bleiben. Unmittelbar nach den Panzerentscheidungen begann
bereits eine internationale Debatte über die Lieferung von Kampfflugzeugen. Am
Horizont tauchen zudem erste Stimmen auf, die aus „Abschreckungsgründen“
Truppen aus NATO-Staaten in der Ukraine andenken, was zu einer
Kriegsbeteiligung der NATO führen würde. Die Diskussion um die ukrainischen
Kriegsziele darf jedoch nicht weiter abstrakt geführt werden, auch wenn ein
Klärungsprozess innenpolitisch und unter den NATO-Staaten zu heftigen
Kontroversen führen kann. Es steht zu viel auf dem Spiel.
Äußerungen der amerikanischen
Regierung sowie der Bundesregierung deuten darauf hin, dass sie die Ukraine
befähigen wollen, die bisher erkämpfte Frontlinie zu halten und, wo immer
möglich, weitere Gebiete zu befreien. Die Rückgabe aller besetzten Territorien,
einschließlich der Krim, wäre bei diesem Strategieansatz vermutlich in
langwierigen Verhandlungen unter dem Druck überwältigender westlicher
Sanktionspakete zu erreichen. Dieser Zielvorstellung steht die weitergehende
Forderung gegenüber, dass die Ukraine befähigt werden muss, ihr gesamtes
Territorium in militärischen Gegenangriffen zurückzuerobern. Diese wird auch
von der ukrainischen Führung hervorgebracht. Die damit verbundenen gravierenden
Eskalationsrisiken bedürfen der tiefgreifenden Analyse, um die in der
bisherigen Debatte weitgehend herumnavigiert wird.
Der Nebel des Krieges
verhindert Vorhersagen über den weiteren Kriegsverlauf. Allen professionellen
militärpolitischen Expertinnen und Experten ist bewusst, dass sie mit ihren
Analysen, Wertungen und Prognosen im Nebel des Krieges herumstochern, in dem
Friktionen und Überraschungen immer auftreten werden. Dennoch können
unterschiedliche Szenarien die Einschätzungen schärfen, was womöglich auf uns
zukommen könnte.
Mit Blick auf den Frühsommer
2023 wird im Folgenden versucht, mögliche Auswirkungen der neuen
Panzerlieferungen an die Ukraine in zwei Szenarien zu erfassen. In beiden
Szenarien wird davon ausgegangen, dass die ukrainische Armee bis zum Frühsommer
2023 nach und nach circa 100 westliche Kampfpanzer, überwiegend
Leopard-Varianten, sowie circa 100 zumeist deutsche und amerikanische
Schützenpanzer erhält. Zu diesem Zeitpunkt dürfte die angekündigte Lieferung
von 31 M1-Abrams-Panzern noch nicht erfolgt sein. Mit den neuen schweren
Waffensystemen werden in beiden Szenarien zum Frühsommer hin zwei
Panzerbataillone und zwei Panzergrenadierbataillone ausgerüstet. Das entspricht
in etwa einem Brigadeäquivalent.
Eine weitere Annahme ist,
dass die allseits erwartete russische Frühjahrsoffensive mit Schwerpunkt im
Raum Luhansk oder Donetsk etwa Ende Februar oder im März beginnen wird. In den
zu erwartenden hoch intensiven und verlustreichen Gefechten dürften noch keine
oder nur sehr wenige westliche Kampf- und Schützenpanzer zum Einsatz kommen. Es
wird, mit einiger Unsicherheit, angenommen, dass die professionellere und
bewegliche ukrainische Verteidigung größere operative Raumgewinne der
russischen Großverbände abwehren kann. Die nachfolgenden Szenarien richten den
Blick darüber hinaus zum Frühsommer hin, wenn die westlichen Panzer in die
ukrainische Armee eingegliedert sind.
Szenario 1: Panzerschlacht an
der Südfront mit begrenzten ukrainischen Geländegewinnen
Im ausgehenden Frühjahr wird
erkennbar, dass die ukrainische Militärführung beabsichtigt, einen tiefen Stoß
aus dem Raum östlich und südöstlich von Saporischschja nach Süden zu führen.
Operatives Ziel ist, über circa 100 km bis zum Asowschen Meer vorzustoßen, um
so die russischen Truppen südlich des Dnepr abzuschneiden und vor allem die
Versorgung der Krim über die Landbrücke zu unterbinden. Das Gelände in diesem
Raum ist panzergünstig, denn überwiegend offen und flach und bis auf die Stadt
Melitopol nur mit kleineren Ortschaften durchzogen. Die Ukraine wagt im
Frühsommer 2023 unter vorteilhaften Wetterbedingungen den Vorstoß nach Süden
mit dem Angriffsziel Küste Asowsches Meer. Es kommt zur ersten großen
Panzerschlacht in diesem Krieg, in der die vorn eingesetzten deutschen Leopards
und Marder sowie die amerikanischen Bradleys und Striker in Duellsituationen
mit ihrer besseren Panzerung, Beweglichkeit und Waffenwirkung klar im Vorteil
sind.
Die ukrainischen Kommandeure
und Kompaniechefs beherrschen allerdings nur ansatzweise das komplexe Gefecht
der verbundenen Waffen, in dem Kampfpanzer, Schützenpanzer mit
Panzergrenadieren, Artillerie, mit Pionieren und Luftunterstützung synergetisch
zusammenwirken müssen, um die volle Stoßkraft zu erreichen. Schwere russische
Panzer- und Infanteriekräfte stellen sich den heranrückenden Verbänden
entgegen. Der ukrainische Gegenangriff kommt circa 30 km voran, bleibt dann
aber im massiven Abwehrfeuer liegen, nachdem es russischen mechanisierten
Verbänden gelungen ist, in die Flanke der ukrainischen Panzerverbände zu stoßen
und deren Versorgung zu gefährden. Die Verluste an Soldaten und Material sind
auf beiden Seiten erneut fürchterlich hoch. Bilder von zerschossenen
Leopard-Panzern werden im Netz verbreitet. Deutsche TV-Sender und Online-Medien
bringen vermehrt historische Filmaufnahmen mit deutschen Panzern während des
Zweiten Weltkriegs im selben Raum.
Aus politisch-strategischer
Perspektive hat sich in diesem Szenario der verlustreiche Abnutzungskrieg,
trotz taktischer Geländegewinne auf beiden Seiten, verfestigt. Russland hat
jetzt noch circa zehn bis zwölf Prozent des ukrainischen Territoriums unter
seiner Kontrolle. Die umfangreichen Entnahmen von Waffensystemen, Ersatzteilen
und von Munition aus den Beständen der Bundeswehr wie auch der US-Armee
schwächt immer mehr die Einsatzfähigkeit und Durchhaltefähigkeit der
NATO-Streitkräfte auf beiden Seiten des Atlantiks. Da die
Produktionskapazitäten begrenzt bleiben, mehren sich die Stimmen für eine
Kriegsbeendigungsvereinbarung zwischen den USA, der Ukraine und Russland. In
der Ukraine führen die extrem hohen Verluste, von denen immer mehr Familien
betroffen sind, zu politischen Forderungen, eine Waffenstillstandsregelung
anzustreben. Oppositionspolitiker fordern von ihrem Präsidenten eine
Veröffentlichung der tatsächlichen Verluste seit Kriegsbeginn.
Szenario 2: Panzerschlacht an
der Südfront mit Vorstoß der ukrainischen Armee zum Asowschen Meer
Szenario 2 ist bis zum Beginn
des Gegenangriffs der ukrainischen Armee aus dem Raum östlich von
Saporischschja heraus mit Szenario 1 identisch. In diesem Szenario verlaufen
die Operationen wie vom ukrainischen Generalstab geplant. Kiew hat die mit
westlichen Panzern und Schützenpanzern ausgerüsteten Verbände im Schwerpunkt
des Angriffs eingesetzt. Aufgrund der überlegenen Feuerkraft, Panzerung und
Beweglichkeit insbesondere der Leopard-2-Panzer stoßen sie nach wenigen Tagen
auf Zwischenziele nordöstlich Melitopol vor. Führung, Kampfkraft und Motivation
in den russischen Verbänden erweisen sich erneut als schwach, während die
ukrainischen Truppen das Gefecht der verbundenen Waffen besser beherrschen, als
von westlichen Militärexperten erwartet. Leopard-Panzerspitzen erreichen
Ortschaften kurz vor der Küste und stehen gegenüber der Krim. Im Zuge des
ukrainischen Vorstoßes zerstören HIMARS-Raketen aus amerikanischer Produktion
an einigen Stellen die neue russische Brücke bei Kertsch und machen sie damit
für die Versorgung der Krim unbrauchbar. Russland antwortet darauf mit dem
bisher massivsten Luftangriff auf Kiew, wo zahlreiche Opfer zu beklagen sind
und die Stromversorgung zusammenbricht.
Der russische Präsident gibt
nach einer medial inszenierten Konferenz im Generalstab eine kurze Erklärung
ab. Zunächst äußert Putin, dass die Russische Föderation diejenigen
NATO-Staaten, die schwere Waffen an die Ukraine geliefert haben, unabhängig von
völkerrechtlichen Spitzfindigkeiten, jetzt als direkte Kriegsgegner betrachte.
Der laufende Angriff auf das russische Krim-Territorium sei nur durch die
massive Beteiligung westlicher Staaten möglich gewesen. Der Krieg habe jetzt
eine existentielle Dimension für die Russische Föderation erreicht. Damit weite
sich für Russland das Gesamtkriegsgebiet auf das Territorium der westlichen
Unterstützerstaaten aus. Er verzichte auf verbale Warnungen vor einem
Atomkrieg, denn seine früheren Mahnungen seien auf die leichte Schulter
genommen worden. Er habe, so Putin, seinen Verteidigungsminister und den
Generalstab angewiesen, einem Teil der nuklearfähigen Raketentruppen die in
Depots gelagerten atomaren Gefechtsköpfe zuzuführen.
Wenn die Unterbindung der
Versorgung der Krim über die Landbrücke nicht zurückgenommen werde, müsse
Russland dies mit seinen taktischen Atomwaffen erzwingen. Russische Blogger
berichten, dass der Kriegsverlauf die Führung im Kreml eher zusammengeschweißt
und zur Entschlossenheit im weiteren Vorgehen beigetragen habe, was nicht
überprüft werden kann. Nach wenigen Stunden klären amerikanische Satelliten
russische Konvois auf, die ihren Marsch aus den Atomwaffendepots in die
Bereitstellungsräume der atomaren Raketenbatallione angetreten haben. Diese
eigentlich geheimen Aufklärungsdaten geraten an die internationale
Öffentlichkeit.
Für viele überraschend
kündigt China zeitgleich die bisher größten Manöver seiner Seestreitkräfte in
der Straße von Taiwan an. Die ersten Kriegsschiffe seien schon ausgelaufen. Die
USA und ihre NATO-Partner stehen jetzt schneller als von vielen geglaubt, am
Rande einer atomaren Eskalation, deren Konsequenzen für den ganzen europäischen
Kontinent nicht kalkulierbar sind. Die westlichen Regierungen, der NATO-Rat und
der NATO-Militärausschuss sowie der Sicherheitsrat der Vereinten Nationen tagen
täglich. Kommentatoren erinnern an den Höhepunkt der Kubakrise. In der NATO
prallen unvereinbare Risikoeinschätzungen und Positionierungen aufeinander. In
Berlin beginnen große Demonstrationen für eine unverzügliche Kriegsbeendigung
mit dem Slogan „Stoppt den Wahnsinn“.
Natürlich lassen sich auch
optimistischere Szenarien konstruieren, in denen der Kreml eine Rückeroberung der
Krim ohne nukleare Eskalation hinnimmt. Die Verantwortlichen, unter anderem in
Berlin, Washington und Paris, halten bisher an der Zielsetzung fest, die
Grauzone des Übergangs in eine direkte Kriegsbeteiligung nicht zu betreten.
Doch die Gefahr des langsamen, eigentlich unbeabsichtigten Gleitens in die
größte Katastrophe für ganz Europa wächst. Unerwartete Ereignisse und Wendungen
(manchmal als „Black Swans“ oder „Wild Cards“ bezeichnet) können zudem
dynamische Entwicklungen erzeugen, deren Kontrolle und Eindämmung äußerst
schwierig sein dürfte. Mit den aufwachsenden deutschen Panzerlieferungen steigt
die Mitverantwortung Deutschlands für den weiteren Kriegsverlauf – und dessen
Folgen – und damit in letzter Konsequenz das Recht und die Notwendigkeit, auf die
Führung in Kiew Einfluss zu nehmen. IPG 31
Ukraine-Krieg: Unterstützungsbereitschaft der Deutschen bröckelt
Hamburg – Die deutsche Bevölkerung zeigt sich im Hinblick auf
den Krieg in der Ukraine weiterhin bereit, die Ukraine zu unterstützen. So
stimmt etwas mehr als eine Zweidrittelmehrheit (68%) der Aussage zu, dass
Deutschland ukrainische Flüchtlinge aus dem aktuellen Konflikt aufnehmen solle.
Das zeigt eine in 28 Ländern durchgeführte Studie des Markt- und
Meinungsforschungsinstituts Ipsos. Verglichen mit den Ergebnissen der Umfrage,
die kurz nach Beginn des Krieges durchgeführt wurde, nimmt die
Unterstützungsbereitschaft allerdings ab. Im April des Jahres 2022 waren noch
82 Prozent der Deutschen dafür, ukrainische Flüchtlinge aufzunehmen – ein
Rückgang um 14 Prozentpunkte
Sinkende Zustimmung für militärische Unterstützung und
Waffenlieferungen
Die deutschen Befragten sind mehrheitlich (75%) der Meinung,
dass Deutschland es vermeiden solle, sich militärisch in den Konflikt
einzumischen. Nur knapp die Hälfte der Bundesbürger (48%) befürworten die
Bereitstellung von Waffen und Luftabwehrsystemen für das ukrainische Militär,
im April 2022 waren es noch 55 Prozent.
Dr. Robert Grimm, Leiter der Politik- und Sozialforschung
bei Ipsos, stellt dazu fest: „Dass weitere Waffenlieferungen, einschließlich
Leopard-2-Panzer, keine schnelle Lösung herbeibringen, sondern den Krieg in der
Ukraine immer mehr eskalieren lassen, ist eine berechtige Sorge der deutschen
Bevölkerung. Leider gibt es momentan keine bessere Alternative, um Putins
Imperialismus zu stoppen, als die Ukraine weiterhin zu unterstützen.
Deutschland und die Deutschen spielen dabei eine wichtige Rolle.“
Sanktionen: Viel Solidarität, Sorge vor steigenden Kosten
Weiterhin unterstützen viele Bundesbürger die verhängten
Wirtschaftssanktionen gegen Russland. Vier von zehn Deutschen (43%) sind der
Meinung, dass Sanktionen gegen Russland notwendig sind, um die Ukraine zu unterstützen
und Russland dazu zu drängen, den Krieg zu beenden – auch wenn dies bedeutet,
dass die Energie- und Nahrungsmittelpreise für einen längeren Zeitraum
ansteigen. Demgegenüber stehen diejenigen, die sich um die wirtschaftlichen
Folgen für Deutschland sorgen. So finden 30 Prozent der Befragten, dass die
Sanktionen gegen Russland die wirtschaftlichen Auswirkungen auf die Energie-
und Lebensmittelpreise nicht wert seien.
Wirtschaftliche Situation hemmt Unterstützungsbereitschaft
Darüber hinaus scheint die aktuell angespannte
Wirtschaftslage negative Auswirkungen auf die Unterstützungsbereitschaft der
Deutschen zu haben. Aktuell sind mehr als die Hälfte (56%) der Bundesbürger der
Meinung, dass Deutschland es sich angesichts der aktuellen Wirtschaftskrise
nicht leisten könne, die Ukraine finanziell zu unterstützen. Im vergangenen
April stimmten nur 47 Prozent der Befragten dieser Aussage zu.
Von einer Krise zur nächsten: Kriegsmüdigkeit in Deutschland
Inzwischen sagen sogar 43 Prozent der Bundesbürger, dass die
Probleme der Ukraine Deutschland nichts anginge und sich nicht einmischen
solle. Verglichen mit der April-Umfrage ein Zuwachs um 11 Prozentpunkte.
Dr. Robert Grimm dazu: „Nach Jahren der Krisen –
Flüchtlingskrise, Corona, Krieg, Energiekrise, Inflation und Klimawandel, in
denen der Bevölkerung immer wieder Unterstützung abverlangt wurde, wollen viele
Bürgerinnen und Bürger nicht mehr aktiv hinschauen, sondern sich passiv von
Krisen und Konflikten abwenden“. Ipsos 30
„Wir müssen in die Produktion von Kriegsmaterial gehen“
Verteidigungsexperte Fritz Felgentreu
über die Lieferung von Leopard-2-Panzern, das Risiko einer militärischen
Eskalation und ein etwaiges Kriegsende. Die Fragen stellte Nikolaos Gavalakis.
Deutschland will nun nach wochenlanger Debatte der Ukraine
doch Leopard-2-Kampfpanzer liefern sowie anderen europäischen Ländern die
Genehmigung für die Lieferung erteilen. Eine richtige Entscheidung?
Aus meiner Sicht ist es die einzig logische Entscheidung.
Ich glaube, es war auch der Bundesregierung schon länger klar, dass es weniger
um die Frage der militärischen Sinnhaftigkeit und der Folgerichtigkeit aufgrund
der bisherigen Entwicklung des Krieges ging, als um die Frage, wie man das
politisch einbettet.
Ist die transatlantische Panzerallianz ein Erfolg für die
deutsche Bundesregierung und Kanzler Scholz?
Das Taktieren der Bundesregierung hat Vertrauen gekostet.
Aber es hat am Ende zu einem guten Ergebnis geführt. Ob Preis und Ertrag in
einem angemessenen Verhältnis zueinander stehen, wird man abschließend erst mit
etwas Abstand beurteilen können.
Wie entscheidend ist der Einsatz der Leopard-Panzer auf
ukrainischer Seite für den Kriegsverlauf der nächsten Monate?
Die Entscheidung gegen die Bereitstellung der Panzer hätte
den Kriegsverlauf wahrscheinlich sehr negativ beeinflusst. Es gibt ein Problem
mit der Entwicklung der letzten zehn Monate: Man hat zwar kontinuierlich aus
den eigenen Beständen die Ukraine unterstützt, wir haben aber nicht
gleichzeitig angefangen, nachzuproduzieren. Das heißt, die Menge an Material,
die geliefert werden kann, wird kontinuierlich aufgebraucht. Daher war es
notwendig, von altem sowjetischem Material überzugehen zur Lieferung auch westlicher
Waffen. Das ist die eine logische Schlussfolgerung. Und die andere, die noch
aussteht, ist: Wir müssen auch in die Produktion von Kriegsmaterial gehen, weil
wir alle nicht wissen, wie lange dieser Krieg dauert. Und wenn es dabei bleibt,
dass wir die Ukraine so lange unterstützen, wie es notwendig ist, dann wird das
nicht gehen, ohne dass man auch anfängt, zu produzieren, so dass man auch in
Zukunft noch liefern kann.
Der Gordische Knoten wurde erst durch die Zusage der USA
gelöst, ihrerseits Abrams-Panzer an die Ukraine zu liefern. Statt dass Berlin,
Paris und London gemeinsam voranschreiten, hat es die Rückversicherung aus
Washington gebraucht. Wie eigenständig ist Europa in militärischen
Angelegenheiten?
Europa ist in militärischen Angelegenheiten nach wie vor
kaum eigenständig, weil die europäischen Armeen durch die Entwicklung der
letzten 30 Jahre so schwach geworden sind, dass sie nicht mehr selbstständig in
der Lage sind, die europäische Sicherheit zu gewährleisten. Das wirkt sich
natürlich in so einer Situation aus. Es bedeutet, dass es offensichtlich ein
starkes strategisches Interesse gibt, kein sicherheitspolitisches De-Coupling
von den USA zu riskieren. Und es scheint ja auch der eigentliche Sinn des
politischen Handelns von Olaf Scholz gewesen zu sein, dass man genau das
ausschließen wollte.
Wie stark erhöht die Leopard-Lieferung das Risiko einer
militärischen Eskalation im Krieg mit Russland?
Ich sehe da keine sehr große Gefahr. Die Russen haben
bereits militärisch eskaliert. Sie sind bereit, Kriegsverbrechen zu begehen, um
ihre militärischen Ziele zu erreichen. Durch die Lieferung der Leopard-Panzer
ist keine qualitative Veränderung eingetreten. Warum ein Staat in einem höheren
Maße Kriegspartei sein soll, wenn er Kampfpanzer liefert, als wenn er
Flakpanzer liefert, hat sich mir nie erschlossen.
Wie geht es nun weiter? Von einigen Stimmen wird bereits die
Lieferung von Kampfflugzeugen und Militärschiffen gefordert.
Welche Debatten und welche Fragen sich noch stellen, ist
natürlich abhängig von der militärischen Entwicklung im Kriegsgebiet. Klar ist,
man muss potentielle Waffenlieferungen immer abhängig machen von den
militärischen Zielen, die erreicht werden sollen. Wenn der Grundsatz ist: Wir
wollen der Ukraine helfen, sich zu verteidigen, in dem Sinne, dass sie auch in
die Lage versetzt wird, ihre territoriale Integrität wiederherzustellen, dann
braucht sie Waffen, mit denen sie auch in der Lage ist, besetztes Territorium
wieder zu befreien. Das ist ein Akt der Verteidigung, kein Akt der Aggression.
Das bedeutet aber wiederum, dass sie Waffen haben muss, die geeignet sind, um
die feindlichen Streitkräfte aus ihren Stellungen zu werfen. Dazu gehören
selbstverständlich die Kampfpanzer, von denen wir jetzt gesprochen haben. Dazu
gehört im Rahmen einer Gegenoffensive aber auch die Fähigkeit, die
Luftüberlegenheit zu erringen. Ob das eine Debatte über Kampfflugzeuge
erforderlich macht, kann ich schwer beurteilen. Aber dass es taktisch notwendig
ist, dass, wenn man eine Gegenoffensive durchführen will, man es nicht mit
einem Feind zu tun haben darf, der die Luftüberlegenheit hat, scheint mir nur
logisch zu sein. All das muss man bedenken, wenn man eine Entscheidung trifft.
Welches Ziel sollte die westliche Allianz verfolgen?
Meines Erachtens sollte die westliche Allianz die Ukraine
darin unterstützen, ihre territoriale Integrität in vollem Umfang
wiederherzustellen. Das bedeutet, dass Russland diesen Krieg verloren hat, dass
alle seine Opfer und Anstrengungen und seine Verbrechen umsonst gewesen sind.
Und das scheint mir auch der Begriff Verteidigung auszusagen.
Also Rückeroberung aller Gebiete inklusive Krim?
Grundsätzlich ja, völkerrechtlich gehören die Krim und die
besetzten Gebiete im Donbass dazu. Ich halte es aber für unwahrscheinlich, dass
der Krieg bis an den Punkt ausgefochten wird, an dem die ukrainischen
Streitkräfte an die Staatsgrenzen vorgerückt sind.
Müssen wir uns auf einen langjährigen Krieg in der Ukraine
einstellen?
Wir müssen uns zumindest auf die Möglichkeit eines
langjährigen Krieges einstellen. Die Entscheidung, wie lange dieser Krieg noch
geht, fällt am Ende in Moskau. Dort wird irgendwann die Güterabwägung
stattfinden, ob es sich noch lohnt, diesen Krieg fortzusetzen, oder ob es nicht
sinnvoll wäre, die verlustreichen Kämpfe zu beenden. Solange wir durchhalten,
wird diese Entscheidung am Ende in Moskau fallen. Es ist jedoch schwer
vorherzusagen, wann der Punkt erreicht ist, an dem es in der russischen Führung
ein Umdenken gibt. IPG 27
Holocaust-Gedenktag. Gunter Demnig verlegt auch mit 75 noch Steine
Dieses Frühjahr sollen es 100.000 Stolpersteine sein, die
Gunter Demnig seit dem offiziellen Start des Projekts in den 90er Jahren
verlegt hat. Eigentlich wollte er mit 75 Jahren etwas kürzertreten, aber die
Knie machen noch mit. Von Carina Dobra
Gunter Demnig mag Katzen. 19 Stück hat der Künstler mit dem
braunen Cowboyhut inzwischen mit Ehefrau Katja bei sich zu Hause im
mittelhessischen Alsfeld-Elbenrod aufgenommen. Viele von ihnen seien
Pflegefälle, erzählt der 75-Jährige bei einer Tasse Kaffee. Doch Gunter Demnigs
Lebenswerk sind die Stolpersteine, wie er selbst sagt. Seit Mitte der 90er
Jahre widmet sich der gebürtige Berliner dem Projekt. Etwa 95.000 Stolpersteine
zum Gedenken an Opfer des Nationalsozialismus hat er mittlerweile verlegt,
dieses Frühjahr will er die 100.000 erreichen.
Die knapp zehn mal zehn Zentimeter großen Würfel verlegt der
Bildhauer deutschland- und europaweit auf den Gehwegen vor den letzten
Wohnstätten von Menschen, die von den Nationalsozialisten deportiert, ermordet
oder in den Suizid getrieben wurden. In Messingplaketten auf den Steinen sind
Name und Schicksal der Opfer eingraviert.
Kampf mit den Tränen
An viele Geschichten erinnert sich der Bildhauer bis heute.
„Einmal, bei einer Verlegung, kamen zwei Schwestern. Die eine aus Kolumbien,
die andere aus Schottland, beide waren damals durch einen Kindertransport
gerettet worden, die Eltern wurden ermordet. Die hatten sich seit 60 Jahren
nicht gesehen und meinten: Jetzt sind wir mit unseren Eltern wieder vereint.“
Demnig schlägt sich mit der flachen Hand vor die Augen, kämpft mit den Tränen:
„Dann weißt du, warum du das machst.“
Die Initiative zu den Steinverlegungen geht inzwischen von
Geschichtsvereinen, Bürgerinitiativen, Angehörigen oder auch Schulprojekten
aus, die Demnig anfragen. 132 Euro kostet ein Stein inklusive Verlegung.
Einen Moment innehalten
Info: 27. Januar – Tag des Gedenkens an die Opfer des
Nationalsozialismus: Während der NS-Zeit ermordeten die Nationalsozialisten in
Auschwitz mehr als anderthalb Millionen Männer, Frauen und Kinder. Am 27.
Januar 1945 befreite die Rote Armee die Gefangenen des Konzentrationslagers.
Der Jahrestag der Befreiung wurde 1996 auf Initiative des damaligen
Bundespräsidenten Roman Herzog offizieller deutscher Gedenktag für die Opfer
des Nationalsozialismus. Die Vereinten Nationen erklärten den 27. Januar im
Jahr 2005 zum Internationalen Tag des Gedenkens an die Opfer des Holocausts.
Zwölf solcher Steine liegen seit Dezember vergangenen Jahres
auch in Frankfurt-Nieder-Eschbach. Einer der Steine ist Karl Bruder gewidmet.
Der Frankfurter wurde 1940 aufgrund seiner Epilepsie in die Uniklinik Gießen
zwangseingewiesen und dort im Alter von 23 Jahren gegen seinen Willen nach dem
„Gesetz zur Verhütung erbkranken Nachwuchses“ zwangssterilisiert.
„Ich habe Asthma. Mich hätte es heute vielleicht auch
treffen können“, sagt der 19-jährige Joshua von der Otto-Hahn-Schule in
Nieder-Eschbach, der sich im Geschichtsunterricht mit dem Schicksal von Karl
Bruder beschäftigt hat. Auch seine Mitschülerin Leonie (18) ist bestürzt: „Ich
kann das einfach nicht nachvollziehen. Das nimmt einen schon mit. Vor allem,
weil ich hier um die Ecke wohne.“ Sie werde von nun an noch aufmerksamer auf
die Messing-Steine im Boden achten und einen Moment innehalten.
Es ist ein Unterschied
Gunter Demnig freut sich über das Engagement der
Schülerinnen und Schüler: „Es ist ein Unterschied, ob die Jugendlichen ein Buch
aufschlagen und von sechs Millionen ermordeten Juden lesen oder von einem
Familienschicksal vor Ort erfahren“, ist der Künstler überzeugt.
Doch die Stolpersteine haben auch Kritiker, wie zum Beispiel
einzelne Vertreter jüdischer Organisationen. Die Schicksale der Opfer würden im
wahrsten Sinne des Wortes mit Füßen getreten, wirft etwa Charlotte Knobloch,
Präsidentin der Israelitischen Kultusgemeinde München und Oberbayern, Demnig
vor.
Der nächste Tripp in Planung
Der Künstler weist ein solch „unsägliches Gegenargument“ von
sich: Die Kritiker würden die Gräueltaten der Nazis mit solchen Aussagen
verharmlosen und die Opfer verhöhnen: „Die Nazis haben sich nicht mit
Rumtrampeln auf den Opfern begnügt. Die hatten ein gezieltes
Vernichtungsprogramm.“
Auch Morddrohungen hat der Stolperstein-Erfinder schon
erhalten. All das hält ihn nicht davon ab, weiter Steine in mittlerweile 1.265
Kommunen Deutschlands und in 21 Ländern Europas zu verlegen. Gerade plant der
Künstler schon den nächsten Trip – diesmal nach Italien.
Solange die Knie noch mitmachen
Eigentlich wollte Demnig mit 75 Jahren etwas kürzertreten,
längst arbeitet der Berliner mit einem Team zusammen. „Aber solange die Knie
noch mitmachen“, scherzt der Künstler, solange werde er auch noch Steine
verlegen.
Und dann wäre da noch seine Stiftung, die nach eigenen
Angaben seine Ideen und sein Lebenswerk bewahren soll. Auf seinem Grundstück,
einem ehemaligen Gehöft, läuft außerdem die Dauerausstellung „Gunter Demnig:
Spuren und Wege“. Dort zeigt der Stolperstein-Künstler bislang unbekanntere
Werke, die zur Idee der Gedenksteine geführt haben. (epd/mig 27)
Ehemaliger italienischer Premier: Wir müssen mit Putin verhandeln
Die Fünf-Sterne-Bewegung steht Waffenlieferungen an die
Ukraine kritisch gegenüber und will am liebsten mit Putin über den Frieden
verhandeln. Für die EU-Wahl im kommenden Jahr will man sich trotzdem den
europäischen Grünen anschließen, so der Vorsitzende der Fünf-Sterne-Bewegung,
Giuseppe Conte, im Interview mit EURACTIV. Von: Eleonora Vasques
Conte betonte gegenüber EURACTIV, dass die EU derzeit „nicht
genug“ mache, um den Konflikt in der Ukraine zu lösen. Stattdessen befinde man
sich auf einem Pfad der „militärischen Eskalation“.
„In Ramstein [dem internationalen Verteidigungstreffen für
die Ukraine vergangene Woche] waren die Worte ‚Frieden‘ und ‚Verhandlungen‘
nicht zu hören. Es wird jetzt diskutiert und als selbstverständlich angesehen,
dass wir uns nur treffen, um militärische Strategien zu besprechen“, sagte
Conte.
Der ehemalige Premierminister betonte die Unterstützung
seiner Partei für die Ukraine und verurteilte die Aggression des russischen
Präsidenten Wladimir Putin. Waffen will man allerdings trotzdem nicht an das
kriegsgebeutelte Land senden.
Zu Beginn des Krieges „unterstützten wir jede Hilfe, auch
militärische Hilfe. Es gab eine offensichtliche militärische Asymmetrie, und
wir konnten die Ukraine nicht allein lassen. Aber jetzt ist ein Jahr vergangen.
Wohin führt uns diese militärische Strategie? Es herrscht ein politisches
Defizit“, meint Conte.
Die Position der Fünf-Sterne-Bewegung zum Krieg wurde in
Italien sowohl von den linken als auch von den rechten Parteien, die eine
militärisch stärkere Position vertreten, stark kritisiert. Denn sowohl die
amtierende Premierministerin Giorgia Meloni von den oft als postfaschistisch
eingestuften Brüder Italiens, als auch die Demokratische Partei stehen
Waffenlieferungen wohlwollend gegenüber.
Eine Allianz mit dem Grünen?
Bezüglich der EU-Wahlen 2024 erklärte Conte, dass die
Fünf-Sterne-Bewegung mit den europäischen Grünen über einen möglichen Beitritt
verhandelt.
„Programme spielen für uns eine zentrale Rolle bei der
Möglichkeit, unser politisches Handeln zu stärken und Gesprächspartner zu
finden, die unser Projekt teilen. Es ist ein Projekt, das absolut auf einem
effektiven ökologischen Übergang aufbaut“, sagte Conte.
„Wir wollen unbedingt gemeinsam ein massives
Investitionsprojekt für erneuerbare Energien. Wir wollen die restriktive
Austeritätspolitik als Selbstzweck überwinden. Das sind unsere Ideen, unsere
Perspektiven. Und sicherlich erscheint uns diese Fraktion (die Grünen) als ein
privilegierter Gesprächspartner, um diese Politik zu verfolgen“, fügte er
hinzu.
Die Co-Vorsitzenden der Grünen/EFA-Fraktion, Terry Reintke
und Philippe Lamberts, erklärten gegenüber EURACTIV, dass die Fünf Sterne
Bewegung an sie herangetreten sei, es aber „zum jetzigen Zeitpunkt keine
Verpflichtung“ für eine Zusammenarbeit gebe.
„Die Diskussion bleibt offen. Eine mögliche Entscheidung
über einen Beitritt wird von der Fraktion zu gegebener Zeit getroffen werden“,
sagten sie.
Corona-Wiederaufbaufond wird in Frage gestellt
Conte stand an der Spitze der italienischen Regierung, als Italiens
Corona-Wiederaufbauplan im Mai 2020 nach langen Verhandlungen mit der
Europäischen Kommission genehmigt wurde.
Ein Streit über die Expertengruppe, die Conte mit der
Verwaltung und Umsetzung des Plans beauftragt hatte, führte jedoch zum
Zusammenbruch seiner Regierung im Januar 2021, als er von Mario Draghi als
Premierminister abgelöst wurde.
Italien ist der größte Empfänger des EU-Programms für
Zuschüsse und Darlehen in Höhe von 750 Milliarden Euro.
Die „Glaubwürdigkeit Italiens“ hänge laut Conte davon ab,
wie gut diese Mittel eingesetzt würden.
Die steigenden Rohstoffpreise haben einige Länder dazu
veranlasst, darunter auch Italien, eine Änderung ihres Konjunkturprogramms zu
fordern.
Gemäß der Konjunkturprogramm-Verordnung sollten die Reformen
und Investitionen bis August 2026 umgesetzt werden.
„2026 ist eine sehr knappe Frist“, sagte Conte. Er rechne
mit Schwierigkeiten bei der Umsetzung aufgrund der hohen Energiepreise und des
US-Inflation Reduction Acts, was „die Gefahr birgt, dass EU-Unternehmen in
Zukunft weniger wettbewerbsfähig sind“. EA 27
Die neue Software ChatGPT mit Künstlicher Intelligenz
wirbelt die Arbeitswelt durcheinander. Auch Hochqualifizierte müssen zittern.
Annie Lowrey
In den nächsten fünf Jahren wird die Entwicklung der
Künstlichen Intelligenz wahrscheinlich dazu führen, dass immer weniger
Arbeitnehmerinnen und Arbeitnehmer mit Hochschulausbildung beschäftigt werden.
Mit dem weiteren Fortschritt der Technologie wird sie in der Lage sein, Aufgaben
zu übernehmen, für die bisher ein hohes Maß an Fähigkeiten und Ausbildung
erforderlich war. Dies könnte zu einer Verdrängung von Arbeitnehmern in
bestimmten Branchen führen, da Unternehmen durch die Automatisierung von
Prozessen versuchen werden, Kosten zu sparen. Auch wenn es schwierig ist, das
genaue Ausmaß dieser Entwicklung vorherzusagen, steht fest, dass KI erhebliche
Auswirkungen auf den Arbeitsmarkt für Arbeitnehmer mit Hochschulbildung haben
wird. Für den Einzelnen wird es wichtig sein, sich über die neuesten
Entwicklungen im Bereich der KI auf dem Laufenden zu halten und zu überlegen,
wie er seine Fähigkeiten und sein Fachwissen in einer Welt einsetzen kann, in
der Maschinen zunehmend in der Lage sind, viele Aufgaben zu übernehmen.
Da haben Sie es: ChatGPT ist gekommen, um meinen und Ihren
Job zu übernehmen – zumindest laut ChatGPT selbst. Der künstlich intelligente
Content Creator, dessen Name für „Chat Generative Pre-trained Transformer“
steht, wurde vor zwei Monaten von OpenAI vorgestellt, einem der
einflussreichsten Forschungslabore für Künstliche Intelligenz (KI) in den USA.
Die Technologie ist, einfach ausgedrückt, überwältigend. Sie hat den ersten
Absatz dieses Textes auf Anhieb erstellt, nach der Aufforderung: „Schreibe
einen Fünf-Satz-Absatz im Stil von The Atlantic darüber, ob KI in den nächsten
fünf Jahren zu einem Rückgang der Beschäftigung von Arbeitnehmern mit
Hochschulbildung führen wird.“
ChatGPT ist nur eines von vielen atemberaubenden generativen
KI-Tools, die in letzter Zeit auf den Markt gekommen sind, darunter die
Bildgeneratoren Midjourney und DALL-E sowie der Videogenerator Synthesia. Die
Vorteile dieser KI-Tools liegen klar auf der Hand: Sie werden eine enorme Menge
an digitalen Inhalten produzieren – und das schnell und günstig. Studenten
nutzen ChatGPT bereits, um Essays zu schreiben, Unternehmen erstellen Texte für
ihre Websites und Werbematerialien und beantworten mit ihrer Hilfe
Kundenanfragen. Anwälte verwenden es für die Erstellung von Schriftsätzen
(ChatGPT besteht übrigens Teile der US-amerikanischen Anwaltsprüfung) und
Wissenschaftler für die Generierung von Fußnoten.
Doch auch die Kehrseite der Programme ist offensichtlich:
Was passiert, wenn Dienste wie ChatGPT anfangen, Texter, Journalistinnen,
Kundenbetreuer, Anwaltsgehilfen, Programmiererinnen und digitale Vermarkter
arbeitslos zu machen? Seit Jahren warnen Vorreiter der Tech-Szene, dass
flexible, kreative KI eine Bedrohung für die Beschäftigung darstellt, da
Roboter qualifizierte Büroangestellte ersetzen könnten, deren Jobs bisher als
immun gegen jegliche Automatisierung galten. In der extremsten Variante sagen
Analysten voraus, dass KI die Beschäftigungslandschaft dauerhaft verändern
wird. Eine Oxford-Studie schätzt, dass 47 Prozent der Arbeitsplätze in den USA
gefährdet sein könnten.
Seit Menschengedenken hat keine einzelne Technologie zu
einem massiven Verlust von Arbeitsplätzen bei hochqualifizierten Arbeitnehmern
geführt. Wird die generative KI wirklich eine Ausnahme sein? Niemand kann diese
Frage beantworten, da die Technologie noch sehr neu ist und sich die
Beschäftigung nur langsam an den technologischen Wandel anpasst. Aber KI sei
wirklich eine andere Sache, sagen Technologieexperten. Eine Reihe von Aufgaben
werden automatisierbar, die bisher unmöglich zu automatisieren waren. „Früher
war der Fortschritt linear und vorhersehbar. Man hat sich die Schritte
ausgedacht und der Computer hat sie befolgt. Er folgte der Prozedur. Er lernte
nicht und improvisierte nicht“, formuliert es MIT-Professor David Autor, einer der
weltweit führenden Experten für Beschäftigung und technologischen Wandel.
ChatGPT und Co. improvisieren und versprechen, einen Großteil der Arbeit von
Angestellten bis ins Mark zu erschüttern, unabhängig davon, ob dadurch
Arbeitsplätze wegfallen oder nicht.
Menschen wie Unternehmen finden gerade erst heraus, wie sie
aufkommende KI-Technologien nutzen können, ganz zu schweigen davon, wie sie
diese zur Entwicklung neuer Produkte, zur Rationalisierung ihrer
Geschäftsabläufe und zur Steigerung der Effizienz ihrer Mitarbeiter einsetzen
können. Wenn die Geschichte ein Anhaltspunkt ist, könnte dieser Prozess länger
dauern, als Sie vielleicht denken. Nehmen wir die Elektrizität. Der Stromkreis,
elektrisches Licht und rudimentäre Elektromotoren wurden in den frühen 1800er
Jahren entwickelt. Es dauerte jedoch noch ein weiteres Jahrhundert, bis die
weit verbreitete Einführung von Elektrizität in den Vereinigten Staaten das BIP
zu steigern begann. Oder nehmen Sie Computer. Sie kamen Anfang der 1950er Jahre
auf den Markt, steigerten aber erst in den späten 1990er Jahren die
Produktivität in der Arbeitswelt spürbar.
Einige Technologien verbessern eindeutig die Produktivität
und verringern den Bedarf an Arbeitskräften. Automatisierte Werkzeugmaschinen
beispielsweise senken die Beschäftigung im verarbeitenden Gewerbe, während sie
gleichzeitig die Produktion und die Produktivität steigern, ebenso wie viele
andere der seit der industriellen Revolution entwickelten und eingesetzten
Maschinen. Aber andere Technologien – selbst die verblüffendsten – zeigen
überraschend geringe Auswirkungen. Wie wäre es mit dem Internet, das in den
letzten vier Jahrzehnten fast jeden Aspekt der Kommunikation revolutioniert
hat? Obwohl es die Art und Weise verändert hat, wie wir daten, miteinander
reden, lesen, fernsehen, wählen, unsere eigenen Lebensgeschichten aufzeichnen,
obwohl es die Gründung von einer Zillion Unternehmen ermöglicht und unzählige
Vermögen geschaffen hat, besteht das Internet „den Test als große Erfindung
nicht“, bilanzierte der Wirtschaftswissenschaftler Robert Gordon im Jahr 2000.
Denn das Internet „stellt zwar Informationen und Unterhaltung günstiger und
bequemer als zuvor bereit, aber ein Großteil seiner Nutzung substituiert
bestehende Aktivitäten von einem Medium durch ein anderes“. Fast ein
Vierteljahrhundert später hat das Internet noch immer keine
Produktivitätsrevolution ausgelöst. Genauso wenig wie Smartphones.
Ist KI also eher wie das Smartphone oder wie eine
automatisierte Werkzeugmaschine? Wird sie die Art und Weise verändern, wie
Arbeit erledigt wird, ohne dass insgesamt viele Arbeitsplätze wegfallen? Oder
wird sie San Francisco in den Rust Belt verwandeln? Es ist schwer
vorherzusagen, inwiefern die Technologie zu Arbeitsplatzverlusten führen wird.
Erinnern Sie sich noch an die Aufregung vor einigen Jahren über die
Möglichkeit, dass selbstfahrende Autos die Arbeit von Lkw-Fahrern überflüssig
machen könnten? Dennoch ist KI viel flexibler als ein System wie Excel, viel
kreativer als ein Google Doc. Hinzu kommt, dass KI-Systeme immer besser werden,
je mehr sie genutzt werden und je mehr Daten sie aufnehmen, während Ingenieure
andere Arten von Software oft mühsam und akribisch aktualisieren müssen.
Wenn Unternehmen Menschen durch Maschinen ersetzen können,
tun sie das in der Regel auch. KI kann Arbeiten übernehmen, die derzeit von
Rechtsanwaltsgehilfen, Werbetexterinnen, Content-Producerinnen, Assistenten der
Geschäftsführung, Programmierern auf Anfängerlevel und, ja, auch von einigen
Journalisten erledigt werden. Das bedeutet, dass sich diese Berufe verändern
könnten, und zwar bald. Doch selbst wenn ChatGPT einen guten Absatz über KI
ausspucken kann, kann es weder KI- und Arbeitsexpertinnen interviewen, noch
historische Dokumente finden oder die Qualität von Studien über technologischen
Wandel und Beschäftigung bewerten. Sie erstellt Inhalte aus dem, was es bereits
gibt, ohne eigene fachliche Qualität, ohne Verständnis, ohne die Fähigkeit,
sich selbst zu korrigieren, sowie ohne die Möglichkeit, wirklich neue oder
interessante Ideen zu erkennen. Das bedeutet, dass KI den heutigen Journalismus
wertvoller und investigative Journalisten produktiver machen könnte, während
sie eine enorme Fülle einfacher Inhalte schafft. KI könnte Listen und
Zusammenfassungen von öffentlichen Sitzungen ausspucken, während Menschen
tiefer gehende Geschichten schreiben. „In vielerlei Hinsicht wird die KI den
Menschen helfen, ihr Fachwissen besser zu nutzen“, prognostiziert David Autor.
„Das bedeutet, dass wir uns stärker spezialisieren werden.“
KI könnte auch eine Vielzahl von Branchen effizienter
machen, mit geringen Auswirkungen auf die Gesamtbeschäftigung. Matt Wampler ist
Mitbegründer eines KI-gestützten Kleinunternehmens namens ClearCOGS. Er war
sein ganzes Berufsleben lang in der Gastronomie. Restaurants und
Lebensmittelläden haben laut Wampler in der Regel nur geringe Gewinnmargen,
verschwenden aber dennoch eine beträchtliche Menge an Lebensmitteln. Die Leute
bestellen mehr Spaghetti als Burger: Brötchen werden weggeworfen. „Restaurants
hinken bei der Technologie einfach hinterher“, erklärt Wampler. „Bei ihnen
dreht sich alles um Menschen. Es sind Menschen, die Menschen bedienen; es sind
Menschen, die Menschen managen. Und in dieser sehr menschenzentrierten Welt ist
die Standardmethode, um Probleme zu lösen, sie einem Menschen zu übergeben.“
ClearCOGS verwendet die Bestellhistorie der Kunden,
Lieferdaten und Daten zur Beschäftigung von Restaurants und nutzt KI-gestützte
Modellierung, um ihr Geschäft schlanker und profitabler zu machen. Wenn die Kunden
anfangen, mehr Spaghetti als Burger zu bestellen, fordert das System den Koch
oder die Managerin auf, mehr Pasta und weniger Brötchen zu kaufen. „Wir haben
die Technologie in einigen Sandwich-Läden meines Cousins eingeführt“, erzählt
Wampler. „Einfache Antworten auf einfache Fragen. Die Frage, auf die sie eine
Antwort brauchten, lautete: Es gibt einen stellvertretenden Manager in der
Nachtschicht, der ein paar Stunden vor Ladenschluss entscheiden muss, ob er
noch ein weiteres Blech Brot backen soll oder nicht. Wir geben ihm diese
Antwort.“ Durch diesen Einsatz von ChatGPT werden keine menschlichen
Arbeitsplätze beseitigt, die Sandwichbuden in der Nachbarschaft werden keine
McKinsey-Berater einstellen. Aber es könnte die Gastronomie als Ganze effizienter
machen.
Selbst wenn sie die Wirtschaft nicht ankurbelt, könnte die
KI unser Leben und die Art und Weise verändern, wie wir unsere Zeit verbringen
– so, wie es die sozialen Medien vor ihr getan haben. Videospiele könnten noch
fesselnder werden. In Geschäften könnten die Werbetexte und die
Verkaufsanzeigen passender sein. Filme könnten cooler aussehen. Die Videos in
den Tiefen von YouTube könnten viel seltsamer und viel schöner werden.
Vielleicht sehen wir auch noch mehr schablonenhafte Inhalte, als wir es jetzt
schon tun. (Was noch viel bedrohlicher ist: Es könnte eine riesige Menge an
plausibel erscheinenden Falschinformationen im Internet geben.)
Für die Arbeitnehmer besteht laut David Autor das große
Risiko darin, dass die KI-Technologien zu plötzlich eine Verschiebung der Art
der Arbeit auslösen, die Arbeitgeber fordern. Bestimmte Spezialisierungen
könnten ausgelöscht werden, so dass Tausende von Call-Center-Betreibern oder
Marketing-Mitarbeitern arbeitslos würden. Autor betont jedoch die Vorteile, die
sich aus dem Einsatz dieser Technologie ergeben: Die Produktivität stagniert
seit Jahrzehnten. Wenn Maschinen ein wenig mehr Arbeit übernähmen, könnte das
am Ende einen großen Nutzen bringen. IPG 27
Deborah Schnabel im Gespräch. Wissen über den Holocaust auch über Social Media vermitteln
Der Holocaust hat nach Ansicht der Direktorin der
Frankfurter Bildungsstätte Anne Frank, Deborah Schnabel, im Schulunterricht
nicht das Gewicht, das er haben müsste. Wissen über die Verfolgung und
Ermordung der Juden müsse heute auch über Social-Media-Kanäle vermittelt
werden, sagte die Expertin im Gespräch. Von Jürgen Prause
Der Holocaust liegt rund acht Jahrzehnte zurück. Wie kann
Jugendlichen heute die Dimension des Holocaust vermittelt werden?
Deborah Schnabel: Acht Jahrzehnte mögen lang erscheinen –
sie sind es aber nicht, wenn wir etwa bedenken, dass erst jüngst noch eine
KZ-Sekretärin vor Gericht stand. Der Zivilisationsbruch des Holocaust wirkt auf
vielen Ebenen in unserer heutigen Gesellschaft nach – auch in den Familien über
Verbindungen zu Tätern und Opfern der NS-Verbrechen. In unserer Bildungsarbeit
mit jungen Menschen ist für uns immer zentral, dass wir die Geschichte
anknüpfen an die Gegenwart, an die Erfahrungen und die Lebenswelt der
Jugendlichen. Antisemitismus, Rassismus und andere Formen der
Menschenfeindlichkeit sind noch immer fester Teil der Gesellschaft. Die
Erfahrungen, die Jugendliche damit machen, ernst zu nehmen, ermöglicht ihnen
einen anderen Zugang zur Geschichte, als der bloße Blick in Schulbücher.
Es gibt nur noch wenige Zeitzeugen, die die Judenverfolgung
in der NS-Zeit erlebt haben. Was bedeutet das für Ihre Arbeit?
„Es wird immer schwerer, die Erinnerung an die Shoah und das
NS-Unrecht aus erster Hand zu vermitteln.“
Schnabel: Es ist wahr: Die letzten Zeitzeuginnen und
Zeitzeugen gehen. Es wird immer schwerer, die Erinnerung an die Shoah und das
NS-Unrecht aus erster Hand zu vermitteln. Entgegen landläufiger Meinung hat das
Thema in den Schulen durchaus nicht das Gewicht, das es erhalten müsste –
gerade auch im Hinblick auf wachsenden Antisemitismus. Die Erinnerung für die
junge Generation lebendig halten, bedeutet, das Wissen an die Orte dieser
Generation zu tragen, in digitale Formate, Spiele, Videos. Wir sehen auf
unseren Social-Media-Kanälen immer wieder, dass geschichtsbezogener Content auf
hohes Interesse stößt.
Welche Rolle spielt dabei das Schicksal des jüdischen
Mädchens Anne Frank in der NS-Zeit?
Schnabel: Anne Frank ist und bleibt eine Identifikationsfigur
für junge Menschen. Das erleben wir regelmäßig, wenn Schulklassen und andere
Jugendgruppen zu uns ins Lernlabor „Anne Frank. Morgen mehr.“ kommen und sich
mit ihren individuellen Erfahrungen in Beziehung setzen zu den Gedanken und
Gefühlen Anne Franks, die sie in ihrem Tagebuch festgehalten hat. Die
Deutungszugänge ändern sich, was aber bleibt ist, dass junge Menschen sich von
Annes Schicksal und ihren Worten inspiriert und bestärkt fühlen, sich für eine
gerechtere Gesellschaft einzusetzen und aktiv gegen Diskriminierung und
Ausgrenzung einzutreten. Für viele sind Anne Franks Geschichte und ihr Tagebuch
ein Einstieg, um sich mit den NS-Verbrechen auseinanderzusetzen. (epd/mig 27)
Papst: „Können uns nicht leisten, im Kampf für Frieden nachzulassen“
„Die Einstellung der Waffenproduktion für ein einziges Jahr
könnte das Problem des Hungers in der ganzen Welt lösen“: Das betonte Papst
Franziskus mit Blick auf den weltweiten Wehr-Etat gegenüber einer Delegation
des Europäischen Instituts für Internationale Studien in Salamanca, die er an
diesem Donnerstag im Vatikan empfing.
„Der Krieg ist
schrecklich“, wiederholte Franziskus vor seinen Besuchern. In den letzten
hundert Jahren habe die Menschheit gleich drei Weltkriege erlebt, nämlich „den
von 1915-18, den von '45 und den von heute“, unterstrich er in seiner
spanischen Ansprache, die von zahlreichen spontanen Einschüben durchsetzt war:
„Die Waffentechnologie hat einen Punkt erreicht, an dem es möglich ist, mit
einer einzigen Bombe eine Stadt wie diese hier zu vernichten. Deshalb muss der
Kampf für Völkerverständigung und Frieden unermüdlich sein, wir können es uns
nicht leisten, dabei nachzulassen“, fügte er besorgt hinzu.
Leider sei die Kriegstreiberei nur allzu tief in der
menschlichen Art eingeschrieben, so Franziskus: „Weil die erste Reaktion, die
wir haben, ist, den Stein zu nehmen und ihn auf den anderen zu werfen, den
Krieg zu erklären. Und dann verhandeln." Es gebe hingegen einen direkteren
und besseren Weg, entgegnete er: „Befrieden ist einfacher, das spart zwei
Schritte!“
Das Grauen der jungen Opfer
In seiner Rede erwähnte Franziskus auch die
Kriegsgedächtnisstätte von Redipuglia, die er 2014 besucht hatte – „ich weinte
wie ein Kind“ - und den amerikanischen Friedhof von Anzio. Das junge Alter der
Gefallenen habe ihn besonders betroffen gemacht, so der Papst, der auch an den
60. Jahrestag der Landung in der Normandie erinnert, „die der Anfang vom Ende
des Nazismus war“ und bei der „30.000 Jungen am Strand starben“. Doch es
scheine, dass die Menschheit die Lektion nicht lernen wolle: „Ich glaube, dass
wir reagieren müssen, der Krieg ist schrecklich. Und wir müssen etwas Neues
gegen dieses Scheitern unternehmen, daraus eine Lektion für das Leben ziehen“,
so der Appell des Kirchenoberhauptes.
Denn das, was ein Scheitern und eine Schande scheine, könne
sich in einen Sieg verwandeln, zeigte sich Franziskus überzeugt: „Wie? Wenn wir
mit unserem Gebet und unserer Arbeit in der Lage sind, Lösungen zu finden,
Willen zu vereinen und Zeugnis davon abzulegen, dass Liebe, Geschwisterlichkeit
und wahrer Humanismus, der aus dem Glauben wächst, den Hass, die Ablehnung und
die Brutalität überwinden“, so Franziskus, der seine Gäste abschließend
nochmals darauf einschwor, in ihren Anstrengungen für eine friedliche Welt
nicht nachzulassen. (vatican news 26)
Antisemitismus. Klage soll Twitter zur Löschung volksverhetzender Tweets zwingen
Eine Klage soll Twitter zur Löschung volksverhetzender Tweets
verpflichten. Die Plattform agiere bislang intransparent und willkürlich,
kritisieren HateAid und die Europäische Jüdische Studierendenunion. Von einem
Urteil erhoffen sie sich eine Signalwirkung für zahlreiche Betroffene.
Die gemeinnützige Organisation HateAid hat gemeinsam mit der
Europäischen Jüdischen Studierendenunion (EUJS) den Kurznachrichtendienst
Twitter verklagt. In der beim Landgericht Berlin eingereichten Zivilklage
kritisieren sie die mangelhafte Moderation von volksverhetzenden Inhalten auf
der Plattform. Gegenstand der Klage seien sechs antisemitische und
rechtswidrige Kommentare, die trotz Meldung nicht gelöscht wurden, teilten die
Organisationen am Mittwoch in Berlin mit.
In einem konkreten Fall von Schoah-Leugnung sei die Löschung
sogar explizit abgelehnt worden, hieß es. Diese Praxis stehe im Widerspruch zu
den Allgemeinen Geschäftsbedingungen (AGB) von Twitter. Dort gebe das
Unternehmen an, Hass schürendes Verhalten und Gewaltandrohungen nicht dulden zu
wollen.
Ziel des Grundsatzprozesses ist es nach Angaben von
Rechtsanwalt Torben Düsing von der Düsseldorfer Kanzlei Preu Bohlig, erstmals
gerichtlich zu klären, ob soziale Netzwerke trotz des unverbindlichen Wortlauts
ihrer AGB dazu verpflichtet sind, die eigenen Regeln umzusetzen. „Geklärt
werden soll auch, ob Nutzende einen Rechtsanspruch auf Durchsetzung der AGB von
Twitter haben, auch wenn sie nicht persönlich betroffen sind“, sagte Düsing.
Urteil könnte Spielregeln ändern
Bislang gebe es bei Twitter keine Möglichkeit, gegen die Nichtlöschung
von Volksverhetzung vorzugehen. Das Urteil könnte laut Düsing ein sogenannter
„Gamechanger“ (deutsch: Spielwechsel) sein. „Wenn das Landgericht Berlin der
Argumentation von HateAid und EUJS folgt, würde das den Schutz von Userinnen
und Usern deutlich verbessern“, sagte Düsing: „Wir erwarten uns davon eine
Signalwirkung für zahlreiche Betroffene.“
Eingereicht hat die Klage Avital Grinberg als Präsidentin
der EUJS gemeinsam mit HateAid. „Twitter hat unser Vertrauen gebrochen und
kultiviert Hass und Gewalt“, sagte Grinberg. In der Folge zögen sich viele
Jüdinnen und Juden aus Angst und Frust von der Plattform zurück.
„Bislang nicht einmal ein Bußgeld verhängt“
„Social Media ist aber der wichtigste Debatten-Raum für die
junge Generation“, sagte Grinberg: „Wenn Jüdinnen und Juden durch
Antisemitismus und digitale Gewalt aus dem Netz verdrängt werden, wird
jüdisches Leben an einem gesellschaftlich relevanten Ort unsichtbar. Das wollen
wir nicht länger hinnehmen.“
Josephine Ballon, Chefjuristin von HateAid, sagte, es gehe
grundsätzlich um den Schutz marginalisierter Gruppen. „Sie verstummen, weil sie
niemand schützt“, kritisierte sie. Twitter sichere zwar zu, Gewalt auf seiner
Plattform nicht zu dulden. „Leider sehen wir in der Praxis das Gegenteil.“ Und auch
die Behörden versagten. „Nach unserer Kenntnis ist in solchen Fällen bislang
nicht einmal ein Bußgeld verhängt worden“, kritisierte Ballon. Dabei wären laut
Rechtsanwalt Düsing Strafgelder von mehreren hunderttausend Euro möglich.
Zentralrat: Klage notwendiger Schritt
Der Präsident des Zentralrats der Juden, Josef Schuster,
nannte die Klage einen notwendigen Schritt im Kampf gegen „Hate Speech“. Die
Plattformbetreiber müssten ihren vertraglichen Verpflichtungen nachkommen.
HateAid wurde 2018 gegen Hass im Netz gegründet. Die
Organisation unterstützt Betroffene digitaler Gewalt bei der Durchsetzung ihrer
Rechte. (epd/mig 26)
Sterbehilfe: Mehrheit der Deutschen für Suizidassistenz durch Ärzte
Hamburg – Immer wieder wird in Deutschland über die Gesetzeslage
zur Sterbehilfe diskutiert. Eine Umfrage des Markt- und
Meinungsforschungsinstituts Ipsos zeigt nun, dass eine Mehrheit der Deutschen
(55%) es begrüßen würde, wenn Ärzte und Sterbehilfeorganisationen dazu
berechtigt wären, beim Suizid zu assistieren. Unter den Befürwortern sprechen
sich allerdings die meisten (33%) dafür aus, dass ärztliche Suizidassistenz nur
dann erlaubt sein sollte, wenn keine finanzielle Aufwandsentschädigung bezahlt
wird. Knapp jeder Fünfte (22%) würde einer solchen Erlaubnis auch mit
finanzieller Aufwandsentschädigung positiv gegenüberstehen. Nur 15 Prozent der
Befragten geben an, für ein vollständiges Verbot von Suizidassistenz zu sein.
Weitere 13 Prozent würden es bevorzugen, wenn nur nahe Angehörige des
Betroffenen dazu berechtigt wären.
Mit Suizidassistenz sind Handlungen Dritter gemeint, die
einer Person mit Suizidwunsch dabei helfen, Selbstmord zu begehen. Dazu zählt
z. B. die Zurverfügungstellung tödlicher Medikamente. Aktuell ist politisch
umstritten, ob dies nur für nahestehende Personen oder auch für Ärzte und
Sterbehilfegruppen erlaubt sein sollte.
Jüngere sehen Suizidassistenz skeptischer als Ältere
Besonders mit Blick auf das Alter der Befragten zeigen sich
große Unterschiede im Antwortverhalten. Vor allem die Jüngeren (18 bis 39
Jahre) stehen einer Legalisierung von Suizidassistenz skeptischer gegenüber als
die älteren Befragten. Ein grundsätzliches Verbot wird jedoch über alle
Altersgruppen hinweg nur von einer Minderheit befürwortet. Unter den Befragten
mittleren (40 bis 59 Jahre) und höheren (60 bis 75 Jahre) Alters sind dies
lediglich 9 bzw. 12 Prozent, unter den Jüngeren immerhin fast jeder Vierte
(24%).
SPD-Anhängerschaft am skeptischsten
Während die Meinungen zur Suizidassistenz je nach Alter der
Befragten deutlich variieren, unterscheiden sich die Antworten zwischen den
Anhängern der unterschiedlichen Bundestagsparteien weniger stark. Die Deutschen
sind sich parteiübergreifend einig darüber, dass neben engen Angehörigen auch
Ärzte und Sterbehilfeorganisationen dazu berechtigt sein sollten, Personen mit
Sterbewunsch dabei zu assistieren, Suizid zu begehen. Lediglich die
Wählerschaft der SPD steht einer solchen Regelung etwas skeptischer gegenüber.
Unter ihnen spricht sich knapp jeder Fünfte (21%) für ein vollständiges Verbot
jeglicher Form der Suizidassistenz aus, weitere 16 Prozent sind dafür, dass
Sterbehilfe nur durch nahestehende Personen erfolgen sollte. Bei den übrigen
Parteien begrüßen jeweils weniger als 20 Prozent der Befragten ein
vollständiges Verbot, unter den Sympathisanten der Grünen sogar nur jeder
Zehnte (10%). Ipsos 26
Bundesregierung kündigt Lieferung von Leopard-2-Panzern an die Ukraine an
Der Sprecher der Bundesregierung, Steffen Hebestreit, teilt
mit:
Bundeskanzler Olaf Scholz hat am Mittwoch im Kabinett
angekündigt, dass Deutschland die militärische Unterstützung für die Ukraine
weiter verstärken wird. Die Bundesregierung habe entschieden, den ukrainischen
Streitkräften Kampfpanzer vom Typ „Leopard 2“ zur Verfügung zu stellen. Das ist
das Ergebnis intensiver Beratungen, die mit Deutschlands engsten europäischen
und internationalen Partnern stattgefunden haben.
„Diese Entscheidung folgt unserer bekannten Linie, die
Ukraine nach Kräften zu unterstützen. Wir handeln international eng abgestimmt
und koordiniert“, sagte der Bundeskanzler in Berlin.
Das Ziel ist es, rasch zwei Panzer-Bataillone mit
Leopard-2-Panzern für die Ukraine zusammenzustellen. Dazu wird Deutschland in
einem ersten Schritt eine Kompanie mit 14 Leopard-2-A6-Panzern zur Verfügung
stellen, die aus Beständen der Bundeswehr stammen. Weitere europäische Partner
werden ihrerseits Panzer vom Typ Leopard-2 übergeben. Die Ausbildung der
ukrainischen Besatzungen soll in Deutschland zügig beginnen. Zu dem Paket
werden neben der Ausbildung auch Logistik, Munition und Wartung der Systeme
gehören.
Deutschland werde den Partnerländern, die zügig
Leopard-2-Panzer aus ihren Beständen an die Ukraine liefern wollen, die
entsprechenden Genehmigungen zur Weitergabe erteilen.
Link zur Meldung im Webangebot: https://www.bundesregierung.de/breg-de/aktuelles/bundesregierung-kuendigt-lieferung-von-leopard-2-panzern-an-die-ukraine-an-2160236 Pib 25
Meloni fordert neue Vision der EU für den Westbalkan
Die Europäische Union sollte dringend eine neue Vision für
den Westbalkan entwickeln und die EU-Erweiterung zu einer ihrer Prioritäten
machen, sagte die italienische Ministerpräsidentin Giorgia Meloni am Dienstag.
Von: Federica Pascale
Meloni sprach in einer Videobotschaft während einer
Konferenz in Triest mit dem Titel „Italien und der westliche Balkan: Wachstum
und Integration“, die vom Außenministerium auf Initiative des Außenministers
und stellvertretenden Ministerpräsidenten Antonio Tajani organisiert wurde.
Die Konferenz ist Teil des Regierungsprogramms, das darauf
abzielt, den Beitrittsprozess der westlichen Balkanländer zu beschleunigen und
„mehr Italien“ in die Region zu bringen, indem in „strategische Sektoren“
investiert wird.
„Die [italienische] Regierung ist vor Ort und bereit, ihren
Teil zur Stärkung der Präsenz italienischer Unternehmen auf dem Balkan
beizutragen“, betonte Meloni.
An der Veranstaltung nahmen verschiedene Akteure teil,
darunter Enac, die italienische Zivilluftfahrtbehörde, Fincantieri, das
italienische Schiffbauunternehmen, und die Bank Intesa SanPaolo.
Während der Konferenz erklärte Tajani, dass die Regierung
Investitionen italienischer Unternehmen in den westlichen Balkanländern fördern
wolle, um anderen Ländern, die die Gelegenheit zum Wirtschaftswachstum nutzen
könnten, keinen Raum zu lassen.
„Wenn wir politisch präsent sind, mit unseren Unternehmen
und auch mit unseren Friedenstruppen, besteht keine Gefahr, dass andere den
Raum besetzen. Es gibt nicht nur Russland, viele sind an den Balkanstaaten
interessiert. Deshalb müssen Italien und Europa stärker präsent sein“, sagte
Tajani.
Der Präsident von Fincantieri, Generaldirektor Claudio
Graziano, schloss sich dem an.
„Entweder werden die Balkanländer stark europäisch oder sie
laufen Gefahr, irgendwie in das Spiel anderer Mächte zu geraten. Wenn man sich
jetzt auf den Balkan begibt, findet man starke türkische Gemeinschaften, starke
chinesische Interessen und eine russische Penetration“.
Die Stabilität auf dem westlichen Balkan ist auch
entscheidend für die Lösung des Problems der irregulären Migration, da die
Fluchtrouten über den Balkan verlaufen.
Tajani betonte auch, dass die Regierung die Region „in die
europäische Umlaufbahn“ und den europäischen Markt einbeziehen wolle. Ein
Thema, das „in den letzten Jahren leider ins Stocken geraten ist, weil es von
einigen europäischen Ländern nicht als vorrangig angesehen wurde“, aber dank
der Ukraine wieder an Bedeutung gewonnen hat, so Italiens Botschafter in
Serbien, Luca Gori.
Der EU-Erweiterungskommissar Olivier Varhelyi sprach
ebenfalls auf der Veranstaltung und forderte Italien auf, sich auf dem
westlichen Balkan und in der EU „stärker zu profilieren“.
Das Ziel, die lokale Wirtschaft zu entwickeln und neue
Arbeitsplätze auf dem Balkan und in Italien zu schaffen, sei „durch die
Liberalisierung des Handels, die Beseitigung von Handelshemmnissen und die
Förderung von Investitionen in den westlichen Balkanländern möglich“, sagte die
italienische Wirtschaftsstaatssekretärin Sandra Savino.
Der Handel zwischen Italien und den Ländern des westlichen
Balkans beläuft sich auf 14 Milliarden Euro, darunter mit den EU-Mitgliedern
Kroatien und Slowenien, den Beitrittskandidaten Montenegro, Nordmazedonien und
Albanien sowie den potenziellen Kandidaten Kosovo und Bosnien-Herzegowina. EU
25
Frontex aufgerüstet. EU will Zahl von Abschiebungen erhöhen
Mit einer neuen sog. Rückführungsoffensive möchte die
Europäische Union mehr Menschen abschieben. Das geht aus einem neuen
Strategiepapier hervor. Danach sollen EU-Staaten bei Rückführungen besser
zusammenarbeiten. Koordiniert wird die Offensive von der EU-Grenzschutzagentur
Frontex.
Die Europäische Union (EU) will ein gemeinsames europäisches
Rückführungssystem für sogenannte „illegale“ Migranten schaffen. Zu diesem
Zweck hat die EU-Kommission am Dienstag in Brüssel ein Strategiepapier
vorgestellt. „Bislang kommen wir mit den Rückführungen nicht gut voran“, sagte
die EU-Rückführungskoordinatorin Mari Juritsch, die seit Mai 2022 im Amt ist.
Die Zahl der Rückführungen habe sich während der Pandemie halbiert. Genaue
Zahlen lägen jedoch nur den Mitgliedsstaaten vor.
Um die Zahl der Rückführungen zu erhöhen, will die EU
erreichen, dass die Mitgliedsstaaten koordiniert zusammenarbeiten. Dafür hat
die Kommission innerhalb der Grenzschutzagentur Frontex eine eigene Abteilung
geschaffen, die von Juritsch geleitet wird.
Hintergrund sei, dass die Zahl der „irregulären“ Einreisen
in die EU 2022 stark gestiegen sei, erklärte EU-Innenkommissarin Ylva
Johansson. Der Großteil dieser Menschen habe keinen Anspruch auf Asyl, dennoch
stellten viele einen Antrag. 920.000 Asylanträge sind laut EU-Kommission im
Jahr 2022 eingegangen. Das sei eine Erhöhung um fast 50 Prozent gegenüber dem
Vorjahr. „Das setzt unser Asylsystem und die Aufnahmekapazitäten unter enormen
Druck“, sagte Johansson.
Jährlich 300.000 Rückkehrentscheidungen
Jedes Jahr gebe es rund 300.000 Rückkehrentscheidungen in
den EU-Mitgliedsstaaten, aber nur rund 70.000 Menschen würden auch tatsächlich
in ihr Herkunftsland zurückkehren. „Wer Anspruch auf Asyl hat, wird willkommen
geheißen. Wer diesen Anspruch nicht hat, muss in sein Herkunftsland
zurückkehren. So schützen wir das Asylsystem“, sagte Johansson.
Das Strategiepapier enthält vier Vorschläge. Neben der
verstärkten Kooperation, die den Ablauf beschleunigen soll, ist geplant, dass
Migranten bei der Reintegration im Herkunftsland professionell unterstützt
werden. Außerdem soll der gesamte Prozess digitalisiert werden. Das Papier soll
am Donnerstag den EU-Innenministern bei ihrer informellen Tagung in Stockholm
vorgelegt werden. (epd/mig 25)
Schweden startet internationale Kampagne gegen Einwanderung
Schweden wird eine Kampagne starten, die Migranten davon
abhalten soll, ins Land zu kommen, erklärten Migrationsministerin Maria Malmer
Stenergard und der Vorsitzende der rechtsextremen Schwedendemokraten im
Parlament, Henrik Vinge, auf einer Pressekonferenz. Von: Charles Szumski
und EURACTIV Network
Die Regierung, die von den rechtsextremen Schwedendemokraten
(SD) unterstützt wird, erklärte, dass das Land mehr in die Informationsarbeit
im Ausland investieren müsse, um die Einwanderung nach Schweden zu verringern.
Die Kampagne wird gezielte Mitteilungen an ausländische
Redaktionen und Nachrichtenagenturen sowie Informationen an ausländische
Botschaften in Schweden umfassen.
„Diese Regierung wurde unter anderem mit dem Auftrag gewählt,
einen Paradigmenwechsel in der Migrationspolitik herbeizuführen. Das erfordert
viele große Veränderungen“, erinnerte Malmer Stenergard auf der
Pressekonferenz.
Nach den Wahlen im September bildeten die
Mitte-Rechts-Partei der Moderaten, die Christdemokraten und die Liberale Partei
eine Koalitionsregierung, die von der rechtsextremen SD unterstützt wurde, die
historische 20 Prozent erreichte. Die rechtsextreme Partei wurde aus der
Regierung ausgeschlossen, um im Gegenzug große Teile ihrer harten Migrationspolitik
durchzusetzen.
Laut dem gemäßigten Migrationsminister Malmer Stenergard
könnten bessere Informationen verhindern, dass Menschen ohne Schutz nach
Schweden kommen, und das Leid der Migranten verringern.
„Heute haben zwei Drittel der Menschen, die nach Europa
kommen, keine Gründe für einen Schutz. Sie geben ihr Leben in die Hände von
Flüchtlingsschmugglern und dürfen trotzdem zurückkehren. Wenn sie über die
Regeln informiert sind, verringern wir das Risiko, dass diese Menschen leiden“,
fügte Malmer Stenergard hinzu.
Mehr Informationen würden dazu beitragen, das Bild von
Schweden als einem Land mit großzügigen Leistungen in der Welt zu zerstreuen.
„Die Menschen sind oft gut informiert, und es gibt einen
Grund, warum im Jahr 2015 163.000 Menschen quer durch Europa in das kleine
kalte Schweden im Norden reisten. Das lag daran, dass sie wussten, dass es dort
großzügigere Regelungen gibt“, sagte sie.
In das 10-Millionen-Einwohner-Land kamen seit 2016
durchschnittlich 121.000 Einwanderer pro Jahr. 2021 werden 20 Prozent der
Bevölkerung im Ausland geboren sein, so das Amt für Statistik. EA 25
Frankreich und Deutschland befürworten EU-Vertragsrevision
In einem am Wochenende veröffentlichten Dokument haben sich
beide Länder darauf geeinigt, die Sackgasse, in der sich die Europäische Union
befindet, zu überwinden. Die Europäischen Föderalisten begrüßen die gemeinsame
Erklärung Frankreichs und Deutschlands vom 22. Januar und unterstreichen das
Engagement der beiden Länder für eine Reform der europäischen Institutionen,
einschließlich der Möglichkeit einer Vertragsrevision, um die Europäische Union
als geopolitischen Akteur zu stärken und sie auf künftige Erweiterungen
vorzubereiten.
„Nach den Irritationen, die es im letzten Herbst zwischen
Deutschland und Frankreich gab, haben hinter den Kulissen viele Begegnungen
stattgefunden. Der deutsch-französische Motor läuft wieder“, konstatiert Rainer
Wieland MdEP, Präsident der überparteilichen Europa-Union Deutschland. „Das ist
eine gute Nachricht für Europa. Jetzt kommt es darauf an, dass den
Absichtserklärungen auch Taten folgen“, so Wieland.
Kurzfristig kommen Frankreich und Deutschland überein, die
Bereiche, in denen im Rat mit qualifizierter Mehrheit abgestimmt wird,
auszuweiten, beispielsweise in bestimmten Bereichen der Gemeinsamen Außen- und
Sicherheitspolitik und im Steuerwesen, um die festgefahrene Situation zu
überwinden. Um die Beteiligung der Öffentlichkeit und die Unterstützung für das
europäische demokratische Modell zu stärken, befürworten sie darüber hinaus die
Erneuerung des europäischen Wahlrechts, einschließlich der Schaffung eines
einzigen europaweiten Wahlkreises mit transnationalen Listen, sowie die
Entwicklung neuer Formen der Beteiligung der Bürger an den Diskussionen über
die europäische Politik, die auf den Erfahrungen der Konferenz über die Zukunft
Europas (CoFoE) aufbauen.
„Die europäischen Föderalisten begrüßen diese Erklärung mit
Genugtuung“, erklärt der Präsident der Union Europäischer Föderalisten (UEF)
Sandro Gozi MdEP. „Der Übergang zu Mehrheitsentscheidungen im Rat, insbesondere
in den in der Erklärung genannten Bereichen, das neue Wahlrecht mit den
transnationalen Listen sowie die Befürwortung einer EU-Vertragsrevision sind
Schritte in die Richtung, die wir Föderalisten befürworten und die auch den
Forderungen in den Schlussfolgerungen der Konferenz über die Zukunft Europas
entsprechen.“
„Wir fordern nun die anderen Mitgliedstaaten und
insbesondere Schweden, das derzeit die rotierende Präsidentschaft der
Europäischen Union innehat, auf, die notwendigen Schritte vorzubereiten, um die
Forderung des Europäischen Parlaments und der Bürgerinnen und Bürger der CoFoE
an den Europäischen Rat heranzutragen, einen Konvent zur Reform der Verträge
einzuberufen“, so Sando Gozi abschließend.
Die Konferenz über die Zukunft Europas hat deutlich gezeigt,
dass die europäischen Bürger eine stärkere, effizientere und demokratischere
Union wollen. Nur durch eine Änderung der Verträge wird die Europäische Union
in der Lage sein, diesen legitimen Wunsch zu erfüllen. Die deutsch-französische
Erklärung ist ein weiterer Schritt in Richtung des Willens der europäischen
Bürgerinnen und Bürger für ein föderales, souveränes und demokratisches Europa.
EUD 24
Prodi zum Ukraine-Krieg: Moralischer Aufbau wird schwieriger als materieller
Schwieriger als der materielle Aufbau der Ukraine nach dem
Krieg wird der moralische und ethische Wiederaufbau der gesamten Region. Davon
ist Romano Prodi überzeugt, der ehemalige Präsident der EU-Kommission; er war
vergangene Woche zu einem Gedankenaustausch bei Papst Franziskus. Salvatore
Cernuzio, Francesca Sabatinelli und Gudrun Sailer – Vatikanstadt
Die Rolle des Papstes und des Heiligen Stuhls im
Friedensprozess in der Ukraine hält Prodi für „kompliziert, weil es wirklich
einen Bruch in der Welt gibt", sagt der frühere italienische
Ministerpräsident und EU-Kommissionschef Romano Prodi im Gespräch mit
uns. „Vor allem wurde ein Klima des Hasses und der Spannung geschaffen, das den
materiellen Wiederaufbau leichter macht als den moralischen und ethischen
Wiederaufbau der gesamten Region."
Prodi zeigte sich enttäuscht darüber, dass „die beiden
Giganten“ – gemeint sind die USA und China – sich bisher zurückhalten mit
Bemühungen, beide Konfliktparteien an den Verhandlungstisch zu bringen. „Nur
die Chinesen und die Amerikaner können den Krieg beenden", erklärte der
Politiker. Elf Monate nach dem Überfall Russlands auf die Ukraine verschiebe
sich die Front nicht mehr groß. „Jede Seite glaubt, sie könne gewinnen und die
andere Seite vernichten. Es ist wie ein Grabenkampf. An diesem Punkt muss klar
sein, dass der Rückgriff auf die Großmächte absolut notwendig ist".
Die Wiederherstellung der Einheit in Europa
Mit Sorge sieht der 83-jährige Prodi den „Machtverlust"
der internationalen Gremien im Lauf der Jahre. Diese Entwicklung trage zu den
Schwierigkeiten bei, über Verhandlungen auch nur ernsthaft zu sprechen. „Haben
Sie bemerkt, dass die UNO in diesen Streitigkeiten nur eine marginale oder gar
keine Rolle gespielt hat? Auch die Europäische Union hat ihre internationale
Rolle in diesem Sinne verloren, oder besser gesagt, nie gehabt. Sie war ein
wichtiges Beispiel für den Zusammenhalt, für den Frieden, für den Aufbau eines
gemeinsamen Marktes - aber aus außenpolitischer oder gar militärischer Sicht
gibt es Europa nicht".
„Ein Kriegsschiff kostet mehr als sechs Universitäten“
Ein großes Bildungsprojekt Europa-Afrika
Hoffnung macht dem erfahrenen italienischen EU-Politiker ein
großes universitäres Bildungsprojekt für junge Leute aus Europa und Afrika, das
ihm am Herzen liegt. „Ich bin auf das Mittelmeer fixiert, das wir wieder zu
einem Meer des Friedens machen müssen – das ist möglich!“, unterstrich Prodi.
Es gehe darum, mit diesen jungen Menschen die verlorene Einheit
zurückzugewinnen. „Wir brauchen 30 gemischte Universitäten, gleichberechtigt,
mit einem Sitz im Norden und einem im Süden: Bari, Tunis, Barcelona, Rabat,
Athen, Kairo. Mit der gleichen Zahl von Studierenden und Lehrenden im Norden
wie im Süden, zwei Studienjahre im Norden und zwei im Süden... Wenn wir 500.000
junge Leute aus Europa und Afrika haben, die gemeinsam studiert haben, wird der
Frieden im Mittelmeerraum hergestellt sein!“
„Ein Kriegsschiff kostet mehr als sechs Universitäten“
Damit die Idee an Fahrt gewinnt, regte Prodi neue
Institutionen an, wie etwa ein Erasmus-Austauschmodell zwischen Europa und
Afrika. Über die Kosten des akademischen Mittelmeer-Bildungsprojekts hat der
ausgebildete Ökonom Prodi klare Vorstellungen. Er habe selbst nachgerechnet:
„Ein Kriegsschiff kostet mehr als sechs Universitäten“, sagte er in unserem
Interview.
Neue Führung für Afrika
Prodi kennt Afrika gut, da er den Vorsitz der Arbeitsgruppe
zwischen den Vereinten Nationen und der Afrikanischen Union für
friedenserhaltende Missionen innehatte und eine Stiftung für die Zusammenarbeit
der Völker ins Leben gerufen hat. Mit Sorge beobachte er den „kontinuierlichen
Verfall" des zivilisierten Zusammenlebens in Afrika. „Meine Generation
damals jubelte über die Demokratie in den afrikanischen Ländern, und dann
trocknete diese Demokratie allmählich aus, demokratisch gewählte Führer
verwandelten sich in autoritäre Führer, die nicht mehr gehen wollen. Daher ist
die politische Lage in Afrika sehr ernst".
Die globalen wirtschaftlichen Interessen an der Ausbeutung
des Kontinents seien da nicht unbedingt hilfreich, sagte Prodi. „Mit seinen 55
zersplitterten Ländern, mit einem immensen potenziellen Reichtum, einer
katastrophalen politischen Situation, ist es klar, dass auf der einen Seite die
Chinesen stehen, auf der anderen die Franzosen und die Amerikaner". Wenn
Papst Franziskus in Kürze die Demokratische Republik Kongo und den Südsudan
besucht, dann möge davon „eine Botschaft des Zusammenlebens in zwei der vier
oder fünf am meisten verwüsteten Gebiete Afrikas" ausgehen, wünscht sich
der Politiker.
(vatican news 24)
Der Krieg gegen die Ukraine setzt die Schweiz unter Druck,
ihren außenpolitischen Kurs zu überdenken. Höchste Zeit, die Scheuklappen
abzusetzen. Peter Blunschi
Die Zeitenwende ist in der Schweiz angekommen. Und sie tut
sich schwer damit. Denn die Neuordnung Europas durch den Ukraine-Krieg wird zur
Herausforderung für ihre „heilige Kuh“: die Neutralität. Sie wurde der
Eidgenossenschaft auf dem Wiener Kongress 1815 von den europäischen Mächten
mehr oder weniger aufgezwungen, ist ihr nun aber lieb und teuer.
In Umfragen kommt sie bei den Schweizerinnen und Schweizern
regelmäßig auf eine Zustimmung von 90 Prozent und mehr. Das sind fast
nordkoreanische Dimensionen. Man kann es verstehen. Die Neutralität hat dem
Land – vermeintlich – gute Dienste erwiesen. Seit mehr als 200 Jahren wurde die
Schweiz nicht mehr von fremden Truppen angegriffen. Sie wurde von den Kriegen
und Katastrophen verschont, die Europa in der ersten Hälfte des 20.
Jahrhunderts verwüsteten, obwohl sie mittendrin liegt. Die Überzeugung, man
habe dies einzig der Neutralität zu verdanken, hält sich in Teilen der
Bevölkerung hartnäckig. Die Realität war weniger erbaulich, denn die Schweiz
hatte mit Nazi-Deutschland fleißig Geschäfte gemacht, um einen möglichen
Einmarsch abzuwenden. In den Augen der Alliierten aber war sie damit eine
schäbige Kriegsprofiteurin. Und im Kalten Krieg war die Schweiz offiziell
neutral, während sie in Wirklichkeit im westlichen Lager verankert war.
Solche Widersprüche störten das Selbstverständnis der
Schweiz. Sie wurden mit Vorliebe verdrängt und schöngeredet. Die Schweiz hatte
eine eigentliche Scheuklappen-Neutralität entwickelt. Lange konnte sie sich
damit durchmogeln, doch in der komplexen Welt des 21. Jahrhunderts funktioniert
diese Art von außenpolitischem Tunnelblick immer weniger. So glaubte die
offizielle Schweiz viel zu lange, sie könne ausländischen Steuerflüchtlingen
helfen, unter dem Deckmantel des Bankgeheimnisses Geld zu verstecken. Sie
glaubte es noch, als der Druck vor allem aus Deutschland und den USA immer
größer wurde. Am Ende musste sie kapitulieren und den Informationsaustausch in
Steuerfragen übernehmen.
Und nun der russische Krieg gegen die Ukraine. Die
Warnsignale waren nicht zu übersehen, dennoch wirkte der Bundesrat, die
siebenköpfige Schweizer Vierparteien-Regierung, vollkommen überrumpelt, als
Wladimir Putin am 24. Februar 2022 den Angriffsbefehl gab. Erst recht
unerwartet kam für ihn die Entschlossenheit des Westens, Russland
wirtschaftlich zu sanktionieren. Unmittelbar nach Kriegsbeginn versuchte der
Bundesrat, sich in einem hochnotpeinlichen Zickzack-Kurs den von der
Europäischen Union verhängten Sanktionen zu entziehen. Als ihm die Dynamik und
der Druck bewusst wurden, kippte er um und übernahm sämtliche Sanktionspakete,
zum Ärger der rechtsnationalen Schweizerischen Volkspartei (SVP).
Die Probleme waren damit nicht aus der Welt. Im Gegenteil.
Nun ging es um Rüstungsgüter. Deutschland wollte in der Schweiz gekaufte
Munition für den Gepard-Panzer an die Ukraine weitergeben. Die Schweiz
untersagte es. Dänemark erging es genauso bei der geplanten Lieferung von
Radschützenpanzern und Spanien bei der Lieferung von Flugabwehrgeschützen. Zwei
Gründe wurden für die verweigerte Exporterlaubnis angeführt: Das Völkerrecht,
das neutralen Staaten die Lieferung von Waffen in Kriegsgebiete untersagt. Und
das Schweizer Kriegsmaterialgesetz, das vom Parlament in Bern erst kürzlich
verschärft wurde und Waffenlieferungen in Konfliktzonen praktisch vollständig
verbietet.
Zuvor hatte der Bundesrat unter dem Einfluss der
Rüstungslobby versucht, die bisherigen Regeln zu lockern, und einen Shitstorm
geerntet. Nun aber droht die Verschärfung zum Eigentor zu werden und die
Rüstungsindustrie dauerhaft zu schädigen. Denn Deutschland und andere haben
realisiert, dass im Kriegsfall kein Verlass auf die Schweiz wäre.
Die Verweigerung von Waffen für die Ukraine wird für die
Schweiz ebenfalls zur Hypothek. Auf dem World Econonic Forum in Davos hielt
sich das Verständnis in engen Grenzen. Ausländische Gäste wie der deutsche
Vizekanzler Robert Habeck, NATO-Generalsekretär Jens Stoltenberg oder der
Kiewer Bürgermeister Vitali Klitschko äußerten ihr Missfallen. Jetzt gibt es
Bestrebungen von Parlamentariern, das Kriegsmaterialgesetz wieder zu lockern,
sodass demokratisch regierte Länder in der Schweiz beschaffte Waffen
weitergeben könnten, ohne erst einen Bittbrief nach Bern schicken zu müssen.
Das Problem des Neutralitätsrechts lässt sich damit umgehen, aber aus der Welt
geschafft ist es nicht.
Die Schweiz stößt an die Grenzen ihrer
Realitätsverweigerung. In gewisser Weise betrifft dies auch eine weitere
Großbaustelle, das Verhältnis zur Europäischen Union. Die Schweiz möchte nicht
beitreten, wegen der Neutralität und mehr noch wegen der direkten Demokratie.
Aber von den Vorzügen des gemeinsamen Marktes will sie dennoch profitieren. Sie
hat deshalb verschiedene bilaterale Verträge abgeschlossen – Kritiker sprechen
von Rosinenpickerei. Weil die Verträge statisch sind und das EU-Recht sich
ständig weiterentwickelt, will Brüssel sie in einem institutionellen Rahmen
„dynamisieren“. Einen entsprechenden Vertragsentwurf hatte der Bundesrat jedoch
vor eineinhalb Jahren zurückgewiesen. Ein Neustart erweist sich als schwierig.
Dabei wäre das Schweizer Wohlstandsmodell mehr denn je auf gute wirtschaftliche
Beziehungen zur EU angewiesen, durch den Ukraine-Krieg wie auch den Trend zur
Deglobalisierung. Mit dieser Erkenntnis tut sich die Schweiz jedoch genauso
schwer wie mit dem Abschied von ihrer Scheuklappen-Neutralität.
Der Druck aber dürfte bald wieder zunehmen. Es geht um 7,5
Milliarden Franken von russischen Oligarchen, die von der Schweiz „eingefroren“
wurden. Im Raum stehen Forderungen, diese Gelder für den Wiederaufbau der
Ukraine zu konfiszieren. Die Schweiz wehrt sich mit Verweis auf den
Rechtsstaat, doch es ist fraglich, ob sie damit durchkommt. Anscheinend
versteht die Schweiz nur auf die harte Tour, dass sie nicht länger eine
isolierte „Insel der Glückseligen“ sein kann.
Einen ersten Schritt hat die Regierung immerhin unternommen.
Seit Anfang des Jahres ist die Schweiz erstmals im Sicherheitsrat der Vereinten
Nationen vertreten, obwohl die SVP dies als flagranten Neutralitätsbruch
gegeißelt hatte.
Und auch in der Bevölkerung scheint die Zeitenwende
anzukommen. Gemäß einer nach Beginn des Ukraine-Kriegs von der Militärakademie
der Eidgenössisch-Technischen Hochschule in Zürich durchgeführten Erhebung sind
nur noch 58 Prozent der Befragten überzeugt, dass die Neutralität die Schweiz
vor internationalen Konflikten schützt. Zunehmend als Hindernis für die
Neutralität wird auch die internationale Verflechtung der Schweiz eingestuft. Sie
gehört zu den Profiteuren der wirtschaftlichen Globalisierung. Auch deshalb
fällt es der Politik schwer, sich von der Scheuklappen-Neutralität zu
verabschieden. Aber ein Umdenken ist unvermeidlich. Es ist Zeit, dass die
Schweiz dies anerkennt. IPG 24
Historikerin. Kinder aus Migrantenfamilien in NS-Gedenken einbeziehen
Die Vermittlung historischen Wissens ist nach Überzeugung
der Historikerin Christina Morina hervorragendes geeignet, um Integration zu
fördern. Zugleich warnt sie davor, historische Gedenken für aktuelle politische
Ziele zu vereinnahmen. Von Andreas Duderstedt
Die Bielefelder Historikerin Christina Morina hält es für
wichtig, Kindern und Jugendlichen aus zugewanderten Familien gleichberechtigt
historisches Wissen über die NS-Zeit zu vermitteln. Historisches Wissen,
Heranwachsenden nahegebracht, sei „ein hervorragendes Feld, um Integration zu
fördern“, sagte die Professorin der Universität Bielefeld dem „Evangelischen
Pressedienst“. „Auch und gerade wenn Kinder und Jugendliche durch ihre Herkunft
nicht persönlich betroffen sind, ist dies eine wichtige pädagogische Aufgabe.“
Die Neugier und Offenheit von Kindern gelte es zu fördern,
um historische, aber auch über die Geschichte hinausführende Erkenntnisse zu
vermitteln, sagte Morina. „Gerade auch in einer sich rasant verändernden
Gesellschaft sind grundsätzliche Fragen wichtig wie: Wann schlägt
Diskriminierung in Gewalt um?“
Die Historikerin unterstrich die Bedeutung von Gedenktagen
wie dem Holocaust-Gedenktag am 27. Januar oder auch dem Tag der
Reichspogromnacht am 9. November 1938: „Jedes Gedenken braucht Rituale, den
Moment des Innehaltens, das auch eine gewisse Würde hat.“ Inhaltliche Fragen
könnten sein: „Welche gesellschaftlichen Voraussetzungen haben die
nationalsozialistischen Verbrechen ermöglicht? Was hat das für Folgen – bis
heute?“ Lokalgeschichtliche Erinnerungen am jeweiligen Ort könnten dabei
hilfreich sein.
Vorsicht vor historischen Analogien
Morina warnte jedoch davor, das historische Gedenken für
aktuelle politische Ziele zu vereinnahmen, wenn es etwa darum gehe, vorrangig
für heute „als marginalisiert wahrgenommene Gruppen oder bestimmte politische
Programme“ Partei zu ergreifen. Auch historische Analogien verwischten und
vernebelten sowohl die geschichtlichen als auch die aktuellen Sachverhalte
meist, erklärte sie. Die historische Forschung könne dennoch zur
„gesellschaftlichen Selbstverständigung“ beitragen.
Die Wissenschaftlerin betonte zugleich: „Das öffentliche
Gedenken wandelt sich immer, es ist nicht statisch und nie abgeschlossen. Das
ist aus historischer Sicht völlig natürlich.“ (epd/mig 24)
Österreich will Brüssel zu härterem Kurs bei Migration drängen
Der österreichische Bundeskanzler Karl Nehammer hat die
Europäische Kommission aufgefordert, den bulgarischen Grenzschutz mit zwei
Milliarden Euro zu unterstützen. Er arbeitet an einer Allianz innerhalb der EU,
um Brüssel zu einer strengeren Linie in Sachen Zuwanderung zu drängen. Von:
Krassen Nikolov und Oliver Noyan
Bulgariens Schengen-Beitritt war, ebenso wie der Rumäniens,
im Dezember von Österreich und den Niederlanden blockiert worden, während
Kroatien der visafreien Zone beitrat. Österreich befürchtet, dass Bulgarien
nicht in der Lage wäre, seine Grenzen zur Türkei erfolgreich zu kontrollieren.
Gemeinsam mit der von ihm angestoßenen Allianz will Nehammer
die Kommission drängen, auf dem EU-Sondergipfel im Februar, der sich mit dem
Thema Migration befassen wird, den rechtlichen Rahmen für die Bereitstellung
zusätzlicher Mittel für den Grenzschutz zu schaffen.
Bislang hat sich die EU geweigert, Geld für den Bau von
Grenzzäunen zu geben, was von Österreich heftig kritisiert wird.
„Wir wollen Bulgarien dabei unterstützen, die Grenze noch
effizienter zu schützen. Noch mehr Kontrollen kann Bulgarien nicht alleine bewältigen“,
sagte Nehammer am Montag (23. Januar) bei einem Staatsbesuch in dem Land.
„Österreich wird hier gebraucht, aber auch die anderen EU-Mitgliedstaaten und
die ihnen übergeordnete Kommission“, betonte er.
Vor seiner Reise an die bulgarisch-türkische Grenze hatte
Nehammer erklärt, dass er das österreichische Veto aufrechterhalten werde, bis
sich „die Situation grundlegend ändert.“
Neben den zwei Milliarden Euro für Bulgarien forderte
Nehammer auch Änderungen im EU-Recht und eine neue „Zurückweisungsrichtlinie“,
die die Rückführung von Migrant:innen erleichtern würde.
Der bulgarische Präsident Rumen Radev äußerte zwar
Verständnis für Nehammers Position, betonte aber, dass der Ausschluss seines
Landes aus dem Schengen-Raum „nicht fair“ sei, und sagte gegenüber
österreichischen Journalist:innen auf Deutsch: „Bulgarien tut sein Bestes.“
Die EU kämpfe gegen ein „mächtiges, gut genährtes Netzwerk des
Menschenhandels mit Zentren und Zweigstellen in verschiedenen EU-Ländern“,
fügte er hinzu und verwies darauf, dass die bulgarische Polizei andere
EU-Bürger:innen verhaftet habe, die in Menschenhandel verwickelt seien.
„Ich denke, es ist nicht fair, dass wir und Rumänien
außerhalb des Schengen-Raums stehen, denn unsere Volkswirtschaften verlieren
dadurch ebenfalls, und auch Österreich verliert, weil es der größte Investor in
Bulgarien ist“, sagte Radev. Schengen verkörpere „einen der wichtigsten Werte der
Union – die Freizügigkeit.“
Radev wies auch darauf hin, dass Bulgarien den Zaun entlang
der Grenze zur Türkei aus eigener Kraft gebaut habe und besser für die
Sicherheit sorge als einige Schengen-Länder. Er betonte auch, der türkische
Präsident Erdogan habe sich verpflichtet, die Grenze auf türkischer Seite zu
bewachen.
Wenige Tage, nachdem Österreich und die Niederlande den
bulgarischen Schengen-Antrag blockiert hatten, hatte Radev erklärt, das Land
habe von seinen EU-Partnern Garantien dafür verlangt, dass es auf jeden Fall
2023 Mitglied des Schengen-Raums werde, wobei als Termin der Oktober genannt
wurde.
„Wir sind auf dem Weg zu einem genauen Termin für den
Beitritt Bulgariens zum Schengen-Raum, der unumkehrbar sein muss“, sagte er
damals in Brüssel. EA 24
„Mehr Wählen wagen?“: Neue Studie zum Wählen ab 16 Jahren erschienen
Politikwissenschaftler der Freien Universität Berlin Prof.
Dr. Thorsten Faas: „Flickenteppich aus Wahlaltersgrenzen führt zu erheblichen
Fehlwahrnehmungen bei jungen Menschen“
In vielen Kommunal- und Landtagswahlen wurde das Wahlalter
auf 16 Jahre herabgesetzt. An der Befähigung 16- und 17-Jähriger zu politischer
Teilhabe gibt es nach Ansicht des Politikwissenschaftlers der Freien
Universität Berlin, Prof. Dr. Thorsten Faas keine Zweifel. Allerdings stiften
die unterschiedlichen Wahlaltersgrenzen auf Bundes-, Landes- und Kommunalebene
Verwirrung. Das belegt eine neue Studie, für die Jugendliche unter anderem zum
„Superwahltag“ in Berlin im September 2021 befragt haben.
Elf Bundesländer haben das Wahlalter für Kommunal- oder
Landtagswahlen auf 16 Jahre gesenkt. Die Ampelkoalition möchte dies auch für
Bundestagswahlen tun – hat dafür aber keine eigene verfassungsändernde
Mehrheit. Dabei sorgen unterschiedliche Wahlaltersgrenzen in einem Bundesland
für Verwirrung unter jungen Menschen, zeigt eine neue Studie der Otto Brenner
Stiftung. Die Politikwissenschaftler Thorsten Faas, Professor an der Freien
Universität Berlin, und Arndt Leininger, Inhaber der Juniorprofessur Politische
Forschungsmethoden an der Technischen Universität Chemnitz, befragten dafür
mehr als 5.000 junge Berliner*innen zwischen 15 und 20 Jahren im Rahmen der
Wahlen vom 26. September 2021. Neben den Berliner Abgeordnetenhaus- und
Kommunalwahlen, die nun am 12. Februar wiederholt werden, fanden dort
zeitgleich die Bundestagswahl sowie ein Volksentscheid statt. Nur für die
Kommunalwahl galt das Wahlalter 16.
„Wir sehen, dass der Flickenteppich aus Wahlaltersgrenzen zu
erheblichen Fehlwahrnehmungen unter jungen Menschen geführt hat“, betont
Politikwissenschaftler Thorsten Faas. So zeigen die Befunde etwa, dass rund
zehn Prozent der 16- und 17-Jährigen nicht von ihrer Wahlberechtigung für die
Kommunalwahl wussten. Diese Problematik verschärfe sich noch unter dem
Blickwinkel demokratischer Gleichheit, ergänzt Jupp Legrand, Geschäftsführer
der Otto Brenner Stiftung: „Insbesondere Jugendliche, die sich selbst der
‚Unterschicht‘ zuordnen, verzeichnen die höchsten Fehlwahrnehmungen, blieben
also im schlimmsten Fall den Wahlen aus Unwissenheit fern.“ Die
Uneinheitlichkeit der Wahlaltersgrenzen verstärke einen allgemeinen Trend zur
sozial ungleichen Wahlbeteiligung, der „besorgniserregend“ sei, so Legrand
weiter. Eine stärkere egalisierende Mobilisierung über die Schulen sei bei abgesenktem
Wahlalter dringend notwendig.
Zugleich bestätigt die Studie Befunde, dass die Jugendlichen
hinsichtlich ihrer politischen Reife jungen Erwachsenen ebenbürtig sind.
„Unsere Befragungen zeigen, dass es weiterhin wenig Anlass gibt, an der
Befähigung 16- und 17-Jähriger zu politischer Teilhabe auch auf Bundesebene zu
zweifeln“, führt Autor Arndt Leininger aus. Im Gegenteil, sprächen die Befunde
der Studie eher dafür, das Wahlalter nicht nur und auch nicht zuerst auf
kommunaler Ebene zu senken. „Emotional abgeholt“ würden junge Menschen vor
allem mit einem abgesenkten Wahlalter auf Bundesebene, heißt es dazu in der
Studie. Hier sei die Freude über die Wahlberechtigung bei 18-Jährigen, aber
auch der Ärger über eine verweigerte Wahlmöglichkeit bei den 15- bis
17-Jährigen mit Abstand am größten. Folgerichtig spricht sich eine Mehrheit der
Befragten für ein Wahlalter von 16 Jahren auf Bundesebene aus.
Ergänzt wurde die Untersuchung um eine erneute Befragung von
rund 2.000 17- bis 27-Jährigen Menschen in Brandenburg und Sachsen, die bereits
2019 an der durch die Otto Brenner Stiftung geförderten ‚Jugendwahlstudie 2019‘
teilgenommen hatten. Diese hatte Gemeinsamkeiten und Unterschiede zwischen
jungen Menschen in Brandenburg, mit einem Wahlalter von 16 Jahren, und Sachsen
(Wahlalter 18 Jahre) erhoben. „Die wiederholte Befragung bekräftigt die
Ergebnisse der Berliner Befragung“, so Thorsten Faas, und zeigt, „dass die
Unterstützung für das ‚Wählen mit 16‘ auf Bundesebene dort, wo junge Menschen
bereits Erfahrungen mit dem abgesenkten Wahlalter machen konnten, deutlich
größer ist.“
Sollten die Parteien der Ampelkoalition und die Union zu
keiner Einigung über die Absenkung des Wahlalters im Bund kommen, wird sich die
Vielfalt unterschiedlicher Wahlaltersregelungen weiter vergrößern. Damit bliebe
es für junge Menschen auf absehbare Zeit unnötig schwer, beim wichtigen Thema
„Wahlalter“ den Überblick zu behalten, gibt die Stiftung zu bedenken. Fub 23
Frankreich und Deutschland üben den Schulterschluss
Frankreich und Deutschland haben am Sonntag bei gemeinsamen
Regierungskonsultationen versucht, Einigkeit zu demonstrieren, nachdem der
deutsch-französische Motor in den letzten Monaten deutlich an Fahrt verloren
hat. Von: Oliver Noyan und Paul Messad
Die Konsultationen fanden zu Ehren des 60. Jahrestags des
Élysée-Vertrags statt, der den Beginn der deutsch-französischen Freundschaft
markierte und den Grundstein für die europäische Integration legte. Sie wurde
durch den am 22. Januar 2019 unterzeichneten Aachener Vertrag über Integration
und Zusammenarbeit erweitert.
„Der deutsch-französische Motor ist eine Kompromissmaschine,
gut geölt, aber zuweilen eben auch laut und gezeichnet von harter Arbeit“,
sagte Bundeskanzler Olaf Scholz in seiner Rede anlässlich der Feierlichkeiten
zum Élysée-Vertrag.
„Sein Antrieb bezieht er nicht aus süßem Schmus und leerer
Symbolik, sondern aus unserem festen Willen, Kontroversen und
Interessenunterschiede immer wieder in gleichgerichtetes Handeln umzuwandeln“,
sagte er.
Auch der französische Präsident Emmanuel Macron betonte die
Wichtigkeit der engen Zusammenarbeit.
„Unser Ziel ist dasselbe – ein souveräneres, solidarischeres
Europa, das sein Schicksal selbst in der Hand hat“, so Macron.
Ursprünglich waren bereits für letzten Oktober
Regierungskonsultationen zwischen den beiden Seiten angesetzt. Aufgrund von
Meinungsverschiedenheiten würden diese allerdings kurzfristig verschoben.
Damals hatte Deutschlands
200-Milliarden-Energie-Entlastungspaket in Frankreich heftige Reaktionen
ausgelöst, da man befürchtete, es könnte den Binnenmarkt untergraben und
deutsche Firmen gegenüber französischen besser stellen.
Derzeit ist es allerdings nicht Deutschland, sondern die
USA, die durch ihre Subventionspolitik Probleme bereiten.
So sieht der „Inflation Reduction Act“ (IRA) der USA,
Ausgaben und Steuererleichterungen in Höhe von rund 500 Milliarden Dollar vor,
von denen US-Unternehmen in den nächsten zehn Jahren profitieren sollen. Sowohl
Frankreich als auch Deutschland betonten daher die Notwendigkeit eines
stärkeren gemeinsamen Vorgehens der EU.
„Wir wollen gemeinsam drei Ziele verfolgen: technologische
Souveränität, Industrialisierung unseres Kontinents und Dekarbonisierung“,
sagte Macron.
EU-Kommissionspräsidentin Ursula von der Leyen, hatte
vorgeschlagen, dem IRA entgegenzuwirken, indem den Regierungen erlaubt wird,
ihre grünen Industrien stärker zu subventionieren, und indem ein gemeinsamer
europäischer Fonds eingerichtet wird.
„Wir sind voll und ganz einverstanden mit den Äußerungen von
Ursula von der Leyen, die sie vor einigen Tagen gemacht hat“, sagte Macron und
fügte hinzu, dass die vorgeschlagene „europäische Regelung für die grüne Industrie“
dringend notwendig sei.
Scholz stimmte dem zu: „Es ist notwendig, dass wir uns mit
dem Inflation Reduction Act befassen und eine europäische Antwort darauf
formulieren“, sagte er. Das Thema soll beim Europäischen Rat im Februar weiter
diskutiert werden.
Gleichzeitig einigten sich die beiden Staats- und
Regierungschefs auf ein „gemeinsames Konzept“ für die Herstellung von
dekarbonisiertem Wasserstoff.
„Sowohl erneuerbarer als auch kohlenstoffarmer Wasserstoff
können bei den europäischen Dekarbonisierungszielen berücksichtigt werden,
wobei ihre Unterschiede anerkannt werden und das Gesamtziel für erneuerbare
Energien gewahrt bleibt“, heißt es in der Vereinbarung.
„Kohlenstoffarm“ beinhaltet dabei die Produktion von
Wasserstoff mittels Atomstrom, auf die Frankreich gepocht hatte.
Diese neue Wasserstoffkooperation umfasst den Ausbau der
H2Med-Pipeline, die Deutschland und Spanien über Frankreich verbindet und das
MidCat-Pipeline-Projekt ersetzt, das nach Macrons anhaltendem Widerstand zum
Stillstand kam.
Mit dem H2Med-Pipeline-Projekt ist es nun „viel einfacher,
durch das Mittelmeer zu fahren und von Hafen zu Hafen zu gelangen“, sagte
Macron.
„Es ist ein hervorragendes Projekt für die Zukunft“, fügte
Scholz hinzu. EA 23
Ämter überlastet. Mehr als 100.000 Antragsteller warten auf Einbürgerung
Von der Antragsstellung bis zur Einbürgerung vergehen in
Deutschland bis zu drei Jahre. Das geht aus einer Umfrage hervor. Danach warten
mehr als 100.000 Ausländer auf den deutschen Pass. Die Verfahren sind komplex,
die Ämter sind überlastet.
In Deutschland warten mehr als Hunderttausend Ausländer nach
einem Bericht der „Welt am Sonntag“ zum Teil seit Jahren auf eine Einbürgerung.
Die Behörden kämen der Bearbeitung der Anträge vielerorts nicht hinterher, wie
eine Umfrage der Zeitung bei den 25 einwohnerstärksten Städten ergeben habe.
In Berlin seien rund 26.000 Anträge anhängig, davon 10.000
aus dem Jahr 2021. In Hamburg seien 18.000 Gesuche zur Einbürgerung in
Bearbeitung, in München etwa 10.000. In allen anderen angefragten Großstädten
stapelten sich jeweils Anträge in vierstelliger Höhe, heißt es in dem Bericht.
Selbst wenn das Verfahren in die Wege geleitet ist, dauere es in vielen großen
Kommunen zwölf bis 18 Monate, zum Teil aber auch bis zu drei Jahren, bis der
deutsche Pass ausgestellt sei.
Verfahren komplexer geworden
Gründe für die Wartezeit gebe es mehrere: Zum einen sei in
den vergangenen Jahren die Zahl derer, die eine Einbürgerung wünschen,
angestiegen. Zum anderen fehle Personal, um dem gerecht zu werden. Gleichzeitig
hätten die gesetzlichen Regelungen zugenommen, die Verfahren seien komplexer
geworden.
Für die Wartenden seien die Verfahren „sehr ermüdend und
unüberschaubar“ geworden, kritisierte der Vorsitzende des Bundeszuwanderungs-
und Integrationsrat, Memet Kilic, in der Zeitung. Jeder Tag des Wartens senke
die Motivation zur Einbürgerung und verwehre Migranten ihnen zustehende
Teilhaberechte.
Experten rechnen mit weiterem Andrang
Aufgrund der jüngsten Einbürgerungserleichterungen rechnen
Experten mit einem weiteren Andrang auf die Behörden. Danach ist die
Einbürgerung unter Hinnahme der Mehrstaatigkeit generell erlaubt und schon nach
fünf statt wie bisher nach sieben Jahren Aufenthalt in Deutschland möglich. Wer
besondere Integrationsleistungen – herausragende Leistungen in der Schule,
ehrenamtliches Engagement oder besonders gute Sprachkenntnisse – mitbringt,
soll schon nach drei Jahren Aufenthalt eingebürgert werden.
Außerdem soll für Ausländer, die mindestens 67 Jahre alt
sind, der Einbürgerungstest wegfallen. Damit will die Bundesregierung die
Lebensleistung der sogenannten Gastarbeiter-Generation würdigen. (epd/mig 23)
Deutschland hat einen neuen Verteidigungsminister. Er soll
die Bundeswehr so stark machen, dass Russland nicht auf die Idee kommt,
Deutschland als zahmen Tiger zu sehen. Reicht das und was lehren die Kriege der
Vergangenheit? von Eckhard Bieger
Es reicht nicht, auf Waffen zu setzen. Solange Atombomben im
Spiel sind, kann kein Militärbündnis die Sicherheit bieten, die Regierungen
versprechen müssen, aber wie viele andere Versprechen nicht halten können. Ohne
Atombomben ist man in dem jetzigen Zustand der Menschheit noch mehr gefährdet.
Die Ukraine hat wie Weißrussland und Kasachstan ihre Atombomben an Russland
abgegeben. Russland hat sich 1994 mit den USA und England verpflichtet, die
Grenzen des Landes zu garantieren. Es gibt offenbar keine Instanz, die Russland
zur Einhaltung dieses Vertrages bewegen kann, so wie innerhalb der Staaten die
Gerichte das können, wenn nicht ein autoritäres Regime oder Korruption die
Gerichtsbarkeit lahmlegt. Ist der Frieden dann vom Besitz von Atombomben
abhängig? Die Ukraine wäre von Russland nicht so leicht angegriffen worden,
wenn sie ihre Atomwaffen nicht in die Arsenale ihres jetzigen Gegners
abgeliefert hätte.
Krieg ist kein lohnendes Unternehmen
Man könnte auf die Vernunft setzen. Die meisten Kriege,
selbst wenn sie gewonnen werden, bringen dem Angreifer nicht den gewünschten
Erfolg. Dafür gibt es ein Beispiel aus der Geschichte, das ähnliche
Konstellationen wie der Ukrainekrieg aufwies. Ein Staat hat sich die meisten
anderen Staaten zu Feinden gemacht. Der damalige Putin hieß Friedrich. Er hatte
Schlesien zu Preußen schlagen können, als die junge Maria Theresia ihrem Vater
nachfolgte und auch von Bayern bedrängt wurde. Das war 1740. 1742 kam es zum
Friedensschluss zwischen Österreich und Preußen. Die europäischen Mächte ließen
das durchgehen, jedoch nicht mehr, als Friedrich 16 Jahre später Sachsen zu
annektieren suchte. Er hatte nur England an seiner Seite, damals von dem
Gewicht, das China heute hat. Sieben Jahre dauerte dieser Krieg, allein für
Preußen starben um die 400.000 Menschen, die Mehrzahl von ihnen waren
Zivilisten. Am Ende hatte sich auf der Landkarte nichts verändert. Obwohl er
keinen Quadratmeter hinzugewonnen hatte, wurde Friedrich zum Großen erklärt und
Deutschland traute sich noch viele Kriege zu. Der Zweite Weltkrieg, der das Germanenturm
bis zum Ural ausdehnen sollte, endete mit erheblichen Gebietsverlusten für
Deutschland. Wie die Russen heute hielten sich die Deutschen für überlegen, die
Russen moralisch, die Deutschen damals biologisch. Die Olympischen Spiele 1936
schien das erwiesen zu haben. Wegen der Dekadenz des Westens, so die
Überzeugung der Mehrheit der Russen, werden sie den Krieg gewinnen. Wie die
Deutschen nach Stalingrad scheinen sie ihr Überlegenheitsgefühl nicht
aufzugeben.
Es geht letztlich um die Russen
Nicht die militärische Stärke, sondern die geistige
Einstellung der Russen entscheidet am Ende. Die Aufrüstung der Bundeswehr
bringt die Russen kaum dazu umzudenken. Sie können sich, wie immer wieder
erwartet wird, nicht von Putin distanzieren. Das Ganze hat auch einen
kirchlichen Hintergrund. Die moralische Überlegenheit, wird vom Moskauer
Patriarchen vertreten. Auch grenzt sich die Orthodoxie vom lateinischen
Christentum entschieden ab. Dialog genügt nicht. Ob Kirchen, Politik, Bildung,
es braucht eine gemeinsame Strategie. Dazu einige Punkte:
Wenn Putin wie Friedrich zum Großen erklärt wird, obwohl er
die halbe Welt gegen sich in Stellung gebracht hat, dann wird Russland weiter
Krieg führen. Wenn Russland sich selbst überlassen bleibt, wird es den Westen
weiter ablehnen. Der Westen sollte es wie die Alliierten nach dem Zweiten
Weltkrieg machen, zeigen, wie man in den USA und England lebt, Filme und Musik
nach Russland schicken, so wie Hollywood und der US-Armeesender in den
Nachkriegsjahren. Wir haben als Schüler AFN und nicht die deutschen Wellen
eingeschaltet. Man gewinnt die Russen nicht für eine andere Sicht des Westens,
wenn man auf die Menschen herabblickt. Sie sollten sich in Europa willkommen
fühlen. Viele sind ja schon als Flüchtlinge hier. Über sie können Kontakte
geknüpft werden. Dafür muss allerdings zuerst die Ukraine gewonnen werden.
Die Kirchen des Westens sind als erste gefragt, nicht nur in
theologischen Kommissionen mit der Russischen Orthodoxie ins Gespräch zu
kommen, sondern auch die Gemeinden in Kontakt und Austausch zu bringen. Die
Universitäten in der EU und in den USA sollten sich für russische Studenten
öffnen. Ktah.de 20
Pandemie und Inflation sind für Länder mit niedrigen
Einkommen verheerend, vielen droht die Zahlungsunfähigkeit. Nun werden alte
Fehler wiederholt. Jayati Ghosh
In den 1920er und frühen 1930er Jahren lieferte sich John
Maynard Keynes Auseinandersetzungen mit den „Austeritätsbefürwortern“ seiner
Zeit. Letztere waren der Ansicht, es brauche einen ausgeglichenen
Staatshaushalt – selbst in Zeiten der wirtschaftlichen Unsicherheit, Schwäche
und Fragilität –, um das „Vertrauen der Anleger“ wiederherzustellen und so für
Stabilität zu sorgen. Für Keynes war dies eine geradezu furchtbare Vorstellung.
In Zachary Carters herausragender
Keynes-Biografie heißt es, dessen Meinung nach wären Maßnahmenpakete mit
Kürzungen der staatlichen Ausgaben sowie Steuererhöhungen „sowohl fruchtlos als
auch katastrophal“. Im Sinne der sozialen Gerechtigkeit sei es ein Affront,
wenn Lehrpersonal oder Arbeitslose die ganze Last der Abwertung einer den Bach
heruntergehenden Währung zu tragen hätten – nur damit der Staatshaushalt
ausgeglichen bleibt. Noch schlimmer sei es, den Schuldnerländern Sparmaßnahmen
aufzuerlegen, wie es amerikanische Banken damals von mehreren europäischen
Staaten verlangten.
Keynes sorgte sich nicht nur um die mangelnde Wirksamkeit
und die negativen Verteilungseffekte der Austeritätspolitik. Er befürchtete,
dass solche Maßnahmen vor allem die arbeitende Bevölkerung entfremden könnte,
dass die Menschen das Vertrauen in ihre politischen Führungspersönlichkeiten
verlieren und damit empfänglich werden könnten für rechte Demagogie sowie für
Aufrufe zur Gewalt. Seinen Argumenten wurde kein Gehör geschenkt – der
Faschismus breitete sich in Europa aus. Die Deflation in Deutschland unter
Kanzler Heinrich Brüning führte zu einem Heer von sechs Millionen Arbeitslosen,
als Adolf Hitler Anfang 1933 die Macht übernahm.
Fast ein Jahrhundert später – und nach mehr als 100 weiteren
Staatsschuldenkrisen – scheinen die für die globale Wirtschaftspolitik
Verantwortlichen jedoch nichts gelernt zu haben. Man sagt, wer aus Fehlern
nicht lernt und auf die Geschichte nicht hört, der muss fühlen. Leider werden
die schlimmsten Auswirkungen der Entscheidungen der Mächtigen nicht von ihnen
selbst gespürt und getragen, sondern von anderen.
Sehen wir uns nur an, wie aktuell auf Staatsschuldenkrisen
in vielen Ländern mit niedrigem und mittlerem Volkseinkommen reagiert wird. Ein
wirksamer Umgang mit ihnen würde rechtzeitiges, faires und überlegtes Handeln
erfordern. Maßnahmen müssten so gestaltet sein, dass sie den Volkswirtschaften
helfen, aus den Schulden herauszuwachsen, anstatt mit brutalen wirtschafts- und
finanzpolitischen Mitteln Rückzahlungen zu erzwingen. Verzögerungen und Warten
vergrößern das Problem nur noch weiter und verschlimmern damit das menschliche
Leid in diesen Ländern.
Wenn man Staaten, die bereits unter einem Wirtschaftsabschwung
und sinkender Beschäftigung leiden, Sparmaßnahmen und einen „ausgeglichenen
Haushalt“ aufzwingt, verschlimmert man ihren wirtschaftlichen Niedergang nur
noch und setzt die ohnehin schon darbenden Menschen noch stärker unter Druck.
Wie Keynes für das Europa der 1930er Jahre vorhergesehen hatte, können die
daraus resultierende Ungerechtigkeit und die Unzufriedenheit der Massen äußerst
unangenehme, ja sogar tödliche politische Folgen haben.
Nach dem Zweiten Weltkrieg wurden solche potenziellen
Auswirkungen von der internationalen Gemeinschaft mit Blick auf den massiven
Staatsschuldenüberhang Westdeutschlands erkannt (der Sieg über den Faschismus
hatte auch in finanzieller Sicht viel gekostet). Die wichtigsten Gläubiger
Deutschlands schlossen sich 1951 zusammen, um ein Schuldenerlass-Paket zu
schnüren. Dieses Paket hätte als Vorlage für spätere Schuldenerlassprogramme
dienen können und sollen. Es beinhaltete den vollständigen Erlass von etwa der
Hälfte der Schulden, während die Rückzahlungen für den verbleibenden Teil auf
drei Prozent der jährlichen deutschen Exporteinnahmen begrenzt wurden.
Vergleichen wir dies mit der Vorgehensweise bei Ländern, die
heute mit einer explodierenden Schuldenlast zu kämpfen haben. Für viele von
ihnen ist die Rückzahlung schwierig (wenn nicht gar unmöglich), da sich viele
Einflüsse ihrer Kontrolle entziehen: Sei es die Pandemie und ihre Auswirkungen
auf die Im- und Exporte, die Preissteigerungen auf den globalen Lebensmittel-
und Kraftstoffmärkten seit dem Ausbruch des Krieges in der Ukraine oder die
höheren Zinssätze in den Vereinigten Staaten und der Europäischen Union, die
dazu geführt haben, dass Finanzmittel zurück in diese Länder fließen.
Im vergangenen Jahrzehnt wurden die meisten Länder mit
niedrigem und mittlerem Volkseinkommen dazu angehalten, mehr Kredite
aufzunehmen. Dies geschah vor allem über Anleihemärkte, die angesichts der
anhaltend niedrigen Zinssätze und einer globalen Liquiditätsschwemme plötzlich
an riskanteren Schulden interessiert waren. Dies wurde vom Internationalen
Währungsfonds (IWF) wohlwollend zur Kenntnis genommen und vom
Weltwirtschaftsforum bejubelt (das auf seiner gerade stattfindenden
Jahresversammlung die aktuelle Situation recht nüchtern als einen „kritischen
Scheidepunkt diverser Krisen“ bezeichnet). Für viele Staaten war die
Entwicklung hingegen von Anfang an unhaltbar, und die jüngsten Ereignisse haben
dazu geführt, dass selbst Staaten, die als „verantwortungsbewusster“ gelten,
mit Rückzahlungsproblemen zu kämpfen haben.
Tatsächlich ist seit mindestens drei Jahren offensichtlich,
dass mehrere Länder angesichts der bestehenden Verschuldung vor der
Zahlungsunfähigkeit stehen. Dennoch hat die internationale Gemeinschaft,
insbesondere die G20, bisher inakzeptabel langsam reagiert.
Die Debt Service Suspension Initiative (Initiative zur
Aussetzung des Schuldendienstes) vom Mai 2020 war ein Tropfen auf den heißen
Stein und verschob die unvermeidliche Abrechnung nur nach hinten. Im
darauffolgenden November wurde das Folge-Dokument Common Framework for Debt
Treatments auf den Weg gebracht. In diesem Rahmen sollten sowohl die
öffentlichen als auch die privaten Gläubiger in die Umstrukturierung der
Schulden einbezogen werden, wobei die Zahlungsfähigkeit der Schuldner stets
berücksichtigt und ihnen die Möglichkeit gegeben werden sollte, wichtige
Ausgaben weiterhin zu tätigen. Bisher hat jedoch kein einziges Land davon
profitiert, obwohl mehrere Staaten bereits zahlungsunfähig sind,
beziehungsweise kurz davor stehen, es zu werden.
Der gemeinsame Rahmen ist auf die besonders
einkommensschwachen Länder limitiert, was eine wesentliche Einschränkung
darstellt. Schlimmer noch, der IWF verlangt von zu vielen Schuldnerländern
weiterhin, dass sie so schnell wie möglich ihre Haushalte ausgleichen oder sogar
Überschüsse erzielen. Im Gegenzug bietet der Währungsfonds winzige Dosen
sofortiger Zahlungsbilanzhilfe, wie beispielsweise die Verhandlungen mit Sri
Lanka zeigen. Dieser Ansatz muss endlich geändert werden, heißt es unter
anderem in einer gemeinsamen Erklärung, die ich zusammen mit über 180
Wirtschaftsexperten unterzeichnet habe.
Außerdem ist es nicht damit getan, lediglich alle
offiziellen/staatlichen Gläubiger an einen Tisch zu bringen – wie es bereits in
Sambia und im Tschad geschehen ist. Vielmehr geht es auch um die privaten
Gläubiger. Diese haben sich bisher grundsätzlich geweigert, sich an einer
Lösung zu beteiligen, und verlangen weiterhin die volle Rückzahlung der
Schulden, obwohl sie von den höheren Renditen aufgrund der höheren
Risikoprämien, die solche Schulden mit sich bringen, erheblich profitieren.
Selbst bei den staatlichen Gläubigern ist die hartnäckige Weigerung der
internationalen Finanzinstitutionen, die eigenen Schulden zu reduzieren, immer
schwerer zu rechtfertigen.
Eine sinnvolle Schuldenregulierung erfordert die aktive
Beteiligung der privaten Gläubiger. Wenn dabei jedoch auf Freiwilligkeit
gesetzt wird, wird dies schlichtweg nicht geschehen. Ein Teil der Maßnahmen
muss in die Rechts- und Regulierungssysteme für New York und London verlagert
werden, wo der größte Teil der internationalen Schuldverträge abgeschlossen
wird. Gesetzliche Änderungen in den Rechtssystemen der USA und des Vereinigten
Königreichs könnten staatliche Schuldner zu einer ähnlichen Vorgehensweise wie
private Schuldner berechtigen, einschließlich der Möglichkeit eines
Schuldenerlasses.
Ohne eine rasche Lösung, die alle Parteien einbezieht,
werden immer mehr Schuldnerländer nicht nur mit mangelnder Liquidität, sondern
auch mit drohender Zahlungsunfähigkeit zu kämpfen haben. Das wird Ungleichheit,
Instabilität und Konflikte innerhalb sowie zwischen den Staaten verschärfen.
Wir sollten endlich aus der Geschichte lernen. PS/IPG 20
Italien. Asylsuchende auf Fähren eingesperrt und angekettet
Erstmals ist es Journalisten gelungen, die Existenz von
Gefängnissen auf Passagierschiffen nachzuweisen. Geflüchtete würden darin
festgesetzt und abgeschoben. Italien schweigt zu den Vorwürfen.
Menschenrechtler: Festung Europa zeigt hier wieder ihr hässliches Gesicht.
Asylsuchende werden einem Medienbericht zufolge offenbar auf
Fähren im Mittelmeer gefangen gehalten, um sie von Italien aus nach
Griechenland zurückzubringen. Laut einer gemeinsamen Recherche des
ARD-Politikmagazins Monitor mit internationalen Medien hatten sie zuvor keine
Möglichkeit, einen Asylantrag zu stellen. Unter den Betroffenen waren demnach
auch Kinder.
Im Rahmen der Recherche-Kooperation sei es erstmals
gelungen, die Existenz provisorischer Gefängnisse auf den Passagierschiffen
nachzuweisen, hieß es. Darunter sei auch ein Ort, an dem mindestens ein
Flüchtling mit Handschellen festgekettet worden sei. Auch ein enger
Metallschaft, ausgelegt mit Kartons, sei gefunden worden. Auch ein nicht mehr
funktionsfähiger Toilettenraum, in den Menschen laut eigenen Angaben eingesperrt
wurden, konnte von Journalisten der Recherchegruppe auf einer Fähre
identifiziert werden.
Laut Geflüchteten und Hilfsorganisationen würden
Schutzsuchende teilweise ohne ausreichende Verpflegung oder Zugang zur Toilette
auf dem Weg zurück nach Griechenland festgehalten. Eine Überfahrt könne mehr
als 30 Stunden dauern. Die Recherchen zeigten eine „ganz klar menschenunwürdige
Unterbringung“ der Flüchtlinge, erklärt Dana Schmalz vom Max-Planck-Institut
für ausländisches öffentliches Recht und Völkerrecht. Dies verstoße sowohl
gegen EU-Recht als auch gegen Vorgaben der Europäischen
Menschenrechtskonvention.
Fährmitarbeiter bestätigen Existenz der Räume
Das namentlich nicht genannte Fährunternehmen bestreite auf
Anfrage jegliche Vorwürfe, hieß es. Fährmitarbeiter hätten jedoch die Existenz
solcher Räume bestätigt. Das italienische Innenministerium habe auf Anfrage
keine Stellung bezogen.
Der Europäische Gerichtshof für Menschenrechte (EGMR) hatte
Italien bereits 2014 verurteilt, weil Italien rechtswidrig Asylsuchende, die
als blinde Passagiere auf Schiffen ins Land gekommen waren, zurück nach
Griechenland geschickt hatte, ohne dass sie diese die Möglichkeit hatten, in
Italien einen Asylantrag zu stellen.
HRW: Festung Europa zeigt hier wieder ihr hässliches Gesicht
Dass diese illegalen Praktiken andauern, zeige, dass die EU
hier billigend den Verstoß gegen europäische Flüchtlingskonventionen in Kauf
nehme, meint Wenzel Michalski von Human Rights Watch. „Man möchte möglichst
viele Migrantinnen und Migranten fernhalten. Die Festung Europa, von der so oft
gesprochen wird, zeigt hier wieder ihr hässliches Gesicht“, so Michalski.
Die EU-Kommission betont auf Anfrage, ein effizienter
Grenzschutz müsse fest mit der Achtung der Menschenwürde und dem Grundsatz der
Nichtzurückweisung verbunden sein. Man erwarte von betroffenen Ländern, alle
Vorwürfe zu untersuchen und etwaiges Fehlverhalten zu verfolgen. (epd/mig 20)
Immer weniger Deutsche fürchten Krieg und Corona, Sorge wegen Einwanderung steigt
Hamburg – Die Sorge wegen Einwanderung steigt in Deutschland
den dritten Monat in Folge an. Laut der aktuellen „What Worries the
World“-Studie des Markt- und Meinungsforschungsinstituts Ipsos gibt inzwischen
mehr als ein Viertel der Bundesbürger (27%) an, dass Einwanderung für sie zu
den drei größten persönlichen Sorgen zählt. Ein höherer Wert wurde zuletzt im
Oktober 2020 gemessen. Gleichzeitig fallen die Angst vor einem militärischen Konflikt
und dem Coronavirus im Sorgenranking auf den jeweils niedrigsten Stand seit
Beginn des Ukraine-Krieges bzw. dem Ausbruch der COVID-19-Pandemie. Die mit
Abstand größte Sorge der Deutschen bleibt trotz eines leichten Rückgangs in den
letzten Monaten weiterhin die Inflation.
Jeder Zweite sorgt sich wegen steigenden Preisen
Fast die Hälfte aller Deutschen (46%) empfindet nach wie vor
die Inflation als besonders besorgniserregend im eigenen Land, auch wenn die
Sorgen wegen Preissteigerungen zuletzt um einen Prozentpunkt gesunken sind. Die
Angst vor Armut und sozialer Ungleichheit (35% ) und dem Klimawandel (29%)
komplettieren die Top3 der größten Sorgen der Menschen. Im internationalen
Vergleich steht Deutschland in Sachen Klimasorgen damit gleichauf mit Australien
an der Spitze und deutlich über dem globalen Durchschnitt von 16 Prozent. Auf
Platz vier im deutschen Sorgenranking folgt das Thema Einwanderung mit einem
Anstieg zum Vormonat um drei Prozentpunkte auf 27 Prozent. Seit September 2022
hat diese Besorgnis sogar um 11 Punkte zugenommen.
Kriegs- und Coronasorgen auf neuem Tiefststand
Die Corona-Ängste der Deutschen fallen auf den tiefsten
Stand seit dem Ausbruch der Pandemie im Frühjahr 2020. Nur jeder Zehnte (10%)
zählt das Coronavirus momentan noch zu den größten persönlichen Sorgen, elf
Prozentpunkte weniger als im Vormonat. Vor genau einem Jahr gaben sogar noch 51
Prozent der Bundesbürger an, sich stark wegen COVID-19 zu sorgen. Doch nicht
nur Corona besorgt die Deutschen immer weniger. Fast ein Jahr nach der
russischen Invasion in der Ukraine zeichnet sich allmählich auch eine gewisse
Kriegsmüdigkeit in der Bevölkerung ab. Nur noch jeder Fünfte (21%) zählt die
Angst vor militärischen Konflikten aktuell noch zu den wichtigsten Sorgenthemen
in Deutschland – ganze acht Prozentpunkte weniger als im Vormonat und der
niedrigste Stand seit Kriegsbeginn.
Nur wenige Deutsche fürchten Arbeitsplatzverlust
Die andauernden Inflationssorgen scheinen zumindest in
Deutschland keine Auswirkungen auf die wahrgenommene Jobsicherheit zu haben.
Mit einem Anteil von nur 6 Prozent, die die Arbeitslosigkeit zu den aktuell
größten persönlichen Sorgen zählen, steht die Bundesrepublik am unteren Ende im
weltweiten Vergleich. Die Menschen in Südafrika (64%) und Indonesien (44%),
aber auch in Spanien (41%) fürchten deutlich häufiger einen Jobverlust. Ipsos
20
Bevölkerung in Deutschland 2022 auf 84,3 Millionen gewachsen
Deutschland verzeichnete im vergangenen Jahr eine
Nettoeinwanderung auf Rekordniveau. Die Bevölkerungszahl stieg auf 84,3
Millionen. Dominiert wurde die Einwanderung von Flucht vor Krieg und Gewalt –
aus der Ukraine, aus Syrien oder Afghanistan.
Deutschland hatte Ende 2022 nach einer ersten Schätzung des
Statistischen Bundesamtes (Destatis) mindestens 84,3 Millionen Einwohner und
damit so viele wie noch nie am Ende eines Jahres. Gegenüber dem Jahresende 2021
nahm die Bevölkerungszahl um 1,1 Millionen zu, wie die Behörde am Donnerstag in
Wiesbaden mitteilte.
Ursache des starken Wachstums sei eine Nettoeinwanderung auf
Rekordniveau, unter anderem durch Kriegsflüchtlinge aus der Ukraine. Wie die
Behörde bereits im November 2022 mitteilte, dominierte Flucht vor Krieg und
Gewalt das Wanderungsgeschehen mit dem Ausland. So etwa aus Syrien oder
Afghanistan. Aber auch aus den EU-Staaten Rumänien, Bulgarien und Polen sind
den Angaben zufolge Zuzüge zu verzeichnen.
Ohne Einwanderung wäre Deutschland geschrumpft
Nach der aktuellen Schätzung seien im vergangenen Jahr 1,42
bis 1,45 Millionen Menschen mehr nach Deutschland gekommen als ins Ausland
fortgezogen sind. Damit habe die Nettoeinwanderung 2022 diejenige des Vorjahres
um das Vierfache übertroffen (2021: 329.163) und sei so hoch wie noch nie seit
Beginn der Zeitreihe im Jahr 1950. Neben der starken Einwanderung der
Kriegsflüchtlinge aus der Ukraine habe auch die Einwanderung von Menschen
anderer Nationalitäten deutlich zugenommen, erklärte Destatis.
In den drei Jahrzehnten seit der deutschen Vereinigung war
die Bevölkerung Deutschlands nach Angaben des Statistischen Bundesamtes
überwiegend gewachsen. Ausnahmen hätten lediglich die Jahre 1998 sowie 2003 bis
2010 gebildet. Das Bevölkerungswachstum habe sich stets ausschließlich dadurch
ergeben, dass mehr Menschen eingewandert als ausgewandert waren. „Ohne
Nettoeinwanderung wäre die Bevölkerung bereits seit 1972 geschrumpft, da
seither jedes Jahr mehr Menschen starben als geboren wurden“, teilte Destatis
mit.
Niedrige Geburtenzahlen dämpfen Bevölkerungswachstum
Ein Rückgang der Geburtenzahl und mehr Sterbefälle wirkten
sich den Angaben nach auch im vergangenen Jahr dämpfend auf das
Bevölkerungswachstum aus. Die Zahl der Geburten sei 2022 ausgehend von den
bereits vorliegenden Meldungen der Standesämter um etwa sieben Prozent im
Vergleich zum Vorjahr gesunken und liege schätzungsweise zwischen 735.000 und
745.000 (2021: 795.492). Die Zahl der Gestorbenen sei dagegen um rund vier
Prozent auf etwa 1,06 Millionen gestiegen (2021: 1,02 Millionen).
Die Angaben bilden einen vorläufigen Stand der Bevölkerungsentwicklung
im Jahr 2022 ab. Die endgültigen Ergebnisse werden nach Destatis-Angaben im
Sommer 2023 veröffentlicht. (epd/mig 20)
Vatikan/Italien: „Mafia bedeutet Sklaverei“
„Mafiosi verbreiten Hass“: Das sagte der vatikanische
Kardinalstaatssekretär Pietro Parolin vor Journalisten in Rom. Der Kardinal
nahm an einer Konferenz im italienischen Senat über den seligen Rosario
Livatino teil; der junge Richter ist 1990 von der Mafia ermordet worden. Zur
jüngsten Festnahme des Mafiabosses Matteo Messina Denaro nach dreißig Jahren im
Untergrund sagte der Kardinal: „Das ist ein Erfolg des Staates“. Mario Galgano
- Vatikanstadt
Generell gelte, dass im Justizbereich immer die menschliche
Person in den Mittelpunkt gestellt werden müsse; so habe es auch der selige
Rosario Livatino gehalten. Livatino sei der erste Richter gewesen, den die
Kirche zur Ehre der Altäre erhoben habe. Er stehe für eine Gerechtigkeit, die
„erlösend ist und es schafft, all jene wieder zur Legalität zu führen, die sich
in den Bereich der Kriminalität begeben haben“, urteilte Parolin.
Der Kardinalstaatssekretär äußerte sich auf Nachfrage von
Journalisten zur Verhaftung des Mafiabosses, der am Montag nach dreißigjähriger
Flucht in der sizilianischen Hauptstadt Palermo gefasst worden ist. Die
Konferenz im Palazzo Madama, an der Parolin teilnahm, war vom „Centro
Studi Rosario Livatino“ organisiert worden. An ihrem Beginn stand eine
symbolische Geste: Die Reliquie des Richters - das blutige Hemd, das er während
seiner Ermordung am 21. September 1990 trug - wurde in die Bibliothek des
Senatsgebäudes gebracht.
Sklaverei - für diejenigen, die sie leben, und für die Opfer
Weiter sagte Parolin wörtlich: „Die Kräfte von Recht und
Ordnung haben große Anstrengungen unternommen. Wir können mit dieser
Entwicklung nur zufrieden sein.“ Nach Ansicht des Kardinalstaatssekretärs ist
die Verhaftung des Bosses vor allem ein „Ankunftspunkt, der das Ende einer
Zeitgeschichte markiert, die bereits vorbei war, aber dieser Moment fehlte“.
„Wir hoffen, dass das wirklich so ist“, so seine Hoffnung, „dass wir alle
wieder in der Legalität leben werden“.
Was am Montag in Palermo geschehen sei, gebe vor allem dem
sizilianischen Volk „das Gefühl zurück, dass wir auf der Grundlage von Werten
zusammenleben müssen“, so der Kardinal weiter: „Letztendlich ist auch die
Entscheidung für die Kriminalität, die Entscheidung für die Mafia, eine
Entscheidung für die Sklaverei - sowohl für diejenigen, die sie leben, als auch
für die anderen Menschen, die Opfer sind. Wir mussten und müssen da raus.“
Rosario Livatino, ein aufrechter Christ
Über den seligen Rosario Livatino, „eine wunderbare
Persönlichkeit“, sagte der Kardinal: „Er war ein aufrechter Christ, der es
verstand, seinen Glauben in der Ausübung eines besonders heiklen Berufs wie dem
des Richters voll auszuleben, indem er seine Auslegung und Anwendung der
Gerechtigkeit mit den christlichen Prinzipien in Einklang brachte. Sein Opfer
war, auch angesichts der Verhaftung des letzten Mafiabosses vom Montag in
Palermo, nicht umsonst“, so Parolin. (vatican news 19)
Schulbarometer. Lehrkräftemangel ist dominierendes Problem
Den Schulen fehlen Lehrkräfte, gleichzeitig nehmen sie viele
neu eingewanderte Schüler auf. Außerdem kämpfen sie mit der Bürokratie, und die
Digitalisierung kommt nur schleppend voran. Das ergab eine Befragung im Auftrag
der Robert Bosch Stiftung.
Der Fachkräftemangel stellt für deutsche Schulen dem
Schulbarometer der Robert Bosch Stiftung zufolge die größte Herausforderung
dar. Fehlendes pädagogisches Personal nennen rund zwei Drittel (67 Prozent) der
Schulleitungen darin als ihr größtes Problem. In sozial benachteiligten
Gegenden seien dies sogar 80 Prozent, teilte die Stiftung am Mittwoch in Stuttgart
mit. Die Gewerkschaft Erziehung und Wissenschaft forderte mehr Ressourcen für
das Bildungssystem.
Beeinträchtigungen durch die Corona-Pandemie nannten der
repräsentativen Umfrage des forsa-Meinungsforschungsinstituts für die Robert
Bosch Stiftung zufolge nur noch neun Prozent der Schulleitungen. Die nur
langsam vorankommende Digitalisierung und unzureichende technische Ausstattung
(22 Prozent), die Bürokratie (21 Prozent) und hohe Arbeitsbelastung (20
Prozent) spielten im Vergleich zum Fachkräftemangel ebenfalls nur eine
untergeordnete Rolle.
Etwa 2,7 Prozent der Schüler sind den Angaben zufolge
Geflüchtete aus der Ukraine. Etwa genauso viele Schüler seien aus anderen
Ländern zugewandert. Rund die Hälfte der Schulen sehe keinen Spielraum mehr für
weitere Aufnahmen. Wie aus dem Schulbarometer außerdem hervorgeht, werden
Ukrainische und insbesondere neu zugewanderte Schülerinnen und Schüler aus
anderen Ländern häufiger in Schulen in sozial schwieriger Lage beschult.
Fachkräftemangel geht zu Lasten von Eingewanderten
Der Lehrkräftemangel an Schulen geht oft zu Lasten von
Schülern mit Migrationsgeschichte. „Dass alle Schüler:innen am Ende der
Grundschulzeit die Mindeststandards im Lesen, Schreiben und Rechnen erreichen,
muss nun absolute Priorität haben. Dafür muss die Förderung in der
Unterrichtssprache Deutsch für Neuzugewanderte und Schüler:innen mit
Migrationshintergrund unbedingt gewährleistet werden“, heißt es in der Studie.
Weniger Bürokratie könne die Personalnot kurzfristig
lindern, sagte Dagmar Wolf, Leiterin des Bereichs Bildung der Robert Bosch
Stiftung. Dies würde es erleichtern, Assistenzkräfte in Verwaltung und
Pädagogik sowie ausländische Lehrkräfte einzustellen. Als langfristige Lösung
reiche es nicht aus, nur die Kapazitäten von Lehramtsstudiengängen zu erhöhen.
„Der Lehrerberuf muss attraktiver werden“, sagte Wolf.
Teufelskreis aus Überlastung und Lehrkräftemangel
Anja Bensinger-Stolze, Vorstandsmitglied der Gewerkschaft Erziehung
und Wissenschaft, sprach von einem „Teufelskreis aus Überlastung durch
Lehrkräftemangel und Lehrkräftemangel durch Überlastung“. Diesem Teufelskreis
zu entkommen, werde nur gelingen, wenn die Politik bereit sei, insgesamt mehr
Ressourcen ins System zu stecken. Ein kürzlich vorgelegter 15-Punkte-Plan der
Gewerkschaft schlägt unter anderem bessere Bezahlung, mehr Möglichkeiten zum
Quereinstieg in den Lehrerberuf und bessere Ausstattung der Schulen vor.
Auch der Berufsschullehrerverband Baden-Württemberg forderte
mehr Investitionen. Zunächst müsse die Politik die Grundprobleme aller
Schularten wie Verwaltung, Informationstechnik und Nachwuchsgewinnung lösen,
sagte der Verbandsvorsitzende Thomas Speck. Dann erst könne es um Sonderwünsche
gehen wie etwa die Rückkehr zu einer neunjährigen Gymnasialzeit. (epd/mig 19)
EU-Abgeordnete warnen vor Lockerung der Subventionsregeln
Die Mitglieder des Europaparlaments befürchten einen
Wettbewerbsvorteil für große Staaten, wenn Europa seinen Regeln für nationale
Subventionen lockert. Stattdessen pochen sie auf den von Ursula von der Leyen
vorgeschlagenen Europäischen Souveränitätsfonds als Antwort auf die Politik
Chinas und der USA. Von: Jonathan Packroff
Angesichts der Sorge einer Abwanderung von Industrieunternehmen
aus Europa diskutierten die Abgeordneten des Europaparlaments am Mittwoch (18.
Januar) über die Wettbewerbsfähigkeit der europäischen Industrie und Pläne der
Kommission, Produktion in Europa stärker zu fördern.
Viele Abgeordnete warnten in der Debatte vor einer
Marktverzerrung durch gelockerte Regeln für nationale Subventionen, die nach
Ansicht der Abgeordneten vor allem größeren Mitgliedsstaaten wie Deutschland
und Frankreich zugutekommen würden.
Die europäische Antwort müsse „eine Lösung für alle“ sein,
„nicht für einige glückliche wenige“, sagte etwa die niederländische
Abgeordnete Esther de Lange, die für die Europäische Volkspartei (EVP) sprach.
Noch deutlicher wurde der polnische PiS-Abgeordnete Bogdan
Rzo?ca von der Fraktion der Konservativen und Reformer (EKR).
„Wie kann es sein, dass wir in einer Situation sind, in der
Deutschland 200 Milliarden an die deutschen Unternehmen gibt?“, fragte er
während der Plenardebatte. „100 Milliarden gehen von Frankreich an französische
Unternehmen, wohingegen andere Mitgliedsstaaten entsprechende Unterstützung
nicht erhalten“.
Deutschlands angekündigter „Doppelwumms“ hatte in Europa
viel Kritik hervorgerufen, allerdings sind die €200 Milliarden nicht allein für
Unternehmenshilfen vorgesehen, sondern enthalten auch Mittel für die Strom- und
Gaspreisbremse für private Haushalte.
Beim Weltwirtschaftsforum in Davos hatte Ursula von der
Leyen am Dienstag (17. Februar) eine vorübergehende Lockerung der
Beihilferegeln vorgeschlagen, um EU-Staaten zu erlauben, auf ausländische
Subventionen, etwa aus den USA und China, mit eigenen Programmen zu reagieren
und Unternehmen damit in Europa zu halten.
Zudem kündigte von der Leyen als „strukturelle Lösung“ ein
neues Gesetz und einen Fonds auf europäischer Ebene an, mit denen die
europäische Produktion von grünen Technologien wie Solaranlagen, Wärmepumpen
und weitere Branchen gefördert werden sollen.
Von vielen Abgeordneten wurde dieser Ansatz grundsätzlich
begrüßt.
„Wenn der Green Deal nicht genügend und qualitativ
hochwertige Arbeitsplätze in Europa schafft, wird er nicht erfolgreich sein“,
so De Lange.
Breton: Brauchen grüne Industriebasis in Europa
Die Pläne der Kommission wurden im Europaparlament von
EU-Binnenmarktkommissar Thierry Breton konkretisiert.
Bei der Digitalisierung haben man bereits das Ziel gesetzt,
„den Marktanteil der Europäischen Union bei der Herstellung der Halbleitern bis
2030 auf 20 Prozent zu erhöhen“, führte Breton aus.
Das Ziel ist Teil des sogenannten European Chips Act, der
derzeit noch im Parlament und zwischen den Mitgliedsstaaten diskutiert wird.
„Nun lassen Sie uns dasselbe für die grüne Transformation
tun“, sagte Breton den Abgeordneten.
Das Ziel des „Green Deals“ sei es, bis 2050 der erste
klimaneutrale Kontinent zu werden. Er wolle, dass dieses Ziel umgesetzt werde
„mit einer europäische Industriebasis, die stark ist“, so Breton. Dazu diene
der gestern angekündigte „Net-Zero Industry Act“, der dem Beispiel des Chips
Act folgen soll.
„In dieser neuen strukturellen Realität sollten unsere
Lösungen nicht nur den großen Ländern Europas nutzen, wir brauchen Lösungen,
die tatsächlich die Integrität des Binnenmarktes garantieren“, so Breton.
Sozialdemokrat:innen fordern neue EU-Schulden
Aus Sicht der Abgeordneten der sozialdemokratischen
S&D-Fraktion sind dabei neue Schulden auf EU-Ebene unerlässlich.
Nur die Beihilferegeln für Mitgliedsstaaten zu lockern, sei
„nicht genug“, sagte etwa die italienische Abgeordnete Patrizia Toia (S&D).
Sonst gäbe es Mitgliedsstaaten, die nicht in der Lage seien, ihren Unternehmen
und Bürger:innen zu helfen.
„Wir brauchen ein neues ‘Next Generation EU’. Alles andere
ist im Grunde nutzlos“, sagte sie.
Ähnliche Töne kamen auch vom deutschen SPD-Abgeordneten René
Repasi.
„Wir brauchen staatliches Geld, um unsere Wirtschaft in die
richtige Richtung zu steuern“, sagte er. Dies solle aber nicht national,
sondern von der EU aufgebracht werden, so Repasi.
„Setzen Sie bitte nicht den Binnenmarkt aufs Spiel“, warnte
er den EU-Kommissar.
„Nur weil einige Mitgliedsstaaten es sich leisten können,
dürfen wir die Beihilferegeln nicht so lockern, dass wir den Wettbewerb und den
Binnenmarkt in die Tonne kloppen“, so Repasi weiter. Stattdessen brauche es
„permanente, schuldenfinanzierte Investitionsfonds“ auf EU-Ebene.
Aus Sicht der liberalen Renew-Fraktion greift es zu kurz,
allein über Subventionen zu sprechen.
„Wir können uns einen nationalen Subventionswettbewerb nicht
leisten – weder außerhalb noch innerhalb Europas“, sagte die tschechische
Abgeordnete Dita Charanzová (Renew), die auch Vizepräsidentin des EU-Parlaments
ist.
„Wir wollen Produkte ‘Made in Europe’, aber wir wollen, dass
sie hier hergestellt werden, weil das wirtschaftliche Umfeld, unsere gut
ausgebildeten Arbeitskräfte und unsere Regulierungen dafür sorgen, dass die
Unternehmen hier wachsen wollen“, so Charanzová.
Man wolle verhindern, dass Unternehmen Subventionen
abgreifen und dann Europa wieder verlassen, so Charanzová weiter. EA 19
Der Aufstand bei den Republikanern geht weiter und blockiert
das Parlament. Nun droht den USA eine Schädigung ihrer Kreditwürdigkeit. Thomas
Greven
Droht den USA die Schädigung der Kreditwürdigkeit?
US-Finanzministerin Janet Yellen hat angekündigt, dass die gesetzliche
Schuldenobergrenze des Bundes schon an diesem Donnerstag erreicht wird, und
dass die Bundesregierung danach Sondermaßnahmen ergreifen muss, um ihren
Zahlungsverpflichtungen nachzukommen, beispielsweise für die staatlichen Renten
und Krankenversicherungsleistungen. Mittelfristig drohe nicht nur ein
government shutdown, also die Zwangsschließung der Bundesbehörden, sondern vor
allem eine nachhaltige und kostspielige Schädigung der Kreditwürdigkeit der
USA. Yellen forderte den neugewählten Speaker des US-Repräsentantenhauses,
Kevin McCarthy, unmissverständlich dazu auf, die Schuldenobergrenze
unverzüglich auszusetzen oder zu erweitern. Doch McCarthy hat ein Problem: Er
musste für seinen späten Erfolg im fünfzehnten Wahlgang einen hohen Preis an
besonders kompromisslose Abgeordnete seiner eigenen Fraktion bezahlen, unter
anderem in Geschäftsordnungsfragen, und befindet sich nun faktisch in deren
Geiselhaft. Ein einzelner Abgeordneter oder eine einzelne Abgeordnete kann
nämlich die Absetzung des Speakers beantragen. Damit wird angesichts der
knappen Mehrheit der Republikaner jede kontroverse Abstimmung zum potentiellen
Misstrauensvotum gegen McCarthy.
Die Erhöhung der Schuldenobergrenze ist eigentlich eine
Selbstverständlichkeit, weil der Kongress den Haushalt für 2023 ja schon
beschlossen hat, der nun dazu führt, dass neue Schulden aufgenommen werden
müssen. Doch insbesondere für die radikalen Mitglieder des Freedom Caucus in
der Fraktion der Republikaner im Repräsentantenhaus ist er ein wesentliches
Symbol für die „faulen Kompromisse“ des Washingtoner Establishments, die sie
bekämpfen wollen. Sie haben ihre Zustimmung für McCarthy auch an die Bedingung
geknüpft, dass die Obergrenze zukünftig nur im Austausch mit erheblichen
Haushaltskürzungen erhöht werden soll. Grundsätzlich trifft diese Forderung
wohl auf breite Zustimmung in der Fraktion, aber nur die entschlossensten
MAGA-Republikaner – benannt nach Trumps Slogan Make America Great Again – haben
dafür den Aufstand geprobt und sich zwischenzeitlich sogar ihrem Idol
widersetzt. Es geht dabei nicht in erster Linie um Ideologie, aber durchaus um
Grundsätzliches.
Und deshalb hat McCarthy keineswegs den Speaker-Posten für
die nächsten zwei Jahre sicher, wie Marco Bitschnau schreibt. Denn er ist zwar
einerseits ein ziemlich schamloser Opportunist, der bekanntlich kurz nach dem
Aufstand am 6. Januar 2021 nach Mar-a-Lago pilgerte, um Trumps Ring zu küssen –
was sich angesichts dessen Intervention bei der Speaker-Wahl wohl ausgezahlt
hat, jedenfalls für den Moment. Aber McCarthy ist andererseits auch am
Funktionieren der Institution interessiert, an der Regierungsarbeit. Und das
heißt, dass er zu überparteilichen Kompromissen bereit ist – qua Amt bereit
sein muss – beispielsweise eben in der Frage der Erhöhung der
Schuldenobergrenze. Auch Biden und die Demokraten haben Kompromissbereitschaft
angekündigt – es bleibt ihnen auch nichts anderes übrig, denn sie sind
mittelbar eben auch in Geiselhaft des Freedom Caucus.
Doch der Aufstand der MAGA-Republikaner ist nicht vorbei,
und es gibt auch keinen Burgfrieden. Denn ein Teil der Fraktion der
Republikaner scheint bereit zu sein, auch die Schließung der Regierungsbehörden
und die Gefährdung der Kreditwürdigkeit der USA in Kauf zu nehmen – und sie
werden kaum zögern, McCarthy über die Klinge springen zu lassen, so wie schon
McCarthys Republikanische Vorgänger im Amt des Speakers – John Boehner und Paul
Ryan – die ebenfalls zu den notwendigen, aber verhassten überparteilichen
Kompromissen bereit waren.
Doch worum geht es den Abgeordneten des Freedom Caucus jetzt
noch? Matt Gaetz, einer der Rädelsführer der „Rebellen“, begründete seine
Enthaltung im letzten Wahlgang bei der Speaker-Wahl, die McCarthys Sieg
ermöglichte, damit, dass ihm nichts mehr eingefallen sei, was er noch hätte
fordern können. McCarthy gab ihnen Posten in wichtigen Ausschüssen und die
Möglichkeit, die weaponization der Bundesregierung zu untersuchen, also die
angebliche Hexenjagd auf Konservative durch FBI, Steuerbehörde und andere. Er
hatte sogar versprechen müssen, dass er bei Vorwahlen der Republikaner nicht
länger gegen die Kandidaten des Freedom Caucus und andere MAGA-Republikaner
arbeiten wird, sprich: keine Spenden gegen sie mobilisiert. Das hat zwar mit
dem Amt des Speakers überhaupt nichts zu tun, zeigt aber, dass es den
„Rebellen“ in erster Linie um Macht geht. Das erklärt auch ihren Hang zum
medienwirksamen Spektakel, das Spielen für die Galerie, das Desinteresse an
tatsächlicher Parlamentsarbeit. Denn die meisten Abgeordneten kommen aus sicheren
Wahlkreisen und müssen sich auf die Vorwahlen konzentrieren, wo vielfach Trumps
Basis den Ton angibt. Man geht fehl, wenn man vorrangig nach inhaltlichen
Interessen sucht, und versucht, Raum für Kompromisse auszuloten: Die Basis
belohnt Überzeugungstäter und verachtet Kompromisse. Und deshalb geht man auch
fehl, wenn man sich allein auf die Abgeordneten konzentriert, die den
Widerstand gegen McCarthy angeführt haben.
Denn auch wenn der Personenkult um Donald Trump zuletzt
Risse bekommen hat, so ist die neue Fraktion der Republikaner nämlich schlicht
ein Spiegelbild der durch seinen Einfluss veränderten Partei. Moderate
Konservative gibt es kaum noch. Die Mehrheit der Abgeordneten glaubt Trumps
Lüge vom Wahlbetrug und scheint bereit, die demokratischen Institutionen zu
untergraben, auch jenseits der skandalösen, aber legalen, administrativen
Beeinträchtigung der Wahlbeteiligung von Minderheiten. Zwar hat der aus der Tea
Party-Bewegung hervorgegangene Freedom Caucus nur etwa 40 Mitglieder, aber er
wächst und hat auch jenseits der Speaker-Wahl überproportionalen Einfluss.
Diesen Abgeordneten reicht es nicht, die Politik der Biden-Regierung zu
blockieren und sie mit Untersuchungsausschüssen zu schikanieren. Bei einigen
scheint es, als glaubten sie inzwischen ihre eigenen Verschwörungserzählungen
eines bösartigen „deep state“, der im Hintergrund alles kontrolliert. Deshalb
steigt die Bereitschaft, die Bundesregierung vor die Wand fahren zu lassen,
wenn sie nicht – wie bei der Speaker-Wahl – alles bekommen, was sie wollen. In
diesem Sinne können manche der extremistischen Rebellen als Revolutionäre
bezeichnet werden. Sie sind Verhandlungen nicht mehr zugänglich.
Das stellt nicht nur McCarthy, sondern auch die Demokraten
vor ein Dilemma. Verweigern sich die Extremisten einem Kompromiss bei der
Erhöhung der Schuldenobergrenze – der aufgrund des divided government
notwendigerweise ein überparteilicher sein muss, da Regierung und Mehrheit im
Parlament von unterschiedlichen Parteien gestellt werden – steht McCarthy möglicherweise
vor dem Sturz, wenn er sich über sie hinwegsetzt. Dann müssten die Demokraten
ihn entweder stützen oder sich zumindest bei der Speaker-Wahl enthalten, wenn
sie nicht wollen, dass das Repräsentantenhaus völlig dysfunktional wird. Oder
die Demokraten lassen es darauf ankommen und nehmen eine vorübergehende
Schließung der Regierungsbehörden in Kauf, in der Hoffnung, dass die
Republikaner für die Folgen zur Verantwortung gezogen werden, spätestens bei
der Wahl 2024. Doch die Gefahr einer Rezession und einer dauerhaften Schädigung
der Kreditwürdigkeit der USA ist groß.
Noch ist etwas Zeit. Durch die Notmaßnahmen, die Yellen nun
ergreift, können die Regierungsbehörden einstweilen weiterarbeiten. Biden will
sogar erst nach dem Steuertermin im April die Verhandlungen mit den
Republikanern aufnehmen, weil dann die Finanzsituation des Bundes klarer sein
wird. Nur mit wem wird er dann eigentlich wirklich verhandeln? Mit McCarthy und
den verbliebenen „normalen“ Konservativen, die am Funktionieren der Institutionen
interessiert sind? Oder doch mittelbar mit den Extremisten, die bereit sind,
die Bundesregierung komplett handlungsunfähig zu machen, auch wenn das
bedeutet, dass ihre eigenen Wählerinnen und Wähler Schaden nehmen?
Es ist gut möglich, dass die kompromisslosen Extremisten
sich bei diesem innenpolitischen Spiel mit dem Feuer am Ende durchsetzen, eben
weil ihnen nicht nur die Republikanische Mehrheit egal ist, sondern auch das
Wohl des Landes. Geht es doch irgendwie gut, dann steht bald danach schon der Haushalt
für 2024 an, inklusive der Unterstützung für die Ukraine, die von den
isolationistischen und autokratischen Teilen der Republikanischen Fraktion
abgelehnt wird. Auch da hat McCarthy Zugeständnisse gemacht, die Kompromisse
erschweren: Es wird keine Paketlösungen mehr geben, sondern es müssen
Einzelhaushalte beschlossen werden. Stillstand und Chaos sind die neue
Normalität in der amerikanischen Politik. IPG 18
WEF in Davos: „Menschen warten auf Lösungen“
Erstmals wieder nach zwei Jahren findet im Schweizer Skiort
Davos das World Economic Forum (WEF) im Winter und in Präsenz statt. Diesmal
ist zwar keine offizielle vatikanische Delegation dabei, doch eine katholische
Stimme gibt es bei dem Treffen allemal: Der Pfarrer von Davos Kurt Susak freut
sich über die Zusammenkunft der Politiker, Wirtschaftsleute und
Kunstschaffenden. Mario Galgano – Vatikanstadt
Nach der Pandemie wieder in Präsenz - dieser Umstand und vor
allem eine komplett veränderte globale Situation prägten das diesjährige WEF in
Davos, sagt Pfarrer Susak in unserem Interview. „Überall hört man von Krisen.
Die Welt befindet sich auch irgendwie im Krisenmodus.“ Angesichts von
Herausforderungen wie Klimakrise, Finanzkrisen, Energiekrisen oder Lieferengpässen
habe er den Eindruck, dass die Teilnehmer „ganz bewusst“ auf die Konferenz
dieses Jahres setzten, „um Lösungen zu präsentieren“. Susak wörtlich: „Die
Menschen warten hoffnungsvoll auf Lösungen in den weltweiten Konflikten und
Krisen“.
„Dieses Weltwirtschaftsforum
würde irgendwie auch seine Glaubwürdigkeit und seine Legitimation verlieren,
wenn aus dieser Versammlung jetzt nicht spürbar auch Lösungen präsentiert
werden, die für die Menschen erkennbar zu einer Verbesserung der vielen
Konflikte und Herausforderungen führen“, meint der Pfarrer von Davos. Und dafür
bete die katholische Gemeinde in dem Bündner Dorf auch während dieser Woche.
„Zusammenarbeit in einer zersplitterten Welt“
Das Motto des Weltwirtschaftsforums lautet „Zusammenarbeit
in einer zersplitterten Welt“. Diese Zersplitterung erlebten wir alle „global
und persönlich“, erläutert der Pfarrer. „Wir erleben auch Ängste,
Zukunftsängste.“ In Bezug auf den Krieg Russlands gegen die Ukraine stehe die
„reale Gefahr eines Dritten Weltkriegs“ im Raum. „Und von daher hat die Kirche
hier eine ganz wichtige, zentrale und hoffnungsvolle Botschaft“, fügt Susak an.
Es sei nämlich die Kirche, die sage: „Wir sollen die Einheit in Vielfalt leben,
aber auch die Vielfalt dann in einer Einheit“. „Und dieses Ideal, dies
begleiten wir von der Kirche in Davos auch mit unserem Gebet, das dringender
notwendig ist denn je“, so Susak.
Vor 25 Jahren hatte eine damalige Davoser
Pastoralassistentin ein „wunderbares Format“ ins Leben gerufen: das sogenannte
Schweigen und Beten. „Es haben sich Menschen zusammengefunden, die genau in den
Anliegen um gute Entscheidungen für eine gerechtere Welt im Frieden gebetet
haben“, erläutert Susak. Und heute findet dieses Format „Schweigen und Beten“
unter dem Dach der Arbeitsgemeinschaft Christlicher Kirchen in
Davos statt. „Katholiken, Reformierte und Freikirchen laden gemeinsam ein,
an den Abenden zu beten, gemeinsam, um aus dem Evangelium
heraus Lösungen zu suchen.“ Die Kirche in ihrer Vielfalt, in ihrer
Moraltheologie, in ihrer Sozialethik habe in der Vergangenheit immer wieder
„wunderbare Antworten“ auf die Herausforderungen der Zeit gefunden. „Die gilt
es nur immer wieder auch ins Bewusstsein zu rufen“, sagt Susak.
Jedes Jahr hatte der Vatikan bisher zum Weltwirtschaftsforum
auch Vertreter der Kirche entsandt. So waren die letzten Jahre während des WEF
in Davos Kardinal Peter Turkson oder Kardinal Michael Czerny, einmal auch
Kardinalstaatssekretär Pietro Parolin dabei. In diesem Jahr ist es das erste
Mal, dass der Vatikan keine offiziellen Vertreter oder Kardinäle nach Davos
entsandt hat. „Das, finde ich, ist irgendwo auch ein Statement, das Rom hier
dem Weltwirtschaftsforum entgegen bringt“, sagt Susak. „Vielleicht hängt es
damit zusammen, dass Papst Franziskus in einer seiner letzten Botschaften an
das WEF gesagt hat: Es ist alles gesagt, jetzt handelt, und darum geht es.“
Auch kritische Stimmen
Pfarrer Susak ist klar, dass das Treffen von Davos auch von
kritischen Stimmen begleitet wird. Es sei alles überteuert; es gebe ein enormes
Verkehrsaufkommen mit Staus, mit Wartezeiten; das übliche Leben, wie man das
eigentlich hier gewohnt sei, finde während der WEF-Zeit wirklich „sehr, sehr
eingeschränkt statt“.
„Zum anderen werden auch diese enormen Kosten in
Frage gestellt, die ja mit dem Weltwirtschaftsforum verbunden sind - für den
Bund, den Kanton, für die Gemeinde. Das große Sicherheitskonzept, das mit dem
Weltwirtschaftsforum verbunden ist... ob sich das alles überhaupt lohnt, ob das
notwendig ist und was denn letztlich das Ergebnis dieses jährlichen großen
Treffens in Davos sein soll“, so Susak weiter.
Es werde kritisiert, dass vieles nicht transparent geschehe,
dass vieles hinter verschlossenen Türen behandelt, diskutiert, besprochen werde
und sehr wenig letztlich nach außen dringe. „Befeuert hat das Ganze sicher auch
die Bucherscheinung The Great Reset. Dort gibt es Thesen, Meinungen, Theorien,
die den Widerstand gegen die Elite, die sich beim WEF versammelt, befeuern“,
erläutert der Pfarrer von Davos.
Die guten Seiten des WEF
Für einen Teil der örtlichen Bevölkerung habe das Ganze aber
auch etwas Gutes. Das seien nämlich die Schulen, die während der Woche mehrere
Tage Skifahren auf dem Stundenplan hätten. „Das macht den Schülerinnen und
Schülern immer recht große Freude. Ich bin immer wieder begeistert, was die
Davoser während des Festes auf die Beine stellen“, sagt Susak. Zuvor sei ja
Weihnachten mit dem Weihnachts- und Skitourismus verbunden gewesen. „Vorher
wird gearbeitet, wird vorbereitet, werden die ganzen Sicherheitsmaßnahmen
organisiert, durchgeführt. Die Hotellerie, die Gastronomie, die
Handwerksfirmen, alles arbeitet auf Hochtouren. Und das zeugt vom großen
Zusammenhalt, den Davos hier präsentiert.“
Vom WEF zur „Economy of Francesco“: Pfarrer Susak erinnert
daran, dass es bei dem Franziskus-Projekt unter anderem darum gehe, dass „eine
Wirtschaft“ gefördert werde, die „dem Frieden dienen soll und nicht dem Krieg“.
„Die Schöpfung bewahren und sie nicht ausplündern, also eine Wirtschaft, in der
die Sorgfalt an die Stelle des Wegwerfens und der Gleichgültigkeit tritt“,
erläutert Susak. In der das Finanzwesen ein Freund und Verbündeter der
Realwirtschaft und der Arbeit und nicht ihr Feind sei, fügt er an. Dies sei
keine Utopie. „Wenn jeder Einzelne das Seine dazu beiträgt, dann kann die
Wirtschaft von heute und morgen eine Wirtschaft des Evangeliums werden“, so
Pfarrer Susak. „Ich wünsche mir, dass dies in diesem WEF, in diesem
herausfordernden Jahr, in dieser Zeitenwende bei all den Krisen möglich wird.“
(vn 18)
Prof. Amir-Moazami im Gespräch. Assimilation und Integration sind Fallen
Worum geht es in Integrations- und Assimilationsdebatten
eigentlich? In ihrem neuen Buch „Interrogating Muslims“ geht
Islamwissenschaftlerin Schirin Amir-Moazami dem Integrationsparadigma nach. Im
MiGAZIN-Gespräch erklärt sie, was in der Debatte falsch läuft, warum
Integration ausgrenzt und kritisch hinterfragt werden muss. Von Atahan Demirel
Atahan Demirel: Frau Amir-Moazami, worum geht es in ihrem
neuen Buch „Interrogating Muslims“?
Schirin Amir-Moazami: Grob gesagt, geht es um die
Diskursanreizungen zum Islam und zu Muslim:innen in Europa. Es geht also darum,
dass Muslim:innen als zur Minderheit gemachte Gruppe immer und immer wieder
nach ihren Praktiken und ihrer Kompatibilität mit liberalen Normen befragt
werden. In meinem Buch zeige ich, dass diese einseitige Fragerichtung
Muslim:innen immer wieder aufs Neue als problematische Minderheit markiert, der
Fragerahmen selbst aber unberührt bleibt.
„… weil mich besonders die subtileren Machtmechanismen
interessieren und weil Integration gemeinhin als lobenswert gilt und selten
kritisch hinterfragt wird.“
Dabei bin ich notwendigerweise auf das Integrationsparadigma
gestoßen. Damit habe ich mich beschäftigt, weil mich besonders die subtileren
Machtmechanismen interessieren und weil Integration gemeinhin als lobenswert
gilt und selten kritisch hinterfragt wird. Es geht mir also um die Ausschlüsse,
die vermeintlicher Einschluss hervorbringt, weil sich Integrationsappelle immer
einseitig an Minderheiten richten, die als (noch) nicht dazugehörig gelten.
In der akademischen Forschung ist Integration gemeinhin
entweder positiv konnotiert oder wird schlicht verworfen und mit Assimilation
gleichgesetzt. Warum Integration als politisches Instrument der Regulierung von
Pluralität als unabdingbar erachtet wird, wo der Integrationsdiskurs herkommt
und vor allem wie er funktioniert, um Minderheiten hierarchisch zu sortieren,
ist hingegen nur selten auf dem Prüfstand.
Sie sprechen vom Integrationsparadigma. Was ist das?
„In Deutschland ist auffällig, dass die Einwanderungspolitik
lange Zeit ziemlich konzeptlos war.“
Schirin Amir-Moazami: Beim Integrationsparadigma geht es
prinzipiell immer um Einwanderung und auch um die Regulierung und Regierung von
kultureller, religiöser und ethnischer Pluralität. In meiner Forschung
untersuche ich die damit verbundenen Logiken und die Funktionen des
Integrationsparadigmas. Mir war dabei wichtig zu zeigen, dass die verbundenen
Politiken eine längere Geschichte haben, die eng mit der Formierung, aber auch
mit der Krise des Nationalstaates zusammenhängen. Zugleich ist zum Beispiel in
Deutschland auffällig, dass die Einwanderungspolitik hier lange Zeit ziemlich
konzeptlos war. Der Ruf nach Integration vor allem gegenüber Muslim:innen wurde
nach dem 11. September 2001 laut. Interessanterweise wurden
Integrationsprogramme zu einem Zeitpunkt verstärkt, zu dem Muslim:innen längst
integraler Bestandteil Deutschlands waren.
Warum bedarf es überhaupt einer Integrationspolitik? Können
oder wollen beispielsweise Muslim:innen nicht an der Gesellschaft teilhaben?
Schirin Amir-Moazami: Integration kann sehr vieles meinen.
Dazu gehört sicher auch Teilhabe. „Integratio“, „integrare“ kommt aus dem
Lateinischen und meint wiederherstellen, reparieren, erneuern. Integration
scheint also für eine Gesellschaft als Maßnahme zwingend zu werden, die als
fragmentiert und im Zerfall begriffen erachtet wird – und zwar aufgrund ihrer
kulturellen und religiösen Vielfalt.
„Tatsächlich gelten „Muslim:innen“ gegenwärtig als
besonderes Problem für ein intaktes soziales Gewebe, vor allem wenn sie als
solche sichtbar sind und Teilhabe als Religionsgemeinschaft einfordern.“
Tatsächlich gelten „Muslim:innen“ gegenwärtig als besonderes
Problem für ein intaktes soziales Gewebe, vor allem wenn sie als solche
sichtbar sind und Teilhabe als Religionsgemeinschaft einfordern. Bei genauem
Hinsehen hat das aber sehr viel weniger mit Muslim:innen oder dem Islam
hierzulande zu tun, als mit einem Mechanismus, der für Nationalstaaten
konstituierend ist. In meiner Forschung habe ich die Anfänge dieses Mechanismus
analysiert und bin recht schnell auf die sogenannte „Judenfrage“ im 19.
Jahrhundert gestoßen. Selbst wenn das keineswegs gleichzusetzen ist, war auch
Assimilation einerseits attraktiv, weil es mit einladenden Gesten der
gesellschaftlichen Teilhabe verknüpft war. Andererseits war es eine Art Falle,
weil Jüd:innen trotz aller Bemühungen, sich anzupassen, stets weiterhin als
Jüd:innen adressiert wurden.
Sowohl Assimilation als auch Integration geht von der
defizitären Minderheit aus, die in der Mehrheit aufgehen soll, zugleich aber
weiterhin als Minderheit markiert bleibt. Bei diesen Ähnlichkeiten bekommt man
schon Gänsehaut.
Welche konkreten Probleme sehen Sie denn bei der Politik
dabei?
„In der Integrationsdebatte besteht also die Annahme, dass
bestimmte Bevölkerungsgruppen sich anpassen sollen, an was genau bleibt aber
vage und immerzu wandelbar.“
Shirin Amir-Moazami: Die größte Schwierigkeit liegt
eigentlich darin, dass Muslim:innen und der Islam partout zum Problem gemacht
werden. Grundsätzlich werden Pluralität und Differenz nicht als Möglichkeit der
eigenen Horizonterweiterung betrachtet, sondern eher als störende
Herausforderung. Das hat dann nichts mit Muslim:innen und dem Islam zu tun,
sondern mit dem Wunschkonzert einer homogenen Gesellschaft.
Es gibt Anstöße, Diversität beispielsweise im Rahmen von
Dialogveranstaltungen zu fördern, doch häufig wird dabei vorgegeben, wie der
Dialog zu funktionieren hat. In der Integrationsdebatte besteht also die
Annahme, dass bestimmte Bevölkerungsgruppen sich anpassen sollen, an was genau
bleibt aber vage und immerzu wandelbar. Da läuft also in der Anlage etwas grundsätzlich
falsch. MiG18
Katargate: Kronzeuge Panzeri bereitet Brüssel schlaflose Nächte
Der ehemalige italienische Europaabgeordnete Pier-Antonio
Panzeri, der mutmaßliche Drahtzieher des Katargate-Skandals, hat beschlossen,
mit der belgischen Justiz zusammenzuarbeiten. Von: Anne-Sophie Gayet und
Sarantis Michalopoulos
Angesichts der Tatsache, dass Panzeri die Wahrheit sagen
muss, um eine geringere Strafe zu erhalten, herrscht in Brüssel bereits Panik,
ob weitere Namen auftauchen könnten.
Am Dienstag gab Panzeri zu, dass er an
Korruptionsaktivitäten im Zusammenhang mit Katar und Marokko beteiligt war und
diese überwacht hat. Er unterzeichnete „ein Memorandum mit der
Bundesanwaltschaft gemäß Artikel 216/1 bis 216/8 der Strafprozessordnung“, so
die Bundesanwaltschaft.
Die Behörde teilte mit, dass Panzeri eine „Reuevereinbarung“
unterzeichnet hat und mit den Behörden zusammenarbeiten wird.
Im Gegenzug erhält er eine „begrenzte Strafe“: angeblich
fünf Jahre Gefängnis (von denen vier zur Bewährung ausgesetzt werden), eine
Geldstrafe von 80.000 Euro sowie die Beschlagnahmung seines sichergestellten
Vermögens, das nach Angaben der Behörde auf 1 Million Euro geschätzt wird.
Panzeri wird den belgischen Behörden detailliert erklären
müssen, wie die Organisation funktionierte, welche Strukturen und Zahlungen sie
leistete und ob andere Personen oder Länder beteiligt waren.
Die Fraktion der Sozialisten und Demokraten (S&D) im
Europäischen Parlament hat durch den Skandal bereits einen schweren Schlag
erlitten.
Neben dem ehemaligen Europaabgeordneten Panzeri wurden auch
die EU-Abgeordnete Eva Kaili und ihr Partner Francesco Giorgi inhaftiert und
müssen sich nun vor Gericht verantworten.
Als Panzeri am 10. Dezember verhaftet wurde, beschuldigte er
den belgischen Abgeordneten Marc Tarabella (S&D) – stellvertretender
Vorsitzender der EP-Delegation für die Beziehungen zur Arabischen Halbinsel
(DARP) -, „Geschenke“ aus Katar erhalten zu haben.
Tarabellas Wohnung wurde am nächsten Tag durchsucht, und das
Büro seiner Assistent:innen wurde versiegelt. Es wurde kein Geld gefunden, er
wurde nicht verhaftet, und der Belgier beteuert seither seine Unschuld. Er
wurde jedoch von seiner nationalen Partei, der Sozialistischen Partei (PS,
Wallonien), ausgeschlossen und hat sich selbst aus der S&D-Fraktion im EP
zurückgezogen.
Am Dienstag enthüllte L’Echo, dass Panzeri den belgischen
Ermittler:innen am 10. Dezember sagte, er habe Tarabella 120.000 Euro in bar
für seine Hilfe bei den Akten über Katar gezahlt. Tarabellas Anwalt Maxim
Toller sagte, sein Mandant habe nichts erhalten.
Am Montag sagte Panzeris Anwalt Laurent Kennes im
RTBF-Fernsehen, dass „einer der Gründe“ für Panzeris Aussage darin liege, dass
„er weiß, dass er das Vertrauen bestimmter Personen missbraucht hat“, darunter
die belgische Europaabgeordnete Marie Arena (S&D), die auch in der
Presseberichterstattung über Katargate zitiert wird.
„Er wird ihren Namen erwähnen, um zu sagen, dass sie absolut
nichts mit [dem Korruptionssystem] zu tun hatte und dass er es nie gewagt
hätte, ihr etwas anzubieten.“
Quellen in Brüssel sagten EURACTIV, dass die Entscheidung,
seine Tochter von Italien nach Belgien auszuliefern, ihn in die Enge getrieben
habe, sodass er beschlossen habe, sich zu äußern.
In Bezug auf die Informationen über Tarabella betont Kennes,
dass „die Informationen aus einer undichten Stelle stammen“ und dass er „nicht
über den untersuchten Fall kommunizieren kann“.
„Es ist bedauerlich, dass in undichten Stellen die Namen von
Personen genannt werden, die noch nicht einmal angehört wurden“, fügte er
hinzu.
Letzte Woche sagte die französische Europaabgeordnete Manon
Aubry auf LN24, dass Tarabella sie gebeten habe, ihre „Besessenheit“ von Katar
zu beenden, da das Land „Fortschritte“ gemacht habe. „Jetzt verstehe ich
besser, warum Marc mir das gesagt hat“, erklärte sie.
Eine Quelle, die mit der Angelegenheit vertraut ist, sagte,
dass auch EU-Abgeordnete aus der vorherigen Amtszeit des EU-Parlaments im Rampenlicht
stehen. Gerüchte besagen jedoch, dass auch Personen aus anderen
EU-Institutionen, die sich mit der Visaliberalisierung befassen, im Visier der
Behörden stehen könnten.
Ausschluss aus der S&D
Am Dienstag, vor den jüngsten Enthüllungen, forderte die
S&D-Vorsitzende Iratxe Garcia Perez, dass Tarabella aus der Fraktion
ausgeschlossen und ein fraktionsloses Mitglied des Parlaments werden solle, was
Tarabella ablehnte.
Toller sagte, dass sein Mandant diesen Vorschlag nicht
akzeptieren könne.
„Wenn er verurteilt würde, wäre es verständlich, dass er
ausgeschlossen wird, aber da er weder angeklagt noch beschuldigt wird und noch
nicht einmal angehört wurde, wäre dies verfrüht und unfair“, sagte er, wie
L’Echo berichtete.
Tarabella und der italienische Europaabgeordnete Andrea
Cozzolino – ehemaliger Vorsitzender der Maghreb-Delegation, gegen den ebenfalls
ein Verfahren zur Aufhebung der Immunität läuft – werden jedoch aus der Gruppe
ausgeschlossen, wenn sie sich weiterhin weigern, sich selbst auszuschließen.
„Wenn sie sich nicht von sich aus ausschließen, wird die
Gruppe noch diese Woche eine Entscheidung treffen“, sagte Garcia Perez
Berichten zufolge.
Die belgische Justiz hat die Aufhebung der Immunität von
Cozzolino und Tarabella beantragt, obwohl der Belgier noch nicht angeklagt ist.
Ein Verfahren zur Aufhebung der Immunität wurde am Montag während der
Plenarsitzung des EP eingeleitet, und eine Entscheidung sollte vor dem 13.
Februar getroffen werden. Sobald die Immunität aufgehoben ist, werden die
belgischen Behörden die beiden Europaabgeordneten anhören.
Tarabella „unterstützt“ die Aufhebung seiner Immunität, da
er sich nicht hinter ihr „verstecken“ werde.
Der Rechtsausschuss (JURI) ist für die Stellungnahme zur
Aufhebung der Immunität zuständig und wird Gelegenheit haben, die beiden
Abgeordneten hinter verschlossenen Türen zu hören. Manon Aubry wird
Berichterstatterin sein, wie L’Echo am Montag berichtete.
Der Fall Kaili
Die griechische Europaabgeordnete Eva Kaili wird am 19.
Januar erneut von den belgischen Behörden zu ihrem Antrag auf Freilassung
angehört werden. Es ist jedoch nicht klar, wie sich Panzeris Schritt auf ihren
Antrag auswirken wird.
Rechtsexpert:innen in Athen gehen davon aus, dass Panzeri
Kaili entweder weiter schaden oder ihre Lage erleichtern könnte.
Kaili ihrerseits hat angedeutet, dass Panzeri ihre Immunität
als Europaabgeordnete ausgenutzt hat, um sein Geld in ihrer Wohnung zu
verstecken.
Eine Quelle, die der Angelegenheit nahe steht, erklärte
gegenüber EURACTIV, dass es bei allen Anschuldigungen, denen Kaili ausgesetzt
ist, schwer sein würde, zu beweisen, dass sie nicht in Geldwäsche verwickelt
war.
Der vorsichtige Ansatz der EVP
EURACTIV wurde darüber informiert, dass am Rande der
Plenarsitzung im Dezember 2022 in Straßburg eine geschlossene Sitzung der EVP
stattfand, um zu sehen, wie man mit Katargate in Bezug auf die Kommunikation
umgehen sollte.
Obwohl Rufe nach einem „Angriff“ auf die sozialistische
Fraktion laut wurden, schlug der EVP-Vorsitzende Manfred Weber angeblich eine
vorsichtige „abwartende“ Haltung vor.
Laut einer bei der Diskussion anwesenden Quelle bezog sich
Weber auf „individuelle Verantwortlichkeiten“ und nicht auf die der politischen
Partei.
„Es war eine inoffizielle Linie, von Angriffen gegen die
Sozialisten in dieser Angelegenheit abzusehen“, hieß es aus EVP-Kreisen
gegenüber EURACTIV.
EURACTIV geht davon aus, dass die Mitte-Rechts-Parteien angesichts
der Tatsache, dass der gesamte Skandal noch nicht aufgedeckt wurde,
Stillschweigen bewahren wollen, für den Fall, dass ein mit ihnen verbundener
Name während der Ermittlungen auftaucht.
Der Freundschaftsgruppe EU-Katar, die sofort nach dem Ausbruch
des Skandals ausgesetzt wurde, gehörten auch sieben Abgeordnete der EVP an.
Die Seite der Freundschaftsgruppe auf der Website der
Botschaft von Katar wurde entfernt, und die Botschaft antwortete nicht auf eine
Anfrage von EURACTIV, die Liste der Teilnehmer:innen dieser Gruppe zu
veröffentlichen. EA 18
Boris Pistorius wird neuer Verteidigungsminister
Der Sprecher der Bundesregierung, Steffen Hebestreit, teilt
mit:
Bundeskanzler Olaf Scholz wird Boris Pistorius (62 Jahre)
als neuen Verteidigungsminister ins Bundeskabinett berufen. Am Donnerstag wird
der langjährige niedersächsische Innenminister seine Ernennungsurkunde vom
Bundespräsidenten erhalten und im Deutschen Bundestag seinen
Amtseid leisten.
„Ich freue mich sehr, mit Boris Pistorius einen
herausragenden Politiker unseres Landes für das Amt des Verteidigungsministers
gewonnen zu haben. Pistorius ist ein äußerst erfahrener Politiker, der
verwaltungserprobt ist, sich seit Jahren mit Sicherheitspolitik beschäftigt und
mit seiner Kompetenz, seiner
Durchsetzungsfähigkeit und seinem großen Herz genau die
richtige Person ist, um die Bundeswehr durch diese Zeitenwende zu führen“,
sagte Bundeskanzler Olaf Scholz am Dienstag in Berlin.
Nach dem Rücktritt von Christine Lambrecht hatte sich der
Bundeskanzler mit der Partei- und Fraktionsführung der SPD eng beraten und sich
für Pistorius als neuen Verteidigungsminister entschieden. Pistorius war vor
seiner Berufung zum Landesinnenminister 2013 fast sieben Jahre lang
Oberbürgermeister von Osnabrück. pib 17
Hamburg. Kurz vor dem angekündigten Rücktritt von
Verteidigungsministerin Christine Lambrecht äußert sich eine überwiegende
Mehrheit der Deutschen klar unzufrieden mit der Arbeit der SPD-Politikerin. Das
zeigt eine repräsentative Umfrage des Markt- und Meinungsforschungsinstituts
Ipsos, die in der letzten Woche durchgeführt wurde. Nur noch 8 Prozent der
Deutschen geben Lambrecht auf einer Zufriedenheitsskala von 1-10 die höchsten
Werte 8-10, während sechs von zehn Befragten (60%) angeben, mit ihrer Arbeit
vollständig unzufrieden zu sein (Werte 1-3 auf der Skala). Ihre
Netto-Zufriedenheit, also die Differenz zwischen denjenigen, die sehr zufrieden
und sehr unzufrieden sind, ist mit -52 die schlechteste unter allen
Ressortchefs und im Vergleich zu Januar 2022 um ganze 37 Prozentpunkte
gesunken.
Verluste für Kanzler und Regierung im Jahresverlauf
Neben Lambrecht verlieren im Jahresverlauf auch die meisten
anderen Minister deutlich an Zustimmung in der Bevölkerung. Obwohl sowohl
Bundeskanzler Olaf Scholz als auch die Bundesregierung als Ganzes den starken
Abwärtstrend der vergangenen Monate stoppen können, bleibt die Zufriedenheit
mit ihrer Arbeit auch zu Beginn des neuen Jahres auf eher niedrigem Niveau. Nur
noch knapp jeder siebte Befragte (15%) bewertet Scholz mit den höchsten Werten
8-10, während ganze 40 Prozent angeben, mit seiner Arbeit gänzlich unzufrieden
zu sein (1-3). Seine Netto-Zufriedenheit sinkt somit auf -25, womit der Kanzler
im Jahresverlauf ganze 32 Punkte verliert.
Auch die Bundesregierung als Ganzes kann nur noch 13 Prozent
der Deutschen von sich überzeugen, 42 Prozent bewerten ihre Arbeit indessen
negativ. Mit einer Netto-Zufriedenheit von -29 verliert auch sie seit Januar
2022 26 Punkte auf der Zufriedenheitsskala.
Baerbock als einzige mit Plus gegenüber Januar 2022
Unter den Ministern des Bundeskabinetts führt weiterhin
Außenministerin Annalena Baerbock das Zufriedenheits-Ranking an. Die
Grünen-Ministerin kann 23 Prozent der Deutschen von sich überzeugen, 40 Prozent
geben allerdings auch bei ihr an, mit ihrer Arbeit unzufrieden zu sein. Mit
einer Netto-Zufriedenheit von -17 verzeichnet sie trotzdem als einzige
Ministerin der Ampel-Regierung ein Plus von 6 Punkten im Vergleich zum Januar
2022. Damals waren nur 16 Prozent der Deutschen mit ihrer Arbeit zufrieden und
ihre Netto-Zufriedenheit lag bei -23. Wirtschaftsminister Robert Habeck ist
hinter Baerbock der zweitbeliebteste Minister im Kabinett. Während 18 Prozent
seine Arbeit sehr positiv bewerten, sind jedoch auch 42 Prozent sehr
unzufrieden mit ihm. Gemessen an der Netto-Zufriedenheit verliert er im
Jahresverlauf 9 Punkte und liegt nun bei einem Wert von -24.
Massive Verluste im Jahresverlauf bei Lauterbach und Lindner
Gesundheitsminister Karl Lauterbach, der im Januar 2022 noch
34 Prozent der Deutschen von seiner Arbeit überzeugen konnte und zu diesem
Zeitpunkt der beliebteste Minister des Bundeskabinetts war, verzeichnete neben
Lambrecht im Verlauf des letzten Jahres die größten Ansehensverluste und
verliert auch zu Beginn dieses Jahres weiter an Zustimmung. Nur noch 15 Prozent
aller Bundesbürger geben an, vollständig zufrieden mit Lauterbachs Arbeit zu
sein, 44 Prozent sind derweil sehr unzufrieden. Seine Nettozufriedenheit sank
in den letzten zwölf Monaten um 38 Prozentpunkte und liegt nun nur noch bei
-29.
Drittgrößter Verlierer unter allen Ministern ist
Finanzminister Christian Lindner, wenn auch mit weitem Abstand hinter Lambrecht
und Lauterbach. Lindners Netto-Zufriedenheit fällt im Jahresverlauf um 24
Prozentpunkte und liegt nun bei einem Wert von -30.
Nancy Faeser mit größtem Bekanntheitszugewinn
Während alle Minister des Bundeskabinetts ihre Bekanntheit
im Jahresverlauf steigern konnten, sticht Innenministerin Nancy Faeser mit
einem Bekanntheitszuwachs von 13 Prozentpunkten deutlich hervor. Gaben im Januar
2022 noch 19 Prozent der Deutschen an, sie nicht zu kennen, tun dies nun ein
Jahr später nur noch 6 Prozent. Abgehängt bleiben trotz leichter Gewinne
weiterhin Bildungsministerin Bettina Stark-Watzinger und Bauministerin Klara
Geywitz, die auch zu Beginn des neuen Jahres jeweils 18 bzw. 20 Prozent der
Deutschen nicht kennen. Ipsos 17
Oxfam. Schere zwischen Arm und Reich hat sich weiter geöffnet
Entwicklungsorganisation Oxfam schlägt Alarm: Erstmals seit
25 Jahren hätten extremer Reichtum und extreme Armut gleichzeitig zugenommen.
Auch in Deutschland flossen über 80 Prozent des Vermögenszuwachses an die
Superreichen. Ministerin Schulze spricht von einem „gefährlichen Befund“.
Die Corona-Pandemie hat die Unterschiede zwischen Arm und
Reich nach Erkenntnissen der Nothilfe- und Entwicklungsorganisation Oxfam
verstärkt. Seit Pandemie-Beginn 2020 seien rund zwei Drittel des weltweiten
Vermögenszuwachses auf das reichste Prozent der Weltbevölkerung entfallen.
Gleichzeitig lebten dem am Montag in Berlin veröffentlichten Bericht zufolge
1,7 Milliarden Arbeitnehmer in Ländern, in denen die Lohnentwicklung die
Inflation nicht ausgleicht.
Erstmals seit 25 Jahren hätten extremer Reichtum und extreme
Armut gleichzeitig zugenommen. Das geht aus dem Bericht „Survival of the
Richest (Überleben der Reichsten) hervor, die Oxfam anlässlich des
Weltwirtschaftsforums in Davos vorlegte.
Schulze: „Gefährlicher Befund“
Bundesentwicklungsministerin Svenja Schulze (SPD) sprach von
einem „gefährlichen Befund“. „Pandemie, Konflikte und nicht zuletzt der
russische Angriffskrieg haben uns um Jahre zurückgeworfen bei Armut, Hunger,
Gesundheit oder Bildung – während die Reichen noch reicher geworden sind“,
sagte Schulze in Berlin. Der Aufbau sozialer Sicherungsnetze müsse
vorangetrieben werden, sagte die SPD-Politikerin, ohne Details zu nennen.
Oxfam forderte die Regierungen auf, dem Trend mit Steuern
auf Übergewinne und hohe Vermögen entgegenzutreten. Daraus entstehende
Einnahmen müssten in den Ausbau von sozialer Sicherung, Bildung und Gesundheit
investiert werden.
81 Prozent Vermögenswachstum ging an Superreiche
Laut Oxfam-Bericht flossen 81 Prozent des gesamten
Vermögenszuwachses, der zwischen 2020 und 2021 in Deutschland erwirtschaftet
wurde, an das reichste Prozent der Bevölkerung. Auf die übrigen 99 Prozent der
Bürgerinnen und Bürger entfielen demnach lediglich 19 Prozent des
Vermögenszuwachses.
Der Bericht zeige, dass 95 Lebensmittel- und Energiekonzerne
ihre Gewinne im vergangenen Jahr mehr als verdoppelt hätten, erklärte die
Nothilfe- und Entwicklungsorganisation. Diese hätten 306 Milliarden US-Dollar
an Übergewinnen erzielt und davon 257 Milliarden US-Dollar (84 Prozent) an Aktionäre
ausgeschüttet. (epd/mig 17)
EU-Klimachef: 45 Prozent Erneuerbare sind ehrgeizig, aber machbar
Die Europäische Kommission will daran festhalten, dass bis
2030 45 Prozent der Energie in der EU aus erneuerbaren Quellen zu gewinnen, so
EU-Klimachef Frans Timmermans im Interview mit EURACTIV. Von: Kira Taylor
Die EU-Länder und das Europäische Parlament verhandeln derzeit
über ein neues Gesetz zur Ankurbelung der grünen Energieproduktion. Dies
beinhaltet auch ein Ziel, das festlegt, wie viel des europäischen Energiemixes
bis 2030 aus erneuerbaren Energien stammen soll.
Im Dezember sprachen sich die EU-Länder im Rahmen der
laufenden Gespräche zur Überarbeitung der EU-Richtlinie über erneuerbare
Energien für ein Ziel von 40 Prozent für erneuerbare Energien aus – dies liegt
unter den 45 Prozent, die von der EU-Kommission vorgeschlagen und vom Parlament
unterstützt wurden.
„Ich denke, wir müssen bei 45 Prozent bleiben“, sagte
Timmermans gegenüber EURACTIV in einem Exklusivinterview am Rande einer
Versammlung der Internationalen Agentur für Erneuerbare Energien (IRENA) in Abu
Dhabi.
„Wenn man das Tempo sieht, mit dem unsere erneuerbaren
Energien gebaut werden – Offshore-Windkraft, aber vor allem auch Solarenergie
auf Dächern – halte ich das Ziel für ehrgeizig, aber machbar“, fügte er hinzu.
Als die Europäische Kommission im Juli 2021 erstmals eine
Aktualisierung der Erneuerbare-Energien-Richtlinie vorschlug, schlug sie für
2030 ein Ziel von 40 Prozent vor, das sie jedoch im vergangenen Jahr als
Reaktion auf den Einmarsch Russlands in der Ukraine auf 45 Prozent erhöhte.
Im Jahr 2020 stammten 22 Prozent der EU-Energie aus erneuerbaren
Energien, zwei Prozentpunkte mehr als das für dieses Jahr vereinbarte Ziel der
Union.
Höheres Ziel
Laut Timmermans setzt sich in den EU-Hauptstädten zunehmend
die Einsicht durch, dass ein höheres Ziel für erneuerbare Energien erforderlich
ist, um die Energiesicherheit der EU angesichts der sinkenden russischen
Gasexporte nach Europa zu stärken.
„Viele sehen die Notwendigkeit, sich wegen der Klimakrise
von fossilen Brennstoffen zu verabschieden, aber jeder sieht, dass wir nicht
länger von fossilen Brennstoffen abhängig sein können und die einzige
Möglichkeit, unsere Souveränität im Energiebereich zu stärken, in der Förderung
erneuerbarer Energien liegt“, betonte er.
Und schnellere EU-Genehmigungsregeln könnten den EU-Ländern
das Ziel schmackhafter machen, glaubt er.
„Wenn wir den Mitgliedsstaaten dabei helfen können, dann
wird das Ziel auch leichter zu erreichen sein“, erklärte Timmermans.
Der polnische Staatssekretär Adam Guibourgé-Czetwerty wies
jedoch im Gespräch mit EURACTIV auf der IRENA-Konferenz auf die
Herausforderungen hin, denen sich die EU-Länder stellen müssen, um einen
höheren Anteil an erneuerbaren Energien zu erreichen.
„Wenn wir uns das Ziel auf EU-Ebene ansehen, sprechen wir
nicht nur über die Stromerzeugung, sondern auch über Wärme und Verkehr“, sagte
Guibourgé-Czetwerty.
„Heute fehlen uns Technologien – insbesondere, denke ich,
bei der Wärmeerzeugung in großem Maßstab. Es gibt zwar einige Technologien,
aber keine, die wirklich skalierbar ist“, fügte er hinzu.
Am Beispiel des Warschauer Fernwärmesystems erklärte der
polnische Minister, dass Polen jedes Jahr einen Wald von der Größe Brüssels
abholzen müsste, um das System mit Biomasse zu betreiben.
Polen hat zwar einen eigenen Plan zum Ausbau der
erneuerbaren Energien und der Kernenergie, mit dem Ziel, die
Energieunabhängigkeit zu stärken, aber es gibt Grenzen, was vor 2030 getan
werden kann, fügte er hinzu und sagte, dass es mehr Potenzial für den Ausbau
sauberer Energien bis 2040 gibt.
Beschleunigung der erneuerbaren Energien
Im Interview betonte Timmermans auch die Entschlossenheit
Europas, den Ausbau der erneuerbaren Energien zu beschleunigen, auch wenn
kurzfristig mehr auf Kohle gesetzt wird, um russisches Gas in der
Stromerzeugung zu ersetzen.
„Wir lassen uns nicht ablenken. Wenn überhaupt, dann hat
Russlands Einsatz von Energie als Waffe unsere Umstellung auf erneuerbare
Energien verstärkt. Das möchte ich mit der ganzen Welt teilen, denn wir werden
nur erfolgreich sein, wenn alle mitmachen“, sagte er.
„Ja, wir werden fossile Brennstoffe brauchen. Ja, wir graben
mehr Kohle aus, als wir eigentlich wollten, aber nichtsdestotrotz verbessern
wir unsere Ziele“, fügte er hinzu und verwies auf das europäische
Klimagesetzespaket, das ursprünglich im Juli 2021 vorgelegt wurde und sich nun
in der Endphase der Verabschiedung befindet.
Andere teilen diese Ansicht. Mit ihrem Klimapaket 2021 und
ihrer Reaktion auf die COVID-Krise habe die EU „ein sehr starkes Signal“ für
die Dringlichkeit einer Beschleunigung der Energiewende gesetzt, sagte Achim
Steiner, der Leiter des Entwicklungsprogramms der Vereinten Nationen (UNDP).
„Dies sind beispiellose Investitionen zur Beschleunigung des
Übergangs“, sagte Steiner vor Journalist:innen auf der IRENA-Konferenz. „Ich
denke, dass Europa nach der Pandemie ein wichtiges Signal gesendet hat, um zu
sagen: ‚Seht her, wenn wir einen Anreiz schaffen, werden wir diesen nutzen, um
den Übergang zu beschleunigen'“, sagte er.
Auch für Polen ist die Beschleunigung des Übergangs eine
Notwendigkeit. Das Land überarbeitet derzeit seine Energiepolitik als Reaktion
auf die Krise und versucht, die Rolle von Gas so weit wie möglich zu
reduzieren, was wahrscheinlich bedeutet, dass es länger auf Kohle angewiesen
sein wird.
„Wir wollen schneller zu einem dekarbonisierten System
übergehen und dabei auf Kernkraft, erneuerbare Energien und Energiespeicherung
setzen. Aber wir wollen auch die Rolle von Gas in der Übergangszeit
reduzieren“, sagte Guibourgé-Czetwerty. EA
17
Studie. Deutsche Staatsangehörigkeit ab der Geburt erhöht Bildungschancen
Frühzeitiger Erwerb der deutschen Staatsangehörigkeit erhöht
Bildungserwartungen und Bildungschancen von Kindern mit Migrationserfahrung.
Das geht aus einer aktuellen Studie des Bundesinstituts für Bevölkerungsforschung
hervor. Experten empfehlen: Positive Effekte in der aktuellen Debatte nicht
außer Acht lassen.
Mit dem Erlangen der deutschen Staatsangehörigkeit bei
Geburt können sich einer Studie zufolge schulische Leistungen und
Bildungserwartungen von Kindern ausländischer Eltern erhöhen. 30 Prozent der in
Deutschland lebenden Kinder haben mindestens einen Elternteil mit
Migrationserfahrung. Ein Teil von ihnen würde von der derzeit diskutierten
Reform des Staatsangehörigkeitsgesetzes profitieren, zeigen neue Berechnungen
des Bundesinstituts für Bevölkerungsforschung (BiB), wie das Institut in
Wiesbaden mitteilte.
Analysen des BiB haben die Reform des
Staatsangehörigkeitsgesetzes von 1999 evaluiert, mit der das sogenannte
„Geburtsortsprinzip“ eingeführt wurde. Dies bedeutet: Kinder ausländischer
Eltern, die ab dem 1. Januar 2000 in Deutschland geboren wurden und von denen
mindestens ein Elternteil bereits mindestens acht Jahre lang rechtmäßig in
Deutschland gelebt hat und ein unbefristetes Aufenthaltsrecht besitzt, erlangen
automatisch bei Geburt die deutsche Staatsangehörigkeit.
Gymnasium und Abitur mit deutschem Pass wahrscheinlicher
Die BiB-Analysen belegen demnach, dass der Erwerb der
deutschen Staatsangehörigkeit von Kindern bei Geburt die Wahrscheinlichkeit
erhöhe, dass das Abitur der gewünschte und als realistisch angesehene
Schulabschluss des Kindes und der Eltern ist. „Sowohl Eltern als auch Kinder
selbst erwarten sehr viel häufiger als diejenigen, die nicht von der Reform
betroffen waren, dass das Kind die Schule mit dem Abitur abschließt“, erklärte
die BiB-Bildungsforscherin Elena Ziege. Den Angaben zufolge sind 14
beziehungsweise 16 Prozent mehr, die dies erwarten.
Mit der deutschen Staatsangehörigkeit steige aber nicht nur
die Erwartung, das Abitur erfolgreich abzuschließen – es nehme auch die
Wahrscheinlichkeit zu, dass das Kind nach der vierten Klasse tatsächlich ein
Gymnasium besucht. Im Vergleich zu den Kindern, die früher als im Jahr 2000
geboren wurden und daher nicht von der Reform betroffen waren, erhöhe sich die
Wahrscheinlichkeit von 46 auf 62 Prozent. Der Effekt, dass eher ein Gymnasium
besucht wird, lasse sich über die gesamte Schulzeit beobachten.
Auch andere Studien belegen positive Effekte
Auch andere wissenschaftliche Untersuchungen belegen BIB
zufolge die positive Wirkung des frühzeitigen Staatsangehörigkeitserwerbs auf
Kinder mit Migrationserfahrung: „Die deutsche Staatsangehörigkeit vergrößert
demnach auch die Wahrscheinlichkeit eines Kitabesuchs. Zusätzlich verbessern
sich ihre Deutschkenntnisse, das sozioemotionale Verhalten und die
Schulleistungen. Darüber hinaus wiederholen Kinder, die nach der
Staatsangehörigkeitsreform die deutsche Staatsangehörigkeit durch Geburt
erwerben konnten, seltener eine Klasse“, so das BIB.
Weitere Studienergebnisse zeigten zudem, dass sich durch den
frühen Erwerb der deutschen Staatsangehörigkeit der Kinder die soziale
Interaktion der Eltern mit Deutschen erhöht. Darüber hinaus verbessern die
Eltern ihre Deutschfähigkeiten und lesen häufiger deutsche Zeitungen, was sich
wiederum positiv auf die Kinder auswirken kann.
Experten: Einbürgerungseffekte nicht außer Acht lassen
„In der empirischen Forschung gibt es zahlreiche Hinweise
darauf, welche positiven Auswirkungen ein früherer Erwerb der deutschen
Staatsangehörigkeit auf die Bildungschancen von Kindern und Jugendlichen in
Deutschland haben könnte – auch das sollte bei der gegenwärtigen Diskussion
nicht außer Acht gelassen werden“, so BiB-Direktorin C. Katharina Spieß.
Zur Messung eines möglichen kausalen Effektes des frühen
Erwerbs der deutschen Staatsangehörigkeit auf den Bildungserfolg von Kindern
verblich das BiB Kinder auf zwei verschiedenen Ebenen: Zum einen Kinder, die im
Jahr vor der Reform geboren sind mit Kindern, die im Jahr nach der Reform
geboren wurden. Zum anderen Kinder, deren Eltern die vorgeschriebene
achtjährige Aufenthaltsbedingung erfüllen mit Kindern, deren Eltern diese
Bedingung nicht erfüllen. (epd/mig 16)
Umfrage im Pflegemarkt: Schlechte Stimmung und düstere Aussichten
Hamburg – Die Ergebnisse des aktuellen CARE Klima-Index
zeichnen ein düsteres Bild von der aktuellen Situation auf dem deutschen
Pflegemarkt. Denn auch dieses Jahr bleibt das Pflege-Klima unterhalb der
100er-Grenze, die vergleichbar mit der Nulltemperatur eines Thermometers ist.
Der Wert fällt von 94.7 Punkten aus dem Vorjahr auf 93.2 Punkte.
Im CARE Klima-Index des Markt- und
Meinungsforschungsinstituts Ipsos werden seit 2017 jährlich 1.000 Personen aus
bis zu 13 Ziel- oder Berufsgruppen befragt, die selbst Pflege benötigen oder
einen pflegerelevanten Beitrag leisten.
Pflegepersonal nimmt Politik in die Pflicht
Der Blick des Pflegemarkts richtet sich insbesondere in
Richtung der Politik. Vielen kommen die Bedürfnisse der Pflege auf der
Prioritätenliste der Politik anscheinend zu kurz. So stufen 80 Prozent der
Befragten den politischen Stellenwert der Pflege im Vergleich zu anderen Themen
als niedriger ein – ein Negativrekord seit 2017. Dieser Anteil wird von der
Berufsgruppe Pflege mit einer Zustimmungsquote von 90 Prozent sogar noch
getoppt, dicht gefolgt von Pflege- und Sozialberatern mit 89 Prozent.
Auffallend negativ äußern sich auch die Kostenträger, die mit dem höchstem
Negativwert seit fünf Jahren aufwarten. Während 2021 nur 39 Prozent einen negativen
Stellenwert der Pflege angaben, tun dies in der aktuellen Befragung 72 Prozent
– 33 Prozentpunkte mehr als im Vorjahr.
Abwärtstrend bei Arbeitsbedingungen der Pflegefachpersonen
Im Vergleich zum Vorjahr steigt die negative Wahrnehmung der
Pflegenden zu den eigenen Arbeitsbedingungen wieder. Sowohl 55 Prozent der
Berufsgruppe Pflege selbst als auch 59 Prozent der außenstehenden Personen
erteilen den Arbeitsbedingungen das Urteil „schlecht“.
Qualität der Pflegeversorgung nur mittelmäßig
Die Qualitätsbewertung der Pflegeversorgung bleibt für alle
Sektoren der Pflege (ambulant, stationär, Krankenhaus) unverändert im
Mittelfeld. Auffällig ist die harsche Selbstkritik der Berufsgruppe Pflege mit
ihrer eigenen Pflegequalität. Nur jeder Zehnte (10%) attestiert seiner
Profession „hochwertige Pflege“. Anders bei den zu Hause Pflegenden: Hier lobt
jeder zweite Angehörige (56%) die eigene/die häusliche Pflege.
Pflegende fordern Kompetenzerweiterung
Drei Viertel der Befragten (72%) sprechen sich außerdem für
eine Kompetenzerweiterung der Berufsgruppe Pflege aus – deutlich häufiger im
Vergleich zu anderen Gesundheitsberufen. Die Zustimmungswerte für Hebammen,
Therapeuten und Notfallsanitätern liegen nur bei etwa 58 Prozent.
Alarmierender Ausblick auf die zukünftige Pflegeversorgung
Jeder zweite Studienteilnehmer (51%) glaubt nicht, dass die
Pflegeversorgung in den kommenden zehn Jahren sichergestellt werden kann – der
negativste Wert seit fünf Jahren aus Sicht aller Befragten des CARE
Klima-Index.
Die Berufsgruppe Pflege ist diesbezüglich besonders
pessimistisch mit sieben von zehn Befragten (70%), die nicht daran glauben,
dass die Pflegeversorgung im nächsten Jahrzehnt gewährleistet werden kann –
ebenfalls der schlechteste Wert im Fünf-Jahres-Zeitverlauf.
Für Stephanie Hollaus, Pflegeforschungsexpertin bei Ipsos,
zeigen diese Ergebnisse einmal mehr, wie wichtig es ist, Stimmungen gerade in
einem so bedeutenden Markt wie der Pflege zu messen: „Der CARE Klima-Index kann
als jährlicher Indikator oder eine Art Frühwarnsystem gesehen werden, um
pflegerelevante Strategien ggf. nachzujustieren und auf aktuelle Bedürfnisse
anzupassen. Denn was bringen die besten Gesetzesänderungen und Maßnahmen, wenn
sie auf Seiten der Betroffenen keine spürbaren Veränderungen nach sich ziehen?
Die Ergebnisse zeigen die Dringlichkeit auf, mit der das Fundament für eine
gesicherte Pflege in Deutschland zeitnah gegossen werden muss.“ Ipsos 16
Sachverständigenrat. Kein Zusammenhang zwischen Einwanderung und Gewalt
Immer mehr Experten warnen davor, Migration als Ursache für
Silvesterkrawallen verantwortlich zu machen. Der Vorsitzende des
Sachverständigenrats sieht eher soziale und strukturelle Probleme. Gewalt unter
jugendlichen Männern gäbe es auch in ganz anderen Kontexten.
Der Vorsitzende des Sachverständigenrats für Integration und
Migration, Hans Vorländer, warnt davor, Migration als Ursache für die
Silvesterkrawalle in Berlin verantwortlich zu machen. „Zuwanderung ist keine Determinante
von Gewalttätigkeit. Das muss man sehr deutlich verneinen“, sagte er im
Mitteldeutschen Rundfunk (MDR). Es gebe soziale und strukturelle Probleme, die
behoben werden müssten.
Nach den Worten des Dresdener Politikwissenschaftlers ist
noch offen, ob die Angriffe in der Silvesternacht auf Einsatzkräfte von
Feuerwehr und Polizei tatsächlich aufgrund von Integrations- oder
Sozialisationsproblemen erfolgten. Aus der Forschung sei bekannt, dass das
soziale Umfeld eine entscheidende Rolle spiele, sagte er unter Hinweis auf die
Wohn-, Arbeits- und Ausbildungssituation sowie Beschulung. Gewalt unter
Jugendlichen, vor allem unter Männern, sei unabhängig von der Herkunft der
Betroffenen kein unbekanntes Phänomen.
Gewalt auch in anderen Kontexten ohne Eingewanderte
Vorländer erinnerte in diesem Zusammenhang an
Ausschreitungen seitens vor allem jüngerer Männer gegenüber der Polizei im
Anschluss an das Aufstiegsspiel von Dynamo Dresden vom Mai 2021. „Wir haben
solche Gewaltexzesse und gewalttätigen Auseinandersetzungen auf den Straßen
auch in anderen Kontexten, nicht nur dort, wo man glaubt, dass ein sehr hoher
Anteil an Zugewanderten lebt.“
In der Silvesternacht war es in mehreren deutschen Städten
zu schweren Ausschreitungen gekommen, so in Berlin und Nordrhein-Westfalen. Im
Zuge der Debatte um angemessene Reaktionen des Staates wurden Forderungen nach
mehr Sozialarbeit und schnellerer Bestrafung erhoben. (epd/mig 16)
Deutschland wegen Subventionsplänen in der Kritik
Deutschland pocht darauf, die Beihilferegeln der EU zu
lockern und den Mitgliedsstaaten mehr Spielraum bei der Subventionierung ihrer
Industrie zu geben. Einen Dämpfer erhält der Vorstoß jedoch von Expert:innen
und mehreren Mitgliedsstaaten, die befürchten, Deutschland könne dadurch
Wettbewerbsvorteile erlangen. Von: Jonathan Packroff und Oliver Noyan
Die EU ringt derzeit um eine Antwort auf den 500 Milliarden
Euro schweren US-Inflation Reduction Act. Denn die großzügigen Subventionen –
so die Sorge – könnte die europäische Industrie zu einer Abwanderung in die USA
bewegen.
Insbesondere Deutschland will die Regeln für staatliche
Beihilfen in der EU lockern, die derzeit einen fairen Wettbewerb zwischen den
Mitgliedstaaten innerhalb der Union gewährleisten, um mit den USA mithalten zu
können. Das Regelwerk „muss dringend reformiert und auf die Höhe der Zeit
gebracht werden“, heißt es in einem Strategiepapier der SPD-Fraktion von
letzter Woche.
Ein solcher Schritt könnte jedoch die Büchse der Pandora
offenen und zu einem Subventionswettlauf zwischen den Mitgliedsstaaten führen.
Mehrere Mitgliedsstaaten zeigen sich daher alarmiert.
„Eine Lockerung unserer Wettbewerbs- und Beihilferegeln ist
in den meisten Fällen nicht der beste oder vorteilhafteste Weg, um neue Herausforderungen
zu bewältigen“, sagte ein Sprecher des niederländischen Wirtschaftsministeriums
gegenüber EURACTIV.
Stattdessen könne eine Lockerung der Subventionsregeln
leicht zu Wettbewerbs- und Wachstumsverzerrungen oder zu einem „schädlichen
Subventionswettlauf führen, der wenigen nützt und vielen schadet“, fügte der
Sprecher hinzu.
Ähnliche Bedenken wurden auch in Tschechien geäußert, wo
einige Politiker befürchten, dass ein solcher Subventionswettlauf vor allem
größeren Mitgliedstaaten zugutekäme.
„Wenn es zu einer Spirale des ‚Wer gibt mehr‘ kommt, wird
die Tschechische Republik nicht gewinnen“, warnte der tschechische
Europaabgeordnete Lud?k Niedermayer (EVP).
„Unser Interesse ist es, die Regeln für staatliche Beihilfen
zu verschärfen und nicht zu lockern“, fügte der Europaabgeordnete der
tschechischen Regierungspartei TOP 09 hinzu.
Trotz wachsender Bedenken von Experten und kleineren
Mitgliedsstaaten scheint die Bundesregierung diese Bedenken allerdings bislang
nur bedingt erst zu nehmen.
Auf Nachfrage von EURACTIV, wie Deutschland auf diese
Bedenken reagiere, zeigte sich das Bundeswirtschaftsministerium zurückhaltend.
Konfrontiert mit der Kritik, sagte ein Sprecher des
Bundeswirtschaftsministeriums, dass man sich nur für „Anpassungen“ und „ausdrücklich
nicht für eine Aufgabe der EU-internen Wettbewerbskontrolle“ einsetze. Zudem
würde die Lockerung der Regeln der „EU in ihrer Gesamtheit“ zugutekommen, sagte
der Sprecher weiter.
Doch auch eine Lockerung könnte bereits große Auswirkungen
auf den Europäischen Wirtschaftsraum haben. Denn Deutschland macht bereits
jetzt vergleichsweise oft von den Subventionsmöglichkeiten Gebrauch – ein
Trend, der sich durch eine Lockerung in Zukunft noch verschärfen könnte.
Deutschlands Wettbewerbsvorsprung bei Subventionen
Bereits in der Reaktion auf die Corona-Pandemie und den
durch den Krieg in der Ukraine ausgelösten Energieschock gab Deutschland weit
mehr aus als andere EU-Staaten.
„Wir haben schon in der Corona-Krise und jetzt in der
Ukraine-Krise gesehen, dass die Länder mit tiefen Taschen, die fiskalpolitisch
größeren Spielraum haben, viel mehr in der Lage gewesen sind, gegenzusteuern,
ihre Unternehmen zu retten und den Druck abzufedern, der entstanden ist“, so
Armin Steinbach, Professor für EU-Recht und Wirtschaft an der École des Hautes
Études Commerciales de Paris, gegenüber EURACTIV.
„Wenn wir jetzt die Beihilferegeln weiter lockern,
vergrößern wir im Grunde diese Schieflage innerhalb Europas“, warnt er.
Nach Angaben der Europäischen Kommission sind deutsche Unternehmen
bereits jetzt bei Weitem die größten Nutznießer von staatlichen Beihilfen.
Im Zuge des Ukrainekrieges hat die EU-Kommission in einem
sogenannten Befristeten Krisenrahmen den Mitgliedsstaaten mehr Möglichkeiten
eingeräumt, ihren Unternehmen gegen die steigenden Energiepreise zu helfen.
Deutschland hat innerhalb dieses Rahmens mehr als die Hälfte
aller genehmigten staatlichen Beihilfen (53 Prozent) angemeldet, gefolgt von
Frankreich (24 Prozent) und Italien (7 Prozent). Auf die übrigen EU-Länder
entfallen nur 16 Prozent der angemeldeten Beihilfen, obwohl sie 45 Prozent der
Wirtschaftsleistung der EU ausmachen.
„Nicht alle Mitgliedstaaten verfügen über den gleichen
fiskalpolitischen Spielraum für staatliche Beihilfen. Das ist eine Tatsache.
Und ein Risiko für die Integrität Europas“, heißt es in einem Schreiben, das
die Vizepräsidentin der Kommission, Margrethe Vestager, am Freitag an die
nationalen Minister gerichtet hat und das EURACTIV einsehen konnte.
In dem Schreiben schlägt Vestager eine temporäre Erweiterung
der Beihilferegeln vor, die den Mitgliedsstaaten mehr Möglichkeiten einräumen
würde, auf ausländische Subventionen zu reagieren. Dies solle jedoch von einem
„kollektiven europäischen Fonds“ flankiert werden, der wohl durch gemeinsamen
EU-Schulden finanziert werden müsste. Dadurch sollen die Ungleichheiten
zwischen den Mitgliedsstaaten ausgeglichen werden.
Ein solcher Fonds wird insbesondere von Italien und
Frankreich lautstark unterstützt.
Zwar hat sich Frankreich gemeinsam mit Deutschland in einem
gemeinsamen Positionspapier für eine Lockerung der Beihilferegeln starkgemacht,
allerdings stellt man nun auch in Paris Bedingungen. Ein solcher Schritt würde
nur in Verbindung mit einem Fonds auf EU-Ebene Sinn machen, stellte die
französische Europaministerin Laurence Boone klar.
Ihr Ziel sei es, „sicherzustellen, dass diese Mittel nicht
von einem einzigen Land vereinnahmt werden, was der Fall sein könnte, wenn wir
die staatlichen Beihilfen einfach flexibler gestalten“, erklärte sie am
vergangenen Mittwoch (11. Januar) im EU-Ausschuss der französischen
Nationalversammlung.
„Um dies zu gewährleisten, werden wir uns für ein
europäisches Instrument einsetzen, um die Fragmentierung zu verringern und
allen europäischen Ländern die gleichen Bedingungen für Vereinfachung und
Finanzierung zu bieten“, fügte sie hinzu.
Ähnlich äußerte sich die italienische Ministerpräsidentin
Giorgia Meloni bei einem Treffen mit Kommissionspräsidentin Ursula von der
Leyen letzte Woche in Rom.
Sie betonte, dass Italien einer Lockerung der Beihilferegeln
nur dann zustimmen würde, wenn dieser von einem „Europäischer
Souveränitätsfonds“ begleitet wird, da Deutschland ansonsten unverhältnismäßig
stark von einer Lockerung der Beihilferegeln profitieren würde.
Die Bundesregierung hat sich jedoch bisher grundsätzlich
gegen eine solche Option ausgesprochen. Nach Plänen des
Bundeswirtschaftsministeriums, die dem Handelsblatt zugespielt wurden, ist
Berlin gegenüber einer europäischen Antwort äußerst skeptisch. Stattdessen
sollten die zusätzlichen Mittel „in erster Linie national aufgebracht werden“,
heißt es in dem Dokument.
Bundesfinanzminister Christian Lindner steht einer europäischen
Antwort, die eine gemeinsame europäische Verschuldung beinhaltet, besonders
kritisch gegenüber.
„Mit einem Souveränitätsfonds darf […] nicht ein neuer
Anlauf unternommen werden für gemeinsame europäische Schuldenaufnahme“, sagte
Lindner Anfang Dezember. „Das wäre nur die immer gleiche Lösung auf der Suche
nach immer neuen Anlässen.“ EA 16