Webgiornale, dicembre 2025
Il Presidente Mattarella in Germania, al Bundestag
Berlino. Il
Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, con il Presidente della
Repubblica Federale di Germania, Frank-Walter Steinmeier, ha partecipato a
Berlino alla cerimonia della “Giornata del lutto nazionale”, per commemorare,
insieme, le vittime dei conflitti, a 80 anni dalla fine della Seconda Guerra
mondiale. Il Capo dello Stato è intervenuto al Palazzo del Reichstag, sede del
Parlamento tedesco, dove ha tenuto il discorso commemorativo dinanzi ai massimi
rappresentanti degli organi costituzionali della Germania. Prima della
celebrazione, il Presidente Mattarella si era già recato al Reichstag per
incontrare la Presidente del Bundestag, Julia Klöckner. Sempre di mattina,
Mattarella, Steinmeier e Klöckner hanno reso omaggio alle vittime della guerra,
deponendo una corona di fiori al Monumento della Nuova Guardia di Berlino.
“Siamo in questa Aula solenne – ha esordito nel suo intervento al
Reichstag il Presidente Mattarella – per fare memoria dei caduti, delle vittime
della guerra e della violenza. Caduti negli abissi della storia, nelle insidie
tese da altri uomini. La vita delle persone, dei popoli, delle nazioni, è colma
di inciampi e di tragedie. Talvolta per scelte individuali, più spesso per
deliberato operare degli altri. La Prima guerra mondiale lasciò sul terreno
almeno 16 milioni di morti, la metà dei quali civili, oltre a venti milioni di
feriti e mutilati. La Seconda guerra mondiale, estesa al fronte del Pacifico,
si calcola che abbia visto settanta milioni di morti. Le vittime, Paese per Paese,
sono impressionanti. E va sempre ricordato che non di numeri si tratta ma di
persone. Come è possibile che tutto questo sia potuto accadere e pretenda di
ripresentarsi? Quanti morti occorreranno ancora, prima che si cessi di guardare
alla guerra come strumento per risolvere le controversie tra gli Stati, che se
ne faccia uso per l’arbitrio di voler dominare altri popoli?”
“Oggi, è per me
motivo di grande onore – ha proseguito Mattarella – essere qui e prendere parte
alla Giornata del lutto nazionale tedesco, per commemorare, insieme, le vittime
dei conflitti proprio nell’anno in cui celebriamo gli ottant’anni dalla fine del
secondo conflitto mondiale. I morti che qui ricordiamo, i morti nel mondo a
causa della violenza dei conflitti riguardano ciascuno di noi se intendiamo
essere considerati esseri umani. Oggi rivolgiamo il nostro sguardo, il nostro
pensiero, alle vittime di quelle tragedie. Dai militari caduti ai civili,
vittime di quella condizione – la guerra – che la Legge Fondamentale tedesca e
la Costituzione italiana ripudiano, facendo propria la grande lezione derivante
dal tragico secondo conflitto mondiale. Ci uniamo, in una giornata di memoria e
di lutto, perché ricordare la nostra storia comune è esercizio indispensabile
nella nostra inesauribile aspirazione alla pace. Memoria delle atrocità
dell’uomo nel passato e dolore profondo per quelle presenti ci obbligano a un
esercizio di consapevolezza: la pace non è un traguardo definitivo, bensì il
frutto di uno sforzo incessante, fondato sul raggiungimento di valori condivisi
e sul riconoscimento della inviolabilità della dignità umana di ogni persona,
ovunque. Da sempre la guerra ambisce a proiettare la sua ombra cupa
sull’umanità. Il Novecento, con lo sviluppo della industrializzazione della
morte, ha trasformato la tragedia dei soldati in tragedia dei popoli. Nei
borghi d’Europa e nelle città distrutte dai bombardamenti, nelle campagne
devastate, milioni di civili divennero bersagli. Deportazioni, genocidi, hanno
caratterizzato la Seconda guerra mondiale. Da allora, il volto della guerra non
si riflette soltanto in quello del combattente, ma diviene quello del bambino,
della madre, dell’anziano senza difesa. È quanto accade, oggi, a Kiev, a Gaza.
La guerra totale esige non la sconfitta, la resa del nemico, ma il suo
annientamento. Un accrescimento di crudeltà. Con l’era atomica, un solo gesto
può cancellare una città e l’innocenza stessa del mondo”.
“La Democrazia
vivente. È chiave fondamentale – ha aggiunto il Capo dello Stato – nel rapporto
tra principio di autorità e principio di democrazia. È, infatti, la democrazia
che sorregge l’autorità e la legittima. Superando le tentazioni di
totalitarismi che pretendono di essere e rappresentare il tutto. Perché la
democrazia parte dal principio di libertà che, a sua volta, si basa sulla
universalità dell’uguaglianza tra le persone. Nel dopoguerra, la nascita delle
Nazioni Unite, le Convenzioni di Ginevra, hanno acceso la speranza di una pace
fondata sul diritto, riaffermando un principio fondamentale: la popolazione
civile deve essere protetta in ogni circostanza. La cronaca successiva – dal
Biafra ai Balcani, dal Ruanda alla Siria, fino all’Ucraina, alla Striscia di
Gaza, al Sudan – ci mostra, che la guerra continua a colpire soprattutto
chi combattente non è. Oggi, secondo le Nazioni Unite, oltre il 90% delle
vittime dei conflitti è tra i civili. Questo non può rimanere ignorato e
impunito. Il numero di persone costrette ad abbandonare le proprie case, la
propria terra, non ha precedenti. Secondo il rapporto reso noto ad aprile
dall’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati, questi erano 122 milioni, in
aumento di anno in anno. Anche qui non si tratta di statistiche. Sono volti,
persone in cammino, famiglie cancellate, alle quali viene sottratto il futuro
che preparavano. Il Diritto internazionale umanitario, argine alla disumanità
della guerra, – ha continuato Mattarella – è messo in discussione dai fatti. Ma
nessuna “circostanza eccezionale” può giustificare l’ingiustificabile: i
bombardamenti nelle aree abitate, l’uso cinico della fame contro le
popolazioni, la violenza sessuale. La caduta della distinzione tra civili e
combattenti colpisce al cuore lo stesso principio di umanità. È
l’applicazione sistematica della ignobile pratica della rappresaglia contro gli
innocenti. Colpisce l’ordine internazionale, basato sul principio del rispetto
tra i popoli e del riconoscimento dell’orrore della guerra, oggi aggravata dal
continuo irrompere di nuove armi”. “La pace – ha poi rilevato Mattarella – non
è frutto di rassegnazione di fronte alle grandi tragedie. Ma di iniziative
coraggiose, di persone coraggiose. In questi decenni tanti attori della
comunità internazionale – e tra essi l’Unione Europea – con ostinazione e non
senza fatica, hanno perseguito la pace, che si nutre del rispetto dei diritti
umani fondamentali. Perché, se vuoi la pace, devi costruirla e preservarla. La
cooperazione tra Stati, istituzioni, popoli è la sola misura che può proteggere
la dignità umana. Sono le istituzioni multilaterali come le Nazioni Unite, la
Corte Penale Internazionale, le missioni di pace, le agenzie umanitarie a
concorrere alla impegnativa e affascinante fatica della costruzione di una
coscienza globale. Il multilateralismo non è burocrazia, come, invece,
asseriscono i prepotenti: è l’utensile che raffredda le divergenze e ne
consente soluzione pacifica; è il linguaggio della comune responsabilità. È la
voce che richiama al valore della vita di ogni singola persona, contrapposta
all’arroganza di chi vorrebbe far prevalere la logica di una spregiudicata
presunta ragion di Stato, dimentica che la sovranità popolare appartiene,
appunto ai cittadini. La sovranità è dei cittadini e non appartiene a un Moloch
impersonale che pretenda di determinarne i destini. È uno strumento di difesa
che gli abitanti del pianeta possono opporre alla logica della sopraffazione di
chi – sentendosi momentaneamente in posizione di vantaggio – si ritiene
legittimato a depredare gli altri”. “Tocca ai nostri popoli,– ha continuato il
Presidente della repubblica – uniti nella sofferenza della responsabilità
dell’ultima guerra mondiale, e capaci oggi di essere uniti nella costruzione di
un futuro di pace e di progresso. Tocca alla Repubblica Federale Tedesca, tocca
alla Repubblica Italiana – come a tutti nella comunità internazionale – opporre
la forza del diritto alla pretesa preminenza della forza delle armi. Considero
questa giornata anche un invito a riflettere, insieme, sul percorso
straordinario che le nostre due Repubbliche hanno compiuto, fianco a fianco,
per costruire – in questi ottant’anni – un mondo migliore, partendo
dall’Europa. Per avere raggiunto l’approdo della saggezza nella vita internazionale
e dell’autentico coraggio. Per essere davvero ‘grandi’. Perché questo siamo
divenuti in questi decenni, abbracciando la causa dell’unità europea. Abbiamo
saputo dar vita a un’area di pace, di libertà, di prosperità, di rispetto dei
diritti umani, che non ha precedenti nella storia. Con la lucidità del coraggio
di chi chiedeva di voltare pagina e si adoperava per farlo. L’Unione Europea,
nata dalle rovine della guerra, ha saputo farsi portatrice del multilateralismo
al servizio della pace. È una responsabilità che si accentua oggi. In questa
preoccupante congiuntura internazionale. È un ruolo storico: i precursori
perseguirono l’unità quando non esisteva, contro ogni esperienza precedente. I
Paesi europei hanno dimostrato di avere coraggio. I leader europei hanno
dimostrato di avere coraggio. Non lasciamo che, oggi, il sogno europeo –
la nostra Unione – venga lacerato da epigoni di tempi bui. Di tempi che hanno
lasciato dolore, miseria, desolazione. Questo dovere ci compete. A ogni
generazione il suo compito. Lo dobbiamo – ha concluso Mattarella – ai caduti
che oggi ricordiamo. Lo dobbiamo ai nomi scritti sulle pietre d’inciampo delle
nostre città. Lo dobbiamo al prezioso lavoro di conservazione della memoria del
Volksbund. Lo dobbiamo, infine, ai nostri giovani, che hanno diritto a un mondo
sicuro, diverso e migliore di quello di guerra e dopoguerra”.
Mattarella e
Steinmeier consegnano il Premio dei Presidenti
Il Presidente
della Repubblica, Sergio Mattarella, insieme al Presidente della Repubblica
Federale di Germania, Frank-Walter Steinmeier, hanno premiato a Berlino i
vincitori del “Premio dei Presidenti per la cooperazione comunale tra Italia e
Germania”, giunto quest’anno alla sua terza edizione. Istituito nel 2020 ad
opera degli stessi Mattarella e Steinmeier, il riconoscimento è volto a
premiare gemellaggi e progetti tra comuni in Germania e Italia soprattutto nei
settori Cultura, Giovani e Impegno civico, Innovazione e Coesione sociale. Dopo
l’edizione del 2021, svolta nella capitale tedesca, e del 2023, tenutasi a
Siracusa, quest’anno i Premi sono stati consegnati nuovamente a Berlino, a
Palazzo Bellevue, residenza ufficiale del Presidente Federale di Germania, dove
il Presidente Mattarella e il suo omologo tedesco, hanno premiato le seguenti
città e i Comuni vincitori dell’edizione 2025. Per la categoria Comuni di
grandi dimensioni (almeno un comune con più di 40.000 abitanti): Bologna
(Emilia-Romagna) – Münster (Nord Reno-Vestfalia), Pistoia (Toscana) – Zittau
(Sassonia). Per la categoria Comuni minori (fino a 40.000 abitanti): Gubbio
(Umbria) – Wertheim (Baden-Württemberg); Greve in Chianti (Toscana) – Comune di
Veitshöchheim (Baviera); Formigine (Emilia-Romagna) – Verden (Bassa Sassonia);
Gualdo Tadino (Umbria) – Schwandorf (Baviera). Prima della consegna dei Premi,
entrambi i Presidenti hanno preso la parola. Terminata la premiazione il
Presidente Mattarella ha preso parte ad un evento collaterale dal titolo “70
anni di presenza italiana in Germania”, per ricordare il 70° anniversario
dell’accordo sul reclutamento e il collocamento dei lavoratori italiani nella
Repubblica Federale di Germania. Nell’ambito della cerimonia si è esibito il
cantautore Vinicio Capossela, nato ad Hannover.
“Noi celebriamo la
premiazione della terza edizione del ‘Premio dei Presidenti per la Cooperazione
comunale tra Germania e Italia’ e ricordiamo l’intesa, che settant’anni fa, ha
sospinto tanti lavoratori italiani a recarsi in Germania. Ne abbiamo qui presente
un esponente, protagonista e dinamico. Il ruolo che hanno svolto è stato
un ruolo, al di là del proprio lavoro, di unione, di integrazione crescente,
tra Germania e Italia, con il loro impegno e con quello dei loro discendenti”.
Ha esordito nel suo intervento il Capo dello Stato che ha aggiunto: “Sono
trascorsi cinque anni dalla prima edizione, nata, nel contesto dell’emergenza
pandemica, dalla volontà di rendere ancor più intenso il rapporto di
solidarietà che ci ha uniti in quelle drammatiche circostanze. Giunti alla
terza edizione, possiamo riscontrare che la scelta di valorizzare i Comuni
nell’ambito dell’amicizia che unisce i nostri popoli sia stata una decisione
lungimirante. Oggi più che mai le Municipalità sono protagoniste di un nuovo
capitolo della storia globale. Nel mondo attraversato da profonde tensioni,
geopolitiche, climatiche, da spinte regressive, le città non sono soltanto
luoghi in cui riparare: sono fucine di umanità, incontro tra popoli, nodi di
una rete in cui si vivono esperienze che possono migliorare la vita delle
nostre comunità. Il Premio valorizza il ruolo dei Comuni e incoraggia le
Amministrazioni locali a tessere sempre nuovi rapporti con le realtà di altri
Paesi, sviluppando così una vera e propria rete di diplomazia comunale.
Gemellaggi, reti di cooperazione, scambi culturali, progetti congiunti tra i
Comuni di Germania e Italia – ha continuato Mattarella – permettono di
accrescere la conoscenza reciproca, sviluppando cooperazione e fiducia. La
collaborazione tra Comuni dei due Paesi, unendo le rispettive memorie,
identità, aspirazioni, dà ai propri concittadini un tangibile esempio dei
benefici che derivano dall’apertura al mondo, dalla condivisione. Le comunità
locali, in tal modo, non sono soltanto ambasciatrici dei valori della propria
comunità, ma danno vita a un modello ricco di fiducia nell’avvenire che ci
unisce nella cornice europea. Si sa che le comunità locali sono per eccellenza
luoghi in cui i giovani apprendono non soltanto nozioni elementari di vita, ma
valori, competenze e senso civico. Quest’anno – ha proseguito il Presidente
della Repubblica – i progetti premiati privilegiano il dialogo tra le
generazioni e la promozione degli spazi pubblici come luoghi di scambio e di
interazione sociale. Un parco curato insegna rispetto per i beni comuni; un
centro giovanile offre occasioni di confronto e di crescita; un quartiere
solidale insegna che la diversità è una ricchezza. L’incontro tra persone di
età diversa permette di incrementare e custodire il patrimonio di esperienze di
una comunità. Le amministrazioni locali – ha aggiunto Mattarella – possono
essere protagoniste di un’educazione diffusa, sostenendo progetti che portino i
ragazzi a conoscere la storia, il proprio territorio, a partecipare alla vita
pubblica, a sentirsi responsabili della cura del mondo, partendo dalla propria
strada, dal proprio quartiere, dalla propria gente, per aprirsi agli altri,
imparando a confrontarsi con giovani che, pur abitando luoghi diversi,
affrontano problemi analoghi. I municipi sono maestri di cittadinanza: a
partire dalla finalizzazione, progettazione, organizzazione e dalla
condivisione degli spazi. I luoghi in cui abitare, comunicare, esprimersi,
lavorare, sono di per sè assai indicativi. È lì che i giovani sperimentano
davvero cosa significhi democrazia, partecipazione, vita in comunità. E’ così
che una collettività cresce, investendo sul suo futuro. I Comuni si trovano ad
essere laboratori di innovazione, a confronto con la sfida ambientale. A fronte
di questioni come l’inquinamento, il traffico, gli sprechi anche energetici,
così come lo spopolamento e il rischio di desertificazione di servizi per i
centri minori, nascono soluzioni creative. Di cui beneficiano i livelli
nazionali e sovranazionali. Rafforzare il loro protagonismo, – ha concluso
Mattarella – sostenere le reti tra amministrazioni locali, valorizzando il
dialogo tra città e cittadini è, dunque, lungimirante”. (Inform/dip 17)
Cittadinanza italiana, rinviata a primavera 2026 l’udienza sui discendenti
La battaglia dei
discendenti di italiani all’estero per il riconoscimento della cittadinanza
italiana “iure sanguinis” entra in una nuova fase
L’udienza davanti
alle Sezioni Unite della Corte Suprema di Cassazione, inizialmente prevista per
il 13 gennaio 2026, è stata rinviata a una data tra febbraio e aprile 2026. La
notizia è stata confermata dall’avvocato Marco Mellone, che segue due casi simbolo
di famiglie italo-americane a cui era stata negata la cittadinanza.
Tutto parte dal
crescente numero di richieste di riconoscimento della cittadinanza italiana da
parte di discendenti di emigrati. Molti hanno visto respingere la propria
domanda, spesso per motivi burocratici o per interpretazioni restrittive della
legge.
I ricorsi n.
18354/2024 e n. 18357/2024 riguardano due famiglie italo-americane convinte di
avere diritto alla cittadinanza grazie alla discendenza da antenati italiani.
Secondo i ricorrenti, le negazioni ricevute sono ingiuste e discriminatorie,
perché non rispettano il principio giuridico del riconoscimento per
discendenza, creando disparità tra chi ha ottenuto la cittadinanza e chi, pur
avendo gli stessi requisiti, non l’ha ricevuta.
La vicenda si lega
a due normative: la Legge n. 555 del 1912, che prevedeva tra l’altro la perdita
automatica della cittadinanza dei minori se i genitori si naturalizzavano in un
altro Paese; e la Legge n. 74 del 2025, nota anche come “Decreto della Vergogna”
e derivata dal decreto-legge n. 36/2025, che ha introdotto modifiche profonde
al riconoscimento della cittadinanza per discendenza, suscitando forte
controversia tra esperti e cittadini.
Sebbene uno dei
temi in discussione riguardi la vecchia norma sulla perdita della cittadinanza
dei minori, il punto principale dell’udienza sarà la retroattività del
DecretoTajani. L’applicazione della nuova legge ha infatti generato incertezze
su migliaia di discendenti già riconosciuti o nati cittadini italiani, come se
fossero stati “declassati” da cittadini a semplici stranieri.
I procedimenti
riguardano famiglie alle quali il riconoscimento della cittadinanza è stato
negato sia in primo che in secondo grado, in base all’articolo 12, comma 2,
della Legge n. 555/1912. La difesa è stata curata dall’avvocato Marco Mellone,
PhD, autore di diverse opere sulla cittadinanza, che ha chiesto il rinvio dei
casi alle Sezioni Unite per la loro importanza collettiva.
Secondo Mellone
“L’udienza rimandata servirà al massimo organo della giustizia civile in Italia
per analizzare preliminarmente l’applicabilità retroattiva del Decreto-Legge n.
36/2025. I due casi erano già depositati prima dell’entrata in vigore della legge,
ma ho chiesto alla Suprema Corte di valutare se questo ius superveniens possa
incidere sul caso concreto. La Corte ha accolto la richiesta e definirà i
limiti temporali della nuova legge, stabilendo se si applichi anche a chi ha
già acquisito la cittadinanza fin dalla nascita. Questo pronunciamento avrà
effetti anche sul processo di costituzionalità sollevato dal Tribunale di
Torino”.
In pratica,
l’avvocato Mellone ha colto l’occasione per chiedere che le Sezioni Unite
valutassero anche la retroattività del Decreto Tajani, prima di esaminare nel
merito l’articolo 12.2 della Legge n. 555/1912.
Il secondo punto
riguarda la validità dell’articolo 12.2, ossia la perdita automatica della
cittadinanza italiana per i minori quando il padre o la madre si naturalizzano
stranieri.
“Si tratta di
verificare se questo meccanismo sia costituzionale, dato che il minore perdeva
la cittadinanza senza volerlo, e se si applichi anche quando il bambino era già
cittadino del nuovo Paese fin dalla nascita (ius soli). Il numero di
interessati è enorme: tra il 60 e il 70% degli emigrati italiani negli Stati
Uniti, e in misura minore in altri Paesi, si naturalizzarono durante la minore
età dei figli”, spiega Mellone.
Le decisioni delle
Sezioni Unite della Cassazione hanno valore vincolante per tutti i tribunali
italiani e influenzano anche l’attività amministrativa e politica. Come ricorda
Mellone “Dopo la nuova legge sulla cittadinanza, che ha creato tanta incertezza,
finalmente i discendenti potranno contare su una ‘loro legge’, emanata dal
massimo organo della giurisdizione civile in Italia e conforme ai principi
giuridici fondamentali”.
La pronuncia della
primavera 2026 sarà quindi determinante per migliaia di discendenti di italiani
nel mondo, dagli Stati Uniti all’Argentina fino all’Europa, e potrebbe
stabilire un quadro chiaro e uniforme sul diritto alla cittadinanza.
Però fino alla
sentenza, molte pratiche di riconoscimento della cittadinanza continueranno a
essere sospese o rallentate, in attesa di una decisione definitiva che
chiarisca i diritti dei discendenti italiani.
Continueremo a
seguire da vicino l’evoluzione della vicenda, aggiornando i lettori sulle nuove
date dell’udienza e sulle conseguenze della sentenza per gli italiani nel
mondo. L.L.D. CdI on 31.10.
Cgie. Continentale Europa/Nord Africa: i lavori a Dortmund
Roma - Con gli
Inni nazionali dell’Italia, della Germania e dell’Europa sono iniziati questa
mattina a Dortmund i lavori della Commissione continentale Europa – Nord Africa
del Consiglio generale degli italiani all’estero.
A presiedere e
introdurre i lavori, alla presenza della segretaria generale Maria Chiara
Prodi, è stato il vicesegretario Giuseppe Stabile che ha sottolineato
l’importanza della presenza dei consiglieri, testimonianza del loro “forte
legame comunità nel mondo”, in una città, Dormtund, che, come altre città
tedesche, si appresta a commemorare i 70 anni degli accordi bilaterali sul
lavoro tra Italia e Germania, un “passaggio fondamentale della storia della
nostra emigrazione”.
In Germania così
come in un tutto il mondo, ha aggiunto Stabile, “gli italiani hanno creato
impresa, lavoro, cultura; hanno imparato, innovato, costruito legami”, creando
“una ricchezza che non appartiene solo ai Paesi che li ospitano, ma che fa
parte del patrimonio dell’Italia”.
Per questo, ha
osservato Stabile, sono importanti le politiche per incentivare il rientro dei
connazionali che, ha sottolineato, “non servono solo per riportare fisicamente
qualcuno in Italia, ma anche per creare le condizioni affinché chi sceglie di
tornare possa mettere a disposizione le sue competenze, i suoi contatti, la
rete economica e professionale maturata all’estero, che sia il suo un rientro
stabile, o di investimenti, di collaborazione a distanza o un trasferimento di
know how”.
L’importante è che
“chi è partito”, che rientri o no, “possa contribuire all’Italia grazie al suo
percorso nel mondo”. D’altra parte, ha aggiunto, “l’amore per gli italiani
all’estero non può tradursi in un modello che si limita a chiedere risorse
all’Italia senza creare valore, in un mero assistenzialismo o nell’aspettativa
di contributi unilaterali”. A fronte di una difficile situazione economica, ha
affermato Stabile, “anche i servizi per gli italiani all’estero sono destinati
a diminuire, che siano servizi consolari, educativi, assistenziali”, per questo
“la corresponsabilità è un’esigenza concreata” perché “sostenere l’Italia
significa continuare a sostenere anche le sue comunità nel mondo”.
“Non assistenza,
ma corresponsabilità”, ha ribadito concludendo il vicesegretario. “Non solo
fondi, ma anche idee, investimenti, competenze che tornano al Paese”.
Presenti ai lavori
anche la consigliera d’ambasciata Silvia Maria Lucia Santangelo (Ufficio
Affari Sociali e Coordinamento Consolare) e la Console a Dortmund Alice
Joy Cox.
Santangelo ha
portato ai consiglieri il saluto dell’ambasciatore Bucci. La sua presenza, ha
evidenziato, testimonia “l’attenzione dell’ambasciata segue la comunità
italiana in Germania. Significativa – ha aggiunto – la scelta della Germania
per questo incontro”. Nel 1955, ha ricordato, Italia e Germania firmarono
l’accordo sul lavoro: due Paesi “entrambi distrutti dalla II Guerra Mondiale,
capaci di risollevarsi. L’apporto degli italiani alla ricostruzione della
Germania è stato unico e non va dimenticato, così come non va dimenticata la
presenza italiana oggi: 900mila connazionali fanno di quella in terra tedesca
la comunità italiana più numerosa al mondo”. Una comunità “molto
differenziata”, che comprende “oltre 2mila imprese in Germania e 5mila ricercatori”.
Oggi “molti giovani italiani, che si spostano da un Paese all’altro si muovono
in uno spazio di cittadinanza europea”. A questa collettività l’Ambasciata è
vicina così come lo è “alle istituzioni espressioni della comunità, come il
Cgie”.
Nella numerosa
comunità italiana in Germania, “vasta e dinamica” è quella residente a
Dortmund, dove gli Aire sono 70mila, mentre oltre 200mila sono quelli residenti
nel Nord Reno Westfalia. Numeri ricordati dalla Console Cox che ha
definito il Cgie un “pilastro fondamentale di consultazione e raccordo tra gli
italiani all’estero e l’Italia”. Voi, ha detto ai consiglieri, “incarnate la
voce dei connazionali”. (ma.cip. aise/dip 6)
70°. La Baviera onora la presenza dei tanti lavoratori italiani
Monaco di Baviera.
Lunedì, 17 Novembre 2025, invitati dal Ministro dell'Interno e
dell'Integrazione della Baviera, Joachim Herrmann, dietro segnalazione del
Console Generale d'Italia a Monaco, Dr. Sergio Maffettone, hanno preso parte
alla Cerimonia per il 70° Anniversario del primo accordo di reclutamento di
manodopera tra la Germania dell'Ovest di allora e l'Italia, la Presidente
del Comites di Monaco di Baviera, Dr.ssa Daniela di Benedetto; la Dr.ssa
Paola Zuccarini (Direttrice del Forum Italia), la Dr.ssa Patrizia Mazzadi
(Direttrice della Scuola Leonardo da Vinci); il Corrispondente Consolare, Dr.
Fernando Grasso; il Presidente delle ACLI Baviera, Comm. Carmine Macaluso;
il Corrispondente Consolare, Comm. Antonino Tortorici; l'Ing. Claudio Cumani
(già Presidente del Comites); e altre decine di Connazionali.
Una Celebrazione
voluta dal Ministro di Stato, che, così, ha voluto onorare il lavoro e i
successi di tanti lavoratori italiani ospiti
"Gastarbeiter"; che, in questi decenni e, nella stragrande
maggioranza dei casi, da ospiti, sono diventati cittadini in pianta stabile
–spesso– con doppia cittadinanza. E, con loro, Herrmann ha voluto
lodare anche i loro discendenti. Lavoratori ospiti, ai quali
–successivamente– se ne sono aggiunti tanti altri, provenienti da
numerosi Paesi, come: la Grecia, la Turchia, i Paesi della ex Jugoslavia,
il Marocco, il Portogallo e "und, und, und...", come specificato dal
Ministro.
Nel corso della
serata –come da programma– oltre al lungo e articolato discorso, il
Ministro ha percorso gli anni del secondo dopoguerra; anni in cui la
Germania era divisa in due Stati: la Repubblica Federale di Germania (Germania
dell'Ovest), e la Repubblica Democratica Tedesca (Germania dell'Est),
partendo dal primo patto del 20 Dicembre 1955 della Germania dell'Ovest con
l'Italia e proseguendo con i successivi accordi con le altre Nazioni, di cui
sopra.
Hermann,
rivolgendosi al pubblico presente, tra cui diversi rappresentanti della
Diplomazia internazionale presente a Monaco, di Autorità Civili, Militari e
Religiose, rivolgendosi ai lavoratori presenti, ha dichiarato più volte di
essere fiero di tanti lavoratori, di prima, di seconda e di terza generazione;
fiero della loro onestà e laboriosità, lavoratrici e lavoratori che hanno
contribuito sensibilmente alla crescita economica della Germania –adesso–
felicemente riunificata e –non per ultimo– della serena condizione
della Baviera con il più basso numero di disoccupati tra tutti i
"Länder" tedeschi; un tasso valido anche per gli immigrati.
Molto interessante
e coinvolgente anche il talk show magistralmente moderato dall'incantevole
Özlem Sarikaya (Turchia) della Bayerischer Rundfunk; spettacolo al quale hanno
partecipato, oltre al Padrone di casa Herrmann, le scrittrici Heleni Tsakmaki
(Grecia), Ornella Cosenza (Italia) e l'Ufficiale di Polizia Oliver Penonic (ex
Jugoslavia). Interessante soprattutto per il confronto tra le tre generazioni
di immigrati, e per i messaggi che tutti e tre, partendo dalle loro personali
esperienze hanno espresso, alla fine, invitati da Sarikaya e dal Ministro, la
seguente dichiarazione: "Comprensione tra i popoli, accettazione delle
differenze che possono arricchirci vicendevolmente, e, soprattutto: Pace,
pace... Purtroppo, al momento attuale, minacciata in più parti del mondo",
hanno ripetuto –usando tutti e tre, quasi, le stesse parole– e aggiungendo
l'importanza della conservazione della propria lingua d'origine. Cosa approvata
ampiamente dal Ministro. Ministro, con il quale –chi scrive– ha avuto il
piacere di scambiare qualche parola, raccontando brevemente a lui e al
Console Generale, un piacevole aneddotto personale.
Un altro momento
coinvolgente è stato anche il bellissimo Musikvideo "Gastarbeiter" di
Eko Fresh –con immagini talvolta sfuggenti e struggenti– "Nu piezz' 'e
core", direbbe un napoletano, e, non solo lui! Momenti in cui viene
ripercorsa la vita in emigrazione. Un video che ha fatto ricordare allo
scrivente la sua vita di immigrato da sessant'anni di Germania. Nei primi anni
da operaio generico e –in seguito– specializzato, nell'industria; e, dopo, da
insegnante con laurea magistrale, master, licenza teologica "und, und
und...", imitando il Ministro. In giro per la Svevia per più di trent'anni
(il Consigliere scolastico bavarese lo chiamava, benevolmente,
"Wanderlehrer". Insegnante itinerante, dato che ogni giorno era in
una scuola e in una città diversa. E per trentaquattro anni come Incaricato per
la lingua italiana presso l'Università di Scienze Applicate di Kempten. (E
ancora, a 82 anni suonati, egli, non si è ancora stancato, dato che
–imperterrito– seguita a insegnare in presenza e da remoto; continuando
alche con attività di carattere associativo e assistenziale, come in passato.
In concomitanza
con le celebrazioni a Kaufbeuren, per i 70 Anni dei Patti bilaterali tra la
Germania e l'Italia per l'invio di manodopera, questi decenni sono stati
documentati con una serie di interviste fatte dallo scrivente a
Connazionali arrivati in Germania negli Anni Sessanta, come lui, in un opuscolo
curato insieme con Macaluso, come Aclisti. In questo libretto, da essi
pubblicato, compaiono parole di Presentazione con foto del Primo Borgomastro di
Kaufbeuren Stefan Bosse, del Console Generale Meffettone, dello stesso Macaluso
e un paio di immagini, le più struggenti delle quali ritraggono Fernando
Grasso all'età di 22 anni con suo Padre Francesco (51 anni), nell'Agosto del
1965, arrivati da qualche mese a Kempten e, nel 2015 Fernando con
l'adorata Sposa, Enza, scomparsa nel 2024 a 81 anni, dopo 54 anni di serena
felicità. In altre foto si vedono, oltre ad alcune di repertorio: una squadra
di calcio: Grasso, Tortorici, Macaluso con il Console Generale Maffettone,
ragazze del Gruppo Folk-ACLI.
Durante le
celebrazioni a Kaufbeuren, per diversi giorni, sono state esposte,
inoltre, in una mostra, appositamente allestita per l'occasione, decine
di foto messe a disposizione dal Corrispondente Consolare Tortorici, di cui
sopra. Mostre che il Corrispondente, in questi anni, ha organizzato in
diverse città, tra cui Mindelheim. Altri momenti, che hanno coinvolto
letteralmente il pubblico durante la serata, sono stati gli intermezzi musicali
offerti dal Gruppo "Quattro Amici", con canzoni come:
"Volare" o "Il ragazzo della via Gluck".
Al termine della
serata la Bayerischer Rundfunk ha realizzato, oltre ad una intervista al
Ministro Hermann, tre brevi interviste ai già nominati: Tortorici, Macaluso e
Grasso. Il festoso e –soprattutto– cordialissimo evento, che ha avuto luogo
nella Max-Joseph-Saal della Residenz di Monaco, con inizio alle ore
18:00, si è concluso alle 21:30 dopo un magnifico, variegato e
succulento buffet.
Dr. Fernando A.
Grasso, dip 19
Un accordo spaziale europeo per affrontare le sfide del mercato
L’accordo
raggiunto fra Airbus, Thales e Leonardo per integrare le loro attività nel
campo dei satelliti e dei servizi spaziali costituendo una nuova società di
fatto partitetica (provvisoriamente denominata Bromo, come un importante
vulcano indonesiano) rappresenta un’ottima notizia per lo spazio europeo e per
le imprese coinvolte, ma anche, più in generale, per l’Unione Europea.
Lo spazio europeo
non ha saputo cogliere per tempo i segnali che sono arrivati nell’ultimo
decennio dal mercato americano e dalla crescita di nuovi attori spaziali nel
mondo. La comparsa degli investitori privati negli Stati Uniti è stata
inizialmente considerata come un’iniziativa “locale” e così le nuove iniziative
sul piano tecnologico e industriale, come i lanciatori riutilizzabili e le
costellazioni di satelliti di ridotte dimensioni e in orbita bassa. È stata
sottostimata e sottovalutata anche la radicale trasformazione dei tempi di
realizzazione necessari: oltre oceano si è passati dalla scala dei tempi
ultradecennali a quella annuale sia nelle fasi decisionali che in quelle
progettuali e di realizzazione operativa. Mentre l’Europa non ha saputo ancora
costruire una nuova e più efficace governance dello spazio (dove convivono,
spesso con difficoltà, ESA e EUSPA insieme a molte Agenzie nazionali e dove
resta irrisolto il nodo della dualità delle tecnologie spaziali e, quindi,
della cooperazione civile-militare), gli Stati Uniti hanno cambiato
radicalmente il loro assetto spaziale, sicuramente accettando notevoli rischi
sul piano della governance, ma rafforzando il loro ruolo di principale potenza
spaziale. Adesso l’Unione Europea dovrà confrontarsi anche con la sfida
dell’integrazione delle sue capacità industriali e tecnologiche.
I grandi gruppi
industriali europei hanno dato un esempio non scontato di consapevolezza e
lungimiranza in un momento in cui vi sono frequenti esempi di
“rinazionalizzazione” dei programmi nel settore difesa, sicurezza e spazio. La
vera sfida da vincere non è sul mercato europeo, ma su quello internazionale e
solo un gruppo che raggiungerà un fatturato di 6,5 miliardi di euro con 25.000
dipendenti può farlo. Non servono e non bastano i “campioni nazionali”: serve
un “campione europeo“. I vertici di questi gruppi hanno saputo trovare un non
facile accordo, vincendo le inevitabili resistenze interne (basti pensare a
quella di molti dirigenti che dovranno abbandonare la loro “comfort zone”, a
quelle sindacali contro l’indispensabile, seppur progressiva, razionalizzazione
produttiva e a quelle di qualche azionista, soprattutto pubblico, che vedrà
ridotto il suo peso e conseguente potere). Purtroppo questi stessi gruppi per
ora non sembrano comprendere che questa strada dovrebbe essere percorsa
concentrando le loro capacità anche nel campo dei sistemi di combattimento
terrestri e navali (in particolare in quelli subacquei), dei velivoli a
pilotaggio remoto, dei sistemi di difesa anti-missile e anti-droni, della
trasformazione digitale, della cyber-sicurezza e dell’uso dell’intelligenza
artificiale. Ed è evidente che una parte importante delle responsabilità ricade
sui loro “clienti” nazionali (a livello militare e politico).
Anche l’Unione
Europea deve festeggiare questo accordo perché dimostra che c’è ancora la
volontà di reagire ad un’evoluzione del quadro internazionale che continua a
vederla marginalizzata e incapace di dimostrare la necessaria determinatezza e
coesione. Ma, purtroppo, la sua governance sta dimostrando tutta la sua
inadeguatezza. Le sue regole e procedure, imposte dalla storia della sua
costituzione ed evoluzione, sono diventate una gabbia che ne rallenta, e in
alcuni casi impedisce, ogni capacità di reazione alle tempeste che agitano il
nuovo scenario internazionale.
Rischi e sfide da
vincere sul fronte europeo
È proprio
all’interno dell’Unione Europea che dovranno ora essere vinte molte sfide per
costruire il nuovo grande gruppo spaziale europeo.
La prima riguarda
l’approvazione da parte delle Istituzioni europee. Fino ad ora l’approccio ai
processi di concentrazione industriale è stato cauto e molto lento. Alla base
hanno continuato a pesare le preoccupazioni anti-monopolistiche, giustificate e
giustificabili quando il mercato di riferimento era quello europeo, ma non più
oggi. Nel nuovo secolo la competizione avviene sul mercato globale e in ogni
settore (ma particolarmente in quelli ad alta tecnologia) le dimensioni
industriali devono risultare adeguate e allineate con quelle dei competitori: i
nani non possono combattere i giganti e nemmeno fare accordi equilibrati con
loro.
Analogamente, i
tempi decisionali europei devono diventare più rapidi. I rituali “bizantini”
devono essere semplificati e abbreviati perché, mai come oggi, il mondo non ci
aspetta e arrivare tardi significa aumentare le probabilità di perdere la
partita. Il tempo è in questo caso un fattore determinante anche a livello
nazionale considerando la presenza pubblica nella proprietà dei gruppi
industriali coinvolti. L’incertezza politica che caratterizza gli Stati
coinvolti (a parte l’Italia) è un elemento di preoccupazione, viste le
implicazioni sindacali e sociali dell’operazione. Purtroppo la complessità del
progetto Bromo richiederà un paio di anni per decollare e questo rischio andrà
attentamente monitorato.
Anche prescindendo
da qualche inevitabile, seppur ridotta, ricaduta occupazionale dovuta alla
necessaria razionalizzazione delle attività, si dovrà realizzare ed accettare
una riorganizzazione basata sulla specializzazione e sulla condivisione di
modelli organizzativi e metodologie produttive. Anche sul piano della cultura
industriale si dovrà affrontare un radicale cambiamento: quelli che ora sono
concorrenti dovranno essere considerati colleghi, le logiche nazionali o
bi-trilaterali dovranno diventare logiche europee. Per fortuna in campo
spaziale la strada è stata preparata da molti anni di collaborazione (in Airbus
su base franco-tedesca-spagnola e in Thales-Leonardo su base franco-italiana).
Comunque i nuovi manager avranno molto lavoro da fare, anche su se stessi.
Per garantire il
successo dell’operazione servirà anche un adeguato sostegno economico
attraverso nuovi programmi europei (nella sostanza e nella forma). Molti nel
commentare il progetto Bromo hanno citato come esempio positivo il gruppo MBDA,
campione europeo nei sistemi missilistici. Bisogna sottolineare che il successo
di questa integrazione industriale (che ha raggiunto i venticinque anni) è
stato supportato dal contemporaneo avvio del programma Meteor fra Francia,
Germania, Italia, Spagna, Svezia e Regno Unito per un missile aria-aria a lunga
gittata destinato ad essere utilizzato sui tre velivoli europei da
combattimento Eurofighter, Rafale e Gripen. Senza carburante anche le migliori
automobili non vanno da nessuna parte e questo vale anche per i migliori
progetti imprenditoriali. Da adesso in poi si dovranno lanciare nuovi programmi
spaziali europei pensati nell’ottica del nuovo grande gruppo industriale
europeo e adattarvi analogamente anche alcuni dei programmi nazionali o
intergovernativi già decisi.
Infine, dovranno
essere utilizzati meglio i margini presenti nelle normative europee per
consentire che il nuovo gruppo spaziale possa agire e muoversi come se operasse
su un mercato unico, mentre, purtroppo, vi sono ancora troppe barriere, legate
soprattutto alla parte duale e militare. Nello spazio la natura duale dei
programmi è maggioritaria e questo non deve impedire o danneggiare
l’indispensabile razionalizzazione delle capacità tecnologiche e industriali.
Non sarà facile
gestire questa fase di transizione, ma è una sfida che l’Europa può e deve
vincere.
Le sfide per
l’Italia
Il vertice di
Leonardo è riuscito ad ottenere un risultato importante per il gruppo e per il
sistema-paese.
Innanzi tutto,
negli ultimi due anni ha evidenziato la determinazione a considerare lo spazio
un suo settore strategico, centralizzandone la gestione e dedicandovi le
necessarie risorse ed attenzioni. Parallelamente ha saputo favorire
pro-attivamente l’accordo con due partner complessi, evitando il rischio che un
accordo tra loro finisse col lasciare isolato il nostro Paese (come già avvenne
venti anni orsono con l’accordo italo-francese che portò alla nascita di Space
Alliance fra Thales e Leonardo, allora Finmeccanica).
Adesso dovrà
continuare a gestire la costruzione della nuova società come ha fatto fino ad
ora nella fase preparatoria. Sarà importante che possa contare sul supporto
governativo sia sul piano finanziario sia su quello istituzionale e politico
nei rapporti bilaterali con gli altri Paesi coinvolti e in quelli con le
Istituzioni europee e le Agenzie spaziali e in quella della difesa. L’aver
strutturato la nostra politica spaziale con l’istituzione di un apposito
Comitato interministeriale presso la Presidenza del Consiglio e averne
garantito il relativo supporto anche attraverso l’efficiente struttura
dell’Ufficio del Consigliere Militare, è di buon auspicio perché il processo
venga attentamente seguito e, quando necessario, tempestivamente sostenuto da
parte del Governo. Gli importanti risultati in campo spaziale conseguiti dal
nostro Paese negli ultimi anni hanno dimostrato la validità del modello di
governance costruito.
La prevista
continuità governativa e industriale nel prossimo biennio rappresenta un valore
aggiunto della strategia nazionale. Se sapremo utilizzarla, valorizzando
insieme le nostre competenze manageriali e tecniche, assicureremo la tutela
degli interessi nazionali ed europei in un settore strategico per il nostro
futuro.
Michele Nones.
AffInt 4
Le pensioni tra Italia e Germania: un legame che continua
L’Italia è da
decenni il principale Paese partner della Deutsche Rentenversicherung (DRV). Un
legame nato con la grande migrazione del lavoro tra gli anni Cinquanta e
Settanta. Oggi quella generazione costituisce il nucleo principale di chi
percepisce una pensione tedesca pur vivendo in Italia.
Relazione di
Marilena Rossi, consigliera CGIE e presidente dell’Ital Uil Germania,
all’assemblea della Commissione Continentale Europa e Africa del Nord del
Consiglio Generale degli Italiani all’Estero, nella sezione di ripresa dei
lavori in presenza di una rappresentanza dei connazionali (Dortmund, 7 novembre
2025). (n.d.r.)
L’Italia è da
decenni il principale Paese partner della Deutsche Rentenversicherung (DRV). Un
legame nato con la grande migrazione del lavoro tra gli anni Cinquanta e
Settanta. Oggi quella generazione costituisce il nucleo principale di chi
percepisce una pensione tedesca pur vivendo in Italia.
Secondo i dati DRV
2023–2024, l’Italia è la prima destinazione mondiale dei pagamenti
pensionistici tedeschi all’estero:
* oltre 348.000
pensioni versate a beneficiari residenti in Italia;
* circa 7.800
assegni a cittadini tedeschi che vivono nel nostro Paese.
In totale, più di
mezzo milione di persone percepisce una pensione tedesca in Germania o in
Italia. Nei prossimi anni il numero delle pensioni crescerà leggermente fino al
2030, per poi stabilizzarsi e mantenersi su livelli costanti grazie alla nuova
mobilità europea.
La DRV stima
inoltre 100.000 posizioni assicurative aperte in Italia di persone già in età
pensionabile che non hanno ancora presentato domanda. Se tutti gli aventi
diritto ottenessero il pro rata tedesco, l’INPS potrebbe realizzare un notevole
risparmio economico, in particolare sulle prestazioni legate al reddito come le
pensioni integrate al minimo, la quattordicesima e le maggiorazioni sociali.
Un’azione informativa congiunta o un incrocio dei dati tra DRV e INPS
aiuterebbe a far emergere questi diritti latenti.
In senso inverso,
nel 2024 l’INPS ha pagato 48.328 pensioni in Germania, mantenendo il Paese tra
le prime cinque destinazioni mondiali delle pensioni italiane all’estero. Negli
ultimi anni si osserva un leggero calo – da 50 mila nel 2021 a 48 mila pensioni
– ma si tratta di un ricambio demografico fisiologico, non di un declino
strutturale. Le proiezioni fino al 2035 indicano una stabilizzazione intorno
alle 45–46 mila unità.
Il divario di
genere resta marcato: il reddito pensionistico medio degli uomini è superiore
del 36% a quello delle donne, riflesso di carriere discontinue e salari più
bassi.
Un ruolo chiave in
questo contesto è svolto dai patronati, presenti su tutto il territorio
tedesco. Per DRV e INPS sono partner essenziali nella gestione delle pratiche
previdenziali, delle certificazioni di esistenza in vita e delle dichiarazioni
reddituali.
La Germania
continua ad attrarre lavoratrici e lavoratori, giovani, pensionati e interi
nuclei familiari provenienti dall’Italia, grazie ad un basso tasso di
disoccupazione e ad un sistema di welfare solido e inclusivo. Una parte
crescente di questa comunità è composta da italiani naturalizzati con un
background migratorio.
Qui i patronati
sono chiamati a fornire assistenza su un’ampia gamma di temi oltre a quelli
previdenziali: dalle questioni socio-assistenziali alle regole del mercato del
lavoro, assistenza ai servizi consolari, fino al funzionamento dei sistemi di
protezione sociale. Un ruolo cruciale riguarda infine la consulenza
sull’esportabilità dei diritti acquisiti da un Paese all’altro, in materia di
disoccupazione, maternità, infortuni, malattie e futuri diritti pensionistici.
Una questione
importante è la tassazione delle pensioni in Italia.
Il sistema fiscale
italiano equipara i redditi da pensione ai redditi da lavoro, applicando le
stesse aliquote IRPEF, senza considerare la natura fissa e differita di tali
redditi.
L’Italia infatti
si colloca tra i Paesi con la più alta pressione fiscale, superiore a Germania,
Francia e Spagna, dove sono previste agevolazioni specifiche e aree no tax più
ampie.
Questo regime
penalizzante scoraggia molti pensionati dal rientrare in Italia e, anzi, spinge
alcuni a trasferirsi verso Paesi con tassazione più favorevole.
Da oltre un anno è
stata sospesa l’emissione delle certificazioni uniche tedesche per la quota
esente da tassazione che interessa centinaia di migliaia di pensionati
residenti in Italia. La sospensione, dovuta all’elevato numero di richieste
dall’Italia, ha lasciato migliaia di pensionati con dichiarazioni dei redditi
bloccate. Le trattative bilaterali tra i due Paesi non hanno ancora prodotto
risultati concreti e cresce l’attesa per un intervento politico risolutivo.
In conclusione le
pensioni italo-tedesche restano così un ponte umano e sociale tra due nazioni
che condividono settant’anni di storia comune. Oggi la sfida è trasformare
quell’eredità in una nuova mobilità europea, fondata su diritti, reciprocità e
dignità per i lavoratori e i pensionati che hanno costruito questa Europa
unita. Marilena Rossi, CdI 12
Il piano di pace per l’Ucraina: un testo coloniale in 28 punti
La cosa migliore
che si può dire del piano di pace in 28 punti preparato dall’Inviato
Speciale Usa, Steve Witkoff, e dal capo del fondo sovrano russo –
nonché confidente di Vladimir Putin –, Kirill Dmitriev, è
che si tratta di un documento in evoluzione, i cui termini non sono scolpiti
nella pietra e pertanto soggetti a cambiamento. È anche per questo che ne sono
circolate diverse versioni, in particolare con riguardo alla natura
delle garanzie di sicurezza offerte dagli Stati Uniti. Al netto di questo caveat,
il documento presenta i crismi di un’intesa coloniale fra due potenze che
decidono le sorti di un paese sovrano e deliberano di beni che non controllano.
Se questo piano o
qualcosa di simile venisse attuato (eventualità altamente improbabile), la
Russia ne uscirebbe con una vittoria politica e strategica. Il presidente
Usa Donald Trump rivendicherebbe di aver messo fine a un’altra guerra
ottenendone vantaggi commerciali, seppure al prezzo di una colossale sconfitta
strategica americana. L’Europa ne uscirebbe più insicura e dipendente e
l’Ucraina mutilata e vulnerabile a una futura aggressione.
Sovranità limitata
L’accordo in 28
punti riconosce la sovranità dell’Ucraina ma fa poco per garantirla.
Sul piano
territoriale, forzerebbe Kyiv a cedere non solo i territori occupati dai russi
ma anche quella parte del Donetsk ancora sotto controllo ucraino, dove vivono
circa duecentomila persone e che è strategicamente centrale per la difesa del
territorio più interno. Significherebbe quindi non solo un sacrificio
territoriale e umano, ma anche la perdita di una linea di fortificazioni che
comprometterebbe la capacità difensiva ucraina nel medio periodo.
Sul piano
politico, l’Ucraina dovrebbe indire elezioni entro cento giorni dalla firma
dell’accordo. In sé il punto non è necessariamente controverso, ma il fatto che
i russi abbiano voluto inserirlo in agenda è un tentativo indiretto di
delegittimare Volodymyr Zelensky, rimasto presidente oltre la
scadenza naturale in virtù della legge marziale in vigore dall’invasione russa
del 2022. La delegittimazione del presidente ucraino è stata a lungo un
obiettivo della propaganda di Mosca, e i tempi sono più propizi date le
ricadute dello scandalo di corruzione che ha coinvolto due ministri e potrebbe
portare alle dimissioni del capo di gabinetto Andriy Yermak. Peraltro,
avere elezioni in tempi stretti in un paese devastato da quasi quattro anni di
bombardamenti indiscriminati significa creare instabilità e offrire a Mosca lo
spazio per un’offensiva di disinformazione.
L’obbligo di
proteggere minoranze linguistiche e religiose riflette un principio legittimo,
ma pretendere che il russo sia una lingua ufficiale e soprattutto che
la chiesta ortodossa russa – che fa capo al patriarcato di Mosca –
abbia uno status speciale non lo è. Per Mosca si tratta di creare un appiglio
al quale aggrapparsi per giustificare pressioni, campagne diffamatorie e azioni
ostili. Non va dimenticato che l’aggressione alla Georgia del 2008 fu
retroattivamente motivata con un inesistente ‘genocidio’ dei separatisti
sud-osseti.
Sul piano
militare, le disposizioni sono solo lievemente meno sbilanciate. Kyiv dovrebbe
inserire in Costituzione l’impegno a non aderire alla Nato, mentre
l’Alleanza dovrebbe espungere l’adesione ucraina dalla propria agenda,
nonostante le solenni promesse (pur vaghe nei tempi) del vertice del 2024.
Verrebbe anche
escluso lo schieramento di truppe Nato sul territorio ucraino. Non è chiaro se
questo si applichi anche alla forza europea di rassicurazione, che
verrebbe schierata come coalizione di volenterosi e non sotto egida Nato; ma è
indubbio che i russi insisteranno che non c’è differenza fra truppe Nato e di
Paesi Nato.
L’Ucraina dovrebbe
accettare un tetto di 600 mila soldati: meglio rispetto agli 80 mila
richiesti dai russi nei colloqui di Istanbul nel 2022, ma pur sempre più di un
terzo in meno delle forze armate di oggi, la cui forza, esperienza e capacità
operative (sostenute da una vibrante industria) sono le principali garanzie di
difesa del paese.
Nulla viene detto
sulle forniture militari estere, ma il riferimento a un futuro negoziato
volto a chiarire tutte le “ambiguità” tra Ucraina, Europa e Russia, nonché tra
Nato e Russia (mediati dagli Stati Uniti, come se non fossero il paese leader dell’Alleanza),
apre la strada a limitazioni indirette agli aiuti militari a Kyiv attraverso
meccanismi di controllo degli armamenti.
Le garanzie
di sicurezza americane, previste in una versione rivista come parzialmente
assimilabili all’articolo 5 della Nato seppure limitate a dieci anni, restano
il punto più incerto del piano. Pesano non solo le ambiguità del testo, ma
anche l’inaffidabilità di un’America più orientata in senso nazionalista e
unilaterale, l’assenza di una base legale solida e la mancanza di un
investimento personale del presidente Trump. In assenza di garanzie concrete –
anche sotto forma di trasferimenti militari all’Ucraina – gli impegni reciproci
di non aggressione non sarebbero credibili.
Ricostruire
l’Ucraina e reintegrare la Russia (coi soldi degli altri)
L’afflato
colonialista del piano emerge con evidenza nel capitolo sulla ricostruzione. Il
piano prevede di usare cento miliardi in titoli russi congelati per
sostenere progetti di ricostruzione e sviluppo guidati dagli Stati Uniti, a cui
peraltro andrebbe il 50% dei profitti. I restanti duecento miliardi in
titoli russi confluirebbero in un fondo congiunto russo-americano per
iniziative comuni. Così Washington guadagnerebbe dalla ricostruzione ucraina
mobilitando risorse che non controlla, dal momento che la parte preponderante
dei titoli (oltre duecento miliardi) si trova in Europa, in particolare in
Belgio. A questo si aggiunge la pretesa che l’Ue contribuisca con altri cento
miliardi di tasca sua, aggravando ulteriormente il divario tra chi decide
e chi paga.
I russi, dal canto
loro, otterrebbero il ritorno di almeno una parte dei titoli in patria, nel
quadro di una relazione economica con gli Stati Uniti rilanciata
anche dalla progressiva revoca di tutte le sanzioni. Come
ciliegina sulla torta, tutte le parti (vale a dire Putin e i suoi sodali)
beneficerebbero di un’amnistia generale (niente processi per crimini di
guerra). Il reintegro nel G8 dovrebbe certificare la ripresa delle
relazioni con la Russia che, nei calcoli (più probabilmente, illusioni) di
alcuni, si potrebbe così ‘scollare’ dalla Cina
Dignità ucraina e…
europea?
Le chance che il
governo ucraino accetti questo accordo sono vicine allo zero, anche se Zelensky
si trova di fronte alla scelta più difficile dal ritorno di Trump. Le
difficoltà militari di Kyiv non sono tali da renderla incline a una quasi
capitolazione. Inoltre, la dipendenza diretta dagli Stati Uniti è inferiore
rispetto all’era Biden, anche se la perdita dell’intelligence statunitense
sarebbe per lei molto dannosa. Almeno per un certo periodo, l’Ucraina può
resistere alle pressioni di Washington.
Un altro fattore a
favore dell’Ucraina è il sostegno dei paesi europei, il cui ruolo è cresciuto
da quando hanno iniziato ad acquistare armi Usa e a reindirizzarle verso
l’Ucraina. La strada non è chiusa per un’ennesima iniziativa diplomatica
europea per intervenire sul testo, in particolare sulle forniture
militari, le dimensioni delle forze armate ucraine, l’uso dei fondi congelati
(di cui l’Ue deve prendere il controllo, superando le resistenze dei belgi) e i
tempi elettorali. Il problema, come sempre, è come gestire un presidente le cui
preferenze sono così oscillanti.
Anche se Trump
insiste per una rapida conclusione del processo, è improbabile che possa
permettersi politicamente di imporre un piano tanto sbilanciato contro la
volontà di Kyiv e degli alleati europei. Tuttavia, il rischio è che un
eventuale rifiuto venga strumentalizzato per alimentare la narrativa secondo
cui sarebbero ucraini ed europei a ostacolare la pace e non l’invasore russo,
acuendo le fratture interne al fronte occidentale e alienando Trump da Kyiv.
Per Mosca, un esito del genere non sarebbe negativo; anzi, è plausibile che sia
il risultato a cui ha realisticamente puntato.
Questo è un motivo
in più perché gli europei serrino le fila e oppongano a Trump non una
resistenza mascherata di lusinghe imbarazzate e rituali adunate attorno al
capo, ma la difesa esplicita della stabilità continentale e della sovranità
ucraina. La dipendenza dell’Europa da Washington è reale, ma non tale da
giustificare posture da colonie. Se l’Ucraina ha saputo resistere con dignità
alle sferzate di Washington, può farlo anche l’Europa. Riccardo Alcaro, AffInt
25
La politica
italiana è allo sbando. Che non sia solo una nostra percezione lo confermano i
fatti. Anche il 2026 non sarà migliore per una ripresa con effetti risanatori
sul fronte dei bilanci familiari e occupazionali italiani. Ora, non
consideriamo rilevante verificare il “perché” e il "per come” di una
situazione che neppure la più assennata politica poteva prevedere. Troppe le
concause e ancor più i compromessi che ne hanno consentito il consolidarsi.
La foto del nostro
Paese, anche il prossimo anno, resterà “sfuocata”. Mancano i profili che
dovrebbero essere ben chiari per evitare altri errori. Perché d’alternative ce
ne sono rimaste poche. La nostra non è una sensazione di malessere
superficiale. E’ profonda e s’insinua anche in strati della società che ne
sembravano immuni. Questo evidenzia che continua a esserci ciò che non funziona
nel modo corretto. Soprattutto a livello politico e, di conseguenza, economico.
Lo avevamo evidenziato già nella tarda primavera scorsa. Anche il Parlamento
dovrebbe fare i conti con la realtà. Per non arrenderci al fatalismo della
situazione, né al pessimismo del momento, non ci resta che approfondire gli
sviluppi dell’iter politico nazionale e i relativi “compromessi”per dare
all’Italia un Esecutivo “solido.”. Quelli che, dopo, conteranno saranno i patti
della teoria dei due “pesi” e delle due “misure”.
Che sia solo una
nostra percezione? Non lo pensiamo. Lo scriviamo, anche se sarà il Popolo
italiano a sostenere la “penitenza” di un sistema politico che s’è rivelato
macchinoso negli uomini e nei programmi.
Giorgio Brignola,
de.it.press
Un tempo leader mondiale sul clima, l’UE ha ceduto all’autolesionismo delle
destre
Le politiche
climatiche sono tradizionalmente un cavallo di battaglia dell’Unione europea.
Tuttavia, mentre i negoziatori sono riuniti in Brasile per la Cop30, la
leadership europea rischia di vacillare. Il contesto è molto diverso da quello
che dieci anni fa a Parigi portò all’accordo per limitare il riscaldamento
globale a 1,5° C.
Dal Green Deal
alla “reazione anti-verde”
Quell’accordo aprì
la strada al Green Deal europeo. Non era un piano perfetto, e i leader europei
non hanno tenuto sufficientemente conto dell’impatto sociale della transizione
energetica, ma l’Ue aveva innegabilmente sostenuto i suoi impegni con azioni concrete
e finanziamenti.
Oggi in Brasile,
la leadership europea in materia di clima potrebbe sgretolarsi. Non solo perché
gli Stati Uniti si sono nuovamente ritirati dall’accordo di Parigi e
l’amministrazione Trump sta cercando di indebolire gli impegni di altri
paesi, né solo perché i paesi del sud del mondo rifiutano di compromettere la
crescita per il clima, incolpando il nord del mondo, in particolare l’Europa,
per la crisi. È anche perché la stessa Europa, in preda a una “reazione
anti-verde” interna, rischia di restare ai margini.
Dopo la pandemia
di Covid-19 e l’invasione dell’Ucraina, i gruppi nazionalisti e di estrema
destra hanno fatto il Green Deal in uno spauracchio: un progetto ideologico
guidato dai liberali e dalla sinistra per indebolire l’Europa. Queste forze
hanno ripetutamente sostenuto che il Green Deal avrebbe causato la
deindustrializzazione dell’Europa e permesso a Pechino di sfruttare nuove
interdipendenze verdi.
Il
ridimensionamento degli obiettivi climatici europei
Tali critiche si
sono diffuse dalle destre estreme e hanno contagiato il centro-destra,
amplificate dalla pressione dell’amministrazione Trump e dei principali
esportatori di gas come il Qatar, che hanno minacciato di sospendere le
forniture se l’Ue non avesse attenuato o abbandonato le sue richieste di
rendicontazione sulla sostenibilità. Oggi il Green Deal è scomparso dal lessico
europeo, sostituito da “competitività”, “neutralità tecnologica” e
“semplificazione burocratica”, oltre alla difesa.
Gli ottimisti
speravano che si trattasse solo di un cambiamento retorico per rendere la
politica climatica più appetibile dal punto di vista politico. Purtroppo, l’Ue
ha notevolmente indebolito i suoi piani di riduzione dei gas serra per il 2040,
inserendo clausole di revisione che consentono di fare marcia indietro in
periodi di recessione economica e affidandosi a crediti di carbonio dalla
dubbia validità scientifica. Non sorprende che siano stati i governi di estrema
destra, in Italia e in Europa centro-orientale, a guidare questa retromarcia.
L’Ue ha inoltre
ritardato sia l’estensione del sistema di scambio delle quote di emissione alle
abitazioni e ai trasporti, sia l’attuazione della normativa sulla
deforestazione, e potrebbe attenuare il divieto sulle auto a combustione
previsto per il 2035. Si prevedono ulteriori passi indietro, con la scusa della
semplificazione burocratica, che rischiano di minare anche la tariffa esterna
sulla CO2 (CBAM).
Un autogol
europeo: sicurezza energetica e concorrenza verde
Gran parte di
questo equivale a un autogol per l’Europa. L’Ue non sostenne la necessità di
una forte politica climatica solo per idealismo, ma anche perché, in quanto
continente povero di combustibili fossili, la sua sicurezza energetica e la sua
prosperità dipendevano da questo. E mentre la Cina, anch’essa importatrice di
idrocarburi, accelera i suoi sforzi nel promuovere le energie rinnovabili e le
tecnologie verdi, l’Europa rischia invece di rallentare, dimenticando che i
principi climatici e la prosperità economica sono intrecciati.
Il paradosso si
aggrava poiché l’Europa sta minando la propria posizione globale di leader
nella lotta ai cambiamenti climatici, facendo apparire la Cina più virtuosa di
quanto non sia. I paesi europei si sono impegnati a ridurre le emissioni tra il
66,3% e il 72,5% entro il 2035 prima della Cop30. Ma l’indebolimento di questi
obiettivi a ridosso della Cop30 getta un’ombra sulle ambizioni europee, mentre
la Cina punta solo a una riduzione del 10% nel prossimo decennio.
Il futuro della
leadership climatica europea
Non tutto è
perduto. L’Europa rimane in prima linea nel percorso verso l’azzeramento delle
emissioni nette in termini di obiettivi, politiche e finanziamenti. Ma il suo
interesse rimane quello di essere all’avanguardia nel promuovere l’azione per
il clima e trovare, ancora una volta, una causa politica comune con il sud del
mondo. Nathalie Tocci, AffInt 18
Il CGIE a Dortmund rilancia il ruolo della rappresentanza italiana in
Europa
Si è svolta a
Dortmund dal 6 all’8 novembre la riunione della Commissione continentale Europa
e Africa del Nord del Consiglio Generale degli Italiani all’Estero, nell’ambito
delle celebrazioni per il 70° anniversario dell’accordo di manodopera tra
Italia e Germania, che diede origine a una delle più significative stagioni
migratorie della storia europea.
Durante i lavori,
la Commissione ha affrontato i principali temi che interessano le comunità
italiane del continente: i servizi consolari, la promozione della lingua e
cultura italiana, la riforma della cittadinanza, il rinnovo dei Com.It.Es. e la
riforma del CGIE. Particolare attenzione è stata rivolta al ruolo delle piccole
e medie imprese italiane in Germania e ai rapporti economici e scientifici
italo-tedeschi, illustrati da rappresentanti dell’Ambasciata d’Italia a Berlino
e dell’Agenzia per la promozione e l’internazionalizzazione delle imprese
italiane. Avendo ICE-Agenzia e Camere di Commercio ruoli complementari e non
concorrenziali, la Commissione si è interrogata circa l’opportunità per il
sistema Paese di mantenerne la tutela sotto due distinti Dicasteri.
Sul fronte dei
servizi consolari, è stato riconosciuto l’impegno dell’Amministrazione degli
Esteri per ridurre i tempi di attesa, ma è stata ribadita la necessità di
rafforzare gli organici e ampliare i servizi itineranti, dotando Consoli
onorari e funzionari delle apparecchiature per la rilevazione dei dati
biometrici, oltre a consentire un accesso diretto alla banca dati del Ministero
dell’Interno per aggiornamenti anagrafici più tempestivi.
La Commissione ha
inoltre approvato un ordine del giorno per il ripristino degli uffici notarili
nei Consolati europei e ha accolto con favore l’estensione del rilascio della
carta d’identità elettronica ai cittadini AIRE tramite i Comuni italiani, misura
che il CGIE aveva invocato attraverso due ordini del giorno approvati dalle
Assemblee plenarie del 2023 e 2024.
Ampio spazio è
stato riservato alla promozione della lingua italiana e al ruolo degli enti
gestori, su cui la Commissione ha approvato un apposito ordine del giorno,
rilevando una mancanza di visione e di indirizzo politico, e ritenendo
prioritario ridefinire un intervento a partire dai bisogni dei destinatari che
metta al centro gli italodiscendenti tenendo conto delle specificità dei
territori. A tale scopo la Commissione ritiene urgente attualizzare i piani
Paese coinvolgendo tutti i soggetti del mondo della scuola e gli organismi di
rappresentanza.
Quanto
all’insegnamento della storia dell’emigrazione, tema prioritario dell’agenda
CGIE del secondo semestre insieme alla promozione della lingua e cultura e alla
riforma del Consiglio Generale, preso atto con soddisfazione della Circolare
del MIM del 4 novembre scorso, relativa all’anno scolastico 2025/2026, la
Commissione propone di coinvolgere i territori per istituire database dei
luoghi simboli dell’emigrazione, nel solco dell’ordine del giorno specifico
approvato dalla Plenaria del 2025, e dei Com.It.Es. disponibili a intervenire
direttamente nelle scuole.
La Commissione ha
poi accolto con favore la volontà governativa di rispettare la data di scadenza
della Consiliatura dei Com.It.Es. attraverso lo stanziamento di 14 milioni di
euro per il loro rinnovo, con elezioni da tenersi nel 2026; ritiene tuttavia che
tali risorse non siano sufficienti a garantire la più ampia partecipazione al
voto dei connazionali, che deve essere perseguita innanzitutto mediante
l’eliminazione dell’opzione inversa.
Si è infine
ribadita l’esigenza di riformare il Consiglio Generale per garantire un
processo di rilancio del sistema della rappresentanza delle nostre comunità
all’estero. In tale ottica si è auspicata la convocazione della V Assemblea
plenaria della Conferenza permanente Stato-Regioni-PA-CGIE.
Il dibattito è
stato arricchito dai contributi del direttore generale della DGIT del MAECI
Luigi Maria Vignali, dalla consigliera d’Ambasciata Silvia Maria Santangelo,
dalla console d’Italia a Dortmund Alice Joy Cox, dai Parlamentari eletti nella
circoscrizione Europa, da esperti di settore e dai Presidenti dei Com.It.Es.
della Germania.
I rapporti
commerciali tra Italia e Germania sono stati illustrati da Francesco Sordini
(Capo Ufficio Economia, commercio e scienze dell’Ambasciata d’Italia a
Berlino), Francesco Dell’Anna (Vicedirettore ICE Germania) e Piergiorgio Alotto
(Addetto scientifico presso l’Ambasciata di Berlino), che hanno sottolineato
l’approccio integrato con cui l’Amministrazione degli Esteri svolge la propria
azione in Germania.
La tre giorni si è
conclusa con il convegno pubblico VisionItaly: Memorie e futuro. 70 anni di
accordi Italia–Germania, che ha riunito rappresentanti istituzionali italiani e
tedeschi, Parlamentari, esperti e protagonisti della comunità italiana in Germania,
per riflettere sull’eredità storica dell’emigrazione e sulle nuove prospettive
di cooperazione culturale, economica e scientifica tra i due Paesi. Cgie
Il secondo Africa
Climate Summit è stato l’evento dell’anno su clima ed energia nel panorama
africano. Tenutosi ad Addis Abeba dall’8 al 10 settembre e svoltosi sotto
l’egida dell’Unione Africana, in linea con gli obiettivi fissati dall’Agenda
Africana 2063, questo vertice ha ottenuto riscontri positivi e una forte
risonanza globale.
Il Summit segue la
prima edizione del 2023 a Nairobi. Nato come spazio di confronto per allineare
le posizioni africane in vista delle Conferenze ONU sul clima (COP), si è
trasformato in un appuntamento ben più ampio. Non solo i vertici istituzionali,
ma anche società civile, settore privato e ONG hanno preso parte al dibattito,
con l’obiettivo di renderlo un momento inclusivo e rappresentativo.
La scelta
dell’Etiopia come paese ospitante non è casuale. Il leader keniota William Ruto
e quello etiope Abiy Ahmed Ali condividono una visione comune sull’energia
pulita come priorità africana. Questa convergenza ha facilitato il passaggio di
consegne e segnalato l’emergere di un asse Kenya-Etiopia nelle politiche
regionali climatiche, asse che si sta affermando come forza trainante nelle
politiche continentali africane.
La Giustizia
Climatica al centro del Summit
I temi affrontati,
divisi per giornate, sono stati giustizia climatica, adattamento climatico e
finanza climatica, temi fortemente interconnessi.
L’ingiustizia
climatica è evidente: l’Africa contribuisce in misura esigua alle emissioni
globali, meno del 4%, eppure è tra le regioni maggiormente colpite dagli
impatti dei cambiamenti climatici. Siccità, inondazioni, ondate di caldo
estremo paralizzano l’intero continente. Il risultato è paradossale: chi
inquina di meno sta pagando il prezzo più alto. Per correggere questa disparità
esiste il principio, ormai consolidato, di responsabilità comuni, ma
differenziate (common, but differentiated responsibilities), nella lotta al
cambiamento climatico. Tuttavia, è necessario che i paesi con i più alti
livelli di emissioni sostengano uno sforzo proporzionalmente maggiore. Il
vertice ha avuto dunque lo scopo di trovare un fronte comune a queste
problematiche.
A questo si
aggiunge anche un altro dato, ricordato durante la chiusura del summit dal
presidente etiope Taye Atske Selassie: 600 milioni di africani – specialmente
in Africa Sub-sahariana – vivono ancora senza accesso all’elettricità. Per
ovviare al problema è necessario un massiccio sforzo infrastrutturale e
finanziario. Senza fondi ed investimenti adeguati da parte di paesi terzi e
privati non vi è giustizia climatica.
La dichiarazione
di Addis Abeba
Nella
dichiarazione di Addis Abeba, il documento conclusivo del Summit, sono emerse
alcune possibili soluzioni. Per lo sviluppo industriale verde è stato creato un
accordo di cooperazione per implementare l’Africa Green Industrialization
Initiative, istituita nel 2023 alla COP28, fondata da un consorzio di
istituzioni africane – guidato da Banca Africana di Sviluppo (AfDB), Africa50 e
dall’Africa Finance Corporation (AFC) – e ideata con l’obiettivo di trasformare
l’immenso potenziale africano di energia rinnovabile in un programma di
sviluppo industriale sostenibile a lungo periodo.
A questa
iniziativa si è affiancata un’ulteriore consapevolezza: per riuscire ad avere
un modello sostenibile a lungo termine è necessario trovare soluzioni che
nascano dall’Africa stessa, in modo da ridurre la dipendenza dagli aiuti
esterni e promuovere lo sviluppo locale. L’Africa Climate Innovation Compact e
l’African Climate Facility, istituiti durante il vertice dal leader etiope
Ahmed Ali, hanno questo obiettivo: mobilitare 50 miliardi di dollari,
annualmente, per sviluppare e accelerare soluzioni climatiche locali nel
continente africano.
Per il
finanziamento di queste iniziative è stato reso operativo l’Africa Climate
Change Fund, stabilito per riuscire a ottenere finanziamenti a fondo perduto o
sovvenzioni, e non prestiti. Questi ultimi peserebbero ulteriormente sugli
stati africani, che hanno già condizioni finanziarie complesse e preesistenti e
scarsa capacità di espandere il proprio debito pubblico. Per questo il vertice
è stato utilizzato anche come megafono dai leader africani per chiedere un
abbassamento dei tassi di prestito.
L’Etiopia come
paese ospitante della COP32?
La candidatura
dell’Etiopia a paese ospitante per la COP32 nel 2027 è stata un ulteriore
elemento interessante. La candidatura rappresenta la volontà politica africana
di continuare a mantenere alta l’attenzione sulla priorità climatica, in un
momento geopolitico di stallo e scetticismo verso la transizione energetica. La
speranza africana è che la transizione energetica e la lotta al cambiamento
climatico siano una nuova opportunità per una migliore condizione sociale ed
economica. Il summit è stato un evento focale per ribadire l’importanza, in uno
scenario globale sempre più frammentato, di mantenere una linea comune e
cooperare sul clima. In particolare, è emerso come sia fondamentale conciliare
l’interesse domestico con quello continentale più ampio.
La sfida
principale rimane ora il passaggio dalle intenzioni all’operazionalizzazione
effettiva delle iniziative annunciate. Pietro Rinaldi, AffInt 4
Merz e la controversia sul “Stadtbild”
La CDU vuole
restringere la doppia cittadinanza
Dopo le polemiche
sulla migrazione e il dibattito sullo Stato sociale, CDU e CSU propongono
riforme della cittadinanza: revoca rapida per criminali e islamisti, doppio
passaporto solo per casi eccezionali, mentre in molte città tedesche la
criminalità è aumentata, anche a causa di stranieri con doppia cittadinanza.
Il dibattito sul
cosiddetto “Stadtbild” continua a scuotere la politica tedesca. Il 14 ottobre,
durante un incontro a Brandenburg, il cancelliere Friedrich Merz ha risposto a
una domanda sui risultati elettorali, in cui l’AfD supera il 30%. Merz ha sottolineato
la sfida del populismo di destra e la diffusa insoddisfazione verso la
democrazia: «Se facciamo buona politica, possiamo affrontare questo problema»,
ha detto, richiamando anche la necessità di modernizzazione dello Stato e
digitalizzazione.
Il punto centrale
è stato il richiamo alla questione migratoria. Merz ha osservato che le
politiche precedenti non avevano risolto rapidamente il problema e ha promesso:
«Noi correggiamo ora questa situazione. Abbiamo ridotto i numeri dei flussi
migratori tra agosto 2024 e agosto 2025 del 60%, ma resta il problema nel
“Stadtbild”, e per questo il ministro dell’Interno sta effettuando rimpatri su
larga scala. Dobbiamo mantenerlo».
Le dichiarazioni
hanno provocato forti reazioni: opposizioni di sinistra e Verdi hanno accusato
il cancelliere di discriminare persone che non “appaiono tedesche”, mentre
l’AfD ha applaudito. Circa 2.000 persone hanno protestato davanti alla sede
della CDU. Merz, però, ha ribadito con fermezza: «Non ho nulla da ritirare.
Dobbiamo affrontare questi problemi e lo faremo».
Sulla scia di
questa controversia, la Union intende affrontare uno dei temi più discussi
della politica interna: la cittadinanza e, in particolare, la doppia
cittadinanza. Nel 2024 sono state registrate 292.000 nuove naturalizzazioni, di
cui il 28% riguardava cittadini siriani.
I politici della
CDU/CSU chiedono che il doppio passaporto diventi l’eccezione e non la regola.
Stephan Mayer (CSU) ha dichiarato che a violenti, criminali incalliti, nemici
della Costituzione, antisemiti e chi odia la Germania la cittadinanza dovrebbe
essere immediatamente revocata se possiedono due passaporti. Mayer definisce
necessaria «una riforma fondamentale della legge sulla cittadinanza».
Anche Roman
Poseck, ministro dell’Interno dell’Assia (CDU), propone di valutare il ritiro
della cittadinanza per chi sostiene Hamas, considerandolo incompatibile con i
valori fondamentali tedeschi. Cornell Babendererde, responsabile per il diritto
di cittadinanza nella frangia della CDU, sottolinea che la doppia cittadinanza
dovrebbe restare un’eccezione. «Se l’80% dei nuovi cittadini vuole mantenere
anche il passaporto originale, dobbiamo chiederci se l’identificazione con il
nostro Paese sia reale o se si tratti solo di ottenere vantaggi».
Unica eccezione
prevista: i discendenti delle vittime del nazionalsocialismo. Babendererde
definisce la “Wiedergutmachungseinbürgerung” un gesto fondamentale contro
l’antisemitismo in Germania.
La discussione è
stata innescata da un caso a Berlino: Abdallah, un palestinese naturalizzato
tedesco, ha celebrato Hamas su Instagram un giorno dopo l’acquisizione della
cittadinanza. La revoca della cittadinanza è possibile perché Abdallah avrebbe
fornito informazioni false sul suo impegno contro l’antisemitismo.
Secondo
osservatori e forze dell’ordine, in molte città tedesche la criminalità è
aumentata significativamente, in parte a causa di cittadini stranieri che
possiedono la doppia cittadinanza. Questo tema è diventato centrale nel
dibattito politico: l’Unione sostiene che il doppio passaporto non debba essere
un diritto automatico, soprattutto quando può favorire comportamenti criminali
o antisociali.
Non è chiaro
quanti siano i doppi cittadini in Germania. Il censimento 2022 stima 5,8
milioni, mentre il microcensimento 2024 indica circa 3,1 milioni. Nel 2023
oltre l’80% dei nuovi cittadini ha mantenuto il passaporto originale,
confermando una tendenza in crescita.
Molti critici
parlano di fallimento della politica migratoria tedesca: i flussi migratori
continuano, la società e le infrastrutture (scuole, asili, servizi sociali)
sono sotto pressione, e la criminalità aumenta. La “turbo-naturalizzazione”
dopo tre anni prevista dall’era Ampel è stata fermata dal governo Merz, ma
anche con cinque anni di attesa il passaporto tedesco viene giudicato concesso
troppo presto.
L’Unione ora cerca
l’appoggio della SPD per modificare la legge sulla cittadinanza, ma il
risultato è incerto. Quello che è chiaro è che il tema della doppia
cittadinanza, dei flussi migratori e della sicurezza continuerà a dominare
l’agenda politica nei prossimi mesi. CdI on 31.10
Cosmo italiano, le recenti puntate
Federico Quadrelli
e la comunità italiana di Berlino
(07.11) È andato
al presidente del Comitato degli Italiani all'Estero di Berlino-Brandeburgo,
Federico Quadrelli, il Premio speciale assegnato dalla Gazzetta Diplomatica di
quest'anno. A Quadrelli, che è anche vicepresidente regionale del gruppo di
lavoro "Migration und Vielfalt" della SPD di Berlino, è stato
riconosciuto l'impegno per l'inclusione e il dialogo efficace con le
istituzioni tedesche. Con Cristina Giordano ha parlato di questo ma anche della
comunità italiana di Berlino e della SPD in crisi di consensi.
Dalla Germania est
al muro di Berlino: due storie
(06.11)La caduta
del muro di Berlino il 9 novembre 1989 segna l'inizio della fine della DDR, la
Germania est socialista. Agnese Franceschini ci ricorda come ci si arrivò. E
nella DDR Alexander Melchior è cresciuto, frequentando un collegio sportivo.
Michele Trincia c'è arrivato negli anni Settanta, studente dagli ideali
comunisti presto deluso dal regime al di là della cortina di ferro. Hanno
raccontato le loro storie a Cristina Giordano, in cui non manca la Stasi, la
polizia segreta.
Perché i
ristoranti in Germania non trovano personale?
(05.11) Colpa di
stipendi bassi o del lavoro troppo faticoso? Cosa spiega la mancanza di
personale nel settore della ristorazione in Germania, che vede sempre meno
interesse da parte dei giovani? Lo abbiamo chiesto a esperti e ristoratori in
Germania. E cosa è stato fatto fino ad ora dalla politica tedesca?
L'approfondimento è di Agnese Franceschini.
Banane dalla
Sicilia e albicocche tedesche?
(04.11) Quali
frutti made in Italy e in Germany mangeremo nei prossimi anni? E come sta
cambiando la produzione agricola per reagire a caldo estremo, siccità e
alluvioni? Agnese Franceschini svela al microfono di Luciana Caglioti cosa
succede già ora in Germania, dove le mele soffrono e c'è chi prova a coltivare
il tè. L'enologo Nicola Biasi spiega perché ha scelto di trasferirsi nella zona
della Mosella e Lorenzo Bazzana di Coldiretti Italia ci parla di avocado, mango
e banane Chiquita in Sicilia.
Preoccupa la peste
aviaria in Germania
(03.11) In
Germania la peste aviaria continua a diffondersi provocando enormi danni agli
allevamenti e crea sconcerto anche la moria di animali selvatici come anatre e
cicogne. Agnese Franceschini ci aggiorna sulla situazione mentre Calogero
Terregino, direttore del Laboratorio di referenza europeo (EURL) per
l'influenza aviaria, ci spiega come si è diffuso il virus e quali rischi
comporta.
Il partigiano
tedesco e l'uomo delle SS: due storie italo-tedesche
(31.10)Due
biografie in fondo simili che però hanno scelto strade opposte, nell'Italia
fascista e poi occupata dai nazisti: le racconta il giornalista Andreas
Wassermann nel libro "Der Partisan und der SS-Mann. Zwei
deutsch-italienische Biografien im 20. Jahrhundert". Il partigiano Heinz
Riedt, fu anche il primo traduttore di Primo Levi in tedesco. L'uomo delle SS a
Roma Eugen Dollmann, fece da interprete tra nazisti e fascisti. Un omaggio a
chi sceglie di stare dalla parte giusta della storia.
Andare in pensione
e tornare in Italia: a cosa fare attenzione
(30.10)Molti
italiani, una volta raggiunta l'età della pensione, pensano di andarsene. Si,
ma dove? Cresce il numero di quelli che si trasferiscono dall'Italia al
Portogallo come ci racconta Giulio Galoppo. Per chi invece riceve la pensione
tedesca e vuole tornare in Italia, ecco i consigli di Maria Francalanza del
patronato di Dortmund. E poi in Germania c'è la novità della
"Aktivrente", che porta molti vantaggi economici a chi decide di
lavorare più a lungo.
Merz sui migranti
nelle città tedesche: il dibattito continua
(29.10)Il leader
CDU ha già fatto discutere in diverse occasioni per affermazioni
discriminatorie, spesso non supportate dai fatti. Questa volta però Merz è
anche cancelliere, e una parte della società tedesca non ci sta, come spiega
Giulio Galoppo. E a proposito del volto delle città tedesche, lo
"Stadtbild", Luciana Caglioti ne parla con chi ricorda quanto
l'economia tedesca abbia urgente bisogno dei migranti: Manuela Verduci è CEO
dell'impresa sociale KIRON Digital Learning Solutions a Berlino.
Pasta italiana in
Germania, sempre più amata
(28.10)Record di
pasta italiana importata in Germania: i dati riferiti all'anno scorso
confermano l'amore senza fine dei tedeschi per questo prodotto. Alcuni dati,
tendenze e curiosità da Giulio Galoppo. L'azienda di famiglia di Manuel
Primogeri importa pasta a Wuppertal dagli anni '60, e ora la produce. In Italia
la riscoperta dei grani antichi fa bene a territorio, ambiente e salute, spiega
Concetta Nazzaro dell'Università del Sannio a Luciana Caglioti.
Eureka: condanne
per mafia tra Italia e Germania
(27.10)Si è
concluso con 76 condanne e sette assoluzioni uno dei più grandi procedimenti
giudiziari contro la 'ndrangheta che ha coinvolto cosche attive anche in
Germania, i dettagli da Cristina Giordano. Con Ambra Montanari, autrice del
libro "Le mafie sulle macerie del muro di Berlino", abbiamo parlato
dell’insediamento delle mafie in terra tedesca e della collaborazione tra le
procure dei due paesi. (dip)
Gli over 70 non dovranno più rinnovare la carta d'identità. Cosa cambia
L’obiettivo è
«semplificare la vita dei cittadini», ha dichiarato il ministro per la Pubblica
amministrazione Paolo Zangrillo
Gli over 70 non
dovranno più rinnovare la carta d’identità. Lo annuncia il ministro per la
Pubblica amministrazione Paolo Zangrillo intervenuto a "Next Economy"
su Giornale Radio. La novità sarà contenuta nel prossimo decreto
semplificazioni, ha precisato il ministro e l'obiettivo è «rendere più semplice
la vita ai cittadini».
Che cosa cambia
Il ministro
Zangrillo ha annunciato che «nei prossimi giorni in parlamento ci sarà un
decreto» che conterrà delle «semplificazioni per rendere più semplice la vita
dei cittadini». «Una delle previsioni che sono contenute nelle nuove
semplificazioni che presenteremo, prevede che per le persone che hanno più di
70 anni non ci sia più bisogno del rinnovo della carta di identità», ha
spiegato. «Quindi non ci sarà più la possibilità di dedicarsi all'ufficio del
comune per fare il rinnovo della carta di identità. Questo è un primo esempio
banale» delle semplificazioni burocratiche allo studio del governo.
I dettagli della
misura non si conoscono ancora
L'abolizione del
rinnovo andrebbe a ridurre gli oneri burocratici per la popolazione anziana. Il
documento di identità diventerebbe senza scadenza una volta superati i 70 anni.
Per il momento quindi si tratta di un annuncio. Non si conoscono i dettagli della
misura contenuta all'interno del decreto, ma è probabile che nelle prossime
settimane, quando il provvedimento approderà alle Camere, si avranno ulteriori
informazioni.
Carta di identità:
quanto dura oggi
La carta di
identità ha attualmente durata 10 anni (9 più i giorni che mancano alla data di
nascita). Questo vale per gli adulti mentre la scadenza è a 3 anni per i minori
che hanno meno di 3 anni di età e 5 anni, per i minori con un’età compresa tra
i 3 e i 18 anni. La CIE rilasciata a cittadini impossibilitati temporaneamente
al rilascio delle impronte digitali ha invece una validità di 12 mesi dalla
data di emissione. La carta di identità può essere richiesta al proprio Comune
di residenza o domicilio a partire da 180 giorni prima della scadenza.
Come avviene il
rinnovo
Per il rinnovo
occorre recarsi nel proprio Comune di residenza, muniti di fototessera in
formato cartaceo (lo stesso utilizzato per il passaporto. Se si decide di
prendere appuntamento tramite Agenda Cie, il portale messo a disposizione dal
ministero dell'Interno, la foto può essere caricata in formato digitale. Si può
fare domanda per il rinnovo a partire dal centottantesimo giorno antecedente
alla data di scadenza indicata sulla carta.
Documento di
riconoscimento
La carta
d'identità serve principalmente come documento di riconoscimento per
l'identificazione fisica e digitale. È possibile usarla per viaggiare in
diversi paesi europei e per accedere ai servizi online della Pubblica
Amministrazione in Italia e in Europa, come alternativa allo SPID. Altre
funzioni includono l'accesso a eventi e trasporti, l'apposizione della firma
digitale sui documenti e la dichiarazione di volontà sulla donazione di organi.
I dati sulla carta
d'identità sono classificati come "dati personali"
I dati presenti
sulla carta d'identità sono classificati come "dati personali", non
"dati sensibili" nel senso stretto (come origine etnica, salute,
orientamento sessuale). Tuttavia, alcuni dati sulla CIE (Carta d'Identità
Elettronica) sono considerati particolarmente delicati, come le impronte
digitali e la foto, poiché sono dati biometrici che consentono
l'identificazione univoca di una persona.
LS 13
L’urgenza di uno sforzo congiunto per invertire la rotta
Il 10 e 11
novembre 2025 si è tenuta a Bruxelles la quattordicesima edizione della EU
Non-Proliferation and Disarmament Annual Conference, organizzata dall’Istituto
Affari Internazionali (IAI) per conto dell’EU Non-Proliferation and Disarmament
Consortium (EUNPDC). L’evento si conferma come un punto di riferimento
imprescindibile per la comunità europea e internazionale impegnata nelle
questioni di non proliferazione, controllo degli armamenti e disarmo, offrendo
una piattaforma di dialogo e confronto tra esperti, decisori politici e
rappresentanti istituzionali.
La conferenza ha
nuovamente riaffermato il ruolo del Consorzio come piattaforma cruciale per il
dialogo tra ricerca indipendente e politica pubblica. Un ruolo reso possibile
dal sostegno continuativo dell’Unione europea e dei suoi Stati membri, che da
oltre un decennio finanziano non solo la conferenza, ma anche una vasta rete di
programmi di formazione, network di giovani esperti e progetti di ricerca. In
un contesto internazionale sempre più frammentato e polarizzato, questo impegno
rappresenta oggi più che mai una scelta fondamentale e un investimento nel
futuro della sicurezza europea.
Un’agenda ampia
per un mondo in transizione
Come nelle
edizioni precedenti, anche la EUNPDC 2025 ha offerto un’agenda ricca e
interdisciplinare: dalle armi di distruzione di massa alle armi convenzionali,
dalla sicurezza spaziale alle nuove tecnologie emergenti, fino alle dinamiche
regionali più sensibili.
Quest’anno,
un’enfasi particolare è stata posta su temi di stretta attualità e di profonda
rilevanza strategica. Tra questi, si è distinta la sessione speciale dedicata
alla sicurezza nucleare, che ha visto la partecipazione del Direttore Generale
dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), Rafael Mariano
Grossi. Il dibattito ha affrontato le sfide nella gestione della sicurezza
degli impianti nucleari civili, nella prevenzione del rischio di proliferazione
e nella protezione delle infrastrutture critiche in un contesto di fragilità
normativa e securitaria.
Il programma ha
inoltre incluso importanti riflessioni storiche, come il 50° anniversario della
Convenzione sulle Armi Biologiche e l’80° anniversario dei bombardamenti di
Hiroshima e Nagasaki – ricordato attraverso le parole del Sottosegretario
Generale delle Nazioni Unite Izumi Nakamitsu. Queste riflessioni hanno
rappresentato un invito a rinnovare l’impegno collettivo verso il principio di
responsabilità condivisa, riaffermando il nesso inscindibile tra memoria
storica, etica della sicurezza e prevenzione del conflitto.
Ripensare i
concetti, non solo le politiche
Da questi
dibattiti è emersa una consapevolezza condivisa e trasversale: il linguaggio
della sicurezza internazionale sta subendo una trasformazione profonda, tanto
nel lessico quanto nelle categorie interpretative che ne informano il pensiero
strategico. Termini quali guerra, deterrenza, riarmo, sfiducia e incertezza
tendono ormai a dominare il discorso pubblico e diplomatico, mentre concetti
come multilateralismo, fiducia, disarmo o pace sembrano progressivamente
relegati ai margini del dibattito. Questa evoluzione semantica non rappresenta
un semplice mutamento linguistico, ma segnala un cambiamento paradigmatico più
ampio: la progressiva normalizzazione della logica del confronto e della
coercizione a scapito di quella della cooperazione multilaterale e della
costruzione condivisa della sicurezza.
Uno dei contributi
più rilevanti emersi dalla conferenza riguarda la necessità di un ripensamento
concettuale profondo delle categorie analitiche che strutturano il dibattito
sulla sicurezza e sul controllo degli armamenti. Di fronte a un sistema normativo
in crisi, in cui i trattati si sgretolano e le nuove tecnologie – dal cyber
all’intelligenza artificiale militare – sfuggono a ogni quadro di
regolamentazione tradizionale, si impone una domanda fondamentale: che cosa
intendiamo oggi per “controllo degli armamenti”? Le definizioni di cui ci
serviamo sono ancora adeguate a descrivere la complessità del presente, o
rischiano ormai di ridursi a etichette vuote, incapaci di orientare l’azione
politica?
In questa
prospettiva, la sfida per la comunità della sicurezza internazionale è duplice:
da un lato, superare la inerzia concettuale che perpetua categorie obsolete;
dall’altro, costruire nuovi paradigmi interpretativi capaci di rispondere alla
discontinuità tecnologica, alla moltiplicazione degli attori e alla crisi della
governance globale. Come sintetizzato in uno dei contributi durante la
conferenza, «la sfida non consiste nel ripristinare i vecchi quadri del
controllo degli armamenti, ma nel re-immaginarli radicalmente per un’era
segnata dalla turbolenza geopolitica e dal disordine tecnologico».
Le nuove
generazioni
Tra i momenti più
significativi dell’edizione 2025 si distingue l’incontro del Next Genaration
Workshop, un programma ormai consolidato che costituisce una delle componenti
più dinamiche e inclusive delle attività del Consorzio EUNPDC. Il workshop,
organizzato parallelamente alla Conferenza Annuale, vede la presenza di 9
giovani ricercatori da tutto il mondo invitati a presentare proposte di ricerca
originali volte ad affrontare le principali sfide contemporanee nei settori
della non proliferazione, del controllo degli armamenti e del disarmo.
Elemento
qualificante del NextGen Workshop è la sua dimensione interattiva: i giovani
esperti presentano i propri lavori di fronte a un pubblico composto da
funzionari dell’Unione europea, membri del Consorzio EUNPDC e rappresentanti
della rete europea di think tank specializzati in sicurezza e disarmo. Gli
interventi ricevono un feedback strutturato da parte di studiosi senior e
policy-maker, creando un ambiente di apprendimento reciproco e di
fertilizzazione incrociata tra analisi accademica e policymaking.
In tale
prospettiva, la dimensione “NextGen” non rappresenta un semplice laboratorio
formativo, ma un vero e proprio incubatore di leadership epistemica e politica
nel campo della sicurezza internazionale. Essa incarna la convinzione,
condivisa dai promotori del Consorzio, che il futuro della non proliferazione e
del disarmo dipenda dalla capacità di costruire un ecosistema di conoscenze
capace di integrare rigore analitico, sensibilità etica e visione sistemica.
La difesa dei
valori del multilateralismo
La Conferenza si è
chiusa con un monito e una speranza. Di fronte alla progressiva
disarticolazione dell’architettura internazionale del disarmo, non è più
possibile indulgere nella compiacenza o nella retorica della resilienza. È
necessario uno sforzo congiunto – politico, intellettuale e morale – per
invertire la rotta.
In questo quadro,
la rete del Consorzio EUNPDC emerge come una delle infrastrutture epistemiche
dedicate alla difesa di valori e pratiche che costituiscono l’ossatura del
multilateralismo contemporaneo: la diplomazia come metodo, l’impegno
cooperativo come principio, il rispetto del diritto internazionale come
fondamento, la solidità analitica come garanzia e la formazione di competenze
indipendenti come investimento per il futuro.
La conferenza ha
mostrato come tali valori non possano più essere considerati presupposti
stabili, ma beni pubblici globali da tutelare attivamente in un contesto di
crescente frammentazione e sfiducia.
Riflettere, oggi,
non è più sufficiente. Occorre agire con rigore analitico, immaginazione
politica e responsabilità collettiva, per ricostruire un linguaggio della
sicurezza fondato sulla cooperazione, sulla legalità e sulla dignità umana. In
un tempo in cui la parola pace sembra progressivamente perdere centralità nel
lessico politico, il lavoro dell’EUNPDC continua a rappresentare un laboratorio
di pensiero critico e di azione costruttiva, un presidio di dialogo
multilaterale e, soprattutto, un richiamo alla responsabilità condivisa verso
un ordine internazionale più giusto, stabile e umano. Ludovica Castelli, AffInt
18
Bilancio 2026. 163,1 milioni per “Italiani nel mondo e politiche
migratorie”
Roma. La
Commissione Esteri e Difesa del Senato ha avviato l’esame, anche per le parti
di competenza riguardanti il Maeci , del Bilancio di previsione dello Stato per
l’anno finanziario 2026 e bilancio pluriennale per il triennio 2026-2028. Il
relatore Marco Dreosto (Lega) ha in primo luogo segnalato come fra le novità in
relazione alla struttura del disegno di legge di bilancio 2026-2028 vi sia
anche quella relativa alla riorganizzazione del Maeci, a parità di centri di
responsabilità amministrativa. Nello specifico, con riferimento alla Farnesina,
la relazione – riferisce Dreosto – segnala che il dicastero ha apportato
modifiche all’articolazione di bilancio, attraverso il provvedimento di
riorganizzazione finalizzato ad adeguare la struttura organizzativa del Maeci
alle sfide derivanti dall’attuale contesto internazionale sul piano politico e
securitario e per consentirle un migliore svolgimento dei compiti di promozione
economica all’estero attribuiti dal decreto-legge n. 104 del 2019. In
particolare, la riorganizzazione risponde al potenziamento dell’azione del
Ministero per la crescita e il posizionamento internazionale dell’Italia
attraverso il coordinamento della proiezione politica e di sicurezza, la
gestione sinergica degli strumenti di promozione economica, la valorizzazione
del ruolo dell’Italia nelle tematiche energetiche e ambientali a livello
globale, la cybersicurezza e l’innovazione tecnologica, il miglioramento dei
servizi ai cittadini e alle imprese e la valorizzazione delle risorse umane. Alla
luce di queste motivazioni Dreosto rileva come la nuova articolazione di
bilancio veda l’istituzione del programma 4.19 “Sicurezza cibernetica,
informatica e innovazione tecnologica” e la soppressione del programma 4.18
“Diplomazia pubblica e culturale”, lasciando inalterato il numero di programmi
rispetto alla precedente struttura. Il nuovo programma 4.19 “Sicurezza
cibernetica, informatica e innovazione tecnologica” – spiega il relatore – è
articolato con due nuove azioni: la prima è denominata “Spese di
personale per il programma”; la seconda è la “Gestione dei sistemi informativi”
in cui sono state allocate le risorse provenienti in quota parte dalle azioni
“Programmazione e coordinamento dell’Amministrazione”, “Gestione comune dei
bene e servizi, ivi inclusi i sistemi informativi” che, oltre le risorse perde
anche parte della sua denominazione, e dall’azione “Promozione e diffusione
delle lingue e della cultura italiana all’estero”. Dal relatore viene poi
segnalata, al fine di potenziare la presenza istituzionale nazionale
all’estero, la spesa di 4,7 milioni di euro annui, a decorrere dall’anno 2026,
per rafforzare e stabilizzare il contingente del personale dell’Arma dei
Carabinieri in servizio di sorveglianza e scorta presso le sedi diplomatiche estere.
Rilevato anche lo stanziamento di 14 milioni di euro per l’anno 2026 per lo
svolgimento delle votazioni per il rinnovo dei Comites e del Cgie. In
proposito nella relazione illustrativa si spiega che l’intervento si rende
necessario per garantire la regolare convocazione delle consultazioni
elettorali degli organismi di rappresentanza degli italiani residenti
all’estero, assicurando la continuità del loro funzionamento e il rafforzamento
del legame con le comunità italiane nel mondo. In questo modo si intende
contribuire a sostenere la partecipazione democratica e il coinvolgimento delle
collettività italiane all’estero nei processi decisionali, in coerenza con i
principi di rappresentanza sanciti dalla normativa vigente, anche in
considerazione dell’aumento delle spese postali e dell’accresciuta consistenza
del corpo elettorale, tenuto conto che i connazionali iscritti all’AIRE sono
passati nel volgere di poco tempo da 5.652.080 a 6.412.752. Dreosto ha anche
rilevato come nello stato di previsione del Maeci si istituisca un fondo di 35
milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2026 per le iniziative di
promozione in campo economico e culturale svolte dalla Farnesina. L’intento
sotteso alla misura – si legge nella relazione – è quello di potenziare il sostegno
alle esportazioni e all’internazionalizzazione delle imprese italiane,
rafforzando la promozione del made in Italy all’estero e le
iniziative di promozione in campo economico, sportivo, della scienza, dello
spazio e dell’innovazione svolte dal Maeci anche mediante la rete
diplomatico-consolare, rafforzando le attività di diplomazia pubblica e
culturale e incrementando l’offerta di borse di studio rivolte all’attrazione
in Italia di studenti stranieri. Nel campo dell’internazionalizzazione delle
imprese si prevede poi un incremento di 100 milioni di euro per il 2026 del
fondo a carattere rotativo destinato alla concessione di finanziamenti a tasso
agevolato alle imprese esportatrici, nonché un incremento di altri 100 milioni
di euro per ciascuno degli anni dal 2026 al 2028 del fondo per la promozione
degli scambi e l’internazionalizzazione delle imprese. Dal relatore è stato
anche sottolineato come, per lo stato di previsione del Maeci, il disegno di
legge di bilancio autorizzi spese finali, in termini di competenza, pari a
3.829,3 milioni di euro nel 2026 (in aumento rispetto alla legge di bilancio
dello scorso anno che prevedeva per il 2025 3.542,9 milioni di euro), a 3.648,6
milioni di euro per il 2027 e 3.183,4 milioni di euro per il 2028. Gli stanziamenti
di spesa del Maeci autorizzati dal disegno di legge di bilancio si attestano,
in termini di competenza, nell’anno 2026, in misura pari allo 0,4% della spesa
finale del bilancio statale, nella stessa percentuale prevista dall’esercizio
precedente. Dreosto ha inoltre rilevato come nello stato di previsione
della Farnesina , la spesa complessiva sia allocata su tre missioni. La
missione n. 4, “L’Italia in Europa e nel mondo”, articolata in 14 programmi,
che assorbe la gran parte delle risorse, oltre l’81% del valore della spesa
finale complessiva del Ministero – , pari a 3.110,2 milioni di euro.
Nell’ambito di questa missione, il programma 4.2, “Cooperazione allo sviluppo”,
dotato di 1.004,6 milioni di euro ai sensi del progetto legge di bilancio a legislazione
vigente, passa a 940,3 milioni nel progetto di bilancio integrato, registrando
un decremento pari a quasi 64 milioni di euro per gli effetti finanziari
disposti dalle riprogrammazioni delle dotazioni finanziarie previste a
legislazione vigente e dalla Sezione I. Seguono il programma 4.6, “Promozione
della pace e della sicurezza internazionale!, con 928,7 milioni di euro (in
aumento rispetto ai 924 milioni della scorsa legge di bilancio), il programma
4.13, “Rappresentanza all’estero e servizi ai cittadini e alle imprese”, con
808,9 milioni di euro (in aumento rispetto ai 733,2 milioni della scorsa legge
di bilancio). A questi si aggiungono il programma 4.8 “Italiani nel mondo e
politiche migratorie” con 163,1 milioni di euro i cui fondi aumentano
considerevolmente rispetto alla legge di bilancio dello scorso anno quando
ammontavano a 77,8 milioni di euro, il programma 4.12, “Presenza dello Stato
all’estero tramite le strutture diplomatico-consolari” (con stanziamenti per
95,4 milioni di euro) e il programma 4.19, di nuova denominazione, “Sicurezza
cibernetica, informatica e innovazione tecnologica”, con 64,9 milioni di euro.
La missione n. 16, “Commercio internazionale ed internazionalizzazione del
sistema produttivo”, afferisce ad un solo programma: “Sostegno
all’internazionalizzazione delle imprese e promozione del made in Italy” ,
con uno stanziamento di 647,1 milioni di euro, pari al 16,9% delle spese finali
del Ministero. Infine alla missione n. 32, “Servizi istituzionali e generali
delle amministrazioni pubbliche”, afferiscono due programmi (indirizzo politico
e servizi e affari generali per le amministrazioni di competenza) che recando
stanziamenti per 71,96 milioni di euro. Dreosto si è infine soffermato
sulla sezione “Italiani nel mondo e politiche migratorie”, ricordando che
questo programma (4.8) beneficia di uno stanziamento per il 2026 di 163,1
milioni di euro, in cui si collocano i capitoli di diretto interesse per le
comunità degli italiani all’estero e per i relativi organi di rappresentanza,
nonché i capitoli che riguardano la promozione della lingua e cultura italiana
nel mondo. Fra i programmi relativi alle politiche migratorie il relatore ha
ricordato – fra gli altri – il capitolo 3109, relativo al fondo per interventi
straordinari volti a rilanciare il dialogo e la cooperazione con i Paesi
africani e con altri Paesi di importanza prioritaria per i movimenti migratori
(28,5 milioni nel 2026) e il capitolo 3110, relativo al fondo di premialità per
le politiche di rimpatrio (9,5 milioni nel 2026). (Inform/dip 9)
Mediterraneo armato: alleanze, spese e potere
Nel Mediterraneo,
l’acquisto di armi non è mai neutrale: secondo i dati Sipri 2020‑2024,
ogni fornitore riflette alleanze politiche, strategie industriali e ambizioni
militari. Gli Stati Uniti restano il principale partner di nove Paesi su
ventuno, mentre la Russia mantiene rapporti diretti solo con Algeria e Libia
orientale. Europa e Nord Africa mostrano logiche diverse tra interoperabilità
Nato, capacità tecnologiche e bilanci militari. Israele e Turchia sviluppano
rapporti mirati con partner extra‑regionali, mentre mercati come Siria e
Libia seguono dinamiche di ricomposizione post‑conflitto. Nel mare che
collega tre continenti, ogni contratto d’arma è un messaggio politico,
industriale e strategico – di Marco Calvarese
Nel bacino
mediterraneo l’acquisto di sistemi d’arma non rappresenta solo una decisione
tecnica, ma un filo che intreccia alleanze geostrategiche, politiche
industriali e schieramenti militari. I dati del Sipri- e l’analisi dei flussi
d’importazione nei Paesi attorno al Mediterraneo mostrano come ogni contratto
rifletta una scelta, un messaggio e una prospettiva di potere.
Secondo l’ultimo
fact sheet del Sipri, nel 2024 la spesa militare mondiale ha raggiunto 2.718 miliardi
di dollari (+9,4% rispetto al 2023), segnando il livello più alto mai
registrato. La quota della spesa militare sul Pil globale è salita al 2,5%, e
la spesa militare media come proporzione della spesa pubblica ha superato il
7,1%. Nella regione europea, la spesa militare è aumentata del 17% sino a 693 miliardi
nel 2024. Nel Medio Oriente, l’aumento è stato del 15% nello stesso anno, per
un totale stimato di 243 miliardi. Questi numeri testimoniano un contesto di
crescente militarizzazione globale, che fornisce le condizioni per l’importanza
strategica dei fornitori d’armi nei Paesi mediterranei.
I flussi di
armamenti nel Mediterraneo riflettono quattro logiche fondamentali:
allineamento politico‑militare; domanda e offerta tecnologica; condizioni
finanziarie e industriali; e rischio geostrategico/sanzionatorio. Gli Stati
Uniti emergono come fornitore dominante: 9 Paesi su 21 dell’area hanno
Washington come principale fornitore secondo il Sipri per il periodo 2020‑24.
Il ruolo della Russia è fortemente ridimensionato: dopo l’invasione
dell’Ucraina perde terreno e mantiene legami diretti solo con l’Algeria e con
la parte orientale della Libia. Attori regionali come Italia, Francia, Spagna,
Turchia e Israele partecipano al mercato della difesa soprattutto nei segmenti
specializzati (navale, aeronautico, artiglieria) anche se raramente sono
fornitori primari in massa.
L’Europa
meridionale e i Balcani offrono esempi emblematici. Paesi come Albania,
Montenegro e Bosnia scelgono gli Stati Uniti per modernizzare le proprie forze,
assicurando interoperabilità con la Nato. In Slovenia, l’Italia risulta partner
principale nei settori degli elicotteri e del trasporto tattico. La Croazia
opta per la Francia per aggiornare la propria aeronautica con i caccia Rafale.
In Grecia, la scelta verso Parigi per navale e aeronautica assume anche un
valore strategico nel contesto del confronto con Ankara. In Italia, pur
esportando sistemi d’arma, resta fermo il ruolo degli Usa come fornitore
principale per alcune capacità chiave (es. caccia di quinta generazione). Le
potenze medie europee privilegiano invece la produzione nazionale, ricorrendo
alle importazioni solo in casi strategici.
Sul versante
africano del Mediterraneo, il Marocco consolida l’ancoraggio agli Usa e integra
forniture israeliane, per mantenere un vantaggio rispetto all’Algeria. La
Tunisia, con bilancio più ristretto, privilegia pacchetti Usa legati alla
sicurezza interna e al controllo dei confini. L’Algeria mantiene una filiera
russa per sistemi terrestri e antiaerei; è il Paese con il budget militare più
alto del Maghreb ed è stato il primo al mondo ad acquisire caccia russi di
quinta generazione. In Libia, l’approvvigionamento d’armi diventa parte della
competizione interna: la Tripolitania beneficia di forniture turche, la
Cirenaica di quelle russe.
Nel Medio Oriente,
Israele conferma un rapporto strutturale con gli Usa fondato su piattaforme co‑sviluppate
e fondi federali. Nel 2024 la sua spesa militare è cresciuta del 65% arrivando
a 46,5 miliardi e pari all’8,8% del Pil nazionale. La Siria, uscita dal
perimetro russo, appare come mercato di esportazione pronto allo sblocco post‑sanzioni.
La Turchia guarda a fornitori alternativi – tra cui la Spagna – attivando
partnership navali e aeronautiche non convenzionali.
Nel Mediterraneo,
la politica degli acquisti di sistemi d’arma è al crocevia tra politica estera
e industriale. Non conta solo il tipo di sistema acquistato, ma chi lo
fornisce, quale catena produttiva nazionale attiva, e quale alleanza politica
rafforza. I dati del Sipri mostrano chiaramente che l’egemonia Usa resta
intatta, la Russia è in declino, e che le medie potenze esercitano ruoli
specialistici ma non dominanti. In un mare in cui si intrecciano insicurezza
marittima, minacce energetiche e competizione strategica tra potenze, ogni
contratto d’arma è un messaggio. È la testimonianza di dove un Paese decide di
stare — e con chi.
Sir 3
E’ Operatore
dell’Informazione chi rende pubblici fatti d’interesse nel rispetto del
classico quadrinomio ben noto agli addetti ai lavori: Quando, Dove, Perché e
Come. Quest’enunciato, ovviamente, è solo una traccia sommaria di ciò che
intendiamo fare per informazione. Noi lo facciamo dal 1964.
Quando, per una
serie di contemporaneità, si riesce ad andare oltre gli schemi canonici, allora
il giornalismo è anche partecipazione. Insomma, se c’è stoffa e ispirazione,
l’occasione per “comunicare” è una naturale conseguenza. Il difficile, almeno
secondo noi, è restare “neutrali” circa gli avvenimenti trattati.
Solo
un’informazione fine a se stessa riesce a interessare tutti. Senza seguiti
politici che, poi, ciascun lettore può, se lo ritiene, esaminare. Dato che
informarsi, è un diritto e informare anche un dovere, c’è anche da tener conto
che le notizie sono destinate a chi le legge. Essere opinionisti, invece, è
tutt’altra storia.
Per quanto ci
riguarda, intendiamo dare sempre accessibilità ai nostri interventi. Obiettivo
che desideriamo estendere a chi sente di condividere lo spirito di
comunicazione. Anche questo percorso può costituire “opinione” da considerare.
Questo giornale, anche sotto tale profilo, è per la libera compartecipazione.
Noi, sotto questo profilo, lo facciamo da sempre.
Giorgio Brignola,
de.it.press
Migrantes: presentato a Roma il Rapporto italiani nel mondo 2025
Roma. Si è svolta
a Roma, presso la Sala San Pio X del complesso del Santo Spirito in Sassia, la
presentazione della XX edizione del Rapporto italiani nel mondo 2025 curato
dalla Fondazione Migrantes. Dal Rapporto emerge un quadro abbastanza
complesso, dopo un rallentamento dovuto al Covid, dal 2023 gli italiani
hanno ripreso ad espatriare. Questa edizione oltre a dare un quadro completo
della presenza italiana all’estero presenta uno speciale dedicato al tema
“Oltre la fuga: talenti, cervelli o braccia?”. “Parlare di fuga dei cervelli –
si spiega nel Rapporto – non significa solo descrivere una migrazione,
principalmente, giovanile, significa attribuire ad essa un significato preciso,
con connotazioni drammatiche e identitarie per il Paese di partenza, associando
al concetto di mobilità quello di perdita, strappo, trauma”. In questo speciale
gli autori hanno “ricostruito e raccontato la mobilità italiana dal 2006”.
La presentazione
si è aperta con un saluto introduttivo di Delfina Licata, curatrice del
Rapporto, che ha coordinato gli interventi. Nel suo intervento Licata ha
sottolineato come i numeri degli italiani che vanno all’estero continuino a
salire. Al primo gennaio 2025 gli iscritti all’AIRE erano 6.412.752, pari al
12% dei cittadini italiani. Sono 278 mila le persone che in un solo anno sono
andate a vivere all’estero, rispetto al 2006 è la percentuale è del 106%. Gli
italiani che vanno all’estero preferiscono l’Europa e sono il 53,8 % del
totale, a seguire gli Stati Uniti con una percentuale del 41%. Si continua a
partire di più dalle regioni del Sud, con il 45% degli iscritti all’anagrafe
estera. Tra queste regioni è la Sicilia con il maggior numero di emigrati ,
sono oltre 844 i residenti all’estero. Per ulteriori approfondimenti vedi
Inform (I dati e le valutazioni del XX Rapporto Italiani nel Mondo della
Fondazione Migrantes, tra il 2006 e il 2024 l’emigrazione italiana è
diventata un fenomeno strutturale | www.comunicazioneinform.it).
A seguire
l’indirizzo di saluto di Direttore Generale della Fondazione Migrantes
Pierpaolo Felicolo che ha ricordato come il Rapporto rappresenti “uno strumento
di conoscenza e consapevolezza collettiva”. Un percorso, che dal 2006 ad oggi è
stato caratterizzato “anche dalla crescita personale di questi studiosi che
hanno partecipato, che nel frattempo si sono affermati professionalmente”.
Felicolo poi ricordato come dal 2006 siano state stampate per il Rapporto oltre
10.000 pagine di studio per un percorso costruttivo che ripercorre i
cambiamenti sociali ed ecclesiali. Il Direttore Generale ha poi sottolineato
come in questi anni gli italiani all’estero non abbiano mai smesso di partire e
di mescolarsi alla cittadinanza cosmopolita. Un percorso migratorio, che ha
visto anche dei rientri nel nostro Paese e delle ripartenze, che per Felicolo
va studiato ed accompagnato. Un camminare insieme ai migranti di qualsiasi
nazionalità abbiano. “Una Chiesa che è nel mondo – ha aggiunto – e più
vicina alle persone migranti attraverso tutte le modalità di studio”. Il
Direttore Generale ha inoltre ringraziato gli oltre 70 autori e autrici che
dall’Italia e dal mondo hanno collaborato alla redazione di questa edizione del
Rapporto con i dati e approfondimenti.
Ha poi preso la
parola Paolo Ruffini, Prefetto del Dicastero per la comunicazione della Santa
Sede, “Il RIM – ha esordito Ruffini – ci dice tanto sull’importanza del ruolo
degli italiani all’estero nella diffusione della cultura italiana nel mondo,
delle nostre radici, della nostra identità. Senza mobilità tutto sarebbe molto
meno incisivo”. Ruffini ha anche evidenziato il prezioso lavoro comunicativo
svolto dal RIM che, attraverso una ricerca approfondita in un mondo che invece
corre, riesce a raccontare e comprendere senza distorsioni i fatti della
mobilità. Un fenomeno, quest’ultimo, che non può essere fermato ma va gestito
migliorando l’attrattività del nostro Paese.
A seguire
l’intervento del Direttore dell’Agenzia 9Colonne Paolo Pagliaro. “Nel 2006 –
ha ricordato Pagliaro – quando venne pubblicato per la prima volta
il Rapporto, in Italia nacquero 560.000 bambini. Oggi ne nascono 340.000, il
40% in meno. Nel 2006, l’ISTAT registrava 82.000 emigranti italiani. L’anno
scorso ne sono partiti il doppio. Sono raddoppiati in questi vent’anni anche
gli iscritti all’AIRE, mentre sono rimasti invariati i residenti in Italia,
circa 59.000.000. Ma solo perché, rispetto ad allora sono raddoppiati gli
stranieri”. “Mentre l’Italia cominciava a svuotarsi, – ha proseguito Pagliaro –
il Rapporto, nato in un’ottica di cura pastorale dei migranti, si preoccupava
di illuminare e valorizzare l’altra Italia, quella dell’emigrazione nascosta e
lontana, ma per molti aspetti molto vicina”. Pagliaro ha poi ricordato
come il Rapporto abbia la capacità “di mettere in discussione le narrazioni
dominanti su chi siamo, cosa offriamo ai nostri cittadini, quali spazi lasciamo
loro, quali li costringiamo ad abbandonare”. “Non si comprende ciò che sta
fuori – ha aggiunto – se non si illumina ciò che sta dentro, che è poi il filo
rosso dell’edizione di quest’anno”. “Si può partire – ha infine rilevato
Pagliaro – per amore, per curiosità, per spirito di avventura, indipendenza,
solidarietà, apertura mentale. Ma c’è anche un’Italia da cui si parte per
necessità”. A seguire si è svolta una tavola rotonda, sul tema “Oltre la fuga.
Talenti, cervelli o braccia”, moderata da Delfina Licata a cui hanno preso parte
i giornalisti Roberto Inciocchi (Rai), Paolo Lambruschini (Avvenire), Manuela
Perrone (Il Sole 24 Ore). Nel suo intervento Licata ha sottolineato come la
nostra emigrazione ci porti ad essere in tutti i luoghi del mondo e coinvolga
tutta l’Italia, ancora nell’ultimo anno le partenze sono infatti avvenute da
ogni provincia del nostro Paes. Licata ha poi chiesto ai giornalisti come si
raccontare gli italiani all’estero. Il primo a prendere la parola è stato
Roberto Inciocchi che ha subito ricordato come la sua famiglia viva a metà tra
Italia e Berlino. Il giornalista ha sottolineato la necessità di conoscere a
fondo le nostre comunità che sono molto composite e variegate, anche per
sviluppare un ponte comunicativo capace di raccontare le storie dei nostri
connazionali all’estero. Su impulso della Licata, che ha parlato di come tanti
giovani vadano via dall’Italia in cerca di migliore occupazione quasi a
testimonianza di un “patto generazionale tradito”, la giornalista Manuela
Perrone ha evidenziato come un patto generazionale sano vedrebbe i giovani
portatori di innovazione e di cambiamento e gli anziani custodi della
tradizione e della memoria ,con una staffetta delle funzioni. Un meccanismo che
a un certo punto però in Italia si è inceppato, favorendo la ricerca da parte
dei giovani di migliori opportunità formative, professionali e personali
all’estero. Perrone ha anche sottolineato un pensiero evidenziato anche da
Inciocchi, ovvero che gli operatori della comunicazione abbiamo anche il
compito di sfatare gli stereotipi su questo contesto. Secondo Paolo Lambruschi
dalle pagine del Rapporto si evince invece come i temi dell’emigrazione e
dell’immigrazione siano in realtà oggi interconnessi. Per il giornalista
l’Italia fuori dei confini non composta sono da italiani ma anche di immigrati
che dopo una permanenza in Italia sono emigrati di nuovo verso l’estero.
Secondo Lambruschini dunque la mobilità è un fenomeno che interessa tutti
a va interpretata come una risorsa.
Le conclusioni
dell’incontro sono state affidate a Mons. Gian Carlo Perego, Presidente della
Commissione episcopale per le migrazioni della Cei e della Fondazione
Migrantes. “Il Rapporto italiani nel mondo della Fondazione Migrantes – ha
esordito Perego – da 20 anni è il segno della memoria di un impegno delle
Chiese in Italia a fianco del mondo della mobilità, ma anche un segno
dell’attualità dell’emigrazione italiana. Nel 2024 a fronte di 169.000
immigrati che sono entrati in Italia 152.000 italiani sono andati all’Estero,
soprattutto in Europa, di cui 93.000 tra i 18 e i 39 anni, il doppio rispetto a
10 anni fa”. In proposito Perego ha rilevato come da dieci anni almeno la
differenza numerica tra immigrati ed emigranti diventi sempre minore. Un dato
preoccupante, secondo il Presidente , perché evidenzia la scarsa attrazione del
nostro Paese, a fronte di un problema demografico sempre più grave e della
necessità di manodopera professionale. Un contesto difficile in cui, per
Perego, occorre una riforma della legge sulla cittadinanza che equilibri jus
sanguinis, e jus soli,. Perego ha poi parlato di un’Italia caratterizzata da
mobilità multiple. “. È un concetto – ha spiegato – che abbiamo sviluppato già
nel Rapporto Italiani nel Mondo 2024. Una interrelazione che quest’anno diventa
sempre più chiara e indispensabile. Argomento dopo argomento viene fuori in
modo naturale e sempre più incisivo che parlare di Italia e di popolazione
italiana significa prendere in carico la storia e l’attualità di un Paese e di
un popolo per i quali la migrazione è elemento strutturale, cifra distintiva e
identitaria sin dalla Costituzione italiana che all’art. 35 garantisce la
libertà di emigrare e tutela il lavoro italiano all’estero con accordi
internazionali. Quando parliamo dei movimenti in Italia (migrazione interna) o
verso l’estero – ha continuato – non si può non considerare la componente
immigrata o i nuovi italiani, coloro i quali, cioè, hanno cittadinanza italiana
ma un’origine di altro Paese. Questo ci fa toccare con mano la storicità della
presenza di persone e famiglie di altre nazionalità nel nostro Paese, ma ci dà
anche il senso di un’Italia che fatica a riconoscersi pienamente inserita nei
processi di mobilità internazionale e che sempre troppo poco ancora si impegna
sul piano concreto per accogliere e trattenere le persone migranti”.
Non più solo
“emigrazione” o “fuga di cervelli”, ma un insieme di movimenti che raccontano
un’Italia plurale, in uscita e di ritorno, dentro e fuori i propri confini:
l’Italia fotografata dal XX Rapporto Italiani nel Mondo della Fondazione
Migrantes presentato oggi a Roma non è più un Paese che “fugge”, ma un Paese
che si ridefinisce nei legami, nelle reti e nelle comunità transnazionali.
Nel RIM 2025 si legge di 1,6 milioni di espatri e 826 mila rimpatri
in 20 anni, con un saldo negativo di oltre 817 mila cittadini italiani,
concentrato tra Lombardia, Nordest e Mezzogiorno. Al 1° gennaio 2025 risultano
iscritti all’Anagrafe per gli italiani all’estero (AIRE), 6,4 milioni di
persone, pari quasi a 1 italiano su 9: l’“Italia fuori dell’Italia” è ormai la
ventunesima regione, fa notare la Migrantes. Inoltre, oltre 1 milione di
cittadini italiani nel periodo 2014-2024 si sono trasferiti dal Meridione al
Centro-Nord, con un saldo negativo per il Mezzogiorno di oltre 500 mila
persone. Il Rapporto fotografa come tra il 2006 e il 2024
l’emigrazione italiana sia diventata un fenomeno strutturale. Dopo la crisi del
2008, gli espatri sono cresciuti costantemente, toccando nel 2024 il record
storico di 155.732 partenze. L’Europa resta il baricentro della mobilità italiana
(76% degli espatri), con Regno Unito, Germania e Svizzera in testa. Negli anni
però la mobilità si è fatta più circolare e complessa: si parte, si ritorna, si
riparte. Accanto ai giovani, tra gli italiani residenti all’estero crescono
anche le donne (+115,9% in vent’anni, dati Aire) e gli over 50, spesso nonni o
lavoratori che raggiungono figli e nipoti all’estero. Le costanti? Una spinta
migratoria legata a fragilità strutturali del Paese e a un sistema bloccato –
lavoro precario, disuguaglianze territoriali, riconoscimento del “merito” – ma
anche una dimensione di scelta, curiosità e progettualità personale. “Sappiamo
molto di più dell’emigrazione, ma forse sappiamo ancora poco degli italiani nel
mondo”, si leggeva nella Presentazione della prima edizione del RIM. Lo
speciale del Rapporto 2025, “Oltre la fuga: talenti, cervelli o braccia?” – 22
saggi che abbracciano i cinque Continenti – invita a superare la visione
riduttiva e quasi tragica dell’espatrio e della mobilità come mera “perdita,
strappo, trauma”. I dati e le testimonianze raccolte poi dimostrano che non
partono solo ricercatori/laureati e che, anzi, prevalgono i diplomati. Il filo
comune non è la fuga, ma una scelta, alla ricerca di dignità, riconoscimento e
mobilità sociale. “Il grande bluff – si legge nel Rapporto – non è tra cervelli
o braccia, ma nel non riconoscere che tutti sono talenti”. Non basta
trattenerli, né rimpiangerli: serve coinvolgerli nella costruzione di nuove
visioni collettive. La mobilità interna al Paese continua a svuotare il
Sud e le aree interne: dal 2014 al 2024, più di 1 milione di persone ha
lasciato il Mezzogiorno per il Centro-Nord, contro 587 mila in direzione
opposta. I più mobili sono i giovani tra i 20 e i 34 anni (quasi il 50%),
seguiti da adulti in età lavorativa. Le province interne e montane pagano il
prezzo più alto: perdita di popolazione, chiusura di scuole e servizi,
impoverimento sociale. Il RIM descrive così “un’Italia a velocità diverse”,
dove le disuguaglianze territoriali alimentano, in un circolo vizioso, tanto
l’esodo interno quanto quello verso l’estero: la mobilità interna, infatti, è
spesso la prima tappa di un progetto migratorio più ampio, che molte volte
arriva oltre confine. Il RIM 2025 invita a superare narrazioni riduzioniste e
rappresentazioni emergenziali, e anche la distinzione rigida tra “emigrazione”
e “immigrazione”, sottolineando come entrambe esprimano la mobilità di persone
migranti legate in modi diversi al nostro Paese. Negli ultimi anni si
registrano fenomeni articolati: ad esempio, i nuovi italiani sono protagonisti
sempre più numerosi di spostamenti, soprattutto verso altri Paesi europei. I
quattro verbi-guida proposti da papa Francesco per la pastorale migratoria –
accogliere, proteggere, promuovere, integrare – vengono applicati, talvolta,
anche a contesti non emergenziali, come quello dei migranti italiani. Il
rischio è trasformare l’integrazione in assimilazione, imponendo modelli
dall’alto. Affinché tutti i migranti diventino effettivamente soggetti attivi
di evangelizzazione (Leone XIV l’ha definita missio migrantium), in una logica
di reciprocità e crescita comune, i quattro verbi proposti da Francesco
dovrebbero essere completati da altri quattro: accogliersi, interpellarsi,
valorizzarsi, condividere. L’Italia fotografata dal RIM 2025 non è più un Paese
che “fugge”, ma una nazione che si ridefinisce nei legami, nelle reti e nelle
comunità transnazionali. Il Rapporto invita a leggere questa mobilità come una
risorsa da ascoltare e valorizzare, non come una ferita da nascondere. Nicolina
Di Benedetto- Inform/Dip 11
Migrantes, Rapporto Italiani nel Mondo. 20 anni di talenti in mobilità
ROMA - 20 anni di
“gioie ed endemiche debolezze”. 20 di “amore e solidarietà”. 20 anni di dati e
informazioni, anche a contrasto della disinformazione (diffusione intenzionale
di notizie false) e della misinformazione (diffusione inconsapevole di informazioni
ingannevoli). E così, dopo 20 anni di pubblicazioni annuali, il Rapporto
Italiani nel Mondo si è fatto “punto di riferimento”; uno studio che “avvicina
e umanizza” le persone migranti, sia quelle che escono dall’Italia che quelle
che entrano in Italia, e che cerca di “farsi prossimo approfondendo” il tema
della mobilità e le storie dei protagonisti.
Così, Mons.
Pierpaolo Felicolo, Direttore Generale della Fondazione Migrantes, ha aperto la
presentazione di questa mattina, 11 novembre, della XX edizione del Rapporto
Italiani nel Mondo. Una presentazione speciale, dunque, che per il ventesimo
anniversario ha deciso di spostarsi presso la Sala San Pio X, a ridosso del
Vaticano, a Roma, per sottolineare lo “stretto legame con la Santa Sede”.
A moderare
l’incontro, la curatrice del RIM 2025, Delfina Licata, che in apertura ha
fornito subito alcuni tra i tanti dati contenuti nello studio: 6,5 milioni gli
italiani residenti all'estero. Una comunità, come spiegato dalla curatrice, che
in questi 20 anni è più che raddoppiata: sono 1 milione e 644 mila gli
espatriati in questi ultimi due decenni, principalmente giovani tra i 25 e 34
anni, dal Mezzogiorno ma anche da Lombardia e Nordest. E solo la metà di questi
è rientrata in Italia (826 mila), il che comporta un saldo negativo di oltre
817 mila. Ma “non chiamateli cervelli in fuga”, ha esortato Licata, perché “dei
giovani che partono oggi, solo il 33% è laureato. Il restante 66% ha un titolo
di studio medio-basso. Tutti, però, sono talenti”.
Il volume di
quest’anno è molto più corposo dei precedenti, proprio perché è compresa
un’ampia parte (22 saggi da 5 continenti) dedicata al traguardo delle 20
edizioni. “Fa un certo effetto pensare ai protagonisti di questi 20 anni”, ha
spiegato Felicolo. “Più di 10 mila pagine di studio sono state stampate dal
2006 ad oggi. Guardare questo percorso è affascinante e costruttivo. Ci fa
toccare con mano i cambiamenti sociali ed ecclesiali. Oggi, dopo più di mezzo
secolo di immigrazione, dopo una storia di diaspora nazionale e un presente di
partenze cospicue, la persona in cammino rimane al centro del nostro pensiero.
L’Italia è cambiata e continua a cambiare sotto i nostri occhi. Gli italiani
non hanno mai smesso di partire. E oggi partono ancora, sempre più numerosi.
Tornano in pochi per poi ripartire. Italiani che si mescolano alla cittadinanza
cosmopolita, nel bisogno del lavoro soddisfatto fuori dai confini nazionali”. E
per questo “noi dobbiamo studiare per camminare assieme ai migranti. Siamo
tante sentinelle e interlocutori attivi nel processo delle riforme. Per noi è
doverosa la cura di ogni migrante, qualsiasi passaporto abbia”.
Il RIM 2025, in
questo senso, “fa emergere la fragilità del tema della mobilità” nei giorni
nostri. Ma la “speranza è un ponte, non un muro”, ha aggiunto Felicolo
concludendo il suo intervento. “E i migranti, con la loro storia, incarnano
questo ponte, ricordandoci che la nostra identità più profonda non è chiusa
dentro ai confini geografici”.
A seguire è
intervenuto anche Paolo Ruffini, Prefetto del Dicastero per la comunicazione
della Santa Sede, secondo il quale “viviamo in un tempo che sembra voglia
cambiare il significato delle parole, come la parola “migranti”, che è ridotta
a uno stereotipo negativo. Non per la chiesa”. Anche per questo Ruffini ha
rivolto un grande plauso al RIM, che fa “una comunicazione lenta in un mondo
veloce”, ma anche una comunicazione il cui scopo “è stare ai fatti, capire i
processi e poi condividerla. E di questo abbiamo un bisogno disperato al giorno
d'oggi”. “Stare ai fatti, alza i fatti: non è vero che l’Italia si è
trasformata da Paese di emigrazione a Paese di immigrazione. I fatti dicono che
non è così. I dati sottraggono all’ideologia. La retorica alimenta informazioni
distorte, il RIM sta ai fatti, complessi, ma da leggere così come sono, senza
dare illusioni e paure. Il RIM 2025 ci dice anche che ogni partenza è una
scelta, ma anche una spia di un sistema bloccato, incapace di offrire lavoro,
servizi, riconoscimenti e crescita. E la geografia delle partenze ci racconta
un’Italia diversa da quella da cartolina. Queste sono cose da vedere, da
affrontare”, perché la “vera sfida non è fermare la mobilità, ma diventare un
Paese accogliente per attirare nuove energie demografiche, sociali ed
economiche”.
70 fra autori e
autrici hanno composto il RIM 2025. Un’edizione che invita a superare la
visione riduttiva e quasi tragica dell’espatrio e della mobilità come mera
“perdita, strappo, trauma”. I dati e le testimonianze raccolte nello studio,
poi, dimostrano che non partono solo ricercatori/laureati e che, anzi,
prevalgono i diplomati. Il filo comune non è la fuga, ma la scelta, la ricerca
di dignità, il riconoscimento e la mobilità sociale. “Il grande bluff – si
legge nel Rapporto – non è tra cervelli o braccia, ma nel non riconoscere che
tutti sono talenti”. Non basta trattenerli, né rimpiangerli, spiega il RIM:
serve coinvolgerli nella costruzione di nuove visioni collettive.
Ma il RIM 2025
invita anche a superare le narrazioni riduzioniste e rappresentazioni
emergenziali, e anche la distinzione rigida tra “emigrazione” e “immigrazione”,
sottolineando come entrambe esprimano la mobilità di persone migranti legate in
modi diversi al nostro Paese. Negli ultimi anni si registrano fenomeni
articolati: ad esempio, i nuovi italiani sono protagonisti sempre più numerosi
di spostamenti, soprattutto verso altri Paesi europei.
I numeri
L’Italia, secondo
quanto emerge dalla fotografia del RIM 2025, non è dunque un Paese che “fugge”,
o, almeno, non più. È, invece, una nazione che si ridefinisce nei legami, nelle
reti e nelle comunità transnazionali. Al 1° gennaio 2025 gli iscritti all’AIRE
sono 6.412.752. La popolazione residente in Italia è invece 58.934.117, ci cui
5.422.426 stranieri. Ciò significa che 12 italiani su 100 vivono all’estero
(11,9%). Continuano a salire le iscrizioni all’Anagrafe dei Residenti
all’Estero: nel 2024, sono stati 278 mila gli italiani che si sono iscritti
(+4,5% in un anno), oltre il doppio rispetto al 2006 (+106,4%). La crescita
degli stranieri residenti in Italia è invece decisamente meno consistente
rispetto al passato (nel 2019 erano 5,3 milioni). A crescere, invece, sono le
donne iscritte all’AIRE (48,3%), con una crescita rispetto al 2006 decisamente
più sostenuta rispetto a quella maschile (+115,9% per le donne, 98,3% per gli
uomini).
Tra gli italiani
residenti all’estero, 1,3 milioni sono anziani (20,5%), 858 i minorenni
(14,9%). Tra i 18 e i 34 anni sono 1,4 milioni (22%), mentre 1,5 milioni sono
quelli tra i 35 e i 49 anni (23,2%) e 1,2 quelli tra i 50 e i 64 (19,6%). Di
questi, il 47,1% è espatriato, mentre il 41,3% è nato all’estero.
Per quanto
riguarda i Paesi di approdo, l’Europa è ancora la meta preferita (53,8%), poi
l’America (41,1%) e infine Oceania, Asia e Africa. Le comunità italiane
all’estero più numerose sono ancora quella in Argentina (990 mila) e in
Germania (849 mila). Mentre per quanto concerne la provenienza degli
espatriati, continua ad essere il Meridione la zona da dove si parte di più
(45,1%), a seguire il Nord (39,2%) e infine il Centro (15,7%). La Sicilia è la
comunità di residenti all’estero più numerosa con 844 mila, seguita da
Lombardia (690 mila) e Veneto (614 mila).
Gli iscritti
all’AIRE nel 2024 sono 123.376, il 53,8% sono uomini e il 70% sono
celibi/nubili. Dunque, la mobilità italiana è in piena ripresa (+38% rispetto
all’anno precedente, ossia 34 mila partenze in più, specie fra giovani e
giovani adulti).
La presentazione
dell’edizione 2025 è proseguita poi con l’intervento di Paolo Pagliaro,
Direttore dell’Agenzia 9 Colonne, che ha prima fatto un’analisi del fenomeno e
dei numeri di quest’anno, poi ha ricordato come il RIM sia uno strumento anche
per “contrastare l'amnesia collettiva” che ha colpito l’Italia che sembra aver
dimenticato che gli italiani sono stati oggetto di discriminazione, esclusione,
morte sul lavoro; che abbiamo conosciuto la clandestinità, il lavoro nero, il
razzismo. Il rapporto, infatti, secondo Pagliaro ha la capacità di mettere in
discussione la narrazione dominante sul “chi siamo, cosa offriamo ai nostri
cittadini, quali spazi li costringiamo ad abbandonare”. Ma il rapporto “non ha
un atteggiamento distopico, si può partire anche con la gioia nel cuore, per
fare esperienze umane, professionali, si può partire per amore, per curiosità,
avventura, solidarietà. Ma c’è anche un’Italia da cui si parte per necessità”.
Il RIM “indaga e approfondisce la spinta migratoria come conseguenza di un
sistema bloccato. Le partenze diventano così una forma di reazione
all’esclusione e alla frustrazione”. Insomma, il RIM “non si limita a guardare,
ma interroga e propone”. È quindi, per Pagliaro, “un servizio” a tutti gli
effetti.
Dopo di lui, è
andato in scena anche un tavolo di dialogo dal titolo “Oltre la fuga. Talento,
cervello o braccia?”, con protagonisti tre giornalisti: Roberto Inciocchi,
della Rai, Manuela Perrone, de Il Sole 24 Ore, e Paolo Lambruschi, de
L'Avvenire. I tre hanno parlato dei problemi della comunicazione “stereotipata”
sul tema migratorio, del rischio di informazioni incomplete, di un “patto
generazionale tradito”, dell’estero come “nuovo ascensore sociale” che
“accorcia i tempi per diventare adulti”, così come hanno parlato della
necessità di essere più accoglienti, attrattivi e di “raccontare la realtà per
come è, non per come la vorremmo”.
Per concludere,
infine, ha preso parola mons. Gian Carlo Perego, presidente della Commissione
episcopale per le migrazioni della Conferenza episcopale italiana e della
Fondazione Migrantes: “in questi 20 anni, il RIM ci ha permesso di guardare
dentro la realtà della mobilità. Guardare dentro i volti di persone che spesso
non vengono accompagnate. Ormai c’è una parità tra emigrazione ed immigrazione.
Non c’è attenzione a nessuna delle due. Spesso è stato più alto il numero di
chi parte. Questo è preoccupante perché dà l’idea della poca attrazione
dell’Italia e per il problema demografico, economico e strategico. Tanti
giovani manifestano la volontà di lasciare il nostro paese. Questo chiede una
riforma della cittadinanza che equilibri ius sanguinis e ius soli
riconsiderando le forme di ius scholae e ius culturae”. A tal ragione, secondo
Perego “non si può tacere sul metodo con cui è stata introdotta la riforma
della cittadinanza. Un decreto legge approvato senza preavviso né confronto con
gli italiani all’estero. Ha inciso su una materia complessa e identitaria che
avrebbe richiesto un dibattito parlamentare ampio. È una questione che tocca
milioni di persone e tocca l’idea di Italia nel mondo, ed è stata trattata come
un’urgenza amministrativa”. “Senza un investimento serio sulla cittadinanza –
ha spiegato ancora -, c’è il rischio che i giovani, protagonisti della
mobilità, non amino più il nostro paese e rimangano in attesa solo del tempo
della ripartenza. Non si può essere cittadini a metà”. Infine, Perego ha
concluso con due riflessioni, la prima riguarda la cittadinanza che “se vissuta
con responsabilità, rappresenta un ponte tra generazioni e popoli”. La seconda,
invece, riguarda la sempre più stretta connessione tra immigrazione ed
emigrazione: “ci fa parlare dell’Italia dalle mobilità multiple”. E la mobilità
“dovrebbe allargare la cittadinanza, invece la chiude. E chiude anche la
politica”.
A chiosare la
presentazione, il messaggio della curatrice Delfina Licata: “nel 2006
scrivevamo “Sappiamo molto di più dell’emigrazione, ma forse sappiamo ancora
poco degli italiani nel mondo”. Dopo 20 anni speriamo di aver riportato le
storie degli italiani e delle italiane nel mondo a casa. E queste italiane e
questi italiani fanno parte dell’unica e sola Italia”. (l.m.\aise 11)
Rapporto Italiani nel Mondo 2025, 20 anni di mobilità italiana: non “fuga”,
ma talenti che scelgono
Presentata a Roma
la XX edizione del Rapporto Italiani nel Mondo della Fondazione Migrantes. Dal
2006 a oggi il saldo migratorio degli italiani segna -817.000. Sono in
prevalenza giovani, scelgono l’Europa, vengono da Lombardia, Nordest e
Mezzogiorno, le tre Italie della mobilità.
Non più solo
“emigrazione” o “fuga di cervelli”, ma un insieme di movimenti che raccontano
un’Italia plurale, in uscita e di ritorno, dentro e fuori i propri confini. La
XX edizione del Rapporto Italiani nel Mondo (RIM) della Fondazione Migrantes –
70 autrici e autori che, dall’Italia e dall’estero, hanno lavorato a 45 saggi
articolati in cinque sezioni – fotografa con dati, storie e riflessioni 20 anni
di mobilità italiana. Grazie al patrimonio accumulato di oltre 10.000 pagine,
che hanno fatto uscire il tema dalle nicchie specialistiche, esso traccia un
quadro complesso e in trasformazione costante, per raccontare un’Italia in
continuo movimento.
Alcuni dati del
RIM 2025
* Il saldo
negativo. 1,6 milioni di espatri e 826 mila rimpatri in 20 anni, con un saldo
negativo di oltre 817 mila cittadini italiani, concentrato tra Lombardia,
Nordest e Mezzogiorno.
* L’“Italia fuori
dell’Italia”. Al 1° gennaio 2025 risultano iscritti all’Anagrafe per gli
italiani all’estero (Aire), 6,4 milioni di persone, pari quasi a 1 italiano su
9: l’“Italia fuori dell’Italia” è ormai la ventunesima regione.
* La mobilità
interna. Oltre 1 milione di cittadini italiani nel periodo 2014-2024 si sono
trasferiti dal Meridione al Centro-Nord, con un saldo negativo per il
Mezzogiorno di oltre 500 mila persone.
20 anni di
cambiamenti e costanti
Tra il 2006 e il
2024 l’emigrazione italiana è diventata un fenomeno strutturale. Dopo la crisi
del 2008, gli espatri sono cresciuti costantemente, toccando nel 2024 il record
storico di 155.732 partenze. L’Europa resta il baricentro della mobilità italiana
(76% degli espatri), con Regno Unito, Germania e Svizzera in testa. Negli anni
però la mobilità si è fatta più circolare e complessa: si parte, si ritorna, si
riparte. Accanto ai giovani, tra gli italiani residenti all’estero crescono
anche le donne (+115,9% in vent’anni, dati Aire) e gli over 50, spesso nonni o
lavoratori che raggiungono figli e nipoti all’estero. Le costanti? Una spinta
migratoria legata a fragilità strutturali del Paese e a un sistema bloccato –
lavoro precario, disuguaglianze territoriali, riconoscimento del “merito” – ma
anche una dimensione di scelta, curiosità e progettualità personale.
La narrazione
potente ma insufficiente dei “cervelli in fuga”
“Sappiamo molto di
più dell’emigrazione, ma forse sappiamo ancora poco degli italiani nel mondo”,
si leggeva nella Presentazione della prima edizione del RIM. Lo speciale del
Rapporto 2025, “Oltre la fuga: talenti, cervelli o braccia?” – 22 saggi che abbracciano
i cinque Continenti – invita a superare la visione riduttiva e quasi tragica
dell’espatrio e della mobilità come mera “perdita, strappo, trauma”. I dati e
le testimonianze raccolte poi dimostrano che non partono solo
ricercatori/laureati e che, anzi, prevalgono i diplomati. Il filo comune non è
la fuga, ma una scelta, alla ricerca di dignità, riconoscimento e mobilità
sociale. “Il grande bluff – si legge nel Rapporto – non è tra cervelli o
braccia, ma nel non riconoscere che tutti sono talenti”. Non basta trattenerli,
né rimpiangerli: serve coinvolgerli nella costruzione di nuove visioni
collettive.
Migrazioni
interne: l’erosione invisibile del cuore del Paese
La mobilità
interna al Paese continua a svuotare il Sud e le aree interne: dal 2014 al
2024, più di 1 milione di persone ha lasciato il Mezzogiorno per il
Centro-Nord, contro 587 mila in direzione opposta. I più mobili sono i giovani
tra i 20 e i 34 anni (quasi il 50%), seguiti da adulti in età lavorativa. Le
province interne e montane pagano il prezzo più alto: perdita di popolazione,
chiusura di scuole e servizi, impoverimento sociale. Il RIM descrive così
“un’Italia a velocità diverse”, dove le disuguaglianze territoriali alimentano,
in un circolo vizioso, tanto l’esodo interno quanto quello verso l’estero: la
mobilità interna, infatti, è spesso la prima tappa di un progetto migratorio
più ampio, che molte volte arriva oltre confine.
La connessione tra
“emigrazione” e “immigrazione”
Il RIM 2025 invita
a superare narrazioni riduzioniste e rappresentazioni emergenziali, e anche la
distinzione rigida tra “emigrazione” e “immigrazione”, sottolineando come
entrambe esprimano la mobilità di persone migranti legate in modi diversi al
nostro Paese. Negli ultimi anni si registrano fenomeni articolati: ad esempio,
i nuovi italiani sono protagonisti sempre più numerosi di spostamenti,
soprattutto verso altri Paesi europei.
Sfide pastorali
(non solo politiche): l’integrazione non sia assimilazione
I quattro
verbi-guida proposti da papa Francesco per la pastorale migratoria –
accogliere, proteggere, promuovere, integrare – vengono applicati, talvolta,
anche a contesti non emergenziali, come quello dei migranti italiani. Il
rischio è trasformare l’integrazione in assimilazione, imponendo modelli
dall’alto. Affinché tutti i migranti diventino effettivamente soggetti attivi
di evangelizzazione (Leone XIV l’ha definita missio migrantium), in una logica
di reciprocità e crescita comune, i quattro verbi proposti da Francesco
dovrebbero essere completati da altri quattro: accogliersi, interpellarsi,
valorizzarsi, condividere.
Una nuova
italianità: in movimento, transnazionale e plurale
L’Italia
fotografata dal RIM 2025 non è più un Paese che “fugge”, ma una nazione che si
ridefinisce nei legami, nelle reti e nelle comunità transnazionali. Il Rapporto
invita a leggere questa mobilità come una risorsa da ascoltare e valorizzare,
non come una ferita da nascondere. «Questa Italia – ha dichiarato S.E. mons.
Gian Carlo Perego, presidente della Commissione episcopale per le migrazioni
della Conferenza episcopale italiana e della Fondazione Migrantes – non può
avere come risposta solo il decreto legge del 28 marzo 2025, convertito nella
Legge n. 74 del 23 maggio 2025, che ha introdotto modifiche al principio dello
ius sanguinis, limitando la cittadinanza automatica a due generazioni di
discendenza, con qualche eccezione. Al contempo, è stato bocciato un referendum
sulla riduzione dei tempi della cittadinanza da 10 a 5 anni, anche per il 65%
dei bambini nati in Italia da genitori di altre nazionalità e che frequentano
le nostre scuole: uno strabismo legislativo». Migr. On 11
Berlino si riarma in caso di guerra: dalle truppe volontarie ai droni
kamikaze
Le resistenze del
Bundestag alle proposte del ministro Pistorius
La Germania, in
linea con gli sforzi di rafforzamento della sicurezza europea e il
raggiungimento dei nuovi requisiti fissati dalla Nato, sta lavorando per
potenziare le sue forze armate.
L’obiettivo
principale è ambizioso: aumentare il numero di soldati attivi dagli attuali 180
mila a 260 mila entro i primi anni del 2030 e dotarsi di droni kamikaze. Ma al
Bundestag, il parlamento tedesco, non mancano le proteste.
Il dilemma della
leva obbligatoria in Parlamento
Il ministro della
Difesa tedesco, Boris Pistorius, ha proposto un nuovo modello per reclutare
nuovi soldati negli scorsi mesi. La Germania ha abolito il servizio militare
obbligatorio nel 2011 e da allora ha faticato a raggiungere i suoi obiettivi di
personale militare. Il nuovo piano, perciò, si basa inizialmente sul
reclutamento volontario per incrementare il numero di soldati e riservisti.
Ma il progetto
incontra ostacoli nel Bundestag, dove sussistono resistenze da parte dei
legislatori, inclusi membri del partito di Pistorius, i socialdemocratici, e
alcuni conservatori legati al cancelliere Friedrich Merz. Nonostante le
difficoltà, Pistorius si è detto fiducioso che la coalizione di governo
riuscirà a trovare un accordo per far entrare in vigore la legge all’inizio
dell’anno prossimo.
Convincere i
giovani ad arruolarsi
Come ha spiegato
alla Reuters, il ministro tedesco intende convincere le giovani generazioni
“con motivazioni concrete”. L’importanza di avere un esercito robusto
rappresenterebbe un deterrente “contro nazioni come la Russia”. Per questo
motivo, ha respinto l’idea di una lotteria per la coscrizione obbligatoria –
prevista in passato come strumento per arruolare i giovani del Paese – perché
porterebbe “frustrazione” alle nuove generazioni. Il Ministero non intende
puntare su soldati “privi di motivazione”, ma su giovani che abbiano il piacere
di tutelare la Patria.
Un elemento
fondamentale del piano di Pistorius è l’istituzione di test medici universali
per i giovani uomini. Questo processo di valutazione medica è ritenuto
essenziale per far sì che, in uno scenario di attacco, la Germania possa
determinare rapidamente “chi è operativamente in grado di proteggere la Patria
e chi non lo è”, evitando perdite di tempo preziose.
La corsa alla
tecnologia dei “droni kamikaze”
E non solo
soldati. Parallelamente all’aumento del personale, la Germania si sta
affrettando per recuperare il ritardo tecnologico, specialmente nel campo degli
armamenti e guarda ai droni monouso o “kamikaze”. Questa tecnologia si è
dimostrata cruciale nel conflitto in Ucraina, essendo utilizzata intensamente
sia dalle forze russe che da quelle di Kiev.
Ma anche
l’acquisizione di questi armamenti ha suscitato polemiche in Germania, poiché
alcuni politici le associano storicamente alle esecuzioni extragiudiziali
mirate compiute dalle forze statunitensi in Afghanistan. Attualmente, il
Ministero della Difesa sta portando avanti una fase di test che coinvolge tre
diverse aziende e che dovrebbe concludersi entro la fine dell’anno. Solo dopo
la fase di prova, ne verrà selezionata una e sarà presentata una proposta di
regolamento al parlamento per l’approvvigionamento.
Nonostante alcune
indiscrezioni riportate dal Financial Times suggeriscano contratti da circa 300
milioni di euro ciascuno per le start-up della difesa Helsing e Stark, e per il
colosso Rheinmetall, Pistorius ha precisato che nessun accordo definitivo è stato
ancora raggiunto in merito all’assegnazione dei contratti per i droni.
Eppure, secondo
quanto riportato dal quotidiano tedesco Bild, a fine ottobre si è svolto un
test segreto con un drone presso il campo di addestramento della Bundeswehr a
Münster, la Bassa Sassonia. Alcuni dei presenti avrebbero confermato al Bild
che le aziende Helsing e Stark avevano presentato i loro droni in un test
pratico, per un totale di 19 voli di prova: 17 da parte di Helsing, 2 da parte
di Stark. Durante i test, i droni avrebbero dovuto colpire un bersaglio senza
testate nucleari. Mentre tutti i voli di Helsing hanno avuto successo entro i
parametri richiesti, il drone di Stark avrebbe mancato il bersaglio due volte,
chiedendo alle forze armate tedesche più tempo per ottimizzare ulteriormente i
propri sistemi. Secondo le informazioni in possesso del quotidiano, l’azienda
Rheinmetall non si è presentata affatto al test, che, secondo gli addetti ai
lavori, era stato programmato con largo anticipo.
“Incredibilmente –
scrive il Bild -, solo pochi giorni dopo tutti e tre i fornitori hanno ricevuto
dal Ministero federale della difesa tedesco l’impegno di fornire droni kamikaze
del valore di 300 milioni di euro ciascuno alle forze armate tedesche”.
Le iniziative
della Germania, in quanto potenza economica centrale dell’Unione europea,
riflettono una crescente consapevolezza della necessità di investimenti
significativi nel campo della Difesa, non solo per rispettare gli impegni Nato,
ma anche per rafforzare il deterrente complessivo a livello continentale. Il
dibattito in corso può essere, quindi, visto come un complesso ingranaggio
politico che cerca di modernizzare le difese nazionali: la Germania sta
cercando di bilanciare la necessità di nuove truppe volontarie con
l’acquisizione di strumenti avanzati e rapidi (i droni kamikaze), affrontando
resistenze sia sul fronte del bilancio che su quello etico, in un percorso non
privo di ostacoli. adnkronos 3
Scheda. L’italianizzazione dei tedeschi
Quanto gli
italiani emigrati in Germania (soprattutto dal dopoguerra in poi) abbiano
“italianizzato” la società tedesca: nella mentalità, nella cultura quotidiana,
nei costumi? È un tema bellissimo, e in parte poco raccontato, perché spesso si
parla solo di “integrazione” degli italiani, non del contrario. In realtà, gli
emigranti italiani hanno trasformato profondamente la Germania moderna.
Riassumo in modo
chiaro come e quanto è successo.
1. Il contesto
storico: chi erano gli italiani in Germania
Tra il 1955 e il
1973, oltre un milione di italiani arrivarono in Germania come Gastarbeiter
(lavoratori ospiti).
Provenivano
soprattutto dal Sud (Campania, Calabria, Sicilia, Puglia) e dal Veneto.
Lavoravano in
fabbriche, miniere, cantieri, ristorazione — e molti si stabilirono
definitivamente.
Nacquero così
quartieri e comunità italiane, scuole, parrocchie, circoli culturali, e poi
ristoranti e gelaterie.
2. Hanno
italianizzato la vita quotidiana tedesca. Cibo e socialità
Negli anni ’50-’60
i tedeschi non conoscevano la pizza, gli spaghetti o l’espresso.
Furono gli
emigranti italiani ad aprire le prime Pizzerien, Eisdielen (gelaterie) e
Ristoranti italiani — che diventarono rapidamente simboli di modernità e
convivialità.
Oggi in Germania
ci sono più di 20.000 ristoranti italiani: praticamente ogni città ha la sua
“Trattoria da Luigi” o “Pizzeria Napoli”.
Parole come Pizza,
Spaghetti, Latte macchiato, Pasta, Mozzarella e Cappuccino sono ormai tedesco
comune.
In più, gli
italiani introdussero un modo di stare a tavola più lento e conviviale —
chiacchiere, gesti, vino, musica — che i tedeschi hanno imparato ad apprezzare.
3. Hanno diffuso
il temperamento mediterraneo
Gli emigranti
italiani portarono calore umano e senso della comunità in una società molto
ordinata ma più fredda nei rapporti.
Le feste
parrocchiali italiane, le sagre, la musica napoletana e siciliana fecero
conoscere un’altra idea di socialità.
Le seconde
generazioni italiane (figli degli emigranti) hanno spesso ibridato il modo
tedesco con quello mediterraneo: educazione, ma anche spontaneità, estetica,
espressività.
Molti tedeschi
identificano ancora oggi l’“italianità” con la gioia di vivere — una percezione
nata proprio dal contatto con gli emigranti reali, non dai turisti.
4. Hanno
contribuito a costruire fisicamente la Germania
Gli italiani
furono fondamentali nella ricostruzione postbellica:
fabbriche come la
Volkswagen, l’acciaieria di Essen, la rete ferroviaria e edilizia pubblica
hanno avuto migliaia di lavoratori italiani.
In molte città
(Monaco, Stoccarda, Colonia, Wolfsburg) c’erano veri “villaggi italiani”, dove
si sentiva parlare dialetto meridionale e si suonava la fisarmonica dopo il
turno.
I tedeschi hanno
riconosciuto col tempo il ruolo essenziale di questi lavoratori: senza gli
italiani (e poi i turchi), il miracolo economico tedesco non sarebbe stato
possibile.
5. L’impatto
culturale di seconda generazione
Dagli anni ’80-’90
in poi, i figli degli emigranti italiani hanno iniziato a emergere in musica,
sport, politica e università.
Esempi: Giovanni
di Lorenzo (direttore del giornale Die Zeit), Roberto Blanco (showman e
cantante), numerosi chef e imprenditori italo-tedeschi. Hanno introdotto un
modo di pensare più flessibile e creativo, spesso meno rigido delle generazioni
tedesche precedenti.
In alcune regioni
(come Baden-Württemberg o Baviera), l’identità “italo-tedesca” è ormai parte
del paesaggio culturale locale.
In sintesi
Gli emigranti
italiani non si sono solo integrati: hanno italianizzato la Germania in modo
profondo e duraturo.
Hanno portato:
cucina, gestualità e convivialità; musica, arte e linguaggio; una visione più
umana e calorosa della vita quotidiana.
Oggi la Germania è
un po’ più “mediterranea” anche grazie a loro.
Non solo nei
piatti o nelle parole, ma nel modo di stare insieme, di godersi la vita, di
aprirsi agli altri.
Giuseppe Tizza,
Düsseldorf (de.it.press 9)
Cgie, riunita a Dortmund la Commissione Europa e Africa del Nord
Dortmund – Si è
riunita a Dortmund nei giorni 6-8 novembre la Commissione Europa e Africa del
Nord del Cgie. L’incontro si è aperto con l’intervento del Vicesegretario
Generale per l’Europa e l’Africa del Nord Giuseppe Stabile ha anzitutto
espresso soddisfazione per la buona riuscita degli aspetti organizzativi della
riunione in Germania. “La città di Dortmund è stata scelta a maggioranza per
commemorare i 70 anni degli accordi bilaterali sul lavoro tra Italia e
Germania: un passaggio fondamentale della nostra storia migratoria”, ha
spiegato Statile motivando pertanto la scelta della località. “In Germania,
come in tutto il mondo, gli italiani hanno creato impresa, lavoro e cultura.
Hanno imparato, innovato e costruito legami: una ricchezza che è parte del
patrimonio dell’Italia perché ciò che gli italiani hanno acquisito all’estero
può tornare utile anche al nostro Paese; l’Italia oggi ha bisogno anche di
questo ossia di persone che portino esperienza internazionale costruendo ponti
tra culture e mercati”, ha aggiunto Stabile auspicando che gli italiani
all’estero possano contribuire al proprio Paese d’origine con la possibilità di
farvi rientro. Tuttavia Stabile ha precisato che, se l’economia italiana non è
solida, anche i servizi all’estero possono essere influenzati negativamente: da
quelli consolari a quelli assistenziali e culturali. “Non assistenza ma
corresponsabilità; non solo fondi ma anche competenze che tornano”, ha
proseguito Stabile definendo la necessità di un rinnovato rapporto che non sia solo
memoria del passato ma anche costruzione del futuro. Il Vicesegretario ha
inoltre spiegato che il programma della riunione prevede l’analisi di diversi
aspetti legati agli italiani all’estero: dalla presenza imprenditoriale ai
servizi consolari passando per la riforma Cgie e arrivando all’impatto della
nuova legge sulla cittadinanza, alla storia dell’emigrazione e alla
partecipazione civica. Ha poi preso la parola il primo Consigliere
dell’Ambasciata d’Italia a Berlino, Silvia Santangelo che ha ricordato a sua
volta gli accordi tra Italia e Germania, evidenziando l’importanza storica, ma
anche attuale, della presenza dei nostri connazionali in questo Paese.
“L’apporto della comunità italiana alla ricostruzione della Germania è stato
unico: oggi siamo ben 900mila italiani”, ha precisato Santangelo ricordando
anche che ci sono oltre 2mila imprese italiane e che molti giovani ricercatori
si spostano in questa area usufruendo dello spazio della cittadinanza europea.
Dal canto suo la Console d’Italia a Dortumnd Alice Joy Cox, ha sottolineato
come solo nella circoscrizione di sua competenza siano presenti circa 70mila
iscritti AIRE. “Siete rappresentanti che incarnano la voce della presenza del
nostro Paese”, ha rilevato Cox rivolgendosi ai membri del Cgie. Francesco
Sordini (Capo dell’ufficio economico dell’Ambasciata d’Italia a Berlino) ha
evidenziato come Italia e Germania siano le due maggiori manifatture in Europa:
l’interscambio tra le due Nazioni si aggira sui 156 miliardi di euro e la
Germania rappresenta il primo mercato di riferimento per l’export italiano per
il valore di circa 71 miliardi di euro. Sordini ha inoltre sottolineato il
fatto che la Germania viene da due anni di recessione mentre al contrario
l’Italia risulta in miglioramento rispetto al passato. Durante i primi sette
mesi del 2025 l’interscambio si è attestato sui 95 miliardi di euro, con una
crescita delle esportazioni italiane. Sordini ha anche spiegato che la Germania
è primo Paese cliente per l’Italia anche nel settore turistico. Dal lato italiano,
invece, gli investimenti in territorio tedesco si aggirano sui 56 miliardi di
euro. In senso più ampio, valutando la situazione europea nel suo complesso,
Sordini ha definito la cooperazione tra i due Paese centrale anche in
nell’ottica UE in un periodo difficile per i dazi americani e per i conflitti
in corso, primo fra tutti quello tra le vicine Russia e Ucraina. Sordini ha
inoltre ha spiegato l’importanza della collaborazione tra Italia e Germania
anche dal punto di vista della sicurezza e del contrasto ai reati finanziari.
Il Capo Ufficio Economico ha poi illustrato alcune attività portate avanti
dall’Ambasciata, come ad esempio nel settore dell’aerospazio, per far conoscere
alla Germania quelle eccellenze italiane che sono meno note al grande pubblico
tedesco, rilevando come ci siano nuove tendenze da cogliere in maniera
integrata in diversi settori, ad esempio nel già menzionato aerospazio, ma
anche nel biotech, nella finanza, nell’energia e nei trasporti; tutto questo
senza dimenticarsi dei settori tradizionalmente di punta dell’Italia come
l’agroalimentare. Sordini ha parlato della strategia della diplomazia
della crescita”, voluta dalla Farnesina per il raggiungimento dei 700 miliardi
di export entro la fine dell’attuale legislatura. È stata quindi lanciata
l’idea della creazione di uno sportello unico per le imprese. È stato infine
ricordato l’appuntamento, che ci sarà a inizio 2026, del vertice
intergovernativo italo-tedesco. “Questo è un segno tangibile delle relazioni
tra i due Paesi”, ha concluso Sordini. Francesco Dell’Anna (Vicedirettore ICE)
ha spiegato che ICE è un’agenzia governativa che si occupa di supportare le
piccole e medie imprese italiane nei mercati esteri: quindi un aiuto ai
processi di internazionalizzazione per le imprese. L’ICE è presente in 133
Paesi e in Germania ha un ufficio a Berlino. ICE si occupa, quale ‘core
business’, di organizzare padiglioni internazionali presso le principali fiere
nel mondo. ICE lavora anche per attrarre investimenti esteri verso l’Italia. Dell’Anna
ha spiegato che per portare avanti questo lavoro l’ ICE opera a stretto
contatto non solo con il MACI ma anche con altri Ministeri che possono essere
coinvolti nell’accompagnamento delle imprese e naturalmente con il sistema
camerale. “Cerchiamo di promuovere le eccellenze italiane nei settori
tradizionali come agroalimentare, moda ed editoria”, ha precisato Dell’Anna
menzionando ad esempio la presenza a eventi come la Fiera del Libro di
Francoforte. ICE promuove poi le cosiddette startup con l’ausilio di quelli che
vengono chiamati acceleratori locali. Nel corso del dibattito i
consiglieri Giangi Cretti (Nomina Governativa)e Massimo Romagnoli (Belgio) sono
intervenuti. Cretti ha chiesto il dato relativo agli investimenti tedeschi in
Italia e poi ha chiesto su come si possa agire come sistema evitando di essere
concorrenziali ma complementari. Sordini ha risposto spiegando che non si hanno
i dati aggiornati sull’ammontare degli investimenti tedeschi ma è di circa 96
miliardi di euro il fatturato complessivo delle aziende tedesche in Italia. Sul
secondo quesito è stato invece precisato, da Dell’Anna, che ciascuno svolge il
proprio ruolo in maniera collaborativa e senza sovrapposizioni: il riferimento
naturalmente era al lavoro tra ICE e Camere di Commercio. Dal canto suo
Romagnoli ha sottolineato, in base alla sua esperienza imprenditoriale, che il
vero sistema Paese è quello formato da imprenditori che investono, anche senza
avere contributi pubblici: un tessuto formato da piccole e medie imprese che
incarnano etica del lavoro ed eccellenza italiana. Romagnoli ha rilevato come
spesso quest’anima produttiva all’estero sia poco valorizzata dalle istituzioni
italiane. Piergiorgio Alotto
(Addetto scientifico dell’Ambasciata d’Italia a Berlino) ha parlato
del modello che ruota attorno agli addetti scientifici e alla promozione
dell’eccellenza scientifica: un qualcosa che fa la differenza rispetto ad altri
Paesi che non hanno tale struttura. “Nel campo della ricerca gli italiani sono
sempre stati molto bravi”, ha spiegato Alotto ricordando che alcune ricerche
possono effettuarsi per ovvie ragioni logistiche solo in grandi centri di
ricerca su scala internazionale e qui i ricercatori italiani riescono sempre a
ben figurare. Sulla promozione dell’eccellenza italiana in chiave integrata
sono stati ricordati alcuni grandi eventi, effettuati con cadenza regolare,
come ad esempio la Giornata della ricerca italiana nel mondo, la Giornata
nazionale dello spazio o la Giornata del design. In proposito il consigliere
Cretti ha chiesto lumi su quanti di questi ricercatori poi rientrino
effettivamente; Alotto ha risposto che non ci sarebbero al momento dati
numerici certi. E poi intervenuta la Segretaria Generale del Cgie Maria Chiara
Prodi che ha spiegato come il valore delle rappresentanze di base vada
ricercato nel ruolo di saper trasformare delle energie sparse e stimolarle
affinché diventino comunità e poi si istituzionalizzino e facciano sistema.
Prodi ha quindi rilanciato il ruolo delle rappresentanze sulla base di una
capacità di auto organizzazione e collaborazione bidirezionale. “La realtà che
vediamo nei territori permette di trovare soluzioni creative”, ha precisato la
Segretaria. E’ stata quindi presentata la piattaforma italo-tedesca Platea
2030, incentrata sul tema della sostenibilità e dell’Agenda 2030. L’iniziativa
è stata illustrata da Karoline Rörig, fondatrice
dell’Ufficio per il dialogo italo-tedesco e della
piattaforma Platea 2030.
Il dibattito è
proseguito con una valutazione aggiornata sui servizi consolari. Nel suo
intervento il consigliere Giuseppe Scigliano (Svizzera) ha segnalato la
problematica del riconoscimento delle procure notarili fra Italia e Germania.
Schigliano, dopo aver rilevato il miglioramento dei servizi consolari Germania,
ha sottolineato la necessità di aumentare il numero sia degli impiegati
consolari, sia della strumentazione portatile atta a rilevare i dati
biometrici. Il consigliere ha anche ricordato l’importanza della figura e degli
insegnamenti dello scomparso Michele Schiavone. Dal canto suo Tommaso
Conte (Germania) ha ricordato come il Comitato di Presidenza abbia
chiesto la riapertura degli uffici notarili presso i consolati nelle Paesi dove
sono stati chiusi. Il consigliere Lugi Billè (Regno Unito) ha rilevato di
attendere da tempo una risposta al suo OdG relativo ai servizi del Consolato di
Manchester, auspicando l’introduzione di una tempistica nell’acquisizione delle
risposte. Anche il consigliere Giovanni D’Angelo ha parlato del Consolato di
Manchester auspicando che su questo tema si possano realizzare degli Ordini del
Giorno condivisi. Il Vice Segretario Generale per l’Europa e l’Africa del
Nord Giuseppe Stabile ha sottolineato come l’approvazione in prima lettura del
provvedimento che consente ai nostri connazionali di acquisire la carta di
identità elettronica anche in Italia rappresenti un elemento di soddisfazione
sia per il Parlamento che per il Cgie. Sugli OdG in sospeso Stabile ha evidenziato
che questi riceveranno una risposta quanto prima. E poi intervenuta la
Segretaria Generale del Cgie Maria Chiara Prodi che ha segnalato la
convocazione a Roma per il 18 e 19 novembre prossimi del Comitato di Presidenza
del Cgie. Prodi ha inoltre rilevato la necessità sia di accompagnare il
processo degli Ordini del Giorno fino all’acquisizione della risposta, sia di
fare in modo, che i processi di digitalizzazione, vedi ad esempio la Carta di
Identità elettronica, diano risposte concrete ai problemi partici delle
persone. Su proposta del Vice Segretario Stabile la Commissione Continentale ha
poi approvato alcuni punti in si auspica di dotare i funzionari itineranti e i
Consoli Onorari degli strumenti per la rilevazione dei dati biometrici anche
per la CIE. Auspicata inoltre la possibilità di consentire alle autorità
consolari l’accesso diretto e controllato della banca dati del Ministero
dell’Interno per aggiornare i dati anagrafici de nostri connazionali. Manuela
Medda (Belgio), si è detta d’accordo con l’dea di riaprire gli uffici notarili
presso i consolati e ha segnalato un notevole miglioramento in Belgio nei tempi
di attesa per l’erogazione dei servizi consolari. Medda ha anche rilevato
l’esigenza di promuovere una specifica campagna informativa sulla scadenza
nell’agosto del 2026 delle carte di identità cartacee. Anche il consigliere
Carmelo Vaccaro (Svizzera) ha segnalato un miglioramento dei servizi consolari
in Svizzera e ha auspicato un ritorno degli uffici notarili presso i consolati.
Il dibattito sulla
riforma del Consiglio Generale
Durante la
riunione della Commissione continentale Europa e Africa del Nord del Cgie, che
si sta svolgendo a Dortmund, si è discusso di riforma del Cgie e di modalità di
voto per le elezioni dei Comites. Il Vice Segretario per l’Europa e l’Africa del
Nord Giuseppe Stabile ha spiegato il problema dello sfasamento temporale tra il
mandato dei Comites e quello del Cgie: nel caso di questa consiliatura il Cgie
si è insediato a giugno 2023 con i Comites che invece si sono insediati nel
dicembre 2021. Ciò significa che la scadenza quinquennale dei Comites è il 2026
mentre per il Cgie sarebbe il 2028. Stabile ha osservato che, se non viene
introdotto un nuovo meccanismo preciso, ci si potrebbe trovare anche in futuro
nella stessa situazione odierna: ossia dover attendere mesi tra l’elezione dei
Comites e la nomina dei consiglieri di nomina governativa del Cgie. Stabile ha
precisato che, senza un limite temporale che vincoli la procedura, essa resta
esposta a rallentamenti burocratici e valutazioni politiche discrezionali,
sempre che non cada un Governo durante il corso della consiliatura e sempre che
non ci siano ricorsi. “Si sta parlando di una questione squisitamente
giuridica”, ha evidenziato Stabile aggiungendo inoltre che a suo parere,
essendo il Cgie un organismo dialogante per sua natura con diversi Ministeri,
dovrebbe avere una collocazione in una sede diversa da quella del Ministero
degli Esteri. Il consigliere Tommaso Conte (Germania – componente del CdP) ha
avanzato l’ipotesi di come dovrebbe essere il Cgie: a cominciare dalla sua
statura giuridica, nonché dal rapporto tra eletti e nominati. Secondo Conte
dovrebbero esserci meno consiglieri nominati e più consiglieri eletti, senza
toccare quindi il numero complessivo dei membri. Per Conte questo nuovo equilibrio
aiuterebbe anche a colmare quei vuoti di presenza nell’ambito dell’Assemblea
Plenaria di rappresentanti in alcuni Paesi del globo. “Che cos’è il Consiglio
Generale e che cos’è un consigliere Cgie?”, si è dunque chiesto Conte
sottolineando la necessità di delineare con precisione la figura del
consigliere. Conte ha avanzato pertanto la proposta di come si potrebbe
trasformare il Cgie, partendo dai due elementi già citati: la natura giuridica
e la composizione. Il Consigliere Carmelo Vaccaro (Svizzera) ha ipotizzato a
sua volta la riduzione dei consiglieri di nomina governativa, per coprire
quelle zone attualmente scoperte, e in più dare una funzione specifica a tali
consiglieri. Vaccaro si è anche sottolineato l’eccessivo apporto politico
fornito dei consiglieri di nomina governativa.
E poi intervenuto
la Segretaria Generale del Cgie Maria Chiara Prodi che ha anzitutto segnalato
il suo contributo personale alla realizzazione della nuova edizione del RIM
della Fondazione Migrantes in uscita nei prossimi giorni. Prodi ha parlato
della possibilità di portare finalmente a compimento un ciclo, con le proposte
di riforme fin qui delineate, auspicando anche un ruolo più importante per la
Conferenza Stato-Regioni-Province autonome-Cgie. “Non possiamo permetterci
un’immobilità”, ha rilevato Prodi vedendo nel 2026 un’occasione di rinnovo dei
Comites con tutta l’energia che le comunità italiane nel mondo possono
manifestare. “Siamo l’istituzionalizzazione delle comunità e dobbiamo tenerlo a
mente”, ha aggiunto la Segretaria Generale sottolineando che, a fronte di circa
7 milioni di iscritti AIRE, non sono poi moltissimi quelli che all’estero hanno
una tessera di partito: questo per esaltare la capacità di creare rete e valore
nei singoli territori superando una visione centralizzata che parta da Roma.
L’invito di Prodi è quello di evitare di subire decisioni altrui anche su una
riforma che riscriva la natura giuridica collegiale dell’organismo e dei
consiglieri, che sono due aspetti differenti. Secondo Prodi la collegialità è
ciò che maggiormente tutela la complessità di ciò che sono gli italiani nel
mondo. La Segretaria Generale ha anche aggiunto che essere volontari non è
sintomo di ‘amatorialità’ nell’impegno profuso a supporto delle collettività.
Per Giuseppe Scigliano (Germania) i consiglieri di nomina governativa
dovrebbero riportare quanto espresso dal Cgie a partiti e organizzazioni
esterne. Scigliano ha inoltre criticato l’attuale legge elettorale sui Comites.
Massimo Romagnoli (Belgio) si è detto contrario al mantenimento dei consiglieri
di nomina governativa nel Cgie e ha sottolineato l’esigenza di cambiare la
legge sui Comites. Anche il Consigliere Luigi Billè (UK) si è detto d’accordo
sull’abolizione delle nomine governative perché, in sostanza, secondo Billè
così si potrebbe riuscire a creare un’azione maggiormente territoriale e
trasversale, scevra da logiche meramente politiche. Roger Nesti (Svizzera) ha
parlato di “un film visto più volte” allorché alla scadenza della consiliatura
dei Comites si finisce a parlare sempre di proposte di cambiamenti. “Per questo
sono un po’ preoccupato”, ha precisato Nesti evidenziando la necessità di
affrontare la vera sfida, cioè di riportare le persone al voto per la
rappresentanza di base. “Non sono così categorico sull’eliminazione dei
consiglieri di nomina governativa”, ha aggiunto Nesti. Per Giangi Cretti
(FUSIE) è importante che il Cgie sia un organismo di rappresentanza
territoriale per intercettare le esigenze ed i bisogni delle comunità italiane,
ma anche un luogo di rappresentanza di ruoli e competenze. Il consigliere si è
inoltre detto aperto a una riflessione riguardante i consiglieri di nomina
governativa. Fra gli altri interventi segnaliamo quello di Silvestro Gurrieri
(Germania) ha espresso l’esigenza, a fronte di importanti riforme di Comites e
Cgie, di valutare l’opportunità di chiedere al governo di spostare la
scadenza delle elezioni dei Comites. Gurrieri ha inoltre auspicato riforme
della rappresentanza vere e incisive. Su questo punto Tommaso Conte ha ripreso
parola e ha definito tali argomenti molto complessi, in virtù del fatto che le
scadenze elettorali dovrebbero sempre essere rispettate. Conte ha anche
sollevato perplessità relativamente alle modalità delle attività di raccolta e
di validazione delle firme necessarie per presentare le liste per le elezioni
dei Comites. “Noi proponiamo le leggi, non le facciamo noi”, ha precisato
Conte.
L’approvazione del
documento finale
Con l’approvazione
del documento finale si sono conclusi a Dortmund i lavori della Commissione
Continentale Europa e Africa del Nord del Cgie . Nel testo è stato sottolineato
come la Commissione abbia approfondito e dibattuto la situazione dei servizi consolari,
l’impatto della riforma della nuova legge sulla cittadinanza, la riforma del
Cgie, le modalità di voto per i Comites, e la situazione degli Enti gestori per
la promozione della lingua e cultura italiana. La Commissione ha evidenziato
come in Germania, alla stregua di molti Paesi europei, sia presente una diffusa
rete di piccole e medie imprese locali a titolarità italiana che vanno
valorizzate e incluse nelle realtà commerciali e nelle strategie del Sistema
Paese. Nel testo si rileva inoltre come la Commissione Continentale ribadisca
la richiesta di convocare la conferenza Stato – Regioni – Provincie Autonome
-Cgie. Nel dibattito sulla situazione dei servizi consolari, la Commissione ha
riconosciuto gli sforzi dell’amministrazione per migliorare i servizi consolari
e ha preso atto che in molte sedi sono stati abbattuti in modo significativo i
ritardi ed i tempi di attesa. Permangono tuttavia criticità dovute anche alla
moltiplicazione dei servizi ed alla costante crescita delle nostre comunità. Per
facilitare e snellire la quantità dei servizi la Commissione ha inoltre
proposto di dotare rapidamente funzionari itineranti e consoli onorari delle
apparecchiature atte alla rilevazione dei dati biometrici anche per le
Carte d’Identità elettroniche. Viene anche chiesto di consentire alle unità
consolari in carriera un accesso diretto e controllato alla banca dati del
Ministero dell’Interno allo scopo di poter aggiornare tempestivamente tutte le
informazioni anagrafiche, spesso più attuali presso le sedi consolari rispetto
a quelle registrate nei sistemi nazionali. La Commissione ha anche ribadito la
necessità di ripristinare gli uffici notarili all’interno dei consolati
europei. Per quanto riguarda la situazione degli Enti gestori per la promozione
della lingua e cultura italiana, su cui è stato approvato uno specifico Ordine
del Giorno sugli enti europei, la Commissione ritiene prioritario ridefinire un
intervento di promozione dell’italiano all’estero a partire dai bisogni dei
destinatari, mettendo al centro gli italo discendenti, nonché attualizzare i
Piani Paese coinvolgendo tutti i soggetti del mondo della scuola e tutti gli
organi di rappresentanza. Dalla Commissione è stata poi accolta con
soddisfazione la circolare del Ministero dell’Istruzione del 4 novembre
riguardante l’insegnamento della storia dell’emigrazione italiana nell’anno
scolastico 25/26. In questo ambito è stato proposto il coinvolgimento dei
territori per istituire 2 database: uno sui luoghi simbolo dell’emigrazione e
un altro per i Comites sulla disponibilità ad intervenire direttamente nelle
scuole. La Commissione ha poi accolto con favore la volontà governativa di
voler rispettare la data di scadenza della consigliatura dei 5 anni dei Comites
attraverso uno stanziamento di fondi per il rinnovo dei Comitati con elezioni
da tenersi nel prossimo anno. Nel testo si sottolinea anche come i fondi messi
a disposizione non siano sufficienti per garantire modalità di voto che
facilitino la più ampia partecipazione dei connazionali. In proposito si
auspica l’eliminazione della modalità dell’opzione inversa. E’ stata infine
evidenziata la necessità di una riforma strutturale del Cgie. Al termine della
seduta la Commissione ha scelto a maggioranza la sede del prossimo incontro
continentale che si terrà in Spagna.
Vision Italy, un
ponte tra memoria e futuro della nostra comunità in Germania
“Complimenti
vivissimi a Gioacchino e a tutto il team organizzatore di Vision Italy,
un’iniziativa davvero riuscita che ha saputo coniugare memoria e futuro, dando
voce al contributo straordinario degli italiani in Germania e al valore della
nostra comunità nel tempo.”
Lo dichiara l’On.
Simone Billi (Lega), Presidente del Comitato sugli Italiani nel Mondo della
Camera dei Deputati, a margine del “Forum Vision Italy – Memoria e Futuro”
organizzato a Dortmund dal Consolato d’Italia.
“Un plauso anche
ai giovani Rocco Giordano, Davide e Giuseppe Messina, e Alessandro Muto –
aggiunge Billi – esempi concreti di una nuova generazione di italiani
all’estero che, con impegno, serietà e spirito di sacrificio, costruiscono il
proprio futuro mettendo al centro il lavoro, la famiglia e i valori autentici
della nostra comunità. Un ringraziamento particolare alla moderatrice Lucia
Conti per la professionalità e la sensibilità con cui ha guidato il confronto,
a Silvia Santangelo per la presenza istituzionale in rappresentanza
dell’Ambasciata, e alla Console di Dortmund Alice Cox per il costante sostegno
alla comunità italiana del territorio.”
“Eventi come
questo rafforzano il legame tra le nuove generazioni e la nostra storia comune
– conclude Billi – e sono la dimostrazione di quanto le comunità italiane
all’estero continuino a essere una risorsa di crescita, cultura e identità per
tutto il Paese.” (Inform/dip 8)
Gli italiani in Europa. L’addio di Vignali. La Continentale Europa del Cgie
a Dortmund
Con gli Inni
nazionali dell’Italia, della Germania e dell’Europa sono iniziati questa
mattina a Dortmund i lavori della Commissione continentale Europa – Nord Africa
del Consiglio generale degli italiani all’estero.
A presiedere e
introdurre i lavori, alla presenza della segretaria generale Maria Chiara
Prodi, è stato il vicesegretario Giuseppe Stabile che ha sottolineato
l’importanza della presenza dei consiglieri, testimonianza del loro “forte
legame comunità nel mondo”, in una città, Dormtund, che, come altre città
tedesche, si appresta a commemorare i 70 anni degli accordi bilaterali sul
lavoro tra Italia e Germania, un “passaggio fondamentale della storia della
nostra emigrazione”.
In Germania così
come in un tutto il mondo, ha aggiunto Stabile, “gli italiani hanno creato
impresa, lavoro, cultura; hanno imparato, innovato, costruito legami”, creando
“una ricchezza che non appartiene solo ai Paesi che li ospitano, ma che fa
parte del patrimonio dell’Italia”.
Per questo, ha
osservato Stabile, sono importanti le politiche per incentivare il rientro dei
connazionali che, ha sottolineato, “non servono solo per riportare fisicamente
qualcuno in Italia, ma anche per creare le condizioni affinché chi sceglie di
tornare possa mettere a disposizione le sue competenze, i suoi contatti, la
rete economica e professionale maturata all’estero, che sia il suo un rientro
stabile, o di investimenti, di collaborazione a distanza o un trasferimento di
know how”.
L’importante è che
“chi è partito”, che rientri o no, “possa contribuire all’Italia grazie al suo
percorso nel mondo”. D’altra parte, ha aggiunto, “l’amore per gli italiani
all’estero non può tradursi in un modello che si limita a chiedere risorse
all’Italia senza creare valore, in un mero assistenzialismo o nell’aspettativa
di contributi unilaterali”. A fronte di una difficile situazione economica, ha
affermato Stabile, “anche i servizi per gli italiani all’estero sono destinati
a diminuire, che siano servizi consolari, educativi, assistenziali”, per questo
“la corresponsabilità è un’esigenza concreata” perché “sostenere l’Italia
significa continuare a sostenere anche le sue comunità nel mondo”.
“Non assistenza,
ma corresponsabilità”, ha ribadito concludendo il vicesegretario. “Non solo
fondi, ma anche idee, investimenti, competenze che tornano al Paese”.
Presenti ai lavori
anche la consigliera d’ambasciata Silvia Maria Lucia Santangelo (Ufficio
Affari Sociali e Coordinamento Consolare) e la Console a Dortmund Alice
Joy Cox.
Santangelo ha
portato ai consiglieri il saluto dell’ambasciatore Bucci. La sua presenza, ha
evidenziato, testimonia “l’attenzione dell’ambasciata segue la comunità
italiana in Germania. Significativa – ha aggiunto – la scelta della Germania
per questo incontro”. Nel 1955, ha ricordato, Italia e Germania firmarono
l’accordo sul lavoro: due Paesi “entrambi distrutti dalla II Guerra Mondiale,
capaci di risollevarsi. L’apporto degli italiani alla ricostruzione della
Germania è stato unico e non va dimenticato, così come non va dimenticata la
presenza italiana oggi: 900mila connazionali fanno di quella in terra tedesca
la comunità italiana più numerosa al mondo”. Una comunità “molto
differenziata”, che comprende “oltre 2mila imprese in Germania e 5mila ricercatori”.
Oggi “molti giovani italiani, che si spostano da un Paese all’altro si muovono
in uno spazio di cittadinanza europea”. A questa collettività l’Ambasciata è
vicina così come lo è “alle istituzioni espressioni della comunità, come il
Cgie”.
Nella numerosa
comunità italiana in Germania, “vasta e dinamica” è quella residente a
Dortmund, dove gli Aire sono 70mila, mentre oltre 200mila sono quelli residenti
nel Nord Reno Westfalia. Numeri ricordati dalla Console Cox che ha
definito il Cgie un “pilastro fondamentale di consultazione e raccordo tra gli
italiani all’estero e l’Italia”. Voi, ha detto ai consiglieri, “incarnate la
voce dei connazionali”.
In procinto di
lasciare la Direzione generale per gli italiani all’estero della Farnesina,
Luigi Maria Vignali è intervenuto questo pomeriggio, in videoconferenza, ai
lavori della Commissione continentale Europa Nord Africa del Consiglio generale
degli italiani all’estero, riunita da oggi 6 novembre a Dortmund.
Se il saluto
ufficiale al Cgie avverrà al prossimo Comitato di Presidenza del 18 e 19
novembre alla Farnesina, oggi Vignali ha tenuto a sottolineare l’importanza del
ruolo degli italiani in Europa – area dove risiede la maggioranza degli
iscritti Aire – dove convivono vecchi emigrati e nuove mobilità. “C’è davvero
uno scambio fecondo di idee e prospettive”, ha osservato, prima di definire
l’Europa “un contenitore di idee per gli italiani all’estero”, area da cui “ci
sono giunti tanti stimoli e proposte di innovazione”, come il voto per
corrispondenza per i temporaneamente all’estero o alcune sperimentazioni del
voto elettronico, senza dimenticare “alcuni tra i più interessanti progetti
finanziati ai Comites”, così come “l’idea di Michele Schiavone, fortemente
sostenuta dalla segretaria generale Prodi dell’Europa in movimento”, segno
della “capacità della nostra presenza in Europa di interfacciarsi con altre
mobilità europee”.
Tra pochi giorni
nuovo Rappresentate permanente presso le Organizzazioni Internazionali a
Ginevra, oltre che inviato speciale per i detenuti italiani in Venezuela,
Vignali lascia la Dgit alla vigilia di novità e appuntamenti importanti: dalla
riforma della Farnesina all’aggiornamento di Fast it, senza dimenticare il
referendum costituzionale né le elezioni dei Comites, entrambe programmate nel
2026.
Il voto.
“Sicuramente nel 2026 ci sarà il referendum confermativo sulla riforma della
giustizia: la rete consolare viene coinvolta e molto stressata da queste
occasioni elettorali, evidentemente importanti, perchè distolgono risorse da
altro. E di risultati attesi ce ne sono, basti pensare alla diffusione della
Cie. Il voto è un esercizio dovuto, democratico, ma rischia di rallentare i
servizi in Europa e altrove. Pensare che in concomitanza, o a pochi mesi dal
referendum, dovrebbero tenersi anche le elezioni dei Comites, non nascondo che
ci saranno difficoltà per la rete, bisogna esserne consapevoli. Due elezioni in
un anno rappresenterebbero un ostacolo al pieno dispiegamento delle energie
della rete consolari. Bisogna prepararsi per tempo, con risorse adeguate e
vedere eventuali accorgimenti per ridurne al massimo l’impatto”.
I servizi
consolari. “Alcune sedi consolari in Europa continuano ad essere in difficoltà
nel fornire i servizi: abbiamo segnalazioni da Paesi con una grande presenza di
italiani e alla luce della moltiplicazione dei servizi. Grazie ai rafforzamenti
che avremo dalla Direzione generale per le Risorse avremo nuove assunzioni per
mandare più personale all’estero, ma non è un momento semplicissimo per la
rete”.
Comites. “Tranne
qualche caso problematico, stanno lavorando bene, hanno presentato progetti che
abbiamo finanziato. Potranno essere accolte se ben motivate anche eventuali
richieste di integrazioni: invito i Comites in difficoltà finanziaria a
segnalarla a noi e alla Ambasciata o Consolato di riferimento per avere un
contributo straordinario”.
La riforma della
Farnesina. “La Dgit è attesa da un momento di riforma importante, che mira a
sempre più a digitalizzare i servizi e che prevede anche il “ritorno” degli
enti gestori e delle scuole italiane all’estero tra le sue competenze. Ciò
comporterà un’incombenza maggiore del passato per la quale bisognerà
prepararsi, ma credo sia una buona soluzione. Tra l’altro l’avevo favorita
anche su vostra richiesta”.
La cittadinanza.
“Non riscontriamo difficoltà in Europa, mentre ci sono in altre aree del mondo.
Abbiamo richiamato tutta la rete su questo aspetto: la scadenza per presentare
domanda di riconoscimento dei figli diretti è maggio 26 come sapete”.
La Cie. “Lavoriamo
a un piano di lavoro per il recupero delle Carte di identità cartacee per
rilasciare Cie o passaporto ai cittadini solo italiani che hanno solo la
cartacea. I cittadini solo italiani con la sola carta cartacea sono 250mila nel
mondo e la maggior parte risiede in Europa”.
Proprio la Cie e
il voto dei Comites sono stati al centro degli interventi dei consiglieri.
Il vicesegretario
d’area Giuseppe Stabile ha riportato al DG l’auspicio della Commissione sia
circa la possibilità di dotare i funzionari itinerante e i consoli onorari
delle macchinette per i dati biometrici per il rilascio delle Cie; che per
l’accesso del Maeci alla banca dati del Viminale.
Sul primo punto,
gli ha risposto Vignali, “c’è qualche rallentamento che non ci aspettavamo: c’è
un problema legato all’adeguamento informatico” ma anche alcune “perplessità
del Viminale per la conservazione dei dati”. Quanto all’allineamento dei dati
tra schedari consolari e Anagrafe della popolazione residente (Anpr) “stiamo
realizzando gli applicativi informatici”. L’obiettivo è fissato ai primi mesi
2026.
Con Vignali
chiamato ad altri incarichi, la segretaria generale Maria Chiara Prodi ha
auspicato un passaggio di consegne “coordinato” per non sacrificare gli ordini
del giorno approvati nelle plenarie, di cui si farà il punto al Cdp del 18 e 19
novembre.
Quello, ha
convenuto Vignali, “sarà l’ultima occasione per salutarci” anche se, ha
aggiunto, “rimango in Europa, in un paese, la Svizzera, dove c’è
un’importantissima collettività. Avremo modo di interagire. Le collettività in
Europa hanno dato molto al mondo dell’emigrazione”, è sempre stata una “realtà
all’avanguardia, giustamente critica su problemi e difficoltà”, con una
“postura dialogante sempre presente e attiva”.
Vignali si è detto
“contento” di aver “visitato tutte le sedi consolari nel continente” e di
potersi “confrontare con tutte le collettività”.
“Ovunque ho
trovato capacità di guardare al futuro e di non ripiegarsi semplicemente sulla
storia dell’emigrazione, cercando di prevederne gli sviluppi e spazi nuovi.
Bravi davvero”.
Tornando al voto,
Vignali ha ribadito di vedere con preoccupazione due elezioni nel 2026: “se ci
fosse una convergenza perché queste elezioni possano essere differite se ne
avvantaggerebbero tutti. È stato fatto in passato, potrebbe essere ripetuto. È
una decisione del Parlamento, ma il Cgie sa farsi sentire”.
Quanto alle
risorse già stanziate in questa legge di bilancio - 14 milioni per le elezioni
di Comites e Cgie – Vignali ha spiegato che non c’è stata consultazione
con la Dgit ma che “l’ufficio legislativo della Farnesina ha previsto lo
stanziamento perchè rispetta una previsione di legge, non poteva non farlo in
assenza di rinvio. Ma questo non vuol dire che non possano intervenire altre
valutazioni. Votare poco dopo dicembre cambia molto nella preparazione del
voto. Quanto ai 14 milioni, lo Stato li recupera e li verserà l’anno prossimo”.
Differire il voto
è al centro del dibattito della Commissione, ha ricordato Stabile che in questa
occasione ha pure ricordato che la consiliatura del Cgie non è allineata con
quella dei Comites, visto che il Consiglio generale si è insediato con un anno e
mezzo di ritardo.
Quanto alla
riforma della Farnesina e al nuovo nome della Dgit – che diventerà Direzione
generale per i servizi ai cittadini all'estero e le politiche migratorie –
rispondendo a Giangi Cretti (Svizzera) Vignali ha sostenuto che “c’è reale
intento di favorire i servizi ai cittadini. C’è sicuramente un aspetto di
immagine e di comunicazione ma dietro la ridenominazione c’è un intento
politico molto forte del Ministro che anche in questa riforma ha voluto
definire la DG “al servizio” degli italiani. Sicuramente nei prossimi mesi ci
saranno risultati importanti sul fronte del miglioramento dei servizi: verrà
ridenominato il portale Fast it, ci sarà l’accessibilità dell’Anpr, tornerà
competente per enti gestori e scuole. Tutto questo dimostra che vogliamo essere
vicini alla società civile con servizi sempre più veloci e migliori”.
“A tutti i
presenti dall’Europa, teniamoci in contatto”, ha concluso Vignali. “Sono stato
colpito da questa lunga esperienza con gli italiani all’estero e sono
disponibile, se ce ne fosse il bisogno, per consigli o ce ne fosse la
necessità”.
Si è parlato anche
di cittadinanza durante la prima parte dei lavori della Continentale Europa -
Nord Africa. Silvia Maria Lucia Santangelo, Capo dell’ufficio Affari sociali
dell’Ambasciata italiana a Berlino, ha riportato, in particolare, la situazione
in Germania alla luce delle novità introdotte dalla riforma entrata in vigore
lo scorso maggio.
La materia è
“complessa”, ha premesso Santangelo, che ha definito il limite alla
trasmissione della cittadinanza introdotto dalla legge come una “clausola
ghigliottina”. Una misura “presa perché in 10 anni il numero degli italiani
nati all’estero è aumentato del 40%”, cifra che ha fatto stimare “tra i 60 e
gli 80 milioni” i riconoscimenti possibili. Certo, ha aggiunto, “questo
discorso in Europa è più complicato da comprendere” perché “noi siamo vicini
all’Italia, torniamo spesso, è più facile mantenere saldi i legami”, a
differenza di chi “ha lasciato l’Italia secoli fa e la cui discendenza ha perso
ogni legame con il Paese negli corso degli anni”.
La legge, ha
ricordato, prevede “finestre temporali che danno la possibilità di fare domanda
di cittadinanza per figli nati all’estero o di richiederla per chi l’ha persa”,
un caso quest’ultimo “molto sentito” in Germania dove fino a poco tempo fa non
era possibile avere doppia cittadinanza.
Ma qual è stato
l’impatto della legge sui consolati? In Germania, ha spiegato Santangelo, “c’è
stata una fase di grande incertezza tra la comunità nel mese di aprile”, quando
cioè è stato approvato il decreto dal Consiglio dei Ministri. Una fase caratterizzata
da una “comunicazione non accurata”. Dopo la conversione in legge del decreto,
“sono state affinate le informazioni che abbiamo veicolato via social. Molte le
richieste di chiarimenti ricevute questa estate”, ma in Germania “le domande di
cittadinanza, secondo le finestre temporali offerte, sono davvero poche”. Solo
Monaco di Baviera ha qualche domanda in più rispetto alle altre sedi, ha
informato l’esponente dell’Ambasciata. “Anche i casi di rifiuto sono limitati”.
La legge, ha
precisato, “ha inciso tanto sui cittadini extracomunitari diventati italiani:
persone che avevano altre cittadinanze, hanno vissuto in Italia, ottenuto la
cittadinanza e poi si sono traferite in Germania. Il problema nasce perché i
loro figli non hanno vissuto almeno due anni in Italia come richiesto dalla
nuova legge, e quindi non sono automaticamente italiani”. Per questo ai
consolati “giungono richieste di chiarimenti da parte delle autorità tedesche,
perché questi cittadini chiedono il permesso di soggiorno per i loro figli e le
autorità tedesche sostengono che non è necessario, “perché sono italiani”
pensano, e invece così non è”.
“Ogni singolo caso
presentato richiede un’attenzione e un vaglio molto più preciso rispetto a
prima”, ha concluso Santangelo. “Quindi c’è un rallentamento delle procedure”.
Il problema
principale, per Carmelo Vaccaro (Svizzera), è “l’interpretazione della legge”.
Si tratta di una norma che contiene “aspetti problematici e iniqui, ma anche
opportunità”, ha aggiunto il consigliere che ha riferito di aver studiato il
testo con un team di avvocati e chiesto un parere formale alla Dgit ricevendo
risposta da Matteo Branciforte, Vice Direttore Generale alla Dgit.
Il punto, ha
spiegato Vaccaro, è informare “i cittadini naturalizzati in Paesi extra Ue
della possibilità per i loro figli di fare richiesta di cittadinanza ex
articoli 1 bis e 1 ter della nuova legge”. La rete consolare ha “il dovere di
informarli. Per questo ringrazio al Console generale a Ginevra Nicoletta
Piccirillo che ha pubblicato sul sito della sede queste informazioni chiare ed
esaustive”.
Informazioni,
hanno osservato altri consiglieri, che sono su tutti i siti dei Consolati; ma
non così esaustive e puntuali, ha ribattuto Vaccaro, che ha quindi riportato il
suo caso personale all’assemblea: “sono emigrato in Svizzera a 20 anni, ho tre
figli tutti nati italiani, ma naturalizzati svizzeri: loro possono trasmettere
cittadinanza ai loro figli? Secondo il parere inviatomi dal vicedirettore
Branciforte sì, possono richiedere la cittadinanza per beneficio di legge per i
loro figli perché loro sono nati italiani. Questo dobbiamo spiegare ai
connazionali”. Le difficoltà interpretative e di applicazione ruotano tutte
intorno all’avverbio “esclusivamente”: i nati all’estero – dice la nuova legge
– possono richiedere la cittadinanza se uno dei genitori o dei nonni possedeva
esclusivamente la cittadinanza italiana.
Ma come si fa a
stabilirlo? In Germania, ha spiegato Santangelo, usano i certificati di
residenza. “La legge va letta in combinato disposto con quella sui servizi
consolari che all’articolo 10 dispone che i Consolati valutino il valore
probatorio della documentazione prodotta dallo Stato terzo. Come faccio a
sapere se un ipotetico signor Luigi è solo italiano? In parte grazie al
certificato di residenza che chiediamo alle autorità tedesche, dove viene
riportata la sua cittadinanza. Ma se Luigi prima di venire in Germania ha
vissuto a Londra e ha preso la cittadinanza senza dichiararlo? I nostri
strumenti probatori sono limitati”, ha ammesso Santangelo. “Il nostro compito è
capire come accertare i fatti senza paralizzare la macchina”.
Una macchina che a
breve sarà guidata da Roma e non più all’estero: la riforma dei servizi
consolari toglie la trattazione delle pratiche di cittadinanza ai consolati per
affidarla ad un ufficio centralizzato a Roma. Questo ufficio, che doveva essere
operativo già a gennaio 2026, lo sarà nel 2028.
A pochi mesi
dall’entrata in vigore della legge tante sono ancora le incertezze: per questo,
è stato sottolineato da più parti, è fondamentale dare informazioni chiare e
“univoche”. In prima linea la rete diplomatica, ma devono contribuire anche
Cgie, Comites e tutta la rete associativa.
Servizi consolari
migliorati quasi ovunque in Europa: a confermarlo sono i consiglieri del Cgie
riuniti da questa mattina a Dortmund nella Commissione Continentale Europa Nord
Africa. Confermato l’abbattimento dei tempi per avere un documento – Cie e passaporto
su tutti – il Consiglio generale continua ad avanzare proposte per migliorare
sempre di più la vita agli italiani all’estero, senza dimenticare le criticità
aperte in Europa, una su tutte quella delle procure. Al centro del dibattito
anche la trattazione degli ordini del giorno presentati dai consiglieri nelle
plenarie che per troppo tempo rimangono senza risposta.
A sollevare la
questione-procure è Giuseppe Scigliano, che ha spiegato ai colleghi le
difficoltà che incontrano gli italiani in Germania perché “i notai italiani non
accettano le procure dei colleghi tedeschi”. Nell’Ue “c’è reciprocità, ma solo
sulla carta” ha detto il consigliere prima di spiegare la differenza tra
procura pubblica e privata (sul sito notar.de, ha comunicato il presidente del
Comites di Dortmund, Gioacchino Di Vita, c’è la lista dei notai tedeschi che
parlano in italiano) e che le difficoltà che nascono dal fatto che quella
tedesca è impostata in modo diverso da quella italiana. L’Ue “dica come si deve
fare una procura valida per tutti i Paesi”, ha aggiunto, sostenendo infine che,
in ogni caso, la soluzione è riportare la materia sotto la competenza
consolare, come affermato anche da Carmelo Vaccaro (Svizzera).
Una via, gli ha
risposto Tommaso Conte (Germania), seguita dal Comitato di Presidenza che
proprio il mese scorso ha dato un parere richiesto dalla Direzione generale per
gli italiani all’estero sulla chiusura degli uffici notarili nelle sedi
all’estero: “alla Dgit abbiamo risposto che non solo non devono chiuderli, ma
che dovrebbero riaprirli anche dove sono stati già chiusi”. Senza dimenticare
che, come ricordato da Eleonora Medda (Belgio) per i consolati i servizi
notarili rappresentavano “un introito importante”.
La questione, ha
osservato la segretaria generale Maria Chiara Prodi, può essere discussa anche
nell’ambito di “Europa in movimento” per tentare di “risolvere inghippi pratici
anche in orizzonte europeo”.
Sui servizi
consolari, sia Conte che Scigliano hanno confermato che in Germania “sono
migliorati” con tempi “abbreviati” e “poche lamentele”, anche grazie a nuove
assunzioni.
Così non è a
Manchester dove, ha detto Luigi Billè (Uk), ci vogliono otto mesi per un
passaporto. Una situazione che però migliorata, ha aggiunto Giovanni D’Angelo
(Uk): “ho incontrato il Console la scorsa settimana: c’è l’assunzione di 5
nuovi addetti che attendono solo il placet del Ministero, e un altro sarà
assunto a breve. C’è poi il lavoro extra del sabato mattina per evadere le
pratiche-passaporti”.
La questione –
Manchester, ha ricordato Billè, è al centro di suoi diversi ordini del giorno
presentati nelle plenarie 2024 e 2025: “il Comitato di Presidenza dovrebbe
sollecitare le risposte”, ha affermato.
Il tema, ha
informato la segretaria generale Prodi, sarà trattato nel prossimo Cdp in
programma a Roma il 18 e 19 novembre: “in quella occasione faremo il punto con
il Dg Vignali, che si appresta a lasciare il suo incarico, sulla lista degli
odg ancora attivi”.
Nessuno degli odg,
ha assicurato il vicesegretario d’area Giuseppe Stabile, “è stato archiviato né
dimenticato”.
Divenuto realtà il
rilascio della Carta di identità elettronica anche agli Aire nei Comuni di
residenza, il servizio potrebbe ancora migliorare all’estero, anche in vista
della scadenza del 3 agosto 2026: in quella data le carte di identità cartacee
non saranno più valide.
Per Stabile, la
rete onoraria dovrebbe avere a disposizione le macchinette per i dati
biometrici anche per le Cie. Per farlo, ha aggiunto Billè, “si deve risolvere
il conflitto tra Farnesina e Viminale sull’utilizzo di macchinette diverse per
Cie e passaporti”.
La necessità di
provvedere alla Cie anche nelle “missioni itineranti” è stata sottolineata
anche da Nicola Carmignani (Francia), mentre Eleonora Medda (Belgio) ha
richiamato l’esigenza di una adeguata campagna informativa sulla scadenza del 3
agosto 26.
Il vicesegretario
Stabile ha quindi proposto ai colleghi di inserire nel documento finale dei
lavori l’auspicio della Continentale affichè si “dotino rapidamente i
funzionari itineranti e i consoli onorari di macchinette per i dati biometrici
per il rilascio della Cie”; e che “venga consentito alle autorità consolari di
carriera l’accesso diretto e controllato alla Banca dati del Ministero
dell’Interno per aggiornare le informazioni anagrafiche dei connazionali
all’estero, che i consolati hanno più aggiornate rispetto al Viminale”.
Entrambe le proposte sono state accolte all’unanimità dai consiglieri.
(m.cipollone, aise/dip 6)
In zoologia, i
Camaleonti fanno parte della famiglia dei Sauri. Hanno la capacità di mutare il
loro colore, adattandosi all’ambiente, e si nutrono d’insetti tramite la loro
lingua lunga e vischiosa. Ciò è quanto
si può desumere da un qualsiasi testo di scienze naturali. Questo preambolo a
noi serve, invece, per inquadrare certi nostri politici che da “camaleonti” si
comportano. Da noi, questi “camaleonti” sono una specie ben lontana
dall’estinzione. Questa fitta schiera cambia di livrea politica seconda le
necessità. Cosi anche certi amministratori sono in grado di cambiare colore di
partito.
Riescono, per di
più, a inserirsi in formazioni politiche per il passato impensabili. Se per i
“Camaleonti” veri il trasformismo è utile per la sopravvivenza, stesso aspetto
può essere ravvisato tra quelli della politica. Si “cambia” calore per
ritrovare potere. Il mutamento non sempre riesce, ma provare non costa nulla.
Molto più apprezzabile sarebbe il politico che, ceffato il programma, dichiara
le sue dimissioni e si ritira a vita privata. Lo scriviamo, anche se siamo
persuasi che sia una pia illusione.
Così, a dispetto
del “bisticcio” politico, i “camaleonti" ci sono sempre. Sia quelli che
hanno cambiato “colore”, sia quelli che ci "proveranno”.
Giorgio Brignola,
de.it.press
Brevi di politica e cronaca tedesca
Riforma delle
pensioni: scontro tra Merz e i giovani della CDU
Durante la
'Giornata del Lutto Nazionale', il cancelliere tedesco Friedrich Merz ha
partecipato ad un incontro della Junge Union, l’ala giovanile della CDU, a
Rust, sottolineando l’importanza dell’Europa e dichiarando la sua netta
distanza dall’AfD: “L'Ue prende le distanze anche da tutti coloro che credono
di poter garantire la sicurezza e la prosperità del proprio popolo con mercati
chiusi". "Se lasciamo che siano i nazionalisti a dare forma a questa
Europa e fondamentalmente l'abbandoniamo, un giorno dovremo dirci che abbiamo
fallito la storia". Tuttavia, il tono del discorso non ha evitato il
contrasto con i giovani del partito sulla riforma pensionistica.
Merz ha confermato
il suo sostegno al pacchetto pensioni, definendolo coerente con gli accordi di
coalizione e necessario per il futuro dello Stato sociale. La Junge Union,
invece, critica l’aumento dei costi previsto tra il 2032 e il 2040, ritenendolo
superiore a quanto concordato, e ribadisce il suo voto contrario.
Con 18 voti
contrari della Junge Union e una maggioranza di coalizione di soli 12 voti, il
rischio che la legge non passi appare oggi concreto, aprendo la possibilità a
una nuova crisi di governo in Germania. Pascal Reddig, presidente della Junge
Union al Bundestag, ha chiarito inequivocabilmente che il gruppo manterrà il
suo No al pacchetto pensioni: "Potete contarci: noi resteremo fermi su
questo tema", ha concluso.
Commemorazione del
crollo del muro di Berlino: il Presidente Steinmeier difende la democrazia
In occasione della
celebrazione del crollo del Muro di Berlino, lo scorso 9 novembre, Steinmeier
nel suo discorso tenuto nel Castello di Bellevue, sua residenza ufficiale a
Berlino, senza mai citare direttamente il partito di estrema destra AfD,
ha dichiarato: "Non deve esserci alcuna cooperazione politica con gli
estremisti. Né al governo né in parlamento". Il Presidente ha inoltre
affrontato il nodo della messa al bando del partito, tema che torna a dividere
e a far discutere il Paese: "Se questo sia un mezzo adeguato è una
discussione politica, che va affrontata e sarà affrontata in Germania. Va
verificato se ci siano i presupposti, ma non possiamo assolutamente restare con
le mani in mano, aspettando che la questione sia chiarita", ha aggiunto il
Presidente. E ancora: "A tutela della propria integrità, la nostra
Costituzione prevede la possibilità di vietare associazioni e gruppi, escludere
partiti dal finanziamento statale e persino vietarli completamente qualora si
oppongano in modo aggressivo e combattivo al nostro ordinamento liberale e
democratico".
Il capo dello
Stato tedesco ha infine ricordato che "in questi giorni, i gruppi di
estrema destra reagiscono istintivamente a questo tema gridando: 'È
antidemocratico!'. A questo posso solo rispondere: avete voi stessi il potere
di decidere! - ha incalzato - Attaccano la nostra Costituzione, si oppongono ad
essa, vogliono un altro sistema non liberale? La risposta della nostra
Costituzione è chiara: un partito che intraprende la strada dell'aggressiva
ostilità verso la Costituzione deve sempre mettere in conto la possibilità di
essere vietato".
A 80 anni dalla
guerra, Mattarella al Bundestag: "Nuovi dottor Stranamore
all'orizzonte"
Il Presidente
Sergio Mattarella è intervenuto al Bundestag lo scorso 15 novembre alla
cerimonia del "Premio dei Presidenti per la cooperazione comunale tra
Italia e Germania" insieme al Presidente della Repubblica Federale di
Germania, Frank-Walter Steinmeier, nel giorno che coincideva con la
"Giornata del lutto nazionale" tedesco. Il riconoscimento è stato
istituito nel 2020 per volontà degli stessi Mattarella e Steinmeier, per
valorizzare e sostenere lo sviluppo di forme innovative di gemellaggio; vede premiate
città e Comuni tedeschi e italiani uniti da accordi di gemellaggio o di
partenariato che presentano progetti impegnati a promuovere prospettive
condivise attraverso gli scambi reciproci, in particolare nei settori giovani e
dialogo intergenerazionale, impegno civico, Europa e cultura della memoria,
sostenibilità e coesione sociale.
Nel corso del suo
intervento Mattarella ha ricordato: "La pace non è frutto di rassegnazione
di fronte alle grandi tragedie. Ma di iniziative coraggiose, di uomini
coraggiosi. In questi decenni nella comunità internazionale tanti attori - e
tra essi l'Unione Europea - con ostinazione e non senza fatica, hanno
perseguito la pace, che si nutre del rispetto dei diritti umani
fondamentali". Ha continuato ancora Mattarella: "Perché, se vuoi la
pace, devi costruirla e preservarla. La cooperazione tra Stati, istituzioni,
popoli è la sola misura che può proteggere la dignità umana. Sono le
istituzioni multilaterali come le Nazioni Unite, la Corte Penale
Internazionale, le missioni di pace, le agenzie umanitarie a concorrere alla
impegnativa e affascinante fatica della costruzione di una coscienza
globale". Ha poi aggiunto: "Il multilateralismo non è burocrazia,
come asseriscono i prepotenti: è l'utensile che raffredda le divergenze e ne
consente soluzione pacifica; è il linguaggio della responsabilità comune.
Il ministro
dell'Interno Dobrindt presenta al Bundestag il piano contro le minacce ibride
Il Consiglio di
sicurezza nazionale di recente istituzione si è riunito per la prima volta lo
scorso 6 novembre per adottare un piano d'azione contro la minaccia ibrida e
poter reagire ai recenti attacchi di droni russi. Il piano include anche la
protezione delle infrastrutture critiche come ha affermato il ministro
dell'Interno Alexander Dobrindt nel corso delle dichiarazioni rese al Bundestag
per presentare il piano adottato dal governo. Si tratta infatti della
necessaria protezione fisica delle infrastrutture strategiche perchè come ha
ricordato il ministro Dobrindt: "Le infrastrutture critiche devono
diventare a prova di crisi: questo è il compito di questo piano. Il governo
federale è sinonimo di protezione anziché di debolezza. È sinonimo di forza
anziché di immobilismo e di fiducia anziché di vulnerabilità.
"Questo è ciò
che CDU/CSU e SPD hanno concordato insieme. Il nostro compito è proteggere le
infrastrutture critiche e difenderci dalle minacce ibride" e aggiunge il
ministro nel corso del suo intervento: "La situazione è chiara: il cambiamento
epocale non riguarda solo la sicurezza esterna. Questo cambiamento epocale deve
avvenire anche nella sicurezza interna. Abbiamo bisogno di maggiore protezione
interna. Abbiamo bisogno di una protezione civile più forte. Il cambiamento
epocale è arrivato nella sicurezza interna. Si tratta di rafforzare le forze di
sicurezza. Si tratta di proteggere le infrastrutture. E si tratta di aumentare
le risorse di bilancio. Anche questo noi lo faremo. Ma non bisogna farsi
illusioni. La sicurezza non è uno stato garantito. È un compito costante".
Conferenza del
Clima a Belém: il discorso del Cancelliere Merz
A Belém, in
occasione del World Climate Leaders Summit il 7 novembre 2025, il Cancelliere
tedesco Friedrich Merz ha ribadito come la lotta al cambiamento climatico non
possa essere “considerata in modo isolato”, richiamando la necessità di tenere
insieme tutela del clima, competitività economica e sicurezza globale. Il
discorso è arrivato all’indomani dell’accordo europeo sugli obiettivi climatici
al 2035 e 2040, un passo che il Cancelliere ha definito “un chiaro segnale di
progresso” in vista del negoziato internazionale.
Merz ha parlato di
un “bivio storico”, dieci anni dopo l’Accordo di Parigi, nel quale la Germania
sceglie convintamente la via dell’innovazione tecnologica per coniugare
crescita e sostenibilità. Tra i temi centrali, la protezione della foresta
pluviale amazzonica, definita “uno dei più importanti serbatoi di carbonio al
mondo”. Berlino sosterrà il nuovo fondo Tropical Forest Forever Facility, anche
finanziariamente.
Il Cancelliere ha
poi richiamato il ruolo delle tecnologie avanzate, dal carbon capture — già
normato dal Bundestag — al Cleantech tedesco, che rappresenta oltre l’8% delle
esportazioni. “Solo un approccio aperto alle tecnologie e basato sui segnali di
mercato, come il prezzo della CO?, può guidare la trasformazione”, ha affermato
Merz, delineando una strategia in cui ambiente ed economia procedono finalmente
nella stessa direzione.
Dalla KAS Italia:
Italia e Germania: nuove opportunità di cooperazione
Giovedì 20
novembre la Fondazione Konrad Adenauer, insieme a ISPI e META Italia, ha
ospitato una tavola rotonda sul Piano d'azione tra Italia e Germania.
All’incontro hanno partecipato l’ambasciatore tedesco in Italia Dr. Thomas
Bagger, il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso, il
consigliere economico dell’ambasciata USA Stephen Anderson e rappresentanti di
politica e imprese, confrontandosi su opportunità economiche e strategie comuni
tra i due Paesi.
Riforma delle
pensioni in Germania: un test per un nuovo patto intergenerazionale
La questione
pensionistica si è trasformata in un banco di prova per l’esecutivo di Merz. La
soluzione che uscirà dal confronto parlamentare testerà la capacità della
CDU/CSU di governare compromessi difficili senza perdere la propria coesione
interna, rispondendo alla domanda chiave: come la Germania immagina la sua
solidarietà intergenerazionale per i decenni a venire. Il cuore della proposta
di governo è la stabilizzazione del livello pensionistico – una «linea di
salvaguardia» che assicura un livello minimo delle pensioni fino al 2031. Una
misura di tutela per chi ha versato una vita di contributi e una risposta
all’insicurezza sociale dopo anni di ritardi e incertezze legate al
cancellierato Scholz.
La CDU/CSU si è
schierata pubblicamente a difesa di questa impostazione. Il partito parla di
responsabilità verso i pensionati e di necessità di «verificare che il lavoro
paghi anche nell’età avanzata», presentando la proroga della soglia al 48% come
un elemento di stabilità e di rispetto per la «prestazione di una vita» nel
tentativo di coniugare il messaggio tradizionale di ordine sociale con
l’esigenza di rassicurare gli elettori anziani che la loro terza età non sarà
consegnata all’incertezza.
Ma anche
all’interno della CDU/CSU non mancano le perplessità: una corrente di giovani
deputati si interroga se la proposta sia in grado di unire equità,
sostenibilità e consenso, criticando la scelta di fissare una «linea di
salvaguardia» senza un piano di finanziamento credibile per il lungo periodo.
Il gruppo ha criticato l’effetto che la misura potrebbe avere sulle future
generazioni, denunciando costi sostanziosi che ricadranno sul sistema
contributivo e sul bilancio pubblico una volta che la protezione transitoria
sarà scaduta.
Sul piano tecnico,
il governo ha intanto approvato misure complementari che mostrano la portata
pratica della strategia. Tra queste, un disegno di legge per incentivare il
lavoro oltre l’età pensionabile, consentendo ai pensionati di guadagnare somme
aggiuntive con agevolazioni fiscali e limiti più alti di reddito esentasse,
mosse pensate a contrastare la carenza di manodopera e a rallentare la
pressione sul sistema pensionistico.
Sono però proprio
le cifre di lungo periodo a preoccupare economisti e opposizioni. Proiezioni e
studi segnalano che la combinazione di stabilizzazione del livello
pensionistico e nuove estensioni di diritti potrebbe far salire il tasso di
contribuzione, comprimendo il margine fiscale e obbligando a scelte difficili
nei prossimi decenni.
Telefonata
Merz-Netanyahu
Merz e Netanyahu
si sono confrontati nel corso di una telefonata sulla situazione a Gaza e sulla
distribuzione degli aiuti umanitari. Durante la conversazione, i due leader
hanno discusso delle possibilità di consolidare ulteriormente il cessate il
fuoco nella Striscia di Gaza.
Entrambi hanno
sottolineato la priorità di distribuire gli aiuti umanitari in modo sicuro e
sufficiente alla popolazione civile. Merz e Netanyahu hanno inoltre concordato
sull’urgenza che Hamas consegni senza ulteriori ritardi le spoglie degli ultimi
ostaggi.
Agricoltura:
l'inatteso ritorno del diesel piace al settore
In Germania il
gasolio agricolo sta conoscendo un inatteso ritorno. Dopo anni in cui
l’attenzione era rivolta soprattutto all’elettrificazione, ai biocarburanti e
ad altre forme di energia alternativa, molti agricoltori stanno tornando a
utilizzare il diesel tradizionale. Alla base di questa tendenza vi sono ragioni
economiche e pratiche: le macchine agricole moderne richiedono potenza elevata
e lunga autonomia, caratteristiche che le attuali soluzioni elettriche non
riescono ancora a garantire in modo soddisfacente.
L’aumento dei
costi dei carburanti alternativi e l’incertezza sui futuri incentivi statali
hanno spinto numerosi operatori del settore a fare affidamento su tecnologie
consolidate. Allo stesso tempo, il dibattito politico sulla possibile
eliminazione delle agevolazioni fiscali per il gasolio agricolo ha riportato il
tema al centro dell’attenzione pubblica.
Il ministro
tedesco all' Agricoltura Alois Rainer (CDU/CSU) ha sottolineato l’importanza di
garantire agli agricoltori mezzi affidabili e accessibili, evidenziando come il
sostegno all’uso del diesel in ambito agricolo sia una misura necessaria per
assicurare la produttività del settore, almeno nel breve termine con il plauso
di molte associazioni agricole, che vedono nella conferma del diesel una
risposta concreta alle difficoltà operative e ai costi crescenti.
La Germania lotta
contro l'oblio
Il governo tedesco
ha stanziato quest’anno circa 1,8 milioni di euro per sostenere 51 progetti
dedicati alla conservazione di fonti storiche originali. L’obiettivo è
proteggere in modo duraturo documenti, manoscritti e archivi di valore,
garantendo così la trasmissione del patrimonio scritto della Germania alle
generazioni future.
Il ministro di
Stato per la Cultura e i Media, Wolfram Weimer, ha sottolineato l’importanza di
questo impegno: «Gli archivi e le biblioteche tedesche custodiscono documenti
di valore mondiale. Come testimonianze della nostra storia, manoscritti e atti
sono insostituibili: rappresentano la memoria della nostra democrazia. In tempi
di fake news e revisionismo storico crescente, è nostro dovere proteggere e
rendere accessibili le fonti autentiche. Solo chi conosce la propria storia può
resistere alla manipolazione del presente. Con il programma speciale del BKM,
il Ministero alla Cultura, il governo federale agisce con coerenza in questa
direzione». Il programma speciale per la tutela del patrimonio scritto, avviato
nel 2017, finanzia interventi tecnici come la deacidificazione, la pulizia e il
confezionamento protettivo di grandi raccolte documentarie. Finora sono stati
approvati 734 progetti per un totale di oltre 21,8 milioni di euro. Tra i
progetti finanziati nel 2025 figurano iniziative di particolare rilievo.
Lo Staatsarchiv di
Amburgo sta mettendo in sicurezza 104 metri lineari di atti giudiziari
risalenti al periodo 1930-1950, che documentano la persecuzione da parte del
regime nazista di ebrei, omosessuali e oppositori politici. I documenti vengono
puliti, protetti e sottoposti a un’analisi dei danni. I progetti sostenuti dal
programma del Ministero sono cofinanziati almeno al 50% da istituzioni, Länder
e comuni coinvolti. La selezione avviene su raccomandazione del Consiglio
consultivo della KEK, la Coordinazione per la conservazione del patrimonio
scritto, sostenuta congiuntamente da governo federale e Länder.
Il programma
speciale rappresenta una delle due principali linee di finanziamento della KEK:
accanto ad esso, la promozione dei progetti modello – gestita in collaborazione
con la Fondazione culturale dei Länder – sostiene iniziative esemplari per la
tutela dei documenti originali.
Dalla KAS Italia:
Ucraina al centro del “Security and Defence Day” della Fondazione De Gasperi
l ministero della
Cultura si è tenuto venerdì 7 novembre il “Security and Defence Day”,
organizzato dalla Fondazione De Gasperi, in occasione dei tre anni di guerra in
Ucraina. Al centro del dibattito la sicurezza europea. Tra gli interventi più
attesi, quello del ministro degli Esteri Antonio Tajani, che ha ribadito
l’impegno dell’Italia per una difesa europea più integrata.
Ospite della
conferenza anche Matthias Barner, esperto di politica di sicurezza europea
della Konrad-Adenauer-Stiftung di Berlino, che ha richiamato la necessità di
un’Europa più forte e coesa sul piano militare. L’evento ha riunito
rappresentanti di politica, ricerca e società civile per discutere il futuro
della sicurezza del continente. Kas 7
COP30: è tempo di riformare il negoziato internazionale sul clima?
A partire dalla
conferenza nota come “COP26”, svoltasi nel 2021 a Glasgow, le Conferenze delle
Nazioni Unite sul cambiamento climatico hanno assunto una nuova centralità
politica e mediatica. L’attenzione crescente della società civile e dei media è
senza dubbio un segnale incoraggiante per l’azione climatica globale, ma porta
con sé anche alcuni risvolti negativi: mentre le questioni più simboliche e
politiche guadagnano visibilità – si pensi ai dibattiti sul phasing down,
phasing out o transitioning away dai combustibili fossili – quelle sostanziali,
di maggiore portata giuridica, tendono a passare in secondo piano.
Non bisogna
dimenticare che le cosiddette COP sono innanzitutto il foro negoziale degli
Stati parte dei tre trattati che costituiscono l’architettura giuridica del
regime climatico internazionale: la Convenzione quadro del 1992, il Protocollo
di Kyoto del 1997 e l’Accordo di Parigi del 2015. Le decisioni adottate
nell’ambito delle conferenze diplomatiche servono ad attuarne le disposizioni e
a orientarne lo sviluppo futuro.
Certo, negli
ultimi anni non sono mancati progressi di un qualche rilievo giuridico, come
l’istituzione del Fondo per perdite e danni, lo sviluppo degli approcci
cooperativi previsti dall’articolo 6 dell’Accordo di Parigi, e la recente
decisione sull’obiettivo globale di finanza climatica, sebbene formulata in
termini molto generici. È però rimasta in secondo piano la questione cruciale
della mitigazione, cioè la riduzione effettiva delle emissioni di gas a effetto
serra. Mentre l’attenzione politica in questo campo si concentra su obiettivi
di lungo termine, molti Stati, e anche l’Unione europea, non rispettano le
scadenze per l’aggiornamento delle proprie Nationally Determined Contributions
(NDCs), strumento centrale dell’Accordo di Parigi, e gli impegni sinora assunti
si rivelano insufficienti a contenere l’aumento della temperatura globale “ben
al di sotto” dei 2°C, o, auspicabilmente, entro 1,5°C.
Perciò, alla
vigilia della cosiddetta “COP30”, che si terrà a Belém (Brasile) dal 10 al 21
novembre 2025, ci sembra opportuno porsi la questione se e come riformare il
negoziato internazionale sul clima. È vero che il contesto politico attuale
appare tutt’altro che favorevole, tra conflitti armati in continua espansione e
l’acuirsi di posizioni apertamente negazioniste in soggetti chiave come gli
Stati Uniti di Donald Trump. Né il quadro multilaterale ambientale più ampio
offre motivi di ottimismo. Tuttavia, le riforme richiedono tempi lunghi di
elaborazione e maturazione: iniziare a discuterne oggi potrebbe non essere un
esercizio utopistico, ma una tappa necessaria.
Questo articolo,
pertanto, si concentra su due dimensioni di una possibile riforma del negoziato
internazionale sul clima. La prima, di carattere procedurale, riguarda le
modalità di conduzione dei lavori negoziali. La seconda, di tipo sostanziale,
concerne invece l’ipotesi di elaborare un nuovo protocollo internazionale in
materia di mitigazione del cambiamento climatico. Le conclusioni tenteranno di
ricondurre a sintesi questi due aspetti.
Sul piano
procedurale: come rendere il negoziato più rapido ed efficiente?
La diplomazia
multilaterale procede, per sua natura, con tempi particolarmente dilatati; in
particolare, il metodo del consenso nell’adozione delle decisioni costituisce
un ostacolo evidente all’efficienza del processo negoziale. È interessante
notare, tuttavia, che tale metodo non ha mai ricevuto una formale codificazione
nel contesto del regime internazionale del cambiamento climatico. Le Rules of
Procedure della Conferenza delle Parti della Convenzione quadro del 1992 non
sono infatti mai state approvate in via definitiva. L’articolo 42 sul sistema
di voto è rimasto in bozza e contempla due opzioni: la prima prevede il
consenso come unico criterio per le decisioni sostanziali, la seconda introduce
invece la possibilità, in caso di mancato accordo dopo aver compiuto ogni
possibile sforzo in tal senso, di adottare una decisione a maggioranza
qualificata dei due terzi delle delegazioni presenti e votanti. Il primo
pilastro di una riforma procedurale dovrebbe dunque essere la previsione di
decidere a maggioranza qualificata, superando così lo stallo strutturale insito
nel sistema del consenso.
Un secondo aspetto
riguarderebbe la possibilità di rendere il processo negoziale più snello e a
cadenza più frequente, considerando che negli ultimi anni le COP si sono
trasformate in eventi imponenti, altamente partecipati ma spesso dispersivi.
Non mancano proposte di rilievo in questa direzione. Nel 2023, ad esempio, il
Club of Rome ha diffuso una open letter – poi rilanciata nel 2024 – in cui
raccomandava, tra l’altro, di trasformare le COP in “smaller, more frequent,
solution-driven meetings”. Alcuni segnali di ricezione del messaggio sono già
emersi: si pensi, ad esempio, alla significativa riduzione dei badge concessi a
osservatori provenienti dal “Nord globale” nelle ultime due Conferenze, e
all’iniziativa della Presidenza brasiliana che ha istituito i “COP30 Circles”,
gruppi guidati da figure di rilievo in diversi ambiti chiave dell’azione
climatica, con l’obiettivo di facilitare il negoziato e accelerare l’attuazione
dei trattati. Tali iniziative, tuttavia, restano legate alla discrezionalità
politica e all’iniziativa di singole presidenze, e rischiano di non incidere in
modo strutturale sul regime.
Affinché la
riforma sia effettiva, occorrerebbe attribuire una cornice giuridica a simili
innovazioni procedurali. Dal punto di vista giuridico, le possibilità non
mancano: le disposizioni relative alle conferenze delle Parti contenute nei tre
trattati prevedono, tra l’altro, la possibilità di convocare sessioni
straordinarie su richiesta di un terzo degli Stati membri e incoraggiano la
creazione di organi ristretti incaricati di agevolare l’attuazione di
specifiche disposizioni (si veda, ad esempio, l’articolo 7 della Convenzione
quadro).
Certo, sessioni
negoziali più ristrette e frequenti comportano il rischio di esclusione e di
minore trasparenza del processo. Ma anche nel modello attuale, solo formalmente
inclusivo, una trasparenza reale non è affatto garantita: le decisioni cruciali
vengono spesso prese in incontri informali e limitati a un numero ridotto di
Paesi economicamente rilevanti, o addirittura direttamente in altri consessi. È
comunque essenziale che qualsiasi riforma resti conforme al principio della
sovrana uguaglianza degli Stati e continui a garantire una partecipazione
pubblica adeguata, attraverso “osservatori” provenienti da soggetti
sufficientemente specializzati e rappresentativi della società civile.
Sul piano
sostanziale: è (quasi) tempo di un nuovo ‘Protocollo’?
La Convenzione
quadro risale al 1992. Già alla prima COP del 1995 si avviò il negoziato che
condusse all’adozione del Protocollo di Kyoto nel 1997. Negli anni successivi,
il processo si articolò su due binari: da un lato quello che sfociò
nell’Emendamento di Doha del 2012, dall’altro quello – più noto – che portò
all’Accordo di Parigi del 2015. A dieci anni da quest’ultimo, i tempi
potrebbero essere maturi per avviare una riflessione sull’elaborazione di un
nuovo protocollo.
Sul piano
sostanziale, la priorità resta una riduzione significativa e mirata delle
emissioni di gas serra nel periodo cruciale 2035–2050, così da rendere
effettivo l’obiettivo della neutralità climatica al 2050, già affermato a
livello internazionale. Un nuovo protocollo dovrebbe dunque concentrarsi su
questo arco temporale, con negoziati formali da avviare entro il 2030 e
l’adozione e una rapida entrata in vigore entro il 2035.
Un simile
strumento potrebbe rappresentare una sintesi tra l’approccio “top-down” di
Kyoto e quello “bottom-up” di Parigi. Da un lato, fisserebbe l’obiettivo
globale di neutralità climatica al 2050; dall’altro, consentirebbe contributi
differenziati, con un gruppo di Paesi più avanzati e meno inquinanti chiamati a
raggiungere prima il net-zero, e i grandi emettitori con minore capacità
tecnologica a seguire in tempi successivi. Inoltre, il protocollo potrebbe
contenere disposizioni più tecniche sulla riduzione delle emissioni nei settori
chiave, disciplinare l’uso delle metodologie di carbon removal e allegare
tabelle con margini di riduzione delle emissioni per ciascuna Parte, calcolati
sulla base del rispettivo carbon budget e delle capacità economiche. Ciò
offrirebbe anche l’occasione per rivedere l’ormai superata distinzione tra
Paesi sviluppati e Paesi in via di sviluppo introdotta dalla Convenzione
quadro.
Il nuovo
protocollo non sostituirebbe l’Accordo di Parigi, che resterebbe in vigore,
come peraltro sono ancora la Convenzione quadro e il Protocollo di Kyoto. Al
contrario, si innesterebbe sul regime esistente, potendo far leva su strumenti
già esistenti come gli NDCs – il cui attuale aggiornamento ha come orizzonte
temporale proprio il 2035 – ma collocandoli in una cornice più vincolante e
stringente. La finanza climatica rimarrebbe un elemento imprescindibile per
sostenere gli sforzi di mitigazione dei Paesi in via di sviluppo, con la
prospettiva, tuttavia, di includere tra i contributori netti anche soggetti
come la Cina – una questione destinata comunque a imporsi sul negoziato
multilaterale nel prossimo futuro.
Il tempo delle
riforme è adesso
Le due dimensioni
di riforma proposte potrebbero sembrare, a prima vista, contraddittorie. Chi
invoca un negoziato più snello parte infatti dall’urgenza di attuare l’Accordo
di Parigi in una prospettiva di “delivery”, che sembrerebbe non lasciare spazio
all’elaborazione di un nuovo protocollo. Tuttavia, quest’ultimo non
sostituirebbe l’Accordo di Parigi: al contrario, si baserebbe sull’attuazione
efficace di molte delle sue disposizioni, che rimarrebbe prioritaria. Inoltre,
lo stesso Protocollo potrebbe al contempo fungere da volano per introdurre
alcune innovazioni procedurali. Si pensi, appunto, a riunioni degli Stati parte
più ristrette e distribuite durante l’anno presso il Segretariato di Bonn, in
luogo delle attuali conferenze annuali, o a un nuovo meccanismo di compliance
dotato non solo di funzioni facilitanti ma anche di poteri sanzionatori, in
grado di ridurre l’attuale deficit di accountability.
È evidente che le
incognite non mancano, ma lo scenario politico internazionale potrebbe mutare
più rapidamente del previsto. Quando ciò accadrà, aver già concettualizzato le
riforme necessarie potrà fare la differenza. Alcuni Stati virtuosi – e l’Unione
europea in particolare – potrebbero farsi promotori di tali innovazioni; se
queste si rivelassero efficaci, altri Stati potrebbero accodarsi. In un
contesto globale sempre più segnato da cambiamenti repentini e inattesi, un
approccio di lungimiranza resta essenziale per evitare di farsi cogliere
impreparati. Riccardo Luporini, AffInt 9
Prodi (Cgie): la nostra esperienza quarantennale a disposizione della nuova
comunità dell’italofonia
Roma. Il Consiglio
Generale degli Italiani all’Estero, con tutta la sua “miniera d’oro”
dell’esperienza quarantennale sul tema della diaspora italiana, si mette a
disposizione della nuova comunità dell’italofonia. Perché lingua e cultura sono
degli strumenti che possono “dare nuovo slancio” di partecipazione ed
educazione alla pace.
Questo il succo
dell’intervento di Maria Chiara Prodi, Segretaria Generale del Consiglio
Generale degli Italiani all’Estero (CGIE), realizzato durante il tavolo
tematico “Italofonia come comunità di valori e dialogo” tenutosi questo
pomeriggio, 18 novembre, durante la I Conferenza dell’Italofonia, tenutasi a
Villa Madama.
“In Italia siamo
capaci di grande innovazione e poi ci dimentichiamo di essere stati degli
innovatori”, ha esordito Prodi iniziando a raccontare la storia del CGIE nel
tavolo. Il CGIE, ha spiegato, è una “grande innovazione” dell’Italia, ossia:
“la diaspora a servizio delle relazioni internazionali del nostro paese, della
promozione di lingua e cultura”. Una innovazione che “ha poi creato degli
emuli”. Ci sono Paesi, infatti, “che hanno copiato e poi modificato le loro
leggi proprio sul nostro esempio, come Francia e Portogallo”. Inoltre, pochi
mesi fa, Prodi ha ricordato di essere stata audita dagli uffici della
Commissaria europea Kaja Kallas per capire come “trasmettere il senso di
cittadinanza europea attraverso le diaspore fuori dall'Unione Europea”. “Siamo
stati i primi a cercare di istituzionalizzare e organizzare questa comunità”.
Secondo Prodi,
infatti, il CGIE è a cavallo tra le istituzioni e il mondo della società
civile: “abbiamo avuto questa grande capacità di istituzionalizzare le comunità
e l'abbiamo fatto proprio per cercare di renderle attive, operative e per
collaborare con le istituzioni italiane a tutti i livelli: Parlamento,
Ministeri, Comuni e Regioni”. E questa istituzionalizzazione fra tutti i
livelli e con tutte le comunità, anche molto diverse fra loro, “fa una
ricchezza straordinaria. Perché se le intuizioni sono belle, poi è la loro
concretizzazione che ci dà gusto”.
Continuando a
raccontare i rappresentati di Comites e Cgie ha spiegato: “siamo già 2000
volontari tra noi e le consulte regionali per l'immigrazione, alimentiamo
queste reti in maniera volontaria da tanti decenni. È un ruolo che io descrivo
come “beta tester”, diciamo “primi sperimentatori”. E in questo la legge di 40
anni fa è ancora molto intelligente: avere dei beta tester in tutte le parti
del mondo che possono dire cosa funziona e cosa no, provare una cosa o meno,
che magari conosce chi è ben inserito nelle realtà istituzionali del paese
ospitante, o che promuove progetti speciali. Ciò è una miniera d'oro”.
A questo vanno
aggiunti, secondo la Segretaria Generale del CGIE, i dati pubblicati dalla
Fondazione Migrantes, ossia che in vent'anni l'emigrazione italiana è aumentata
del 106%: “non abbiamo solo un tema di qualità ma anche di quantità. Associare
questi elementi a servizio della promozione della lingua e cultura è veramente
una prospettiva strategica importante”.
“È chiaro che si
può riflettere sulla pertinenza di questi strumenti legislativi e anche sulla
crisi della partecipazione che vivono le nostre democrazie – ha proseguito
Prodi -. Ma penso che la lingua e la cultura siano strumenti che possono dare
nuovo slancio di partecipazione ed educazione alla pace. Non c'è nessuno che ha
il monopolio di una rappresentanza o di una comunità, e questa è la parte
bella”.
“Pensando a questo
incontro pensavo all'immagine di cerchi concentrici – ha aggiunto ancora Prodi
-: cittadini italiani che vivono in Italia; cittadini italiani che vivono
all'estero; poi gli italofoni che imparano la lingua e si aggiungono al cerchio
precedente attraverso l'amore per la lingua; e infine i famosi “italici”, che
sono quelli che amano la cultura italiana magari senza conoscere la nostra
lingua”. Ma “al di là delle strutture formali o delle nostre aspettative, avere
questa immagine per me è molto fecondo, perché questi sono tutti centri
concentrici che si alimentano nelle relazioni degli uni con gli altri. La lista
delle comunità non è una lista di punti elencati, numerati, uno dopo l'altro.
Ma è un sistema complesso, complementare, collaborativo, sinergico, che
probabilmente può essere veramente una chiave progettuale di successo e di
collaborazione.
“Una giornata come
quella di oggi ci dà uno slancio, ci dà degli obiettivi, ci dà un qualcosa
verso cui tendere tutti insieme – ha evidenziato la SG Prodi -. Per questo ci
servono strumenti di collaborazione che tengano a mente le specificità di
ciascuno”.
L’esponente degli
italiani all’estero ha poi ricordato un convegno svolto nel 1996, dal titolo
"Iniziative per l'insegnamento e la diffusione della lingua e cultura
italiana all'estero nel quadro della promozione culturale e della cooperazione
internazionale". Un convegno dal quale “sono passati quasi 30 anni” e le
cui tematiche “ho ritrovato nei discorsi che sono stati fatti oggi”. E lo ha
voluto ricordare anche per valorizzare il ruolo del CGIE per promuovere
l'insegnamento della lingua e della cultura italiane. “Vorrei invitarvi a
guardare questo potenziale degli italiani all'estero come immediatamente
disponibile e intrecciato con gli altri paesi del mondo, con le altre comunità
del mondo”.
“Immaginate, come
abbiamo fatto noi 40 anni fa, di creare uno spazio istituzionale per le
diaspore”, ha concluso Prodi. “Pur sottolineando che dopo 40 anni siamo ancora
capaci di essere un progetto innovativo e di esempio per il mondo, vorrei
incoraggiare anche chi magari ha diaspore inferiore alla nostra, che raggiunge
ormai 7 milioni e 300 mila persone (12% della popolazione), di muoversi in
questa direzione, perché in questo mondo interconnesso e complesso, le persone
in mobilità sono quelle persone che hanno uno sguardo di costruzione di un
mondo di pace, proprio perché conoscono l'esperienza della migrazione. Ci
mettiamo a servizio delle istituzioni”. (l.m.\aise/ddip 18)
Un Paese afflitto da un’eccessiva polarizzazione della politica
Nei suoi ultimi
interventi pubblici, la segretaria del PD, Elly Schlein, ha parlato di una
“estrema Destra” al governo che metterebbe a rischio la democrazia nel nostro
Paese. Giunti a questo punto, sarebbe utile che la Sinistra italiana, i suoi
politici, i suoi elettori, i suoi intellettuali chiarissero, una volta per
tutte, in che Paese pensino di vivere: se nell’Italia reale o in un’altra
Italia, quella dei loro discorsi di oppositori duri e puri.
E’ una domanda che necessita di una risposta
chiara, non elusiva, perché da essa dipende l’identità stessa della Sinistra e, di conseguenza, la sua
offerta elettorale, se, invece di considerarsi la sola speranza della
democrazia in Italia, pensa di poter offrire un programma elettorale che
affronti i problemi del Paese, come la politica estera che si intende
perseguire, con chi allearsi, chi tassare, quali investimenti pubblici fare,
come risolvere l’eterno problema dell’immigrazione e della sicurezza.
La democrazia
obbliga tutti ad accettare l’idea che ci sono gli “altri” che non la pensano
sempre come noi, ai quali è difficile far cambiare idea, perché essere
democratici vuol dire proprio questo: accettare che esistono gli “altri” con
idee diverse dalle nostre, cercare di andare incontro a chi non la pensa come
noi, con proposte alternative, più convincenti delle loro, in sintesi accettare
la pluralità dell’offerta elettorale.
Purtroppo è
proprio questa idea di competizione presente nel concetto stesso di democrazia
che la Sinistra ha difficoltà ad accettare, perché convinta, a differenza dei
suoi avversari, di essere eticamente superiore, perché rappresenta il bene
mentre gli avversari rappresentano il male, il ritorno al passato, al buio
contro il “sol dell’avvenire”.
La tendenza della
Sinistra a concepire la politica come lotta tra il bene e il male, nasce dalla
convinzione di essere dalla parte della storia, di rappresentare la libertà, il
progresso, come è palese dal continuo riferimento alla Resistenza, alla lotta
contro il nazifascismo, mentre sempre più evidente appare, la sua difficoltà a
scegliere tra realtà e ideologia.
L’eccessiva
polarizzazione della politica rende ancora più difficile scegliere tra presente
e futuro, perché l’elettorato appare sempre più diviso su posizioni
contrapposte, con un aumento esponenziale delle differenze ideologiche e delle
divisioni tra i partiti, che appaiono evidenti nelle opinioni sempre più
estreme, senza capire che si riduce in questo modo l’area di Centro e più
difficile risulta il compromesso e il dibattito politico.
La politica si
riduce così ad un puro esercizio verbale, il dire è più importante del fare, la
retorica soppianta il ragionamento, le parole vuote hanno la meglio sulle
proposte concrete. Angela Casilli,
de.it.press 14
La situazione
economica ha accentuato le differenze sociali, che ci sono sempre state, e il
progressivo isolamento collettivo è realtà che non possiamo più sottovalutare.
Anche l’Italia è a una svolta storica che ha già evidenziato complessi problemi
per il rinnovamento del Paese. La stagione della ristrutturazione avrebbe
dovuto iniziare, però, assai prima.
Ora, tuttavia, dovrebbe farsi strada la
solidarietà che, almeno nella norma, non è mai stata la prima donna della
nostra società. Il periodo che dovremo affrontare sarà difficile ed a tempo
indeterminato. Per riuscire a varare una nuova fase nazionale che stimoli il
lavoro per tutti. Un’impresa difficile ma fondamentale. La politica avrà un suo
ruolo determinante. Come non l’ha avuto mai.
Il nostro Paese è
parte di un sistema internazionale che ne condivide le sorti. Anche non
volendolo espressamente. Oltre le promesse, non ancora concretate, c’è
l’emarginazione e la disperazione per quanto abbiamo perduto. Tornare a una
vita dignitosa non è solo l’aspetto politico della nostra situazione. Superata,
speriamo presto, le tensioni politiche, sarà indispensabile muoverci per dare
una mano a tutti per favorire una ripresa dignitosa e comunitaria.
La burocrazia, male tipicamente nazionale,
dovrà essere sostituita dall’impegno civile che ci coinvolga tutti. Nessuno
escluso. Quindi, meno politica e più fatti. Oggi c’è una Società da riedificare
e un’economia da riscoprire. In altri termini, si dovrà favorire quel diritto
alla dignità. Sarà un percorso complesso, ma non impossibile.
Giorgio Brignola,
de.it.press
Pensioni all’estero: come beneficiare della quattordicesima mensilità
Il nostro esperto
risponde a un cittadino italiano residente in Svizzera sulle modalità per
ottenere questo diritto e informa sulla campagna in corso di verifica dei
redditi. Di Ufficio comunicazione Patronato Acli / 26 novembre 2025
Buongiorno,
sono residente in
Svizzera e ricevo oltre alla rendita AVS anche una piccola pensione INPS, ho
sentito alla televisione italiana che in luglio è stata pagata ai pensionati la
quattordicesima, posso usufruirne anche io?
Antonio
Egregio signore,
per beneficiare della quattordicesima mensilità, i pensionati residenti
all’estero, titolari di una pensione italiana, devono soddisfare due requisiti
fondamentali, una certa età anagrafica e un determinato reddito. La prestazione
è infatti erogata a favore dei pensionati con più di 64 anni titolari di uno o
più trattamenti pensionistici italiani in presenza di determinate condizioni
reddituali personali.
Per il 2025, il
reddito individuale complessivo, per tanto non comprensivo di quello coniugale,
compresi i redditi esteri, deve essere al massimo di 15’688.40 euro. Nel
caso in cui si rientri nei requisiti richiesti di norma la quattordicesima
spetta ai pensionati, anche se residenti all’estero, in maniera automatica,
senza che il beneficiario presenti richiesta all’Inps.
Nel caso si
rispettino i requisiti richiesti e non si riceva l’importo a luglio è comunque
possibile presentare apposita domanda all’Inps. Dall’anno successivo la prima
erogazione il pensionato rientrerà nella campagna annuale Inps di verifica dei
redditi posseduti (RedEst) e dovrà presentare l’apposita dichiarazione
reddituale.
I nostri uffici
sono a disposizione per la verifica del diritto alla quattordicesima e per
l’invio all’Inps dell’annuale dichiarazione reddituale.
A questo
proposito, ne approfittiamo per informare i beneficiari di pensioni italiane
che richiedono la verifica dei redditi, che è in corso (e sta per concludersi)
la campagna RedEst d’accertamento dei redditi 2024. Se percepite la
quattordicesima oppure una pensione italiana ai superstiti oppure ancora un
assegno ordinario di invalidità, non esitate a contattare l’ufficio del
Patronato Acli in Svizzera a voi più vicino per assicurarvi di aver ben
comunicato i vostri redditi 2024 all’Inps. CdItalianità Ch 27
Associazioni italo-tedesche: Alessandro Bonesini nuovo presidente
„Abbiamo ancora un
grande bisogno di ampliare la conoscenza reciproca, di creare sinergie e di
condividere emozioni e bellezza“
Dopo tredici anni
alla guida della Federazione delle Associazioni Italo Tedesche in Germania,
Rita Marcon Grothausmann ha rimesso il mandato di presidente. La 36ª assemblea
dei soci ha eletto Alessandro Bonesini nuovo Presidente.
Lingua e cultura
come strumenti di dialogo e convivenza
Nel suo
intervento, il nuovo presidente della VDIG, Bonesini ha sottolineato
l’importanza della cultura trasmessa attraverso la lingua come chiave per un
futuro condiviso e ha evidenziato il ruolo centrale delle giovani generazioni:
„Abbiamo ancora un
grande bisogno di ampliare la conoscenza reciproca, di creare sinergie e di
condividere emozioni e bellezza. Solo così le nuove generazioni potranno
superare le barriere spaziali, storiche e linguistiche e sviluppare un
interesse reciproco per costruire insieme il futuro.»
Ampia e solida
esperienza nello scambio culturale bilaterale
Il nuovo
presidente riconosce le proprie radici sia in Italia che in Germania e vanta
un’ampia esperienza nello scambio culturale. Nella sua funzione di dirigente
scolastico presso i Consolati Generali d’Italia a Colonia, Dortmund e
Francoforte sul Meno, si è impegnato nella promozione della lingua italiana.
Bonesini ha studiato Filosofia a Venezia, ha conseguito il dottorato presso
l’Università Martin-Luther di Halle-Wittenberg.
Nell’ambito della
sua professione ha avuto modo di conoscere e collaborare con varie associazioni
della VDIG: „Ho sempre incontrato persone entusiaste e motivate, capaci di
realizzare progetti e iniziative impegnative e interessanti. So già che avrò
modo di confrontarmi con persone animate da una grande passione per la cultura
e da una lunga esperienza, dalle quali potrò imparare molto. Spero che, grazie
alla nostra collaborazione e ai nostri obiettivi comuni, potremo contribuire
alla crescita delle relazioni tra Italia e Germania“.
La VDIG,
Federazione delle Associazioni Italo tedesche in Germania è impegnata nello
scambio culturale tra Germania e Italia da oltre sette decenni. Fondata nel
1953 come coordinamento di nove società membri, la Federazione conta oggi 45
associazioni con oltre 5.000 soci individuali. Sono tutti enti senza scopo di
lucro che promuovono lo scambio culturale, diffondono la lingua italiana e
favoriscono gli incontri tra italiani e tedeschi nel contesto europeo. La VDIG
considera il proprio lavoro un importante contributo al processo di
integrazione europea.
CdI on 13
Convegno in Senato sugli italiani nel mondo
Roma. Organizzato
su iniziativa del Senatore del Maie eletto all’estero, Mario Borghese, in
collaborazione con l’Associazione Europa Mediterraneo ETS e l’Associazione Il
Sud del Mondo ETS, il convegno avvenuto questo pomeriggio in Senato, dal titolo
“Italiani nel mondo: cittadinanza e identità – Come cambiano regole, tutele e
servizi”, ha offerto un confronto approfondito sul fenomeno della migrazione
italiana nei giorni nostri al quale hanno partecipato tanti ospiti protagonisti
degli italiani all’estero, da politici eletti all’estero ai vertici del
Consiglio Generale degli Italiani all’Estero – CGIE, passando per ex
Sottosegretari agli Affari Esteri con delega agli italiani nel mondo, fino a
ricercatrici specializzate sulla questione migratoria.
Ad aprire i lavori
moderati da Raffaele Barberio, Direttore di IF – Italia nel Futuro, il Senatore
Mario Borghese: “cittadinanza e identità sono due tematiche fondamentali perché
riguardano milioni di italiani all’estero”. “A volte – ha rivelato Borghese -
faccio fatica a far capire il ruolo degli italiani all’estero in Parlamento.
Made in Italy, cultura, crescita economica: non è facile portare queste
tematiche ai legislatori. E non dico solo con questo Governo, ma anche coi
precedenti”. La nuova legge di cittadinanza è stata fatta da chi “non capisce
cosa sono gli italiani all’estero”. Una legge che “penalizza tanti oriundi che
vivono nel mondo”. Ma Borghese si è detto anche fiducioso sulla possibilità di
“portare avanti le iniziative per allargare la platea della cittadinanza ai
nipoti e ai bisnipoti. Stiamo lavorando per sensibilizzare il Governo e le
altre forze politiche”.
A seguire, ha
preso parola per i suoi saluti Armando De Bonis, Presidente dell’Associazione
Europa Mediterraneo ETS, organizzatore dell’evento, che ha spiegato come la sua
associazione abbia “avviato un percorso di ricerca e divulgazione sulla
cittadinanza per fare chiarezza su regole, diritti e prassi che incidono sulla
vita dei milioni di italiani all’estero e sui loro discendenti”. De Bonis ha
quindi concluso spiegando di essere convinto che “rafforzare il rapporto con le
comunità italiane nel mondo significa proteggere la loro identità, valorizzarne
il contributo e favorire un accesso più semplice a diritti, servizi ed
informazioni”.
Il Responsabile
Scientifico de Il Sud del Mondo ETS, Giuseppe Galati, ha invece parlato delle
modifiche portate da questa legge, spiegando quale siano i focus centrali:
“come questo scenario può impattare sulla vita degli italiani all’estero e sul
senso di appartenenza che il Governo ritiene che debbano mantenere o se invece
debbano allentarlo. Possono essere una grande risorsa”. “Io credo – ha concluso
- che la ratio della legge è quella di stringere un po’ il cordone della
cittadinanza per vicende che riguardano determinate aree e determinate persone.
Ma non vorrei buttare il bambino con l’acqua sporca. Non vorrei che per
risolvere un problema se ne sia creato un altro”.
È intervenuto poi
Toni Ricciardi, deputato del Pd eletto in Europa nonché storico
dell’emigrazione: “i buoi sono scappati e noi cerchiamo la porta della stalla”,
ha detto in modo amaro l’eletto all’estero. “Noi possiamo fare tutte le
proposte, ma le avremmo dovute fare prima”. Ricciardi si è lamentato del
tempismo della legge e del “poco buon senso” utilizzato, così come si è
scagliato contro la “retroattività” della legge. Ma la lamentela più cruda è
arrivata riguardo il mezzo utilizzato dal Governo, che si è fatto legiferante,
ossia il decreto legge che “è una misura urgente”: “io sono indignato”, ha
spiegato. “C’è un impazzimento generale”, secondo lui, specie riguardo al fatto
che per richiedere la cittadinanza bisogna farlo per “posta cartacea”. “Io la
vivo come un abuso. Eravamo tutti all’oscuro. E alcuni dei problemi rimarranno
lì come erano”. “Noi stiamo provando a intervenire” e “credo che in questa
battaglia non ci sia una posizione di lucro marginale. O facciamo fronte comune
su tutto o non lo facciamo – si è augurato Ricciardi -. Questo fronte deve
essere compatto. Facciamo pressione. Noi dell’opposizione più di opporci non
possiamo fare, ma se ci fosse una forza che siede tra i banchi della
maggioranza, che abbia l’intenzione di fare una battaglia per modificare la
legge – ha assicurato -, noi ci siamo. Capiamoci e convergiamo, perché stiamo
parlando di diritti fondamentali”.
Dopo Ricciardi, ha
preso parola Maria Chiara Prodi, Segretaria Generale del CGIE, che ha spiegato:
“troppo spesso i nostri pareri obbligatori non ci vengono chiesti. Abbiamo un
ruolo fondamentale ma come tutti siamo stati presi alla sprovvista. Stavamo discutendo
di una riforma della cittadinanza che avevamo chiamato “cittadinanza
consapevole”. Ma quello che è successo ci ha preso alla sprovvista, soprattutto
per l’introduzione di un concetto di “cittadinanza esclusiva”, che ha
peggiorato la questione. In giugno abbiamo chiesto diverse modifiche, specie su
doppia cittadinanza e trasmissione, e abbiamo avuto aperture da Tajani e
Mattarella”. Ora siamo in “un’attesa speranzosa”, ma il rischio è che
“attendere perché una cosa illogica e impossibile diventi logica e realizzabile
è un attesa che non ha molto senso”. Prodi ha anche definito “deplorevole” non
aver avuto un dibattito sul tema prima di modificare una legge che si occupa di
diritti fondamentali. Deplorevole è anche il fatto che in Italia il dibattito si
sia concentrato sulle polemiche legate al “commercio o all’amministrativo”
invece che sui diritti. E “queste polemiche hanno messo sul banco degli
imputati gli italiani all’estero” che invece sono “parte civile”. Da giugno
“siamo in attesa delle modifiche” anche perché “la legge ci dà ragione”.
Ancora più duro è
stato l’intervento di Mariano Gazzola, Vice Segretario Generale CGIE per
l’America Latina, secondo il quale con la nuova legge sulla cittadinanza “hanno
introdotto lo Ius Soli in maniera mascherata. È impensabile che, in uno stato
di diritto, uno che ha la nazionalità italiana non sia cittadino”. E poi c’è un
altro “vulnus”, secondo Gazzola: “questa legge ha creato diverse categorie di
cittadini”. “Con un italiano che non può trasmettere la cittadinanza a suo
figlio perché è nato all’estero, di quale uguaglianza parliamo?”, si è chiesto
in modo retorico Gazzola. “È chiaro che siamo davanti ad una legge
fallimentare. E mi auguro che venga cambiata prima che ci siano dei tribunali
che dicano alla politica che cosa deve fare”.
Per Silvana
Mangione, Vicesegretaria Generale del CGIE per i Paesi Anglofoni extraeuropei,
“la cittadinanza è una questione di diritti e doveri. Finora si sono
riconosciuti più i diritti che i doveri. E questa è stata una limitazione che
ha creato una discussione anche negativa. Il riconoscimento della cittadinanza
è diventato un elemento di fruizione utilitaristica. Ma erano solo alcuni casi
e si è estesa questa lettura anche a casi che avevano tutt’altre ragioni.
Questo lo dobbiamo rivedere. Gli italiani all’estero sono una spinta
fondamentale al Sistema Italia. L’identità non è solo morale, ma anche
un’identità che si esplica nella ricostruzione di riti fra i quali c’è il rito
della fruizione delle cose buone che vengono dall’Italia”. Chiudendo il suo intervento,
Mangione ha ripreso il tema dello Ius Soli: “se ne sta parlando in un momento
in cui Trump sta valutando di eliminare lo Ius Soli”. Quindi, per la
Vicesegretaria del CGIE per i Paesi Anglofoni extraeuropei, l’Italia così
starebbe rischiando di creare “un mondo di apolidi di origine italiana senza la
possibilità di essere cittadini”.
Ricardo Merlo,
membro del CGIE nonché ex Sottosegretario agli Esteri, ha parlato da un altro
punto di vista: “siamo davanti la tempesta perfetta”. Facendo riferimento alla
bassa fecondità italiana e a quella alta tra gli italiani all’estero, Merlo ha
spiegato: “questo Governo ha messo un lucchetto sul futuro perché neanche
all’estero nascano italiani. Credo in un mondo multiculturale, ma che ci siano
anche gli italiani in questo mondo. Perché se continuiamo così, noi saremo un
ricordo storico. Questo non è essere contro l’immigrazione, che arricchisce
l’Italia e l’Europa, ma credo che ci debbano essere anche gli italiani”. “Sì,
ci voleva una riforma della legge di cittadinanza, e nel mio periodo da
Sottosegretario l’avevo chiesto, proprio per evitare che un giorno potesse
succedere ciò che è successo. Ma questa legge la hanno fatta quelli che non
conoscono le realtà degli italiani all’estero”. Questo decreto è dunque,
secondo Merlo, “inopportuno, inutile, ingiusta e anticostituzionale”.
Inopportuno perché “l’Italia ha bisogno di nuovi italiani”. Inutile e ingiusta
“perché non riconosce la storia dei tanti emigrati che andarono all’estero e
che hanno aiutato tanto l’Italia dall’estero”. E, “secondo alcuni avvocati con
cui ho parlato”, “anticostituzionale perché non rispetta il principio di non
retroattività della legge e perché crea più classi di cittadini”. “È una legge
che non accetteremo mai”, ha concluso. Il rischio, secondo Merlo, è che “in
Italia non si facciano più figli, e all’estero non ci siano più cittadini
italiani”. Per questo, “non abbandoneremo mai la battaglia contro questa
legge”.
A concludere,
Delfina Licata, ricercatrice della Fondazione Migrantes nonché curatrice del
Rapporto Italiani nel Mondo, che ha parlato di numeri che modificano la visione
della migrazione. “Uno dei problemi della questione italiani all’estero è non
conoscere l’Italia della mobilità”. Ci sono infatti 3 bugie classiche di cui ha
parlato Licata e che vengono alimentate in Italia, anche dalla stampa: “non
siamo mai passati da Paese di emigrazione a Paese di immigrazione. L’Italia è
un paese dalle mobilità plurime, ma l’emigrazione non è mai finita”. Un altro
fatto “sdoganato” dai dati è quello relativo ai cosiddetti “cervelli in fuga”:
“il 66% di chi parte oggi ha infatti un titolo medio-basso”, dunque non si può
parlare di cervelli in fuga, anche perché “le persone non sono solo quello che
fanno”. La terza falsità spiegata dalla ricercatrice è la frase per cui molti
richiederebbero la cittadinanza per convenienza: “non è vero e non si può non
guardare alla persona parlando di questi argomenti”.
Per concludere,
Delfina Licata ha spiegato cosa è la cittadinanza secondo il RIM: “è un patto
civico che unisce e rigenera. Riconoscere questa presenza diversamente stabile,
fatta di italiani nel mondo e di italiani in Italia, significa restituire senso
a una appartenenza storica e affettiva”. Per questo, secondo lei “è urgente una
rigenerazione culturale che deve ripartire dal nostro modo di vedere le cose”.
A chiosare
l’evento, l’intervento di Benedetto Della Vedova, Segretario di Presidenza
della Camera dei Deputati già Sottosegretario agli Esteri: “sono rimasto molto
stupido quando è arrivato il DL Cittadinanza in Parlamento. C’erano alcune
storture da modificare, ma in questa legge ci sono alcune cose incompressibili.
In una situazione in cui l’Italia ha una crisi demografica negativa, non è
razionale non concedere la cittadinanza italiana. Gli italiani all’estero
riguardano il nostro interesse. E il Parlamento ha votato una legge che va
nella direzione opposta. Mi sembra un gratuito autogol allontanare persone che
dovrebbe stare vicino all’Italia”. (l.m. aise/dip 19)
Al Senato l’incontro “Tornare in Italia conviene”
ROMA – Si è svolta
oggi presso la sala Caduti di Nassirya del Senato la conferenza stampa sul tema
“Tornare in Italia conviene, dalla flat tax a una politica nazionale per il
rientro. Borghi e nuove economie”. La flat tax al 7% è uno strumento fiscale,
già attivo nel nostro Paese, dedicato ai cittadini pensionati residenti
all’estero da almeno 5 anni, percettori di un reddito da pensione da un
soggetto straniero, che vogliono venire a vivere dell’Appennino centrale. Una
misura che può diventare un volano per i quei territori, dal momento che è
stata pensata per contrastare lo spopolamento e attrarre nuove energie,
soprattutto tra i nostri connazionali all’estero. Una leva di crescita e
rilancio utile e funzionale per quella vasta area, rappresentata dal cratere
sisma 2016, che ha una superficie di circa 8 mila chilometri quadrati, è
compresa tra le regioni Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria ed è composta da 138
comuni. Al fine di promuovere la diffusione di questo strumento, in particolare
presso la vasta platea dei cittadini italiani all’estero, già lo scorso mese di
aprile era stato siglato un Protocollo d’intesa tra il Commissario Castelli, e
il Consiglio Generale degli Italiani all’Estero. Quello di oggi è stato un
nuovo, ulteriore, appuntamento teso a consolidare l’impegno assunto.
L’incontro è stato introdotto e moderato dal giornalista Francesco De
Palo che ha ricordato come in Italia i borghi, così intrecciati al senso di
cultura e di nazione, abbiano una straordinaria importanza. Nel suo intervento
il senatore Roberto Menia, Responsabile dipartimento Italiani nel mondo
di Fratelli d’Italia, ha rilevato come spesso non venga percepito il vero
valore dell’italianità all’estero, un concetto di nazione operante e vivente
che va aldilà del tempo e dello spazio. Menia ha poi sottolineato come
con la nuova legge sulla cittadinanza “ si sia voluto rafforzare il
valore della cittadinanza collegato ad un legame oggettivo e riconoscibile”,
nonché porre fine ad un fenomeno spiacevole ovvero, l’acquisizione di
questo diritto della da parte di persone che nulla avevano a che fare con
l’Italia, a parte qualche lontano avo, e che confondevano la cittadinanza con
il solo possesso di un passaporto. “Su questo – ha proseguito Menia – si è
intervenuto legando il principio della cittadinanza alle due generazioni.
Ricordo inoltre che sono stati presentanti due emendamenti, a mia prima firma e
con il gruppo di Fratelli d’Italia. Il primo consente agli oriundi italiani che
scelgono di stabilirsi 2 anni nel nostro Paese con un rapporto di lavoro, di
ottenere la cittadinanza italiana. Prima questa permanenza era di tre anni.
Questo serve sostanzialmente a riportare popolazione d’origine italiana
verso i nostri borghi spopolati”. “Un altro emendamento approvato – ha aggiunto
il Senatore – è quello che consente ai discendenti di cittadini italiani che
vivono in paesi di storica emigrazione di far rientro in Italia per lavoro
subordinato al di fuori delle quote del decreto flussi”. Per quanto
riguarda l’iniziativa odierna Menia ha affermato: “Si tratta di un’iniziativa
lodevole che sostengo e incoraggio con convinzione. L’obiettivo mio, del mio
partito e del Governo e quello di promuovere e facilitare il ritorno dei
cittadini di origine italiana nel nostro Paese e, in particolare, in quei
borghi di cui si parla oggi. Nella consapevolezza del quadro italiano attuale,
che vede un progressivo invecchiamento della popolazione e lo spopolamento di
molte aree interne, strumenti come la Flat Tax si aggiungono alle azioni di
contrasto che stiamo adottando, anche attraverso la Legge di bilancio. Stare al
fianco delle nostre famiglie e riportare in Italia persone che hanno origini e
valori comuni sono due facce della stessa strategia”. Rispondendo
ad una domanda di una giornalista venezuelana sulle difficoltà burocratiche
incontrate dai lavoratori venezuelani presenti in Italia, Menia si è soffermato
sulla difficile situazione della comunità italiana in Venezuela a causa del
regime di Maduro. Una collettività che si è molto ridotta. Sulla questione
posta il senatore ha sottolineato la necessità di superare i vincoli burocrati
per aitare questa comunità ricca di professionalità e in definitiva anche noi
stessi. Dal canto suo il Commissario Straordinario al sisma 2016 Guido Castelli
ha rilevato. “La flat tax rappresenta un importante tassello nell’ambito
di quella strategia di riparazione economica e sociale che stiamo mettendo in
campo grazie alla stretta collaborazione con il Governo, le Regioni e i Comuni.
Al fine di rivolgerci alla vasta rete di comunità degli italiani residenti
all’estero, che rappresenta un patrimonio per il nostro Paese, la
collaborazione con il CGIE è assolutamente funzionale e strategica”.
“L’Appennino centrale – ha aggiunto – custodisce un patrimonio, frutto
dell’opera della natura e dell’uomo, che non ha eguali. Valorizzare questo
potenziale è un nostro dovere nella consapevolezza che, sotto il profilo della
qualità della vita, questi territori offrono standard di assoluto livello”.
Castelli ha poi rilevato come il rapporto con il Cgie sia nato per rendere
conosciuta e praticata questa norma sulla flat tax , a chi percepisce la
pensione ed è residente all’estero da almeno 5 anni e vuole trasferire la sua
residenza all’interno di uno dei comuni del cratere. “La norma – ha
spiegato il Commissario – assicura per dieci esercizi consecutivi questa flat
tax al 7% sul patrimonio e sui redditi che si originano all’estero. Quindi noi
siamo qui per rendere ancora più sistematica questa azione, che va a
convalidare la strategia nazionale e a dare una mano per il ripopolamento delle
zone colpite. Coloro che tornano saranno importanti per la creazione di
un tessuto economico”. “L’auspicio – ha concluso Castelli – è
che attraverso il Cgie ci siano sempre più persine a conoscenza di tutto questo
e per le quali il ritorno sia più conveniente e suggestivo”. Giuseppe
Stabile, Vicesegretario Generale del Cgie per l’Europa e l’Africa del Nord ha
sottolineato: “Strumenti come la flat tax al 7% per chi percepisce pensioni
estere dimostrano un modello virtuoso che può diventare nazionale. La rinascita
locale è l’infrastruttura di quella nazionale: ripopolare i territori con
persone e attraverso adeguati investimenti significa rivitalizzare il Paese,
rafforzare l’economia, ampliare la base fiscale e aumentare la domanda di
servizi. La parola chiave è capillarità: ogni persona che lascia l’Italia porta
con sé un frammento del Paese e ogni ritorno è una ricchezza”.
“Ho sentito il
bisogno di guardare a questa questione in modo diverso, – ha spiegato Stabile –
perché ogni persona che lascia l’Italia porta con se e una parte del suo paese
e ogni ritorno possibile è una ricchezza per l’intera Nazione. L’ho pensato
prima come cittadino che vive fuori dalla patria, poi come esponente del
Cgie. La scintilla operativa è scoccata quando l’amico Castelli ha chiesto di
collaborare per valorizzare la misura della Fla Tax al 7% a favore di
coloro che ricevono una pensione estera”. Stabile ha poi segnalato come in una
recente Assemblea della Commissione Continentale Europa del Cgie sia emerso
come l’Italia sia oggi la prima destinazione mondiale dei pagamenti
pensionistici tedeschi all’estero. “Parliamo – segnala il Vice Segretario
generale – di oltre 348.000 pensioni versate a beneficiari in Italia. Ora
immaginiamo quanto questo numero potrebbe aumentare, moltiplicandolo per il
resto dei Paesi del mondo, se sapessimo costruire una relazione più matura
fatta non solo di risorse economiche e contributi a fondo perduto, ma di idee
lungimiranti, di investimenti e competenze che tornano al nostro Paese”. Per
Stabile inoltre dopo anni di diagnosi sulle cause e gli effetti dell’espatrio è
giunto il momento della proposta di cura. “Per quanto di mia competenza – ha
rilevato Stabile – il primo passo è stato quello di progettare un repertorio
nazionale condiviso, una sorta di archivio unico che raccolga e renda
facilmente accessibili tutte le misure sul rientro Quelle nazionali, ragionali
e locali dedicate all’attrazione dei connazionali che desiderano ritornare
investire o trascorrere in Italia la propria vita. Un repertorio che parli
un linguaggio semplice non in buorocratese e che permetta a chi vive all’estero
di conoscere con chiarezza gli strumenti esistenti e come usarli. Poi dobbiamo
lavorare per migliorare le misure già in vigore con proposte concrete basate su
confronti e modelli internazionali”. Il Vice Segretario Generale ha inoltre
segnalato di aver messo a disposizione delle istituzioni quattro contributi
frutto di un approfondimento personale: una nota tecnica sul decreto per il
rientro dei discendenti italiani con l’ampliamento dei motivi di ingresso per
lavoro autonomo, imprese e pensionati; una integrazione del ddl sulla semplificazione
edilizia che propone tempi certi per le autorizzazioni e una corsia
preferenziale per chi rientra o investe nei borghi italiani; un’integrazione
per coordinare la flat tax alla legge sull’immigrazione e una proposta di
riforma della golden tax. “Da oggi – ha concluso Stabile – vogliamo cominciare
a costruire le ragioni per cui vale la pena ritornare”. (Lorenzo Morgia, Inform/dip
19)
Roma. “Italiani
nel mondo: cittadinanza e identità – Come cambiano regole, tutele e servizi”,
questo il tema del convegno che si è svolto a Roma presso la Sala dell’Istituto
di Santa Maria in Aquiro del Senato. L’incontro è stato organizzato, su
iniziativa del senatore del Maie Mario Borghese (ripartizione America
Meridionale), in collaborazione con l’Associazione Europa Mediterraneo ETS e
l’Associazione Il Sud del Mondo ETS. A moderare gli interventi è stato chiamato
Raffaele Barberio, Direttore di IF – Italia nel Futuro. Nel suo intervento
introduttivo il senatore Borghese ha rilevato come la tematica della
cittadinanza riguardi milioni di connazionali all’estero e di discendenti
italiani. Secondo il senatore la nuova norma sulla cittadinanza, entrata in
vigore nel maggio 2025, rischia di penalizzare allo stato attuale i
nostri connazionali all’estero. Borgese si è anche detto fiducioso sulla
possibilità di modificare questa norma, segnalando come in proposito si stia
lavorando per sensibilizzare il governo e tutto il Parlamento.
A seguire è
intervenuto Armando De Bonis, Presidente di “Europa Mediterraneo ETS”, che ha
ricordato come questo sodalizio nasca con l’obiettivo di promuovere progetti
sociali, culturali e scientifici, in grado di ridurre le diseguaglianze e
contrastare le forme di emarginazione. “Operiamo prevalentemente – ha precisato
De Bonis – nell’area Euro-Mediterranea, considerato da sempre un crocevia di
popoli, culture e storie che si intrecciano. Oggi abbiamo l’occasione di
riflettere insieme su questioni fondamentali: come stanno cambiando le regole
sulla cittadinanza? Quali tutele sono garantite a chi vive, lavora e costruisce
la propria identità al di fuori dell’Italia? Come migliorare servizi e
rappresentanza per una comunità italiana nel mondo sempre più vasta, dinamica e
complessa? In quest’ottica, l’Associazione Europa Mediterranea ha avviato un
percorso di ricerca e divulgazione sulla cittadinanza”. De Bonis, dopo aver
rilevato che l’attuale quadro normativo sulla cittadinanza sta cambiando, ha
segnalato alcune novità della nuova legge come ad esempio il riordino delle
norme sulla trasmissione della cittadinanza per discendenza con l’introduzione
del limite alla seconda generazione, e la possibilità di revoca della
cittadinanza in caso di condanne per reati particolarmente gravi, misura
prevista esclusivamente per le naturalizzazioni. Ha poi preso la parola
Giuseppe Galati, Responsabile Scientifico de “Il Sud del Mondo ETS”: “Abbiamo
inteso organizzare insieme con l’associazione Europa Med questa iniziativa – ha
spiegato Galati – perché l’introduzione di questo decreto del governo del 27
marzo 2025 ha aperto un dibattito che ovviamente vede da una parte chi lo
ritiene restrittivo, mentre per l’esecutivo rappresenta un modo per stabilire
un legame più stretto sulla cittadinanza”. Galati ha anche segnalato come il
limite alla seconda generazione per la trasmissione della cittadinanza abbia
inciso sulle aspettative dei discendenti all’estero.
Nel corso del suo
intervento il deputato del Pd Toni Ricciardi, eletto nella ripartizione Europa,
ha sottolineato la necessità di modificare l’attuale legge sulla cittadinanza
che va incidere anche sui principi fondamentali della rappresentanza. Il deputato,
dopo aver espresso rammarico sul fatto che oggi si cerchi di intervenire su
questa legge “dopo che i buoi sono scappati”, ha rilevato come durante l’ter
del provvedimento sia stato introdotto qualche miglioramento al testo, ad
esempio per la tempistica di registrazione dei nuovi nati. Ricciardi ha anche
criticato la scelta del governo che ha utilizzato per la regolamentazione di
questa materia la strada del decreto legge d’urgenza. Il deputato si è anche
detto contrario all’introduzione per le richieste della cittadinanza del solo
modello cartaceo. Ricciardi ha inoltre dato diponibilità a sostenere una
proposta di legge di modifica della norma sulla cittadinanza che provenga anche
da una forza di maggioranza, purché non vi siano distingui o differenziazioni
territoriali nel testo e si possa fare fronte comune su tutto. A seguire è
intervenuta la Segretaria Generale del Cgie Maria Chira Prodi che ha in primo
luogo illustrato la struttura del Consiglio Generale, ricordando come questo
organo di rappresentanza sia chiamato a dare pareri obbligatori su tutti i temi
di interesse degli italiani all’estero. Un parere che non è stato
preventivamente richiesto nel caso del decreto legge sulla cittadinanza. “In
quel periodo – ha ricordato Prodi – il Consiglio Generale aveva già messo tra i
punti prioritari della propria azione la modifica della legge di cittadinanza,
perché non era una novità per nessuno che vi fosse un tema da risolvere”.
“Siamo poi arrivati a giugno alla nostra Plenaria con una proposta in favore
di una legge che prevedesse una cittadinanza consapevole, basata anche sulla
conoscenza della nostra lingua”, ha proseguito la Segretaria Generale
ricordando poi le aperture avute dal Capo dello Stato e dal Ministro Tajani su
possibili modifiche alla legge sulla cittadinanza. Prodi ha inoltre
sottolineato come il Cgie abbia oggi una postura di attesa speranzosa
verso possibili interventi di modifica della nuova legge sulla cittadinanza da
parte del Parlamento e della Corte Costituzionale. Per quanto riguarda
invece la scarsa attenzione della stampa non specializzata per le questioni
degli italiani all’estero, la Segretaria Generale ha sottolineato come, a
fronte di un’emigrazione che rappresenta ormai 12% della popolazione nazionale,
questa realtà dovrebbe essere trattata serenamente a livello mediatico
nazionale.
A seguire è
intervenuto il Vice Segretario Generale Cgie per l’America Latina Mariano
Gazzola che ha rilevato come in uno stato di diritto sia impensabile che un
discendente con identità italiana non possa essere anche cittadino. Gazzola ha
poi auspicato, dicendosi speranzoso, che nuova legge sulla cittadinanza, che
non tiene conto del vincolo identitario e affettivo, venga cambiata dalla
politica prima che dai tribunali. Il Vice Segretario ha inoltre
ricordato che i Paesi che ospitano il più alto tasso di discendenza italiana si
trovano in sud America, ovvero il Brasile e Argentina.
“La cittadinanza,
e dobbiamo capirlo perché è il principio da cui partire, – ha affermato Silvana
Mangione, Vice Segretario Generale Cgie per i Paesi Anglofoni extraeuropei – è
una questione di diritti e di doveri. Finora la possibilità di riconoscimento
ha riconosciuto maggiormente, scusate il gioco di parole, i diritti che
abbiamo. E questa è stata una limitazione che ha creato una discussione e una
comprensione anche negativa di quanto stava succedendo”, alla luce di una
fruizione anche utilitaristica della cittadinanza che però ha riguardato solo
alcuni casi. La Vice Segretaria Generale ha inoltre ricordato il prezioso
contributo dato al Sistema Italia dai nostri connazionali grazie alla fruizione
dei buoni prodotti italiani. Magione, dopo aver rilevato che la questione dei
“cervelli in fuga abbia finito per oscurare l’antica storia dell’emigrazione
italiana, ha segnalato il rischio che l’Italia possa creare un mondo di
apolidi di origine italiana che non abbiano la possibilità di essere cittadini.
Nel suo intervento Ricardo Merlo, Presidente del Maie e consigliere del Cgie,
ha sottolineato come la nuova legge sulla cittadinanza, proprio in un momento
di forte calo demografico in Italia, riduca la possibilità per i discendenti
nati all’estero di acquisire la cittadinanza italiana. Merlo, pur riconoscendo
la necessità di modificare la precedente legge sulla cittadinanza, ha
evidenziato però come questa nuova norma non tenga in considerazione la storia
di tanti emigrati all’estero che hanno molto aiutato l’Italia. L’ex
Sottosegretario ha infine segnalato la presentazione da parte del deputato
Tirelli del Maie di un disegno di legge volto a migliorare l’attuale normativa
sulla cittadinanza. Dal canto suo Delfina Licata, ricercatrice e curatrice del
Rapporto Italiani nel Mondo della Fondazione Migrantes, ha spiegato come il RIM
cerchi di descrivere quelle persone migranti che dovrebbero essere al centro
della politica, anche in considerazione del fatto che la situazione della
mobilità italiana è ad oggi poco conosciuta. Licata ha inoltre sottolineato
come l’Italia sia un Paese di mobilità plurima dove l’immigrazione e
l’emigrazione non si sono mai fermate, facendo vivere al nostro Paese un’epoca
migratoria fluida. La ricercatrice ha anche evidenziato come non si possa
parlare solo di “cervelli in fuga”, poiché il 66% delle persone che oggi vanno
all’estero possiedono un titolo di studio medio- basso. Tra gli altri
interventi segnaliamo quello di Benedetto Della Vedova , Segretario di
Presidenza della Camera dei Deputati. “Sono rimasto molto stupito quando è
arrivato il decreto legge sulla cittadinanza. – ha affermato l’ex
Sottosegretario agli Esteri – Sapevo che c’era materia su cui
intervenire, c’erano alcune norme che non potevano andare avanti così, ma si è
passati dal niente al tutto”. Della Vedova ha anche rilevato come, a
fronte della crisi demografica italiana che i politici fingono di non vedere,
le nuove regole restrittive sulla cittadinanza per gli italiani all’estero
impongano una riflessione che consenta di rimediare alla scelta fatta.
(Nicolina Di Benedetto- Inform/dip 20)
Per anni, specie
dopo il 1989, è sembrato che le armi nucleari stessero progressivamente
perdendo di importanza, sino a convincere anche un solido realpolitico come
Henry Kissinger che fosse possibile concepire il progressivo smantellamento
degli arsenali atomici sino allo zero.
In quegli anni non
solo furono negoziate, tra Usa e Urss, importanti riduzioni delle loro forze
strategiche, ma alcune repubbliche ex sovietiche che avevano riacquistato la
loro indipendenza con la dissoluzione dell’Urss, l’Ucraina, la Bielorussia e il
Kazakistan, accettarono di disfarsi degli armamenti nucleari che avevano
ereditato, trasferendoli alla Federazione Russa.
Erano anche gli
anni in cui venne stretto un patto con l’Iran per porre fine al rischio di un
suo riarmo nucleare. Solo la Corea del Nord ha fatto eccezione e, in aperto
contrasto con le scelte di tutti gli altri paesi dotati di tali armamenti, ha
continuato a effettuare anche esplosioni nucleari sperimentali. Ora però le
armi atomiche tornano prepotentemente sul davanti della scena.
Il riarmo nucleare
La spinta iniziale
l’ha data la Russia, che prima ha violato militarmente l’indipendenza e
l’integrità territoriale dell’Ucraina, in flagrante violazione di una serie di
trattati da lei ratificati, e poi, poiché non sembra riuscire a vincere
malgrado la disparità di forze a suo favore, ha più volte agitato lo spettro di
ritorsioni nucleari contro i paesi che aiutano la resistenza di Kyiv.
Nel contempo la
Cina, che per anni aveva mantenuto il suo arsenale al livello di circa 300
testate strategiche, più o meno alla pari con Francia e Regno Unito, ha avviato
un processo di rapido riarmo che ha già portato al raddoppio delle sue testate
operative e che sembra puntare a raggiungere il livello degli arsenali di
Russia e Stati Uniti (circa 1.300 testate strategiche operative).
Poi c’è stato il
bombardamento mirato di Israele e degli Usa contro i siti di arricchimento
dell’uranio in Iran, per bloccare lo sviluppo di sue eventuali capacità
nucleari militari.
C’è stata anche
una breve ma intensa fiammata bellica tra India e Pakistan, con ampia
mobilitazione delle forze militari, incluse quelle nucleari di entrambi i
Paesi.
Abbiamo assistito
a numerosi test di nuove armi strategiche russe e cinesi, soprattutto a livello
missilistico, che potrebbero modificare significativamente gli equilibri
globali. Allo stesso tempo gli Stati Uniti stanno rilanciando un gigantesco
programma di difese antimissilistiche che potrebbe anch’esso modificare la
situazione. Tutte e tre queste potenze nucleari hanno intensificato le loro
attività militari nello spazio extra-atmosferico.
Infine, si
avvicina la data del febbraio 2026, quando verrà a scadenza l’accordo START,
tra Usa e Russia, che stabilisce i limiti quantitativi e qualitativi degli
armamenti nucleari strategici delle due potenze. Tale trattato non prevede una
sua eventuale estensione o rinnovo, ma solo la possibilità di una sua
rinegoziazione; tuttavia finora non si sono avuti segnali in tal senso, né a
Washington né a Mosca. Questo, peraltro, è anche l’ultimo trattato sul
controllo degli armamenti nucleari ancora in vigore tra i due paesi dopo la
rottamazione dei trattati ABM (forze antimissile) e INF (missili di media
gittata).
Trump e la ripresa
degli esperimenti nucleari
Non meraviglia
quindi se, in questa atmosfera di riscoperta della centralità delle armi
nucleari, abbia fatto scalpore l’improvvisa comunicazione con cui Donald Trump
ha affermato di aver dato istruzioni ai dipartimenti interessati per la ripresa
degli esperimenti nucleari “in condizioni di parità con le altre potenze”.
Di fatto, sino ad
ora, Usa, Russia e Cina, e tutti gli altri Paesi con tali armamenti, con la
sola eccezione della Corea del Nord, hanno rispettato il CTBT (Comprehensive
Test Ban Treaty), l’accordo (firmato, ma non ratificato da Washington) che
vieta la ripresa delle esplosioni nucleari a fini sperimentali. L’attività di
ricerca e sperimentazione è continuata a livelli sub-critici, o di laboratorio,
finora ritenuti più che sufficienti allo scopo.
È dunque cambiato
qualcosa? In realtà, Chris Wright, il ministro a capo del Dipartimento
dell’Energia, che ha il compito di produrre, immagazzinare e curare la
manutenzione delle testate nucleari americane, ha precisato che si tratterebbe
comunque di esperimenti sub-critici e di esplosioni non nucleari, in linea con
il CTBT.
Tuttavia la
percezione di un mutamento è rimasta forte, tanto più che Vladimir Putin ha
sentito il bisogno di comunicare di aver dato istruzioni al Ministero degli
Esteri, a quello della Difesa, ai Servizi e alle altre Agenzie interessate di
fare il possibile per raccogliere ulteriori informazioni, onde analizzarle in
sede di Consiglio di Sicurezza ed eventualmente per prepararsi a una ripresa
dei test nucleari.
Naturalmente non
si tratterebbe in nessun caso di esplosioni condotte nell’atmosfera,
all’aperto, come negli anni iniziali dell’era atomica, ma di ben più limitate e
controllate esplosioni sotterranee. Ma sarebbe comunque un grosso passo
indietro in direzione di una ripresa della corsa agli armamenti nucleari.
I negoziati tra
Usa, Russia e Cina
Non sappiamo
ancora cosa accadrà. La via maestra per evitare il peggio sarebbe quella di
negoziare un nuovo accordo sulla limitazione delle armi strategiche. Per il
momento, Putin ha proposto di estendere per un anno, su base volontaria, il
rispetto dei limiti fissati dallo START. Trump ha reagito positivamente, ma poi
non se ne è saputo più niente.
Gli Stati Uniti in
particolare sembrano preoccupati per le conseguenze sugli equilibri strategici
del riarmo cinese. Tanto più che Pechino mantiene fermo il suo rifiuto a
partecipare a eventuali negoziati per il controllo (e la possibile riduzione)
delle forze nucleari. Molti analisti ritengono che gli Usa potrebbero avere
difficoltà a sostenere la credibilità della loro deterrenza nucleare, in
particolare per proteggere i loro alleati in Europa e nel Pacifico, se
dovessero rispondere a una minaccia coordinata e contemporanea da Mosca e da
Pechino. A loro avviso ciò richiederebbe un numero di testate strategiche
operative più alto di quello stabilito dallo START.
Un processo di
riarmo nucleare è quindi possibile, anche se si riuscisse a evitare una ripresa
degli esperimenti con esplosioni nucleari. Questo, a sua volta, potrebbe avere
un impatto disastroso sulla tenuta del Trattato di Non Proliferazione (TNP),
che ha sinora limitato l’accesso di molti paesi all’arma atomica.
Il futuro della
deterrenza europea e della non proliferazione
Allo stesso tempo,
come conseguenza dell’aggressività russa da un lato e dei dubbi che circolano
sulla piena credibilità dell’ombrello protettivo americano per i paesi non
nucleari della Nato, è iniziato anche in Europa un complesso dibattito sul
futuro della deterrenza che riguarda sia un necessario aggiornamento della
strategia nucleare alleata, sia un possibile maggior ruolo da affidare a
Francia e Regno Unito, sia più in generale il futuro della non proliferazione.
Tutto questo,
infine, non potrà non avere conseguenze importanti sulla prossima Conferenza
dei paesi membri del TNP, che potrebbero rivelarsi drammatiche, tanto più se
ricordiamo il sostanziale fallimento delle due ultime Conferenze.
Siamo insomma ben
lontani dall’uscita dall’era atomica. Al contrario, cresce l’urgenza di una
maggiore attenzione e di nuove iniziative per il controllo degli armamenti
strategici. Stefano Silvestri, AffInt 12
Gli interventi per il rafforzamento del “Turismo delle radici”
ROMA – Si è svolto
a Villa Madama l’evento di presentazione degli interventi per il rafforzamento
del “Turismo delle radici” finanziati con il Fondo Sviluppo e Coesione.
L’incontro è stato moderato dalla giornalista Giovanna Pancheri. “Il Turismo
delle Radici è un progetto del PNNR – ha spiegato nel suo intervento il
Ministro degli Esteri Antonio Tajani – che era stato assegnato al Maeci prima
del mio arrivo in questo dicastero. Questo progetto, che ho considerato di
grande interesse, ha come obiettivo quello di far ritornare nel nostro Paese i
discendenti degli italiani all’estero per fargli conoscere i luoghi dove hanno
vissuto e da dove sono partiti i loro antenati che hanno scelto la via
dell’emigrazione”. “Abbiamo sviluppato questa iniziativa – ha continuato il
Ministro – anche attraverso la valorizzazione de piccoli comuni che hanno
bisogno di maggiore attenzione. Sono venuti alla Farnesina centinaia sindaci e
abbiamo finanziato tanti comuni del sud e del nord del nostro Paese. Alla luce
degli ottimi risultati nell’utilizzo dei fondi del PNNR, di cui ringrazio i
nostri funzionari, abbiamo ottenuto dal CIPESS un finanziamento aggiuntivo di
200 milioni di euro per realizzare progetti pilota nelle aree dove si possono
utilizzare i fondi di coesione, cioè il centro e il sud del nostro Paese”.
Tajani ha poi sottolineato come questi nuovi progetti riguarderanno, con opere
di ammodernamento, in primo luogo l’aeroporto di Fiumicino, dove giungono i
turisti, e nella capitale l’impianto che ospita grandi eventi tennistici, in
considerazione del fatto che lo sport rappresenta uno strumento di attrazione e
un biglietto da visita del nostro Paese. Un altro progetto sarà sviluppato nel
sud del Lazio per il miglioramento di un grande parco che si trova nell’area di
Frosinone e Latina. Un contesto che ha registrato grandi flussi emigratori
verso le Americhe e l’Australia. Segnalata dal Ministro anche un’altra
iniziativa di ammodernamento che verrà portata avanti in provincia di Avellino
dove nel capoluogo manca una stazione ferroviaria. In questo contesto, oltre
alla stazione, verrà recuperata una ferrovia storica turistica e un percorso
religioso che attraversa diverse regioni. “Valorizzare il Mezzogiorno –
ha aggiunto Tajani – significa anche permettere al turista che viene nel nostro
Paese di ammirare l’arte e la natura, ma anche di poter rimanere per lunghi
periodi, ad esempio per fare pratica sportiva. Quindi i progetti del Lazio e
della Puglia guardano anche alla possibilità di realizzare infrastrutture sportive.
Quindi l’iniziativa punta ad accogliere più turisti, ma anche a dare
beneficio al territorio”. Il Ministro ha poi sottolineato come il lavori si
svolgeranno attraverso un’attenta gestione del denaro pubblico e in
trasparenza, Verrò inoltre creato un Comitato esterno incaricato di monitorare
l’attuazione degli interventi. La realizzazione dei progetti sarà
governata dagli Enti esecutori: la Provincia di Avellino, il Comune di
Fiumicino, l’Amministrazione del Parco di Ausonia e del Lago di Fondi e Sport e
Salute. Tajani ha infine segnalato che dal Ministero dell’Interno sono stati
stanziati 20 milioni di euro per la sicurezza delle aree coinvolte.
“Più di un anno fa
– ha ricordato nel suo intervento il Presidente della National Italian American
Foundation, Robert V. Allegrini – ho firmato un accordo con il Ministro Tajani
affinché la Niaf fosse partener ufficiale del Maeci nell’iniziativa Turismo delle
Radici negli Stati Uniti. Quando la Niaf si è impegnata a promuovere questa
iniziativa abbiamo abbracciato una verità semplice. ma potente: il modo
migliore per gli italo americani di connettersi con le loro radici e quello di
visitare l’Italia, ovvero camminare nelle stesse strade dei loro antenati,
gustare i sapori autentici della loro tradizione di famiglia e sentire quel
profondo senso di appartenenza che vive e che viene solo dal toccare le proprie
radici”. Allegrini ha poi spiegato come le iniziative della Niaf in
questo ambito si siano sviluppate attraverso i canali social al fine di poter
condividere storie
autentiche della comunità italo americana. “Abbiamo fatto interviste sincere –
ha aggiunto Allegrini – con i nostri stimati membri del consiglio e con gli
studenti, catturando le loro esperienze di visita alla terra dei loro antenati,
viaggi che hanno formato la loro identità culturale. Abbiamo anche
lavorato con influencer italo americani, ampliando il nostro messaggio per
raggiungere centinaia di migliaia di italo americani e guidarli a scoprire le
loro storie attraverso Italea.com. I risultati sono stati straordinari con più
di 40 video e abbiamo raggiunto oltre 2,5 milioni di italo americani”. “Questa
iniziativa dimostra . ha concluso Allegrini – che il legame tra il nostro Paese
e la diaspora italiana rimane indistruttibile. Non siamo turisti, siamo figli
che tornano a casa”.
Ha poi preso la
parola il nuovo Direttore generale per gli italiani all’estero e le politiche
migratorie della Farnesina Silvia Simoncini che, dopo aver ringraziato il
Ministro Tajani per l’incarico, ha affermato: “Da ex console che ha operato sul
campo conosco quanto siamo importanti i consolati e le ambasciate che sono al
servizio delle comunità all’estero a cui erogano i servizi. I consolati e le
ambasciate – ha aggiunto Simoncini – valorizzeranno e celebreranno il progetto
del Turismo delle Radici attraverso percorsi ed eventi con i quali potranno
condividere le tradizioni dei nostri bellissimi borghi e la cultura dei nostri
piccoli comuni italiani da cui proviene gran parte dell’emigrazione italiana.
Coloro che vorranno ricercare le proprie radici, visualizzare con i propri
occhi i luoghi dei racconti dei propri nonni, potranno quindi farlo attraverso
questo progetto e grazie all’impegno delle nostre ambasciate e consolati.
Quindi – ha concluso – c’è tantissimo lavoro da fare. Noi ci siamo già rimboccati
le maniche”.
Ha poi preso la
parola Carmine De Angelis, Consigliere alla Vice Presidenza del Consiglio per
gli enti locali e la programmazione europea, che ha rilevato come il progetto
del turismo delle radici nasca con l’idea di coinvolgere “l’Italia che è fuori
dall’Italia” e che non ha rescisso il legame storico culturale con i suoi avi.
De Angelis, dopo aver segnalato che a testimonianza del buon governo già
nell’ottobre del 2024 l’80% delle risorse dedicate dal PNNR al Turismo delle
Radici erano state spese, ha sottolineato come il fatto dare migliori servizi
ai piccoli centri del nostro Paese possa essere lo “specchio del rientro
italiano”. Per quanto riguarda le nuove risorse arrivate con l’accordo di
coesione De Angelis ha evidenziato come attraverso i progetti pilota si
lavorerà per favorire nei luoghi di origine maggiore mobilità e
riqualificazione urbana, in modo da far vivere ai turisti di ritorno una
positiva esperienza. E inoltre intervenuto, Raffaele Squitieri,
Presidente del Comitato di Monitoraggio e Valutazione. Squitieri ha spiegato
che il Comitato monitorerà l’attuazione degli interventi sotto il profilo
dell’efficacia, dell’efficienza e della legalità e darà pareri su specifiche
questioni. “Lo scopo del Comitato – ha aggiunto Squitieri – non è quello
dei controlli, che verranno fatti dagli appositi organi, ma di verificare, con
una visione dall’alto, la correttezza dell’insieme delle realizzazione”.
Si poi tenuta una
tavola rotonda con i rappresentanti dei soggetti attuatori dei progetti. Ha
aperto il dibattito il Presidente della provincia di Avellino Rizieri
Buonopane. “Sono interventi importanti – ha sottolineato Buonopane – per un
territorio che necessita di attenzione, ed il fatto che la Farnesina abbia
voluto investire in una regione del sud Italia, è per noi una grande
opportunità, ma allo stesso tempo una sfida. Questo intervento cala su 400mila
abitanti circa.
Perdiamo ogni anno
in media 3000 residenti, quindi il fenomeno dello spopolamento è molto
avvertito. Il tema principale – ha continuato Buonopane – è quello del
lavoro, ma c’è anche la mancanza dei servizi, ed è un ulteriore motivo per cui
abbiamo colto questa opportunità. Il Presidente della provincia ha poi
spiegato come un obiettivo importante sia anche quello di collegare il
capoluogo attraverso la tratta ferroviaria ad alta velocità Avellino –
Benevento. Ha poi preso la parola il Sindaco del comune di Fiumicino Mario
Baccini che ha sottolineato come questo progetto si prefigga sia di ricollegare
le radici culturali di un’italianità che rischia di disperdersi nel mondo, sia
di creare, grazie ai finanziamenti pubblici, una continuità e solidità storica,
che pone al centro la riqualificazione del patrimonio culturale, ma anche
edilizio. La città di Fiumicino – ha concluso Baccini – non è solo una città
aeroportuale, ma è anche una città di bonificatori, che hanno bonificato in
passato vari parti del territorio come appunto Fiumicino o Latina … oggi
tramite questo progetto viene riacquistata sostanza, cultura e soprattutto
speranza nel futuro”. È poi intervenuto il Presidente dell’Ente Parco Naturale
Regionale Monti Ausoni e Lago di Fondi, Giuseppe Incocciati. “Con voi oggi
– ha affermato Incocciati – voglio condividere una visione che unisce la
conservazione della natura con lo sviluppo consapevole del nostro territorio.
L’accordo di coesione, relativo al parco naturale regionale dei monti Ausoni e
Lago di Fondi, rappresenta una promessa, quella di trasformare i nostri laghi
in modelli di sostenibilità, dove l’economia e l’ambiente sono alleati”.
Il Presidente ha elencato una serie di migliorie ecosostenibili, dal punto di
vista della mobilità all’interno del parco, come ad esempio l’introduzione di
cicloturismo, battelli elettrici, riqualificazione dei percorsi, installazione
di pontili. L’obiettivo, ha spiegato Incocciati, è quello di offrire un
turismo di tipo alternativo, dove il risparmio energetico, diventi un
investimento a lungo termine e sicuro per l’ambiente. Ha infine ha preso la
parola l’Amministratore Delegato di Sport e Salute, Diego Nepi Molineris
che si è soffermato sul progetto che riguarda il Foro Italico a Roma “Un maxi
progetto, – ha spiegato – dove si cerca di coniugare lo sviluppo del nuovo
campo centrale, sia dal punto di vista energetico, che dal punto di vista
ingegneristico, sotto un profilo del design made in italy. Lo scopo è quello di
far sì che questo sia un punto di riferimento ed di orgoglio anche per un
turismo di ritorno”. Molineris ha auspicato la chiusura dei due progetti tra il
2027 e il 2029 , con una possibile ulteriore accelerazione. Il dibattito
si è concluso con il Ministro Tajani, che ha consegnato ai 4 relatori un
vassoio con l’emblema della Farnesina, accompagnato da un attestato.
Lorenzo Morgia,
Inform/dip 21
Storia dell’emigrazione italiana: il Ministero dell’Istruzione invita
le scuole ad insegnarla
ROMA – Il
Ministero dell’Istruzione e del Merito invita le Scuole ad inserire la storia
dell’emigrazione italiana nei percorsi didattici dell’anno scolastico
2025/2026. Lo fa attraverso la Nota del 4 novembre 2025 (n. 70898) indirizzata
alle istituzioni scolastiche, statali e paritarie nella quale si legge che la
Direzione Generale per gli ordinamenti scolastici, la formazione del personale
scolastico e la valutazione del sistema nazionale di istruzione del Ministero
dell’Istruzione e del Merito d’intesa con la Direzione Generale per gli
Italiani all’Estero e le Politiche Migratorie del Ministero degli Affari Esteri
e della Cooperazione Internazionale promuove l’attenzione sull’insegnamento
della storia dell’emigrazione italiana. L’indicazione all’insegnamento della
storia dell’emigrazione non è vincolante ma caldeggiata: nel rispetto
dell’autonomia progettuale, organizzativa e didattica delle singole istituzioni
scolastiche e di quanto previsto dalla normativa vigente per il primo e secondo
ciclo di istruzione, si invitano le scuole di ogni ordine e grado a favorire lo
studio di momenti storici, tematiche economiche e sociali, eventi politici,
aspetti culturali ed antropologici legati all’emigrazione italiana. Nella
Nota si ricorda che il fenomeno dell’emigrazione italiana riguarda nella
dimensione temporale un lungo periodo della storia contemporanea – in
particolare dalla seconda metà del XIX secolo fino ai nostri giorni – e nella
dimensione spaziale molti Paesi dei cinque continenti, oltre a interessare lo
stesso territorio nazionale. Il Ministero indica che nell’ambito del primo
ciclo di istruzione, le migrazioni possono essere declinate in termini di
emigrazione italiana e della sua complessa fenomenologia economica, sociale,
politica e culturale, rilevandone le costanti, le differenze e le evoluzioni
nel tempo e nello spazio. Per quanto riguarda la scuola secondaria di secondo
grado, l’insegnamento della storia dell’emigrazione italiana può essere
previsto sia attraverso l’approfondimento dei principali processi di trasformazione
tra la fine del secolo XIX e il secolo XXI a livello mondiale (ad esempio:
industrializzazione e società post-industriale; globalizzazione; modelli
culturali a confronto); sia mediante l’esame di nuclei tematici della Storia
d’Italia, come la crisi economica e sociale alla fine dell’Ottocento; l’età
giolittiana; il secondo dopoguerra; la ricostruzione; la crisi energetica del
1973 e l’austerity. Il Ministero fa osservare che la tematica dell’emigrazione
italiana consente di mettere in relazione le diverse discipline previste dai
curricoli del primo e del secondo ciclo; pertanto, la sua trattazione ben si
presta – si sottolinea nella Nota – un approccio interdisciplinare, alla
valorizzazione del territorio e delle comunità locali, alla collaborazione con
musei, archivi e biblioteche, all’utilizzo della formazione scuola-lavoro, al
ricorso a didattiche innovative e orientative. Da un punto di vista
strettamente storico, eventuali percorsi didattici potrebbero essere affrontati
anche attraverso il ricorso alla public history, la quale consente la
possibilità di svolgere attività didattiche nei settori della conservazione
storica, dell’archivistica, della storia orale e della curatela museale in
istituzioni come musei, archivi, dimore, siti, parchi, società cinematografiche
e televisive. Al fine di agevolare le attività delle istituzioni scolastiche,
il Ministero allega anche un elenco di Musei e Fondazioni dell’emigrazione in
Italia, predisposto dalla Direzione generale per gli Italiani all’estero e le
politiche migratorie del Ministero degli Affari esteri e della cooperazione
internazionale: Fondazione Genti d’Abruzzo Onlus, ente gestore del Museo delle
Genti d’Abruzzo; Museo Emigrazione Lucana – Centro Lucani nel Mondo “Nico
Calice” ; Museo del Cognome e Casa Museo “Joe Petrosino” ; Museo Casa
dell’Emigrante Cilentano; La Nave della Sila; Museo del Mare, dell’Agricoltura
e delle Migrazioni; Centro di Documentazione dell’Emigrazione Parmense Bedonia
; Museo Emigrazione Scalabrini; Museo Nazionale dell’Emigrazione Italiana ;
MuSel – Museo Archeologico e della Città di Sestri Levante; MEMA – Museo
dell’Emigrazione Marchigiana; Museo dell’Emigrante – Centro di ricerca
sull’emigrazione , San Marino; Museo Comunale delle Migrazioni, Vinchiaturo;
Museo Emigrazione Molise; Centro Studi Silvio Pellico ETS, Comitato di gestione
del Museo Regionale dell’emigrazione dei Piemontesi. (Inform/dip 5)
La Sicilia che perde i suoi giovani migliori
La Sicilia
continua a perdere ciò che di più prezioso possiede: i suoi giovani laureati.
Non partono più con le valigie di cartone, ma con curricula brillanti,
competenze specialistiche e una formazione costata anni di investimenti
pubblici. Eppure, queste energie non trovano spazio nella loro terra.
L’emigrazione di
oggi è figlia di un retaggio antico. A scuola studiavamo su libri stampati
altrove, che raccontavano solo paesaggi e modelli economici del Nord. Già
allora imparavamo, silenziosamente, che il futuro non sarebbe stato qui. Così
generazioni di ragazzi hanno interiorizzato l’idea che “per diventare qualcuno”
bisogna partire.
E mentre loro
partivano, la Sicilia si impoveriva.
La fuga dei
laureati è un depauperamento culturale che abbassa il livello di dialogo,
confronto e innovazione. Ogni giovane che se ne va porta con sé non solo
competenze, ma la possibilità stessa di cambiare questa terra. Il risultato è
una società più fragile, meno critica, più esposta ai vecchi problemi.
Si parla spesso di
mafia come causa di ogni ritardo, ma la mafia è soprattutto un sintomo: nasce
dove mancano prospettive reali. Quando un territorio non offre opportunità ai
suoi migliori giovani, si condanna da solo all’arretratezza.
Intanto migliaia
di siciliani si affermano a Milano, a Bologna, a Torino, e sempre più spesso
all’estero, dove vengono riconosciuti come professionisti preparati e capaci.
Qui, invece, il loro talento resta invisibile.
La Sicilia ha
accolto popoli da ogni parte del mondo, ma oggi restituisce al mondo i suoi
figli migliori. E ogni partenza è una sconfitta collettiva.
Se vogliamo
invertire la rotta, non bastano slogan. Servono investimenti veri, ricerca
vera, imprese che assumano davvero.
Serve capire che
trattenere un giovane non è un favore: è un atto di sopravvivenza.
Giuseppe Tizza,
de.it.press 25
Il 3 dicembre a Verona si celebrano i 70 anni dell’accordo italo-tedesco
sul lavoro
Mercoledì 3
dicembre a Verona si celebreranno i 70 anni dell’accordo italo-tedesco sul
lavoro, firmato il 20 dicembre 1955. L’iniziativa è promossa dal Comune di
Verona in collaborazione con MEI– Museo Nazionale dell’Emigrazione Italiana.
Una ricorrenza che
– sottolineano dal MEI – non è solo l’anniversario di un documento diplomatico,
ma il ricordo di un capitolo umano che ha segnato profondamente la vita di
centinaia di migliaia di persone e ha contribuito a costruire un’identità
europea condivisa. Quel protocollo di lavoro infatti ha dato avvio a una
migrazione significativa: grazie ad esso, tra il 1955 e la metà degli anni ’70,
oltre 500.000 italiani furono assunti nella Germania Ovest. Molti di loro
tornarono in Italia, ma una parte si stabilì definitivamente, dando vita a
comunità italo-tedesche tuttora vive e radicate. La commemorazione
dell’“Accordo fra la Repubblica italiana e la Repubblica Federale di Germania
per il reclutamento e il collocamento di manodopera italiana”, che si svolgerà
nel suggestivo Palazzo della Gran Guardia, si articolerà in due momenti: un
convegno mattutino e la prima nazionale del documentario “Un sogno italiano”,
prodotto da Orisa Produzioni, nel pomeriggio. Un anniversario che invita a
ripercorrere le storie di chi partì dall’Italia, e anche da Verona, verso la
Germania del dopoguerra, contribuendo alla ricostruzione di entrambi i Paesi e
ponendo le basi di quella che oggi riconosciamo come cittadinanza europea. Un
evento quanto mai significativo per Verona, città gemellata con Monaco di
Baviera, legame che rende ancora più profondo il valore di questa ricorrenza e
del dialogo italo-tedesco che sarà ricostruito durante l’incontro. La
mattinata si aprirà alle ore 9.30 con i saluti istituzionali del Sindaco di
Verona Damiano Tommasi e di altri rappresentanti del Comune di Verona, del
Presidente di Fondazione MEI Paolo Masini – che farà da moderatore della
giornata -, del Console Generale della Repubblica Federale di Germania a Milano
Wiltrud Christine Kern, dell’Ambasciatore d’Italia in Germania Fabrizio Bucci,
del Chief Corporate e Communication Officer Gruppo FS Giuseppe Inchingolo,
della Segretaria Generale del CGIE Maria Chiara Prodi e della Presidente del
Com.It.Es. di Monaco di Baviera Daniela di Benedetto, che con un breve
intervento sottolineerà il significato di una memoria condivisa tra le comunità
italiane di Verona e della Baviera (“Ricordare l’emigrazione, comprendere
l’emigrazione: un ponte tra Verona e Monaco e oltre”).
Nel corso del
convegno, gli interventi offriranno una lettura articolata e multidisciplinare
dell’emigrazione italiana verso la Germania, intrecciando storia, archivi,
testimonianze e nuove mobilità. Si partirà con Elia Morandi, che racconterà il
ruolo centrale giocato dal Centro di Emigrazione di Verona, nodo essenziale per
migliaia di lavoratori che partirono verso la Germania nel dopoguerra; a
seguire, gli studenti del Liceo Artistico Statale di Verona (sede che un tempo
ospitava il Centro di Emigrazione) presenteranno “Storie comuni”, un’iniziativa
nata all’interno di un progetto internazionale dedicato alla ricerca di
narrazioni condivise sul tema della migrazione, restituendo attraverso la voce
dei più giovani un punto di vista fresco e sensibile. Il quadro si allargherà
poi alle politiche tedesche grazie all’intervento di Franco Valenti, che
illustrerà gli strumenti di inserimento e inclusione messi in atto dalla
Germania, mettendo in luce i cambiamenti avvenuti nel corso dei decenni.
Un contributo fondamentale arriverà da Federica Onelli del MAECI, che
presenterà l’Archivio Storico Diplomatico come una delle principali fonti per
ricostruire la storia dell’emigrazione italiana, indispensabile per comprendere
il contesto istituzionale in cui si sviluppò l’esodo verso la Germania. La
migrazione veronese verrà approfondita dalla prof.ssa Federica Bertagna, che
illustrerà le vicende conservate nell’Archivio del Centro di Emigrazione di
Verona, riportando alla luce le storie degli espatri assistiti da Verona e
provincia e mostrando come questo territorio sia stato un punto di partenza
significativo nel grande movimento migratorio degli anni ’50 e ’60. Lo sguardo
si sposterà poi sul presente con l’analisi di Delfina Licata della Fondazione
Migrantes, che presenterà i dati più recenti sulle comunità italiane nel mondo
e in particolare in Germania, soffermandosi sui nuovi profili della mobilità:
competenze, motivazioni, aspirazioni e trasformazioni che delineano una
presenza italiana diversificata e in continua evoluzione. Infine, Lorenzo Di
Lenna della Fondazione Nord Est approfondirà il fenomeno della mobilità
giovanile, con un’indagine dedicata ai ragazzi che, negli ultimi anni, hanno
scelto la Germania come destinazione privilegiata. Il focus veronese permetterà
di capire quanti siano, perché partano e quali aspettative portino con sé nel
rapporto con il mondo del lavoro. Il pomeriggio sarà invece dedicato alla
dimensione narrativa e cinematografica dell’emigrazione italiana. Sempre alla
Gran Guardia alle ore 18.00 la prima nazionale del documentario “Un sogno
italiano” (Orisa Produzioni), che ripercorre la storia di tanti italiani che
dagli anni ’50 hanno lasciato i loro paesi e le loro famiglie per imbarcarsi in
un’avventura sconosciuta che li avrebbe portati a contribuire alla crescita
stessa della Germania. Una vicenda del passato che può far riflettere sul
presente, sottolineando il valore di chi, inconsapevolmente, trasformò la
storia sociale europea. Ad anticipare la proiezione, che si svolgerà alla presenza
del Presidente della Fondazione MEI e delle istituzioni, il messaggio del
Presidente di Cinecittà, Antonio Saccone e gli interventi di Fausto Caviglia
(regista), Cristiano Bortone (produttore) e Antonio Padovani (co-produttore).
Sarà proiettato il docufilm, della durata di 90 minuti, seguito da un breve
momento di domande e risposte con il pubblico.
La proiezione sarà
a ingresso gratuito: istituzioni, associazioni che lavorano sul tema delle
migrazioni, università, centri di ricerca e cittadini sono invitati a
partecipare. Sarà un’occasione per riflettere insieme sulle radici
dell’emigrazione italiana e sul suo lascito europeo, ma anche sulle nuove forme
di mobilità che oggi uniscono Italia e Germania in un dialogo profondo e
duraturo. (Inform 28)
La vita guarisce senza testimoni
Questa frase è
silenziosamente rivoluzionaria, perché distrugge la credenza popolare che la
guarigione esista soltanto quando qualcuno la vede, la riconosce o la
convalida. Gli esseri umani hanno creato una cultura in cui il dolore deve
essere mostrato, la tristezza deve essere spiegata, la sofferenza deve essere
provata davanti agli altri — quasi come un processo davanti al tribunale
dell’opinione sociale. Ma la verità è il contrario: la vita lavora nel dominio
invisibile, la natura lavora negli strati nascosti, la trasformazione avviene
silenziosamente nel cuore umano quando nessuno ci osserva, nessuno ci applaude,
nessuno ci consola, nessuno sa quale battaglia stiamo combattendo. La
guarigione profonda non è dramma; è evoluzione interiore. E l’evoluzione non ha
bisogno della folla. Ha bisogno del tempo.
Ogni essere umano
attraversa notti oscure, transizioni difficili, delusioni silenziose, crolli
emotivi e ferite dell’anima. Ma non dichiariamo ogni momento di sofferenza. Il
mondo conosce soltanto una piccola parte del nostro dolore. Il vero peso che
portiamo nel petto rimane invisibile. E questo è un bene, non una tragedia.
Perché se ogni dolore avesse un testimone, la guarigione diventerebbe
spettacolo, e noi cominceremmo a recitare invece che evolverci. Il valore della
sofferenza interiore è che ci modella senza interferenze, senza
interpretazioni, senza i rumori delle menti altrui. Il dolore è un maestro che
insegna meglio quando nell’aula non c’è nessun spettatore.
Il Dr. Sethi K.C.,
ideatore della Sethian Philosophy e della Doctrine of Questions, dice: “Prima
di cercare le risposte, dobbiamo purificare le domande interiori.”
La maggior parte
soffre non perché la vita è complicata, ma perché le domande dentro di noi sono
formulate male. Una domanda corretta cambia la direzione della mente, e la
guarigione inizia. Anche questo avviene senza testimoni. La mente comincia a
guarire nel momento stesso in cui inizia a porsi la domanda giusta.
Durante il lungo
cammino con la psicologia, il comportamento umano, la creatività, la
letteratura e la riflessione filosofica, il Dr. Sethi K.C. ha scoperto che le
correzioni più profonde del carattere avvengono internamente attraverso i
dialoghi silenziosi con se stessi. Nessun dottore, nessun professore, nessun
amico, nessun terapeuta può entrare in quel santuario. Il mondo può guidare, ma
non può guarire. La guarigione è auto-generata. La guarigione è un meccanismo
automatico dell’esistenza. Siamo nati con la capacità interna di riparare, così
come la terra ripara se stessa dopo le tempeste, così come il corpo ripara i
tessuti dopo le ferite, così come la natura si riassesta dopo la distruzione.
L’universo ha progettato l’essere umano con una straordinaria capacità di
recupero, ma la magia è visibile solo quando siamo abbastanza pazienti da
lasciare che il tempo faccia il suo lavoro silenzioso.
Le persone si
lamentano che nessuno le ha capite, sostenute, accompagnate nei momenti più
duri. Ma spesso proprio queste condizioni sono quelle che fanno nascere la vera
autosufficienza. In assenza di sostegno nasce la forza interiore. In assenza di
pubblico nasce l’auto-validazione. In assenza di consigli nasce la chiarezza
intuitiva. Non sempre è una maledizione camminare soli. Molte volte è una
benedizione. Perché la solitudine porta in superficie la voce dell’io
interiore. E quella voce è il vero guaritore. Il conforto esterno è temporaneo;
la chiarezza interna è eterna.
Oggi persino le
emozioni sono state trasformate in spettacolo. I social media sono diventati un
teatro dove si pubblica anche il dolore, nella speranza che qualcuno commenti,
qualcuno ci compatirà. Ma nulla sullo schermo può guarire la ferita nel cuore. I
“like” non curano. I commenti non trasformano. Il riconoscimento esterno non
può sostituire la realizzazione interna. La vera guarigione avviene quando
cominciamo un dialogo con la nostra mente. Comprendiamo l’architettura segreta
dell’attaccamento quando il cuore si spezza, la fragile struttura
dell’aspettativa quando la fiducia fallisce, e la forza nascosta
nell’accettazione quando i sogni crollano. Questi non sono doni che possono
venire dagli altri. Arrivano nel silenzio. E quando queste comprensioni entrano
nell’anima, siamo guariti, anche se nessuno nel mondo sa che una trasformazione
è avvenuta.
Il tempo è il più
grande filosofo. Con il tempo tutto appare diverso. Ciò che ci ferisce diventa
il nostro insegnamento. Ciò che ci spezza diventa la nostra forza. Ciò che ci
delude diventa la nostra maturità. E in tutto questo, quasi sempre, il mondo non
sa nulla della rivoluzione interna. Il mondo vede solo la versione raffinata
finale di noi. Non vede le notti in cui abbiamo pianto, le mattine in cui
abbiamo dubitato della vita, i pomeriggi in cui abbiamo dubitato di noi stessi,
i momenti in cui abbiamo pregato in silenzio forze invisibili dell’universo.
Questa è la bellezza dell’evoluzione interiore. La crescita non ha bisogno di
testimoni. Ha bisogno di volontà.
La vita allontana
silenziosamente dal nostro mondo le persone che non sono allineate con il
nostro destino. La vita cambia condizioni che non sono allineate con la nostra
crescita. La vita riorganizza circostanze che non sono allineate con la nostra
missione. E in questo processo la vita dissolve anche i vecchi modelli emotivi
che non servono più. Questo processo invisibile è guarigione. E la vita lo fa
senza chiedere permesso e senza informare nessuno.
La chiusura non
viene dagli altri. La chiusura è una frase che diciamo a noi stessi: “Questo
capitolo è finito.” In quella frase inizia la libertà interiore. Questa libertà
è il primo segno della guarigione profonda.
La guarigione non
è lineare. Arriva a onde. A volte tutto va bene, e a volte ritornano vecchi
ricordi. Ma anche quando il dolore ritorna, noi non siamo più la stessa persona
che lo ha sentito la prima volta. Questo cambiamento è guarigione. La ferita
esiste ancora, ma non pesa più allo stesso modo. La guardiamo con occhi
diversi. Questo cambiamento non è visibile agli altri, ma dentro di noi una
profonda trasformazione è avvenuta.
C’è una dignità
nella guarigione invisibile.
La dignità di
essere auto-costruiti.
La dignità di non
dipendere dalla convalida esterna.
Quando un seme si
rompe sotto terra per diventare pianta, nessuno vede la rottura. Ma tutti
vedono la pianta. Allo stesso modo, quando il cuore umano si spezza e guarisce,
nessuno vede la rottura. Ma un giorno si vede un nuovo sé — più calmo, più
saggio, più profondo.
E allora lo ripeto
con convinzione: La vita guarisce senza testimoni.
E questa verità,
quando viene realizzata profondamente, porta una pace immensa. Perché smettiamo
di cercare convalida esterna per le nostre battaglie interiori. Cominciamo a
rispettare le nostre metamorfosi silenziose. Cominciamo a fidarci dei processi
invisibili della vita. La guarigione non è un evento; è un processo. In questo
processo il silenzio è il compagno, il tempo è il medico, l’esperienza è la
medicina, la riflessione è la terapia, e la saggezza è la destinazione. Tutto
il resto è rumore.
Un giorno, senza
annuncio, ci svegliamo e scopriamo che la ferita è diventata storia, il dolore
è diventato lezione, il lutto è diventato memoria e la lotta è diventata forza.
E quel giorno sorridiamo in silenzio, non perché qualcuno ha visto la nostra guarigione,
ma perché noi stessi abbiamo vissuto il miracolo dentro. Sì, la vita guarisce
senza testimoni. E questo è il segreto più divino dell’esistenza umana.
Dr. Sethi Krishan
Chand, de.it.press 12
La Settimana della Cucina Italiana nel Mondo
ROMA – E’ stata
presentata a Villa Madama la decima edizione della Settimana della Cucina
Italiana nel Mondo che quest’anno è dedicata al tema “La cucina italiana tra
salute, cultura e innovazione”. Questa edizione dell’evento si prefigge
di sostenere la candidatura della cucina italiana a Patrimonio culturale
immateriale dell’Unesco, nonché di valorizzare la cucina italiana come
modello alimentare sano e sostenibile e di porre l’accento sugli aspetti di
innovazione e ricerca che contraddistinguono tutto il ciclo alimentare, dal
campo alla tavola, fino a riciclo e smaltimento. Per l’occasione la rete estera
della Farnesina ha in programma più di undicimila iniziative in più di 100
Paesi. L’evento di presentazione è stato introdotto dal Ministro degli
Esteri Antonio Tajani. “Con la Settimana della Cucina Italiana nel Mondo,
grazie ai tanti appuntamenti che realizzano le nostre Ambasciate all’estero, –
ha esordito Tajani – vogliamo far conoscere sempre di più il meglio della
nostra cucina e dei nostri territori. Ho quindi voluto dare a questo evento un
taglio concreto e operativo per sostenere questo comparto strategico del nostro
tessuto produttivo e valorizzare la nostra filiera di eccellenza”. Il Ministro,
dopo aver sottolineato che il settore agroalimentare rappresenta il “fiore
all’occhiello della produzione italiana e del nostro export”, si è rivolto ai
giovani aspiranti chef presenti in sala evidenziando l’importanza di difendere
e promuovere nel mondo la dieta mediterranea che è fondamentale anche per la
nostra salute. “La politica estera – ha aggiunto Tajani – non la fanno soltanto
il Ministro con i diplomatici, ma tutti gli italiani che in giro per il mondo
esaltano il ruolo del nostro Paese”. “La cucina – ha proseguito il Ministro – è
uno strumento di dialogo, di confronto ed espressione dei nostri territori e
delle nostre tradizioni e della preparazione di ingredienti unici. Per questo
guardiamo con fiducia alla prossima decisione dell’Unesco sulla candidatura
della cucina italiana a Patrimonio Immateriale dell’Umanità. Abbiamo lavorato
su questo obiettivo con il massimo impegno e lo faremo fino all’ultimo
secondo”. “La cucina – ha poi rilevato Tajani – è anche innovazione, a
partire delle campagne dove i nostri agricoltori sono i migliori custodi dei
nostri territori. Un’innovazione che va coniugata con il rispetto delle nostre
tradizioni, delle nostre radici e dei nostri valori”. Il Ministro
ha anche segnalato come nel 2024 il nostro export agroalimentare abbia
raggiunto il record di 67, 5 miliardi con una crescita superiore all’8% . Un
andamento positivo che è continuato anche nei primi 8 mesi di quest’anno, dove
si è registrato un ulteriore aumento del 6%. “Promuovere all’estero la cucina –
ha aggiunto Tajani – serve a favorire anche l’arrivo dei turisti Italia.
Vogliamo anche fare leva sulla nostra bella lingua. Per questo la scorsa
settimana ho lanciato la Comunità dell’Italofonia. Uno spazio politico di
collaborazione tra quanti amano l’italiano e quindi il nostro Paese”. Il
Ministro ha inoltre evidenziato sia l’esigenza di difendere i prodotti italiani
dall’ Italian sounding, sia la creazione presso la Farnesina di una sala
operativa che si occuperà di export 24 ore su 24. “Il 17 dicembre inaugurerò a
Milano – ha poi segnalato Tajani – la terza edizione della Conferenza Nazionale
dell’Export. Saranno presenti tutti i nostri ambasciatori, e per la prima volta
i direttori degli uffici ICE all’estero, oltre agli esperti di Cassa Depositi e
Prestiti, Sace e Simest, e sarà possibile per i rappresentanti delle
imprese incontrarli singolarmente”. Il Ministro ha infine rilevato come la
Settimana si prefigga anche di valorizzare il cibo come strumento di
cooperazione, solidarietà e dialogo fra i popoli. In questa prospettiva,
nell’ambito dell’iniziativa “Food for Gaza”, il 4 dicembre prossimo partirà
dalla base di Brindisi delle Nazioni Unite un volo diretto per Gaza con cento
tonnellate di prodotti alimentari per aiutare la popolazione civile. Previsto
anche l’invio di una nave cargo con aiuti umanitari per l’iniziativa “Italy for
Sudan”.
“La candidatura
Unesco per la cucina italiana – ha affermato il Ministro dell’Agricoltura
Francesco Lollobrigida in un video messaggio di saluto – rappresenta un
riconoscimento per il lavoro di quanti operano in questo settore, dove la
qualità è un elemento essenziale per garantirci valore aggiunto”. “Giudico
essenziale – ha proseguito il Ministro – la possibilità di rappresentarci
proprio sul piano internazionale, come capaci di garantire un punto di
riferimento a coloro che vedono nel Made in Italy non solamente un bene ‘fatto
in Italia’, ma un prodotto bello, buono e da comprare”. “Le nostre Ambasciate –
ha poi rilevato Lollobrigida – sono vere e proprie vetrine e grazie alla nostra
diplomazia nel mondo vengono utilizzate non solo per tenere i contatti con le
altre Nazioni, ma anche per farsi attivi promotori del nostro modello e delle
nostre imprese. Rappresentano un punto di riferimento saldo per gli
imprenditori che stanno in Italia e per quella moltitudine eccezionale dei
cittadini che all’estero amano l’Italia sia perché sono figli o nipoti di
questa nazione, sia perché vengono messi in contato con il nostro modello, il
nostro cibo, le nostre bellezze, la nostra biodiversità e la nostra
musica. E tutto questo avviene grazie alle nostre sedi diplomatiche”. “Chi
celebra la cucina italiana – ha concluso il Ministro – apre una finestra
sull’Italia. Un invito a vedere il nostro Paese che incrementa anche il nostro
turismo e favorisce l’acquisto di prodotti italiani”.
Anche il
Presidente dell’Agenzia ICE Matteo Zoppas ha parlato della Settima della Cucina
come di una finestra che capace di mostrare il valore intrinseco delle nostre
esportazioni. “In questa Settimana – ha spiegato Zoppas – noi sviluppiamo 174
iniziative in 103 paesi diversi, dando valore ad un momento strategico della
cucina italiana, un settore che non rappresenta solo ciò che consumiamo
al tavolo, ma che riguarda anche i tanti chef italiani , che sono i
nostri ambasciatori nel mondo”. Un valore aggiunto inestimabile, composto dalla
qualità dei tanti ristoranti e dai grandi chef italiani all’estero, che
contribuisce al brand Made in Italy nel mondo. Zoppas ha poi rilevato
come, nonostante i dazi americani, si registri una positiva crescita del nostro
agroalimentare. Secondo il Presidente dell’ICE, al fine di raggiungere gli
obiettivi dei 100 miliardi di esportazioni agroalimentari e dei 700 miliardi di
export totale italiano, occorre poi continuare a portare avanti un lavoro di
squadra, attraverso un sistema allargato promozionale che coinvolga oltre ai
ministeri, le varie associazioni di categoria.
Lorenzo Morgia,
Inform/dip 28
Cdp Cgie: progressi su anagrafe, CIE e SPID e concretezza operativa nelle
collaborazioni
ROMA - Ultima
riunione in presenza nel 2025 per il Comitato di Presidenza del Consiglio
Generale degli Italiani all’Estero che, guidato dalla segretaria
generale Maria Chiara Prodi, si è riunito a Roma il 18 e 19 novembre
scorsi. Una riunione “proficua”, riporta oggi il Consiglio generale, durante la
quale sono stati registrati “riscontri soddisfacenti” dagli interlocutori
istituzionali ed è stata impressa “concretezza operativa” alle collaborazioni
già avviate.
Alla Farnesina, il
Cdp si è confrontato con il sottosegretario Giorgio Silli e con il
Direttore generale uscente della Direzione generale per gli italiani all’estero
della Farnesina, Luigi Maria Vignali: da questi incontri, riporta il Cgie,
sono emerse interessanti novità in merito alle rivendicazioni del Consiglio
generale, come ad esempio la prossima attivazione del comitato
anagrafico-elettorale per l’allineamento delle anagrafi degli italiani
all’estero, il rilascio della CIE da parte dei Comuni italiani agli
iscritti AIRE e l’imminente soluzione della questione riguardante
l’attribuzione dello SPID agli operatori di patronato stranieri.
Il Maeci, inoltre,
si sta adoperando per fornire ai funzionari itineranti e ai Consoli
onorari gli apparecchi per il rilevamento dei dati biometrici per il
rilascio sia di passaporti che di carte d’identità entro il 2026; il Ministero
non è ad oggi in grado di fornire una data certa.
Rispetto alla CIE,
il Comitato di Presidenza ha sollecitato la Farnesina alla necessità di una
campagna informativa allo scopo di scoraggiare l’azione, nei Paesi dell’America
Latina, di intermediari senza scrupoli che diffondono notizie fuorvianti.
Quanto alla V
Assemblea plenaria della Conferenza permanente Stato-Regioni-PA-CGIE, dalla
Farnesina sono giunte “rassicurazioni” sull’efficace esito della
sensibilizzazione del Comitato di presidenza sui Gruppi parlamentari per la sua
convocazione formale da parte della Presidente del Consiglio, con l’auspicio di
svolgerla nell’autunno del prossimo anno.
Dalla discussione
intorno alla legge di Bilancio, invece, è emerso che lo stanziamento per
CGIE e Comites non risulta pienamente adeguato al loro corretto funzionamento.
I consiglieri proseguiranno, quindi, la “costruttiva interlocuzione” con gli eletti
all’estero affinché il Parlamento stabilisca di dotare delle risorse necessarie
i capitoli di spesa relativi alla rappresentanza per consentirle di svolgere
appieno i suoi compiti istituzionali. Sul tavolo anche la questione delle
risorse impegnate per le elezioni per il rinnovo dei Comites nel
2026 e la necessità di garantire la più ampia partecipazione al voto.
Il tema
prioritario dell’insegnamento della storia dell’emigrazione nelle scuole
italiane, al centro dell’agenda CGIE e oggetto di una recente circolare del
Ministero dell’Istruzione e del merito, è stato affrontato durante l’incontro
con il presidente della Fondazione Museo Nazionale dell’Emigrazione
Italiana Paolo Masini con il quale sono state gettate le basi per il
rinnovo della collaborazione fra le due istituzioni. L’impegno prevede azioni
comuni tese a evidenziare l’importanza dell’apporto della nostra diaspora e del
rafforzamento del suo legame con il Paese attraverso la conoscenza del suo
passato e la valorizzazione dei luoghi simbolo dell’emigrazione italiana nel
mondo. Un percorso – è stato sottolineato – che assume particolare significato
in vista delle importanti scadenze del prossimo anno: i quarant’anni dalla
istituzione dei Comites, il 35° anniversario dalla nascita del CGIE e il
ventesimo dalla prima partecipazione degli italiani all’estero alle elezioni
politiche, tappe fondamentali nella costruzione della piramide della
rappresentanza. Ricorreranno inoltre i 70 anni dal disastro di Marcinelle.
La necessità di
cambiare la narrazione imperante sugli italiani all’estero che li vuole
mostrare come un peso quando invece rappresentano una grande opportunità e
risorsa per il Paese è uno dei concetti emersi anche durante i lavori con
il CNEL per avviare la fase operativa dell’Accordo interistituzionale
siglato il 2 ottobre scorso a villa Lubin con il presidente Renato
Brunetta.
Con il
vicepresidente Claudio Risso e il consigliere diplomatico Luca
Trifone si è determinato di mantenere un rapporto stabile, con riunioni
costanti, e di programmare il lavoro comune entro la prima metà di dicembre
sugli ambiti di collaborazione previsti dall’Accordo interistituzionale
(crescita economica e sistema Paese, politiche di rientro, mobilità studentesca
e universitaria, ricerca scientifica e innovazione, partecipazione e
associazionismo), con l’obiettivo di sviluppare documenti di osservazioni e
proposte da sottoporre a Governo e Parlamento e presentare un primo disegno di
legge già nel 2026. Si è inoltre valutato di procedere a uno studio per stimare
l’apporto alla crescita del Paese delle collettività italiane nel mondo. I
rappresentanti del CNEL hanno inoltre fornito un aggiornamento sull’iter nel
Parlamento europeo della mozione per l’istituzione dell’8 agosto quale Giornata
europea del sacrificio sul lavoro, promossa dal presidente Brunetta e
convintamente sostenuta dal CGIE.
La riunione romana
è servita anche a perfezionare il regolamento e il bando del Premio
internazionale intitolato a Michele Schiavone, Segretario generale del CGIE
scomparso lo scorso anno, per le persone, gli enti e le associazioni che hanno
operato in favore e in difesa degli emigrati italiani o di origine italiana in
qualsiasi Paese del mondo, che vedrà le prime assegnazioni nel corso della
prossima Assemblea plenaria del Consiglio Generale.
Il pomeriggio del
18 novembre la segretaria generale Maria Chiara Prodi è intervenuta a
una tavola rotonda nell’ambito della Prima Conferenza internazionale
dell’italofonia, nel corso della quale ha ricordato il convegno promosso dal
CGIE a Montecatini nel 1996, che ha segnato il fondamentale punto di partenza
della promozione della lingua e della cultura italiana, altro tema prioritario
dell’agenda 2025.
In conclusione dei
lavori, il CdP ha incontrato il Segretario generale della Farnesina,
ambasciatore Riccardo Guariglia che ha dimostrato grande apertura nei
confronti del CGIE e illustrato la recente riforma del MAECI. L’incontro è
stato anche l’occasione per la presentazione della ministra
plenipotenziaria Silvia Limoncini, che sostituisce alla direzione della
DGIT l’ambasciatore Luigi Maria Vignali, nominato Rappresentante permanente
d’Italia presso le Nazioni Unite e le Organizzazioni Internazionali di Ginevra,
al quale è stato rivolto un caloroso ringraziamento per l’ottimo lavoro svolto
negli ultimi otto anni.
La questione della
recente riforma della cittadinanza, infine, sempre al centro dell’attenzione
del Consiglio Generale, è stata oggetto del confronto tra alcuni componenti del
Comitato di Presidenza, Parlamentari eletti all’estero ed esperti nell’ambito del convegno
“Italiani nel mondo: cittadinanza e identità – come cambiano le regole, le
tutele e i servizi” organizzato dalle associazioni I Sud del Mondo ed
Europa Mediterraneo, in cui sono state ribadite le criticità emerse e le
proposte di modifica già espresse al Governo e al Presidente della Repubblica,
sulle quali il CGIE auspica positive aperture. (aise/dip 24)
IIC di Amburgo: Settimana della Cucina Italiana nel Mondo
Amburgo.
Nell’ambito della decima edizione della Settimana della Cucina Italiana nel
Mondo, il 17 novembre ad Amburgo, negli eleganti spazi dell’Hotel Grand Elysée,
si è svolta la quinta edizione di The Italian Show, il format internazionale
firmato I Love Italian Food, che porta la cultura enogastronomica italiana nel
mondo, facendola vivere e degustare direttamente ai professionisti del settore.
I Love Italian Food è un network internazionale e un’associazione no profit con
la missione di promuovere e difendere la vera cultura enogastronomica italiana.
Nata nel 2013 nel cuore della Food Valley, dall’incontro tra la pagina Facebook
creata da Marco Bonini e l’idea di Alessandro Schiatti di fondare
un’associazione no profit, è diventata una community globale che conta oltre 3
miliardi di contatti social, più di 100 eventi internazionali e oltre 1
miliardo di visualizzazioni video. Gli ideatori credono che “il futuro
dell’Italia sia strettamente legato al futuro del suo comparto agroalimentare”,
uno dei punti di forza più apprezzati e ricercati nel mondo, oltre a
rappresentare un sesto dell’economia nazionale.
“Il Made in Italy
agroalimentare è il petrolio d’Italia: una delle nostre ricchezze più grandi,
frutto delle nostre culture popolari, del saper fare dei nostri addetti, della
nostra geografia e dei tanti microclimi che la compongono. Per questo crediamo nel
valore del vero Made in Italy, quello fatto in Italia, sulla nostra terra e
dalla nostra terra”, afferma Alessandro Schiatti, Amministratore Delegato di I
Love Italian Food. Le parole d’ordine dell’associazione sono Formazione e
Narrazione: grazie a un network di oltre 20.000 professionisti internazionali,
I Love Italian Food promuove in maniera sempre più efficace prodotti e
produttori italiani autentici. Il format ha dedicato un’intera giornata alle
filiere Made in Italy e ai veri prodotti italiani, mettendo in relazione
Consorzi di tutela e produttori con professionisti internazionali del settore e
creando nuove opportunità di crescita per il comparto agroalimentare italiano..
L’apertura del salone amburghese è stata affidata ad Alessandro Schiatti, seguito
dal Console Onorario della Repubblica Italiana, dott. Anton Rössner, dallo chef
Gianluca Casini, Presidente dell’Associazione Italiana Cuochi Germania e.V., da
Beatrice Virendi dell’Istituto Italiano di Cultura di Amburgo e dagli chef
stellati Michelin Gennaro Esposito e Mario Gamba. Tra i protagonisti: Mario
Gamba, bergamasco, chef stellato e proprietario del ristorante “Acquarello” a
Monaco di Baviera. La sua “Cucina del Sole” unisce tradizione, emozione e
materie prime di altissima qualità. Gennaro Esposito, due stelle Michelin
con il ristorante “La Torre del Saracino” a Vico Equense, premio Chef Mentor.
Ad Amburgo ha presentato il pomodoro tonnato e il risotto alla pizzaiola,
celebrando la versatilità del pomodoro. Matteo Ferrantino, due stelle Michelin
con il ristorante Bianc nella HafenCity di Amburgo, ha partecipato alla tavola
rotonda dedicata all’evoluzione dell’alta cucina italiana in Germania.
Sono state inoltre realizzate masterclass e degustazioni con: Ferdinando
Manna, pizzaiolo di Bolle Amburgo, sulla pizza contemporanea ad alta
idratazione; Gianluca Casini, sul Gorgonzola DOP in collaborazione con Igor
Gorgonzola; Cinzia Cuccu, sul Pane Toscano DOP; Natalia Terracciano, sulla
pizza senza glutine; Simone Fortunato, maestro pizzaiolo di Napoli, su pinsa e
pizza in pala; I Cuochi Contadini della Fondazione Campagna Amica, con le
Pappardelle al Pesto con Pistacchio Sbriciolato. Ampio spazio anche alle
degustazioni di vini: Claudia Stern (Wine & Glory) ha guidato una
masterclass sui vini della Cantina Monteverro, eccellenza della Maremma
Toscana; Degustazioni dedicate ai vini di Montefalco (Umbria);
Masterclass sui vini provenienti da suoli vulcanici; Degustazione di Prosecco
DOC, abbinato a formaggi iconici di diverse tradizioni. L’evento, che ha stato
inserito nella programmazione della Settimana della Cucina Italiana nel Mondo
dell’Ambasciata d’Italia in Berlino e dell’Istituto Italiano di Cultura di
Amburgo, ha rappresentato un vero viaggio alla scoperta della cultura
gastronomica italiana, rivolto a ristoratori, pizzaioli, sommelier, buyer e
professionisti dell’Ho.Re.Ca., con un programma ricco di formazione ed
esperienze. La giornata si è conclusa con la cerimonia di consegna degli
attestati “100% Italiano” – Amburgo, conferiti da I Love Italian Food a vari
ristoranti. Promossa dal Ministero degli Affari Esteri e della
Cooperazione Internazionale, la Settimana della Cucina Italiana nel Mondo è
nata nel 2016 per dare continuità ai temi dell’Expo Milano 2015 – qualità,
sostenibilità, sicurezza alimentare, territorio, biodiversità, identità ed
educazione – e valorizza ogni anno l’eccellenza e l’internazionalizzazione
della filiera enogastronomica italiana. Attraverso un tema annuale, la rassegna
promuove prodotti e tradizioni dei territori, la tutela delle denominazioni
protette, la sostenibilità dei processi produttivi e gli itinerari del gusto
italiani. Tradizionalmente realizzata nella terza settimana di novembre, dal
2025 le Ambasciate, i Consolati, gli Istituti Italiani di Cultura, le Rappresentanze
Permanenti e gli Uffici ICE possono organizzare attività durante tutto l’anno,
adattando il calendario alle specificità locali. Dalla sua inaugurazione, la
Settimana è stata celebrata con oltre 10.000 eventi in più di 100 Paesi,
comprendenti degustazioni, showcooking, masterclass, seminari, conferenze,
mostre ed eventi business, con un grande evento inaugurale ogni anno alla
Farnesina. La X edizione 2025 è dedicata al tema “La cucina italiana tra
cultura, salute e innovazione”, con particolare attenzione alla cucina italiana
come mosaico di saperi e valori, dove ogni tessera racconta una storia del
rapporto tra l’Italia e il cibo. Gli obiettivi principali della X edizione
sono: promuovere la conoscenza della cucina italiana, anche alla luce della sua
candidatura a patrimonio culturale immateriale dell’UNESCO; valorizzare la
cucina italiana come modello alimentare sano, equilibrato e sostenibile,
alleato nella prevenzione delle malattie non trasmissibili; evidenziare gli
aspetti di innovazione e ricerca che caratterizzano l’intera filiera
alimentare, dalla produzione alla trasformazione, dal confezionamento alla
distribuzione, fino al consumo, al riutilizzo e al riciclo. La Direzione
Generale per la Promozione del Sistema Paese predispone ogni anno, in
collaborazione con partner selezionati, progetti e contenuti per arricchire le
iniziative organizzate dalle sedi estere. (Inform/dip 23)
Mostra su Emilio Vedova alla Kunsthaus Dahlem di Berlino
Berlino.
La Kunsthaus Dahlem di Berlino ha inaugurato il 20 novembre
scorso, alla presenza dell’ambasciatore Fabrizio Bucci, “Emilio Vedova – More
than movement for its own sake”, una mostra dedicata al periodo berlinese del
grande artista veneziano, tra il 1963 e il 1965.
Promossa
dalla Kunsthaus Dahlem in collaborazione con la Fondazione
Emilio e Annabianca Vedova, l’Ambasciata d’Italia e l’Istituto Italiano di
Cultura di Berlino, l’esposizione offre uno sguardo approfondito su una fase
cruciale della ricerca artistica di Vedova e sulle sue connessioni con la
Berlino della Guerra Fredda.
Il percorso
espositivo riunisce opere emblematiche di quegli anni, tra cui una
selezione dei celebri Plurimi, straordinarie strutture tridimensionali che
fondono pittura e scultura in un linguaggio radicalmente innovativo. Realizzati
proprio a Berlino, i Plurimi testimoniano la forza creativa di Vedova in un
contesto urbano segnato da divisioni, tensioni e profonde cicatrici storiche.
La Kunsthaus
Dahlem, ex atelier carico di significati, offre alla mostra un ulteriore
livello simbolico: è qui che l’artista lavorò intensamente nel 1964-65,
conferendo all’esposizione una dimensione storica ed emotiva unica.
Prendendo la
parola durante la cerimonia d’inaugurazione, l’ambasciatore Bucci ha
sottolineato come questa mostra non sia soltanto “un omaggio a uno dei maggiori
protagonisti dell’arte italiana del Novecento, ma anche testimonianza
dell’intenso scambio culturale tra Italia e Germania in un momento storico
complesso”.
Bucci si è detto
“orgoglioso che l‘Ambasciata e l‘Istituto Italiano di Cultura sostengano questa
straordinaria iniziativa. L‘Ambasciata intende infatti essere un attore
culturale ancora più presente e attivo a Berlino, contribuendo al suo vivace
panorama artistico e rafforzando le nostre partnership con i musei e le
istituzioni culturali tedesche”.
La serata è poi
proseguita in Ambasciata, dove gli ospiti hanno potuto ammirare una selezione
complementare di opere dell’artista, curata dalla Fondazione Vedova. “È il
nostro modo di estendere il dialogo aperto alla Kunsthaus Dahlem, reso
possibile dalla fruttuosa collaborazione con la Fondazione Vedova, che
ringraziamo per le opere concesse in comodato: esse offrono uno scorcio
particolarmente interessante dei diversi significativi momenti della prodizione
artistica di Emilio Vedova”, ha detto l’ambasciatore Bucci.
L’evento è stato
arricchito dalle creazioni del food designer Mattia Risaliti, ispirate ai
colori delle tele di Vedova.
La mostra “Emilio
Vedova – More than movement for its own sake” resterà aperta al pubblico sino
all’8 marzo 2026. (aise/dip 24)
Avviato l’esame della proposta di esenzione IMU per i connazionali
all’estero iscritti all’Aire
Roma. L’Aula di
Montecitorio ha avviato la discussione sulla proposta di legge di Toni
Ricciardi ed altri relativamente alle modifiche della legge 160/2019 in materia
di equiparazione del regime fiscale nell’applicazione dell’imposta municipale
propria relativamente a immobili posseduti nel territorio nazionale da
cittadini iscritti nell’Anagrafe degli italiani residenti all’estero, nonché
delle abbinate proposte di legge Di Giuseppe, Onori, Billi, Lovecchio, Manes,
Borrelli ed altri. Nel suo intervento il relatore Toni Ricciardi (Pd-
ripartizione Europa), ha spiegato che con questo provvedimento si
ridefinisca un percorso volto a sanare un’incongruenza normativa: “Stiamo
parlando degli immobili, delle case o, se volete, della prima casa di coloro
che vivono all’estero, che si sono trasferiti all’estero; generalmente, se
analizzassimo la fattispecie, stiamo parlando di persone – tutti nelle nostre
famiglie abbiamo avuto qualcuno che è partito per l’estero – che, dopo dieci,
vent’anni di duro lavoro, sacrificio, utilizzavano le cosiddette famose rimesse
per costruirsi la casa nel proprio Paese di partenza”. “La casa nella
cultura italiana è quel patrimonio indiscusso, se volete forse anche
identitario, nella quale tutte e tutti si riconoscono. Era il segno tangibile
di un sacrificio fatto al di fuori dei confini nazionali affinché si potesse,
un giorno, immaginare un rientro, un ritorno e soprattutto la costruzione di un
benessere per i propri cari”, ha rilevato Ricciardi auspicando quindi la
risoluzione di quello che ha definito come “un problema atavico”. I relatore ha
menzionato gli scritti di Francesco Saverio Nitti che, nel 1888, dà alle stampe
il suo “L’emigrazione italiana e i suoi avversari”, nel quale si vuole
sottolineare l’assenza, la mancanza di una legge organica che disciplini
l’emigrazione italiana, che sia in grado di quantificarla e qualificarla.
Ricciardi ha ricordato come l’emigrazione da questo Paese, così è stata almeno
per oltre un secolo, partiva soprattutto dai piccoli comuni, soprattutto dalla
provincia italiana. “E noi sappiamo benissimo quale sia il patrimonio edilizio
che si concentra soprattutto nei comuni al di sotto dei 5.000 abitanti”, ha
aggiunto Ricciardi facendo presente che in oltre il 70 per cento dei comuni
italiani ritroviamo sempre più spesso case vuote o abbandonate. “E molte volte
esattamente proprio quegli immobili appartengono agli italiani che vivono
all’estero o a dei figli che li hanno ereditati e che, purtroppo, come dire,
non riescono a coprire il pagamento dell’IMU”, ha sottolineato il deputato
invitando a riflettere sul fatto che i cittadini italiani all’estero non siano
cittadini di serie B. “Meritano e hanno la dignità di essere trattati alla pari
di tutti gli altri”, ha puntualizzato Ricciardi sostenendo che tale
provvedimento prevede che per la fattispecie degli italiani all’estero si possa
riconoscere un diritto. “Auspico e credo – ha aggiunto il deputato – che avremo
l’opportunità di giungere a un’approvazione all’unanimità di questo
provvedimento – le opposizioni, insieme alla maggioranza, discutono, dialogano
con i colleghi – e ringrazio tutte le elette e gli eletti all’estero che hanno
contribuito, anche con le loro proposte che sono abbinate – si dà
testimonianza, un messaggio al Governo rispetto al fatto che tutta la politica,
su un tema centrale, ha avvertito la stessa sensibilità”. “La casa, essendo un
bene primario, va tutelata: per questa ragione, invito tutte e tutti a
esprimere, nel prosieguo del dibattito, un parere favorevole a questa proposta
di legge”, ha suggerito Ricciardi. Ha poi preso la parola il deputato del Pd,
eletto nella ripartizione America settentrionale e centrale, Christian Di
Sanzo che ha sottolineato come questa proposta normativa sia stata recepita
favorevolmente da tutti i gruppi politici, con grande spirito di condivisione.
“Insieme ad essa, vi sono abbinate le proposte di quasi tutti i gruppi
politici, inclusi tutti i partiti della maggioranza. È una proposta che nasce
da un’esigenza semplice ma fondamentale: riconoscere pienamente i diritti dei
nostri connazionali residenti all’estero e farlo non solo sul piano simbolico,
culturale, storico, ma anche su quello pratico e su quello fiscale. È
un’iniziativa che interviene sul trattamento fiscale degli immobili posseduti
dagli italiani iscritti all’anagrafe degli italiani residenti all’estero,
l’AIRE, correggendo un problema che, per troppo tempo, ha gravato su cittadini
che, pur vivendo all’estero, continuano a mantenere nel nostro Paese beni,
affetti e radici”, ha precisato Di Sanzo aggiungendo a sua volta come la prima
casa in Italia venga considerata un bene fondamentale e come lo sgravio sulla
prima casa sia già a beneficio di tutti i residenti in Italia. “Con questa
proposta vogliamo semplicemente equiparare lo stesso trattamento ai nostri
cittadini residenti all’estero”, ha precisato il deputato sottolineando come
dalla fine dell’800 ad oggi, circa 30 milioni di italiani abbiano lasciato il
nostro Paese in cerca di opportunità, lavoro e dignità . “Hanno costruito ponti
tra l’Italia e il mondo, hanno creato associazioni e imprese e hanno reso il
nostro Paese più grande dei suoi confini geografici, hanno sofferto, hanno
lavorato e hanno sperato. Hanno amato l’Italia anche quando l’Italia sembrava
averli dimenticati. L’emigrazione italiana non è un capitolo accessorio della
nostra storia, è la nostra storia”, ha ribadito Di Sanzo precisando come ad
oggi gli italiani all’estero iscritti all’AIRE sono oltre 6,5 milioni: una
comunità che è di fatto la ventunesima regione d’Italia, distribuita in oltre
190 Paesi nel mondo. Di Sanzo ha anche ricordato il dato emerso dall’ultimo
rapporto RIM della Fondazione Migrantes: ci sono state 155mila partenze solo
nel 2024, con una mobilità che si è fatta più circolare e complessa. “Quindi
non stiamo parlando di una legge di qualcuno o di una legge per qualcuno, ma di
una legge per l’Italia, per gli italiani: un esempio di unità che merita di
essere evidenziato e che sottolinea come il tema delle nostre comunità
all’estero debba e possa essere affrontato con logiche trasversali a tutti i
partiti. In un tempo in cui la politica a volte viene descritta come conflitto
permanente, questo provvedimento ci dimostra che il Parlamento sa essere luogo
di ascolto, di visione e di decisione condivisa per le nostre comunità
all’estero”, ha rammentato Di Sanzo. A seguire l’intervento del deputato Andrea
Di Giuseppe (FDI- ripartizione America settentrionale e centrale) che ha
spiegato come non si sta dibattendo soltanto su un’imposta, quale appunto
l’IMU, bensì si stia dibattendo su quale rapporto si voglia avere con milioni
di italiani che vivono fuori dai confini nazionali, ma che continuano
ostinatamente a sentirsi parte di questa comunità nazionale. “Stiamo dicendo
loro, in modo semplice ma molto chiaro: lo Stato vi vede, vi riconosce e smette
di trattare la vostra casa d’origine come un lusso da tassare, ma come un ponte
tra l’Italia e il mondo. Perché dietro ogni riga di questo provvedimento non ci
sono solo numeri: ci sono dei volti, ci sono delle storie, ci sono delle
famiglie, ci sono dei sacrifici. Ci sono persone che, mentre noi parliamo,
dall’altra parte dell’Oceano o del mondo stanno seguendo questi lavori con la
speranza che, per la prima volta, lo Stato non li consideri cittadini di serie
B”, ha sottolineato Di Giuseppe rimarcando che la proprietà immobiliare ha un
valore affettivo, spesso legato alla casa d’origine, alla casa dei genitori o
dei nonni, alla quale conseguentemente si riflette anche un legame con la
specifica comunità territoriale. “Per tanti connazionali la casa in Italia non
è un investimento speculativo: è un luogo da dove sono partiti i loro nonni,
molte volte con la valigia di cartone; è il luogo dove tornando ritrovano una
lingua, un dialetto, un odore, una chiesa, un cimitero dove sono sepolti i loro
affetti”, ha aggiunto Di Giuseppe evidenziando che le nuove generazioni, spesso
professionisti qualificati, considerano la casa d’origine un porto sicuro:
“un’Itaca alla quale sperano di fare ritorno”. “Quegli italiani che vivono a
New York, a Toronto, a San Paolo, a Sydney o a Londra non sono un problema
amministrativo: sono una parte della nostra Nazione che si è spostata
fisicamente ma non si è mai staccata davvero e la casa in Italia spesso è il
loro ultimo filo diretto con il territorio d’origine”, ha proseguito Di
Giuseppe tornando alla questione dell’IMU che rappresenta un aspetto cruciale
sia per le comunità storiche che per i giovani italiani all’estero. “Il
pagamento di questa imposta ha spesso scoraggiato il mantenimento e la valorizzazione
degli immobili di famiglia provocando, specialmente nei piccoli comuni, un
impoverimento territoriale e immobiliare progressivo. Iniziative come il
turismo delle radici cercano di invertire questa tendenza, riportando luce ai
borghi e preservando storie che oggi costituiscono orgoglio e identità per le
comunità italiane nel mondo”, ha sottolineato il deputato. (Inform/dip 23)
Donne in fuga, corridoi umanitari e politica europea
Sebbene le
informazioni disponibili ci dicano che nella popolazione in situazione di
sradicamento forzato nel mondo, in generale, il numero di uomini e donne si
equivalgono, tra coloro che affrontano i cosiddetti “viaggi della speranza”,
via mare o terra, verso l’Europa, solo poco più del 10% sono donne. Il dato
mostra la loro difficoltà rispetto agli uomini, la non pari opportunità di
mettersi in cammino e raggiungere Paesi sicuri in autonomia, anche in ragione
delle violenze da loro subite, della tratta e della morte che si incontra lungo
il cammino.
Questa è una delle
evidenze emerse da una ricerca qualitativa condotta dall’Osservatorio Giovani
dell’Istituto Giuseppe Toniolo nel biennio 2022-2024 insieme a 20 giovani donne
under 35, provenienti da diversi Paesi. Il frutto della ricerca è un volume dal
titolo Libere da, libere di? Storie di giovani donne in Italia con i corridoi
umanitari, a cura di Cristina Pasqualini e Fabio Introini (Vita e Pensiero,
2025).
Il dramma delle
donne in fuga da guerre, disastri ambientali, persecuzioni culturali e
religiose ha trovato certamente in questi anni un canale alternativo, quello
promosso dalla società civile e dalle Chiese, cattolica e riformate, in
collaborazione con il Governo italiano e alcuni altri Governi dei Paesi
europei, e denominato “corridoio umanitario”.
I corridoi
umanitari nascono inizialmente per permettere alle persone più fragili – donne
con bambini, anziani, disabili, famiglie –, bisognose di protezione, di poter
lasciare un Paese che vive guerre e disastri ambientali, in sicurezza e senza
intraprendere lunghi viaggi, di poter usufruire dell’ “accoglienza diffusa”, un
modello che prevede l’inserimento in un contesto familiare, associativo o
parrocchiale, e di iniziare un percorso di integrazione a carico dei diversi
soggetti della società civile. È un percorso reso possibile da una clausola del
regolamento visti del Trattato di Schengen.
Dal 2016, anno di
una prima esperienza, al settembre 2023 sono state 6.473 in Europa le persone
rifugiate che hanno ottenuto una forma di protezione internazionale grazie ai
corridoi umanitari. L’utilizzo è avvenuto soprattutto in Italia. Le donne sono
coloro che hanno maggiormente beneficiato di corridoi umanitari e dei percorsi
di protezione attivati, anche se non abbiamo dati statistici elaborati.
Le loro
provenienze sono diverse: la Siria (67%) soprattutto e, a seguire, l’Eritrea
(15%); e poi, con percentuali ancora più ridotte, la Somalia, l’Afghanistan, il
Sudan e il Sud Sudan, l’Iraq, lo Yemen, la Repubblica democratica del Congo e
il Camerun. Donne tutte diverse, ma animate dalla stessa speranza, la maggior
parte delle quali dall’Italia hanno continuato il cammino verso Paesi europei
con comunità più numerose, verso gruppi parentali e territori linguisticamente
più affini o che proponevano maggiori opportunità rispetto, ad esempio, al
titolo di studio da loro posseduto.
Certo, potrebbe
nascere un problema se la politica italiana ed europea usasse i corridoi
umanitari per ridurre il numero di arrivi e selezionare le persone: in questo
caso, il corridoio costituirebbe un alibi per nascondere la non volontà di
riconoscere il diritto alla protezione internazionale in capo alla persona.
In questo senso,
preoccupa il Patto europeo per la migrazione e l’asilo, approvato a fine
legislatura nel 2024. L’accordo – che non presenta una parola sui corridoi
umanitari e non considera la fatica del partire delle donne – entrerà in vigore
nel 2026 e segna un’ulteriore limitazione dei diritti dei richiedenti asilo e
rifugiati. Il Patto prevede, annualmente, l’accoglienza di 30.000 rifugiati, un
numero che è di poco superiore a quelli accolti da 17 Paesi nel 2023 con i
reinsediamenti: questo a dimostrare che la politica europea ha di fatto
utilizzato i corridoi umanitari come unico canale per stabilire il numero dei
richiedenti asilo da accogliere. Sarà anche l’unico canale legale di ingresso
in Europa? (mons. Gian Carlo Perego – “Migranti Press”
9/2025)
MINT-Report. Fachkräftemangel ohne
Zuwanderung nicht lösbar
Arbeitskräfte in technischen und naturwissenschaftlichen
Berufen sind gefragt – es gibt viele offene Stellen. Laut einer aktuellen
Studie des Instituts der deutschen Wirtschaft führt an Zuwanderung kein Weg
vorbei.
Vor dem Hintergrund einer trotz konjunkturellem Rückgangs
weiterhin großen Lücke an Fachkräften in technischen und
naturwissenschaftlichen Berufen sieht eine neue Studie Chancen vor allem bei
Frauen, Älteren und in Zuwanderung. Der Report des Instituts der deutschen
Wirtschaft (IW) weist ein Defizit von 148.500 qualifizierten Arbeitskräften in
Mint-Berufen (Mathematik, Informatik, Naturwissenschaften, Technik) auf. Im
Vergleich zum Vorjahreswert aus dem Oktober 2024 mit 205.800 Personen sank die
Lücke um 27,8 Prozent. Der Mint-Herbstreport zeige gleichzeitig, dass
Zuwanderung ein wichtiger Hebel sei, so die Autoren.
Im Bereich der Spezialisten- und Akademikerberufe wuchs die
Beschäftigung ausländischer Arbeitskräfte im Zeitraum vom vierten Quartal 2012
bis zum ersten Quartal 2025 deutlich stärker als die Beschäftigung deutscher
Arbeitskräfte. Bei den Facharbeiterberufen sank letztere sogar um 7,3 Prozent,
während sie unter Ausländern um 85,7 Prozent zunahm.
Einwanderungsverfahren vereinfachen und beschleunigen
„Wäre die Beschäftigung von Ausländerinnen und Ausländern
seit Ende 2012 nur in der geringen Dynamik wie die Beschäftigung von Deutschen
gestiegen, würde die Fachkräftelücke heute um 480.600 Personen höher
ausfallen“, heißt es.
Eine Sonderauswertung zeige zudem, dass auch die Zahl der
internationalen Studierenden in MINT-Fächern, die hierzulande einen Abschluss
anstrebten, von 131.000 im Wintersemester 2017/2018 auf 189.000 im
Wintersemester 2022/2023 gestiegen ist. Um das Potenzial internationaler
Fachkräfte im MINT-Bereich weiter zu heben, sollten etwa Einwanderungsverfahren
vereinfacht und beschleunigt werden.
Frauen und Ältere mit Plus
Zugenommen hat in dem Zeitraum ebenso der Anteil von Frauen
an allen sozialversicherungspflichtig Beschäftigten in MINT-Berufen – von 13,8
Prozent auf 16,5 Prozent. Ein deutliches Plus zeigt sich bei Beschäftigten ab
55 Jahren: Ihr Anteil wuchs von 15,1 Prozent auf 23 Prozent. Potenziale von
Frauen und Älteren sollten gehoben werden, fordern die Autoren des Reports. So
sollten etwa Hochschulen ihre Weiterbildungsangebote für zukunftsorientierte
Kompetenzen gezielt ausbauen.
Der MINT-Report wird zweimal jährlich vom arbeitgebernahen
Institut der deutschen Wirtschaft Köln erstellt. (dpa/mig 28)
Mehr ausländische Studierende in
Deutschland
Ausländische Studierende machen inzwischen rund 14 Prozent
aller Studierenden in Deutschland aus. Ihre Zahl nimmt weiter zu. Abbruchquoten
sind auf einem ähnlichen Level wie bei deutschen Studierenden.
Die Zahl ausländischer Studierender in Deutschland nimmt zu.
Nach Angaben des Deutschen Akademischen Austauschdienstes (DAAD) waren im
Wintersemester 2024/25 rund 402.100 internationale Studierende an deutschen
Hochschulen eingeschrieben, sechs Prozent mehr als im vorherigen
Wintersemester. Wie die am Mittwoch in Bonn veröffentlichte DAAD-Publikation
„Wissenschaft weltoffen 2025“ zeigt, machten die Studentinnen und Studenten aus
dem Ausland 14 Prozent aller Studierenden in Deutschland aus.
Im Wintersemester 2013/14 habe die Zahl der ausländischen
Studierenden noch bei rund 218.800 gelegen, hieß es. Die Zahlen basieren laut
DAAD auf Daten des Statistischen Bundesamtes. Die wichtigsten Herkunftsregionen
waren den Angaben zufolge im Wintersemester 2023/24 die Region Asien und
Pazifik (33 Prozent), gefolgt von Nordafrika und Nahost (19 Prozent),
Westeuropa (15 Prozent) sowie Mittel- und Südosteuropa (13 Prozent).
Interesse an Ingenieurswissenschaften hoch
Vergleichsweise wenige Studierende seien aus Osteuropa und
Zentralasien (8 Prozent), Subsahara-Afrika sowie Lateinamerika (jeweils 5
Prozent) und Nordamerika (2 Prozent) nach Deutschland gekommen. Die meisten
internationalen Studierenden mit Abschlussabsicht in Deutschland seien in
Ingenieurswissenschaften (43 Prozent) sowie Wirtschafts-, Rechts- und
Sozialwissenschaften (25 Prozent) eingeschrieben.
Die Abbruchquote internationaler Studienanfängerinnen und
-anfänger sei „nur geringfügig höher“ als die deutscher Studierender, erklärte
der DAAD. Bezogen auf die ersten drei Studiensemester habe die Abbruchquote
beim Jahrgang 2020 bei 16 Prozent im Bachelor und 9 Prozent im Master gelegen.
Zum Vergleich: Bei deutschen Studierenden seien es 13 beziehungsweise 6 Prozent
gewesen. (epd/mig 28)
Ein Plädoyer für ein inklusives nationales Narrativ, das der
rechten Identitätspolitik die Deutungshoheit nimmt. Von Filip Milai
Die extreme Rechte hat sich in vielen Ländern der Welt zur
dynamischsten politischen Kraft entwickelt, und zwar auch deshalb, weil sich
Rechtspopulisten geschickt als Beschützer einer bedrohten nationalen Identität
und Souveränität präsentieren.
US-Präsident Donald Trump ist das offensichtlichste
Beispiel. Kurz nach seinem Amtsantritt insistierte er, es sei seine „Pflicht
als Präsident“, die Amerikaner vor „der über unsere Grenzen schwappenden
Flutwelle illegaler Ausländer und Drogen“ zu schützen. Seine Einwanderungs- und
Handelspolitik stellte er dabei als eine Form der nationalen Rettung dar.
Andere rechte Staats- und Regierungschefs wie der ungarische
Ministerpräsident Viktor Orbán, Indiens Premier Narendra Modi und der türkische
Präsident Recep Tayyip Erdo?an sowie prominente Politiker wie Nigel Farage in
Großbritannien und Marine Le Pen in Frankreich bedienen sich ähnlicher
nationalistischer und fremdenfeindlicher Tropen.
Die liberalen Eliten, die den Nationalismus seit langem
ablehnen, neigen dazu, eine derartige Rhetorik als rückschrittlich zu
betrachten. Vor allem im Westen war der Nationalismus nach dem Zweiten
Weltkrieg diskreditiert, und Appelle an die nationale Identität wurden
weitgehend zugunsten der Betonung individueller Autonomie aufgegeben.
Doch zeigen Umfragen immer wieder, dass das
Selbstverständnis der meisten Menschen nach wie vor stark durch die
Nationalität geprägt wird. Das mag paradox erscheinen. Doch die wichtigsten
politischen Einheiten der modernen Welt sind die Nationalstaaten, sodass die
nationale Identität gewissermaßen strukturell vorgegeben ist. Studien zeigen
zudem, dass die Zugehörigkeit zu einem großen Kollektiv uns hilft, die Welt zu
kategorisieren und uns in ihr zu verorten, was unser Selbstwertgefühl stärkt
und das Risiko sozialer Entfremdung verringert.
Die reflexhafte Ablehnung nationaler Identität hat diese
nicht weniger bedeutsam gemacht. Vielmehr schuf sie ein Vakuum, das politische
Unternehmer eilig füllten. In Ermangelung einer überzeugenden liberalen
Konzeption des Selbst griffen viele auf traditionelle und oftmals ausgrenzende
Merkmale wie Ethnizität, „Rassenzugehörigkeit“ und Religion zurück.
Rechtsextreme Politiker nutzten diese Form der Identitätspolitik, um Ängste zu
schüren: vor Einwanderern, vermeintlich unassimilierbaren Minderheiten und supranationalen
Organisationen, die unerwünschte Gesetze erlassen.
Die progressiven Kräfte haben diese Ängste allzu oft
ignoriert oder ihre Ursachen als Probleme behandelt, die sich durch eine
technokratische Politik lösen lassen, aber nicht erkannt, wie eng sie mit der
kulturellen Identität der Wähler verbunden sind. So ist es nicht verwunderlich,
dass das politische Geschehen in so vielen Ländern heute gekennzeichnet ist von
einem Wiedererstarken der extremen Rechten und einem liberalen Establishment,
das Mühe hat, wieder Tritt zu fassen.
Um dem ausgrenzenden Nationalismus und der unablässigen
Panikmache der extremen Rechten etwas entgegenzusetzen, müssen die Liberalen
ein einendes politisches und kulturelles Narrativ entwerfen. Doch auf welchen
Idealen sollte dieses beruhen? Zwar ist die Betonung gemeinsamer Werte wichtig,
doch ist der Verfassungspatriotismus allein zu abstrakt, um einen echten
sozialen Zusammenhalt zu schaffen. Ein enger Fokus auf gute Regierungsführung
ist ebenfalls riskant, da selbst gut geführte Systeme ins Wanken geraten
können.
Drei Kriterien sind wesentlich für die Entwicklung einer
dauerhaften politischen Überzeugung. Erstens muss sie einen emotionalen Kern
haben. Ihre konkrete Form wird sich wahrscheinlich von Land zu Land
unterscheiden, aber Emotionen sind unerlässlich.
Die progressiven Kräfte im Westen könnten sich von der
Protestbewegung inspirieren lassen, die sich 2023 in Israel Bahn brach. In
Massenkundgebungen im ganzen Land stellten sich patriotische Demonstranten als
die wahren Verteidiger der nationalen Identität Israels dar und beschuldigten
Premierminister Benjamin Netanjahu, eine autoritäre Vision durchsetzen zu
wollen, die mit dem demokratischen und jüdischen Charakter des Landes, wie er
in der Unabhängigkeitserklärung skizziert ist, unvereinbar sei.
Eine ähnliche Dynamik gab es in Polen. Im Vorfeld der
Parlamentswahlen von 2023 stellten die Oppositionsparteien die
EU-Mitgliedschaft als integralen Bestandteil der westlichen Identität des
Landes dar und warnten, die autoritäre Wende der damals regierenden Partei für
Recht und Gerechtigkeit (PiS) gefährde diese.
Die brasilianische Erfahrung zeigt, dass alternative
Narrative auch durch externen Druck befeuert werden können. Als Reaktion auf
Trumps Angriffe auf die brasilianische Souveränität präsentierte sich Präsident
Luiz Inácio Lula da Silva als Verfechter eines unabhängigen, pluralistischen
Brasiliens und stellte seine rechtsextremen Gegner – insbesondere den
ehemaligen Präsidenten Jair Bolsonaro – als unterwürfig gegenüber US-Interessen
dar.
Zweitens: Ein erfolgreiches liberal-nationalistisches
Narrativ muss wirklich inklusiv und in der Lage sein, ein breites Wählerbündnis
zu mobilisieren, indem es demografische, soziale und schichtbedingte
Unterschiede überwindet. Wie Lula es ausdrückte: Ein Land gehört „dem Militär,
dem Lehrer, dem Arzt, dem Zahnarzt, dem Anwalt, dem Hot-Dog-Verkäufer, dem
Kleinunternehmer und dem Mittelständler“.
Drittens: Da Menschen ein angeborenes Bedürfnis nach
Zugehörigkeit haben, muss jedes wirksame politische Narrativ ein Gefühl der
Gemeinschaft und des gemeinsamen Schicksals fördern. Dazu müssen von der
extremen Rechten vereinnahmte nationale Symbole zurückerobert und mit
demokratischen Werten besetzt werden. Der jüngste Sieg von Rob Jetten über den
rechtsextremen Geert Wilders bei den niederländischen Parlamentswahlen, der zum
Teil auf seinen strategischen Einsatz nationaler Symbole zurückzuführen ist, bietet
ein nützliches Modell. Auch in Israel, Polen und Brasilien haben
zivilgesellschaftliche Gruppen und Oppositionsparteien Nationalflaggen in den
Mittelpunkt ihrer Kampagnen gestellt.
Jedoch sollte sich ein liberaler Nationalismus nicht auf
eine einzige Erzählung stützen, sondern aus mehreren Narrativen erwachsen, die
sich gegenseitig verstärken und eine gemeinsame staatsbürgerliche Vision
widerspiegeln. Dabei geht es nicht darum, hartgesottene Fremdenfeinde für sich
zu gewinnen, sondern gemäßigte und konservative Wähler zu erreichen, denen ihr
Land am Herzen liegt und die möglicherweise aus Angst illiberale Politiker
unterstützen. In der heutigen polarisierten politischen Landschaft können
selbst kleine Verschiebungen in der öffentlichen Meinung darüber entscheiden,
ob die Zukunft den Autoritären oder den Befürwortern offener, demokratischer
Gesellschaften gehört. PS/IPG 27
Abschlusserklärung. EU und Afrika
planen engere Zusammenarbeit in der Flüchtlingspolitik
Zwei Tage lang haben europäische und afrikanische Staaten
über die Zusammenarbeit beraten. Ein Schwerpunkt lag auf der Migrationspolitik
– von der Bekämpfung sog. „irregulärer“ Migration bis zum Ausbau legaler Wege.
Manche Punkte dürften eher symbolischer Natur sein.
Die Afrikanische Union (AU) und die Europäische Union (EU)
wollen ihre Zusammenarbeit in der Migrationspolitik ausbauen. In der am
Dienstag verabschiedeten Abschlusserklärung des 7. AU-EU-Gipfels kündigen beide
Seiten an, die sogenannte irreguläre Migration stärker zu verhindern sowie
Schleuserei und Menschenhandel entschiedener zu bekämpfen.
Gemeint ist damit auch die Flucht von Menschen, die Schutz
suchen und Asyl beantragen möchten. Weil es an sicheren und legalen Fluchtwegen
fehlt, bleiben ihnen oft keine anderen Möglichkeiten, als Grenzen zunächst ohne
gültige Dokumente zu überqueren, um ihr international verbrieftes Recht auf
Asyl geltend zu machen. Juristisch sind sie damit nicht „irregulär“, sondern
nehmen ein regulär geltendes Recht wahr.
Wie aus der Erklärung außerdem hervorgeht, sollen
Abschiebungen und die Reintegration effizienter gestaltet werden. Dafür soll
die sogenannte „freiwillige“ Rückkehr durch Geldzahlungen angekurbelt werden.
Schutz von Menschenrechten – nur auf dem Papier?
Zugleich bekräftigen AU und EU ihr gemeinsames Bekenntnis
zum Schutz von Menschen, die vor Gewalt, Konflikten oder Verfolgung fliehen.
Die Asylsysteme sollen weiter gestärkt werden.
Beobachter weisen jedoch darauf hin, dass dieses Bekenntnis
bislang vor allem auf dem Papier steht. Die EU baut ihren Grenzschutz seit
Jahren massiv aus und erschwert Asylsuchenden zunehmend, europäischen Boden
überhaupt zu erreichen. Mehrere afrikanische Staaten erhalten EU-Gelder, um
Menschen bereits vor der Ausreise zu stoppen. Nach neuesten Plänen sollen
Asylverfahren sogar in Drittstaaten ausgelagert werden – in Ländern, in denen
zahlreiche Menschenrechtsverletzungen dokumentiert sind. Menschenrechtsorganisationen
werfen der EU Mitwisserschaft und Mittäterschaft vor.
Migration auch als Chance
Einen Schwerpunkt setzt die Erklärung zudem auf den Ausbau
legaler Wege für Migration und Mobilität, etwa für Studierende, Forschende und
Fachkräfte. Dazu gehört die bessere Anerkennung von Hochschul- und
Berufsabschlüssen. Gut gesteuerte, reguläre Migration könne ein „Katalysator
für wirtschaftliche, soziale und menschliche Entwicklung“ in Herkunfts- wie
Aufnahmeländern sein, heißt es.
Doch eine aktuelle Studie zeigt, dass Menschen aus
wirtschaftlich armen Ländern deutlich schlechtere Chancen auf ein Visum haben
als Antragstellende aus wohlhabenderen Staaten. Fachleute bezweifeln, dass sich
daran viel ändern wird – nicht zuletzt, weil dieses Ungleichgewicht seit Jahren
bekannt ist und insbesondere Deutschland wenig Interesse zeigt, daran etwas zu
ändern.
Erklärung mit symbolischem Charakter
Vieles spreche dafür, dass auch dieser Abschnitt der
Erklärung vor allem symbolischen Charakter hat. Kritiker sehen darin das
zentrale Ziel der EU: Menschen aus Afrika sollen möglichst selten nach Europa
gelangen – außer, sie sind als bereits ausgebildete Fachkräfte unmittelbar
nützlich für den Arbeitsmarkt.
Am zweitägigen Gipfel nahmen die Mitgliedstaaten von AU und
EU teil. Zusammen vertreten sie 82 Länder mit nahezu zwei Milliarden Menschen.
(epd/mig 27)
Wer wirklich antisemitisch ist
Studie entlarvt These vom „importierten Antisemitismus“
In öffentlichen Debatten wird Antisemitismus häufig als
„importiertes“ Problem aus muslimisch geprägten Ländern ausgemacht. Einer
Studie zufolge ist diese These nicht haltbar. Sie diene eher dazu, den eigenen
Antisemitismus zu verdecken.
Die These vom „importierten Antisemitismus“ greift zu kurz.
Dafür seien Menschen aus mehrheitlich muslimisch geprägten Ländern in ihren
Einstellungen zu heterogen. Es gebe erhebliche Unterschiede, abhängig etwa von
der Herkunftsregion, der Religionsausübung und der deutschen
Staatsangehörigkeit. Zu diesem Ergebnis kommt eine repräsentative Untersuchung
des Deutschen Zentrums für Integrations- und Migrationsforschung (DeZIM), die
am Dienstag in Berlin veröffentlicht wurde.
Demnach gibt es bei den Befragten mit muslimischem
Hintergrund im Vergleich zu Deutschen ohne Migrationsgeschichte bei klassischen
antisemitischen Einstellungen wie Vorurteile und Verschwörungserzählungen kaum
Unterschiede. Bei Muslimen gebe es lediglich teils höhere Zustimmungswerte bei
israelbezogenem Antisemitismus, doch auch dies sei kein ausschließlich
migrantisches Phänomen, sondern in unterschiedlichen gesellschaftlichen Milieus
verbreitet.
AfD-Wähler besonders oft antisemitisch
Antisemitische Einstellungen hängen der Vorlage zufolge
vielmehr stark mit parteipolitischen Präferenzen zusammen. Bei dieser
Aufschlüsselung zeigt sich, dass es teilweise höhere antisemitische
Einstellungen bei nicht zugewanderten Deutschen gibt. So weisen insbesondere
Wähler der AfD überdurchschnittlich hohe Zustimmungswerte zu antisemitischen
Einstellungen auf; Anhänger der Grünen und der Linken durchweg besonders
geringe Zustimmungsraten.
Beispiel: Der Aussage „Mich nervt es, immer wieder von den
deutschen Verbrechen an den Juden zu hören“ stimmten 28 Prozent der muslimisch
geprägten Befragten zu. Unter AfD-Wählern ohne Migrationsgeschichte betrug der
Zustimmungswert fast doppelt soviel (55 Prozent). Aber auch 37 Prozent der
FDP-, 34 Prozent der BSW- und 31 Prozent der Union-Wähler wiesen höhere Werte
aus als die von Muslimen.
Entlarvt: Wer „Importthese“ zustimmt, verdeckt eigenen
Antisemitismus
Trotz der nachweisbar antisemitischen Einstellungen in
breiten Teilen der AfD ist die Hälfte der befragten AfD-Wähler (51 Prozent)
zugleich davon überzeugt, dass der Antisemitismus „fast weg“ war und „jetzt mit
den muslimischen Eingewanderten wieder nach Deutschland gekommen ist“. Den
Analysten zufolge geht die Zustimmung zur „Importthese“ bei Deutschen ohne
Migrationsgeschichte signifikant mit antisemitischen Einstellungen einher. Dies
gelte ebenso für muslimfeindliche Einstellungen.
„Diese Verschränkung von antisemitischen und
muslimfeindlichen Ressentiments legt nahe, dass die Zustimmung zur
‚Importthese‘ tendenziell nicht für ein tatsächliches Interesse steht, die
Ursachen von Antisemitismus zu bekämpfen. Vielmehr scheint die These dazu zu
dienen, den eigenen Antisemitismus zu verdecken beziehungsweise zu
externalisieren und historische Verantwortung abzuwehren“, erklären die Autoren
der Studie.
Antisemitische Einstellungen entstehen teils in Deutschland
Wie aus der Studie außerdem hervorgeht, entstehen
antisemitische Einstellungen teils in Deutschland. So kämen bestimmte
Alltagsphänomene unter neu Zugewanderten Muslimen deutlich seltener vor. So
würden vergleichsweise wenige (11 Prozent) von ihnen beispielsweise die
Verwendung von „Jude“ als Schimpfwort kennen. Bei den Deutschen ohne
Migrationsgeschichte seien es hingegen 30 Prozent. Am bekanntesten sei das
Schimpfwort bei Befragten mit muslimischem Hintergrund, die in Deutschland
geboren sind (42 Prozent).
„Das deutet darauf hin, dass solche antisemitischen
Sprachmuster möglicherweise eher in Deutschland erlernt als mitgebracht
werden“, schreiben die Studienautoren.
Umfrage nach Hamas-Überfall
Die Autoren der Studie weisen darauf hin, dass die Befragung
wenige Monate nach dem Hamas-Massaker in Israel am 7. Oktober 2023 und dem
Beginn des Krieges im palästinensischen Gazastreifen durchgeführt wurde.
Um auf Israel bezogenen Antisemitismus von politischer
Kritik an Israel zu unterscheiden, hatten die Forschenden den Befragten
zusätzlich die Aussage „Es ist ungerecht, dass Israel den Palästinensern Land
wegnimmt“, vorgelegt. Dieser Aussage stimmten über alle Herkunftsgruppen hinweg
demnach 60,3 Prozent der Befragten ganz oder teilweise zu, während sich 9,2
Prozent ablehnend äußerten. Ein relativ großer Teil der Bevölkerung (30,5
Prozent) positionierte sich zu dieser Aussage ambivalent.
Für die Analyse „Importierter Antisemitismus?“ wurden
zwischen Dezember 2023 und April vergangenen Jahres 6.295 Personen befragt,
darunter 2.643 ohne Migrationsgeschichte. (epd/dpa/mig 27)
Wie Europa mit den Rechten umgeht. Lehren
für die deutsche Brandmauer
Wie soll man umgehen mit rechtsextremen Parteien? Diese
Frage stellt sich in vielen europäischen Ländern. Mehrere Konzepte wurden
bereits erprobt. Im Wesentlichen gibt es zwei Möglichkeiten: bekämpfen oder
einbinden. Welche hat funktioniert – und welche nicht? Von Christoph Driessen
Niederlande – Brandmauer ist wichtig
Warum er eine solche Schlappe erlitten habe, wurde Geert
Wilders kurz nach der ersten Prognose zum Ausgang der niederländischen
Parlamentswahl gefragt. Der Rechtspopulist analysierte die Lage erstaunlich
offen: „Ich glaube, dass viele Leute gedacht haben: ‚Naja, wenn alle Parteien
sagen, dass sie nicht mit ihm regieren wollen, dann geben wir unsere Stimme
vielleicht doch besser einer Partei, die eine Chance hat zu regieren.‘“
Mit anderen Worten: Dieses Mal stand die Brandmauer – alle
großen Parteien hatten eine Zusammenarbeit mit Wilders ausgeschlossen. Vor zwei
Jahren war das anders, und damals hatte Wilders einen spektakulären Wahlerfolg
errungen. Allerdings hat sich auch gezeigt: Obwohl er in dem knappen Jahr, in
dem seine Partei die Regierung anführte, nach einhelligem Urteil nichts
zustande gebracht hat, hat ihm das kaum geschadet – er hat zwar Sitze
eingebüßt, bleibt aber eine der stärksten politischen Kräfte.
„Die Annahme, Rechte würden langfristig verlieren, weil man
sieht, dass sie in der Regierung scheitern, ist ein fundamentaler Irrtum“, sagt
der deutsch-britische Historiker Prof. Frank Trentmann aus London, Autor des
gerade erschienenen Buchs „Die blockierte Republik“. „Hinter dem
Rechtspopulismus steht ein Wählerkern, der gar keine anderen Parteien in
Erwägung zieht.“
Österreich – Entzauberung durch Einbindung?
Die FPÖ galt in den 80er Jahren unter Führung von Jörg
Haider als die erste rechtspopulistische Partei Europas. Die traditionelle
konservative Partei ÖVP verfolgte zunächst einen Kurs der Abgrenzung, ging dann
aber im Jahr 2000 erstmals eine Koalition mit der FPÖ ein. Die Hoffnung war
damals, dass die Wählerinnen und Wähler sehen würden: Die FPÖ kann auch keine
Wunder bewirken – im Gegenteil. Aber hat das funktioniert?
Zwar brach die FPÖ zwischenzeitlich durchaus mal ein, etwa
nach dem „Ibiza“-Korruptionsskandal, aber dies war nie von Dauer. „Ich halte
das für den Knackpunkt, wenn es darum geht: Funktioniert Einbindung zur
Schwächung und Mäßigung der Rechtspopulisten?“, sagt Sebastian Enskat, Autor
einer kürzlich erschienenen Studie der Konrad-Adenauer-Stiftung zum Umgang mit
rechtspopulistischen Parteien in Europa.
„Man muss feststellen: Es gibt diesen Effekt der
Entzauberung – aber er hält ernüchternd kurz an. Wenn man sich ansieht, wie
groß der Ibiza-Skandal war, dann ist es frappierend, wie schnell sich die FPÖ
davon erholt hat und dass sie jetzt in den Umfragen bei über 35 Prozent steht.“
Großbritannien – Übernahme rechter Positionen
In Großbritannien führt derzeit die Partei des
Rechtspopulisten Nigel Farage alle Umfragen an. Labour-Premierminister Keir
Starmer reagiert darauf, indem er teilweise die Rhetorik der Rechten übernimmt.
So kündigte er an, er werde das „Experiment der offenen Grenzen beenden“ und
das „unwürdige Kapitel“ der illegalen Zuwanderung schließen.
Bisher hat dies Labour in den Umfragen allerdings nicht nach
vorn gebracht, und Trentmann glaubt auch nicht, dass sich daran in Zukunft
etwas ändern wird. „Wir haben dazu eine wirklich eindeutige statistische
Datenlage, und diese zeigt, dass seit den späten 1980er Jahren konservative
Parteien und Parteien der Mitte in europäischen Ländern Stimmen an die Rechten
verloren haben, wenn sie sich in ihrer Position den Rechten annäherten. Der
Versuch, den Rechten in der Migrationsfrage durch eine strengere Politik das
Wasser abzugraben, ist nach hinten losgegangen.“
Griechenland und Spanien – Rechte einfach links liegen
lassen
Die erfolgreichsten Beispiele für den Umgang mit Rechten,
die Enskat in seiner Studie gefunden hat, sind Griechenland und Spanien. „Aus
meiner Sicht ist die permanente Beschäftigung mit den Rechtspopulisten
kontraproduktiv, und das ist in diesen Ländern anders. Dort beschäftigen sich
die Mitte-Rechts-Parteien eher mit sich selbst – mit guter Regierungsarbeit,
wenn sie daran beteiligt sind, aber auch mit ihrer Programmatik, mit
politischer Innovation.“
Die Parteien machten dort tendenziell ihr Ding und ließen
die Rechten sozusagen links liegen. Die derzeitige deutsche „Stadtbild“-Debatte
dagegen mache die AfD seit Wochen permanent zum Thema.
Und Deutschland?
Hier hält CDU-Chef Friedrich Merz die Brandmauer aufrecht
und lehnt jede Zusammenarbeit mit der AfD ab. Gleichzeitig bemüht er sich
darum, Themen der AfD-Wähler zu adressieren – bisher hat dies allerdings nicht
dazu geführt, dass die AfD in den Umfragen zurückgefallen ist – im Gegenteil.
Eine Erklärung dafür dürfte sein, dass ein großer Teil der
AfD-Wähler für Parteien der Mitte gar nicht mehr zurückzugewinnen ist. Eine
weitere Studie der Adenauer-Stiftung hat das Ergebnis zutage gefördert, dass
das Stammwählerpotenzial der AfD mittlerweile das deutlich größte von allen
Parteien ist – 70 Prozent der AfD-Wähler sagen demnach, dass sie sich gar nicht
mehr vorstellen können, eine andere Partei als die AfD zu wählen.
„Diese Werte sind bei allen anderen Parteien deutlich
niedriger“, sagt Enskat. „Der Faktor ‚Protestwähler‘ hat mit der Zeit immer
weiter abgenommen.“ Der Studie zufolge liegt das Potenzial für die Union bei
AfD-Wählern nur im Bereich von etwa zehn Prozent.
Experten: Probleme offen angehen – das „Wie“ entscheidet
Nach Auffassung von Historiker Trentmann ist die eigentlich
entscheidende Frage, wie die Parteien der Mitte wieder die Deutungshoheit über
die wichtigsten gesellschaftlichen Probleme erlangen können. „Nehmen wir das
Beispiel Wohnungsnot. Hier sagen die Rechtsparteien: ‚Das liegt an den vielen
Migranten.‘“ Vielfach werde diese Aussage von anderen Parteien übernommen.
Trentmanns Analyse: „Das ist grundfalsch. Stattdessen
müssten die alten Volksparteien sagen: ‚Nein, es ist anders. Wir haben da in
der Vergangenheit große Fehler gemacht, und deswegen sind zu wenig Wohnungen
gebaut worden. Und obendrauf kommt, dass es immer mehr Einzelhaushalte gibt.
Diese Probleme verschwinden nicht, wenn wir mehr Abschiebungen ausführen.‘“
Eine solche offensive und ehrliche Kommunikation wäre nach
Trentmanns Überzeugung der vielversprechendste Weg, eigene Wähler zu halten und
Neuwähler, Nichtwähler und Zweifler für sich zu gewinnen, bevor sie ins rechte
Lager abrutschen. (dpa/mig 26)
Diaspora und Konflikte in den
Herkunftsregionen
Wenn in der Heimat Krieg herrscht, verändert das auch die
Menschen, die längst woanders leben. Die Geschichte Jugoslawiens zeigt, wie
politische Konflikte ganze Diaspora-Gemeinschaften spalten – und nachwirken.
Als Jugoslawien nach dem Ersten Weltkrieg gegründet wurde,
verbanden viele Menschen damit große Hoffnungen. Zum ersten Mal sollten die
südslawischen Völker – Serben, Kroaten, Slowenen, Mazedonier, Montenegriner und
Bosnier – in einem gemeinsamen Staat leben. Doch bald prallten unterschiedliche
Vorstellungen aufeinander: Während die serbische Führung ein zentralistisches
Groß-Serbien anstrebte, wollten andere Völker mehr Eigenständigkeit.
Nach dem Zweiten Weltkrieg stabilisierte der kommunistische
Staatschef Josip Broz Tito das Land, indem er eine föderale Struktur schuf. Die
sechs Teilrepubliken und zwei autonomen Provinzen (Kosovo und Vojvodina)
erhielten weitreichende Rechte. Tito hielt die Spannungen zwischen den
Nationalitäten mit seiner Autorität im Zaum – doch die Einheit blieb brüchig.
Mit der neuen Verfassung von 1974 wurde Jugoslawien de facto
zu einer lockeren Konföderation. Nach Titos Tod 1980 wuchsen die Konflikte
erneut. Besonders in Serbien fühlten sich viele benachteiligt. Der Aufstieg von
Slobodan Miloševi? und seine Forderung nach einem stärker zentralisierten Staat
führten schließlich zu den Abspaltungstendenzen in Slowenien, Kroatien und
Mazedonien. Der Vielvölkerstaat begann auseinanderzubrechen.
Zerfall und Fluchtbewegungen
Mit dem Zerfall Jugoslawiens Anfang der 1990er Jahre brachen
brutale Kriege aus – zuerst in Kroatien, dann in Bosnien-Herzegowina und
schließlich im Kosovo. Millionen Menschen wurden vertrieben, Zehntausende
getötet. Ganze Dörfer und Städte wurden ethnisch „gesäubert“, Familien
auseinandergerissen.
Die NATO-Intervention 1995 beendete den Bosnienkrieg, und
das Abkommen von Dayton schuf einen fragilen Frieden. Wenige Jahre später griff
die NATO erneut ein, diesmal im Kosovo-Krieg, um serbische Angriffe auf die
mehrheitlich albanische Bevölkerung zu stoppen.
Die Kriege hinterließen zerstörte Gesellschaften – und sie
hinterließen tiefe Spuren in den Gemeinschaften jener, die längst im Ausland
lebten: in Deutschland, der Schweiz, Kanada oder den USA. Die Konflikte
verlagerten sich in die Diaspora.
Wie sich die Konflikte in der Diaspora spiegelten
1. Zerfall der Gastarbeiter-Community in Westeuropa
In den 1970er Jahren galt die jugoslawische
Gastarbeitergemeinschaft in Westeuropa als Beispiel für ein funktionierendes
Miteinander der Volksgruppen. Serben, Kroaten, Bosnier und Mazedonier lebten
eng beieinander, organisierten gemeinsame Feste und gründeten Vereine, die eng
mit der Heimat verbunden waren.
Doch mit Beginn der Kriege brach dieses fragile
Gleichgewicht zusammen. Plötzlich definierten sich viele nur noch über ihre
ethnische Herkunft. Alte Freundschaften zerbrachen, gemischte Vereine lösten
sich auf. Serben und Kroaten mieden einander, die einstige Solidarität wurde
durch Misstrauen ersetzt. Aus einer jugoslawischen Gemeinschaft wurde eine
Sammlung verfeindeter Gruppen. Der Traum von einem gemeinsamen Jugoslawien
zerfiel – auch im Ausland.
2. Die serbische Diaspora in den USA
In Nordamerika hatte die serbische Diaspora bereits vor dem
Zerfall Jugoslawiens eine starke politische Stimme. Viele von ihnen stammten
aus Familien, die nach dem Zweiten Weltkrieg vor dem Kommunismus geflohen
waren. Als die Kämpfe in den 1990er Jahren begannen, unterstützten sie zunächst
mehrheitlich die Politik Belgrads – aus Loyalität zur Heimat und in der
Hoffnung, Serbien könne die Vormachtstellung in der Region sichern.
Der NATO-Angriff auf Serbien 1999 war für viele ein Schock.
Er spaltete die Gemeinschaft und löste heftige Loyalitätskonflikte aus:
zwischen Dankbarkeit gegenüber den USA als neuer Heimat und Solidarität mit den
Landsleuten im Kosovo. Die serbische Diaspora organisierte Demonstrationen,
sammelte Spenden und versuchte, Einfluss auf die US-Politik zu nehmen – ohne
großen Erfolg.
Nach dem Krieg wandten sich viele von Slobodan Miloševi? ab,
fühlten sich aber weiterhin unverstanden. Der Glaube an ein großserbisches
Projekt schwand, doch der nationale Stolz blieb. Die Mehrheit der
serbischstämmigen US-Bürger versuchte fortan, die Beziehungen Serbiens zum
Westen zu verbessern.
3. Die kroatische Diaspora in Kanada
Auch in Kanada kam es mit dem Ausbruch der Kriege zu einer
Welle nationaler Mobilisierung. Viele Kroaten, die sich zuvor dem
jugoslawischen Sozialismus verbunden gefühlt hatten, identifizierten sich nun
stark mit dem neuen, unabhängigen Kroatien.
Die kroatische Diaspora organisierte Hilfslieferungen,
sammelte Geld und betrieb intensive Lobbyarbeit. Einige halfen sogar bei
Waffenlieferungen. Nach dem Krieg dankte der kroatische Staat dieser
Unterstützung, indem er Sitze im Parlament für Vertreter:innen der
Auslandskroaten reservierte.
Doch auch hier zeigte sich die Kehrseite: Als kroatische
Truppen in Bosnien gegen muslimische Bosniaken vorgingen, kam es zu einem
moralischen Bruch innerhalb der Diaspora. Während nationalistische Gruppen das
Vorgehen rechtfertigten, verurteilten viele andere Kroaten die Gewalt. Mit dem
Ende des Krieges schwand die politische Energie der Diaspora, viele zogen sich
ins Private zurück.
Zweite Generation und Identitätsbrüche
Besonders schwer traf der Zerfall Jugoslawiens die zweite
Generation – die Kinder der Gastarbeiter. Sie waren in Deutschland, der Schweiz
oder Österreich aufgewachsen, fühlten sich oft zugleich jugoslawisch und
europäisch. Plötzlich aber gab es das Land, mit dem sie sich identifiziert
hatten, nicht mehr.
Viele Jugendliche mussten sich zwischen „serbisch“,
„kroatisch“ oder „bosnisch“ entscheiden – Kategorien, die ihnen zuvor fremd
waren. Wer sich weiterhin als „Jugoslawe“ bezeichnete, galt schnell als
Verräter. Der Konflikt ihrer Eltern wurde zu einem Identitätskonflikt ihrer
Generation.
Auch gemischte Familien, in denen Serben und Kroaten
zusammenlebten, gerieten unter Druck. Freundeskreise zerfielen, Kinder wurden
in Schulen mit Feindbildern konfrontiert, die sie kaum verstanden.
Psycholog:innen berichteten von inneren Spannungen, Scham und Schuldgefühlen.
Der Krieg, tausende Kilometer entfernt, spaltete auch jene, die längst in
Frieden lebten.
Fazit: Lektionen für die Gegenwart
Der Fall Jugoslawien zeigt eindrücklich, dass Konflikte in
den Herkunftsländern nicht an Grenzen enden. Sie setzen sich in den Diasporas
fort – oft in abgeschwächter, aber emotionaler Form.
Wenn ethnische oder religiöse Identitäten politisiert
werden, greifen diese Mechanismen auch in der Ferne. Das gilt nicht nur für den
Balkan: Ähnliche Dynamiken lassen sich heute bei syrischen, ukrainischen oder
palästinensischen Gemeinschaften in Europa beobachten.
Diaspora-Gesellschaften tragen das Erbe ihrer Herkunft in
sich – und werden damit zu Schauplätzen, an denen sich die alten Konflikte in
neuen Formen wiederholen. Der Umgang mit diesen Spannungen bleibt eine zentrale
Aufgabe für Einwanderungsgesellschaften wie Deutschland. Mig 25
Warum der Ruf nach Gemeinschaft zurückkehrt – und die
Sozialdemokratie ihn nicht ignorieren darf. Von Leander Scholz
Als Anfang der 1980er Jahre in den USA
die kommunitaristische Debatte geführt wurde, war es kein Zufall,
dass die sozialen Probleme der großen Metropolen zu den wesentlichen Auslösern
der Auseinandersetzung gehörten. Unter den Bedingungen einer wachsenden
Anonymität der Nachbarschaften schien das öffentliche Leben einem
unaufhaltsamen Zerfall und einer zunehmenden Verwahrlosung preisgegeben zu
sein. Wer es sich leisten konnte, zog in die sauberen Vorstädte, um den
gesellschaftlichen Folgen des exzessiven Drogenkonsums und der steigenden
Kriminalität zu entkommen. Im Zentrum der kommunitaristischen
Kritik stand daher sowohl ein paternalistischer Wohlfahrtsstaat, der zur
dauerhaften Untätigkeit der Leistungsempfänger beitrug, als auch ein Liberalismus,
der Freiheit vor allem als eine private Angelegenheit begriff. Ausgangspunkt
der kommunitaristischen Argumentation war die Annahme, dass
eigenverantwortliches Handeln nur in einer gelebten Gemeinschaft gelingen kann,
die zugleich Anforderung und Unterstützung bedeutet.
Auch heute ist die kommunale Ebene entscheidend, um die
massiven politischen Spannungen verstehen zu können. Hier zeigt sich in
unmittelbarer Weise die Überforderung des Staates, eine angemessene Sicherheit
und Ordnung öffentlicher Räume zu gewährleisten. An den städtischen Schulen
bestehen die kulturellen Konflikte nicht in abstrakten identitätspolitischen
Debatten, sondern sind handgreiflich und konkret. Auf den Bürgerämtern werden
die Menschen mit einer Bürokratie konfrontiert, die es ihnen schwer macht, sich
mit ihrem Gemeinwesen zu identifizieren. Und in den Städten haben vor allem
Familien mit einer Wohnungsnot zu kämpfen, die den Glauben an die Fähigkeit zur
Gestaltung kommunaler Räume erschüttert. Wer die Wut nachfühlen will, die das
Land fest im Griff zu haben scheint, muss sich mit dem Zustand der Kommunen und
den alltäglichen Erfahrungen auf der Straße beschäftigen. Denn dort wird der
Zustand gesellschaftlicher Integration besonders augenfällig, nicht nur von
Zugewanderten, auch von Einheimischen.
Maßgeblich geführt wurde die kommunitaristische Debatte von
liberalen amerikanischen Philosophen. Den Anfang machte Michael Sandel mit
einer Kritik des Freiheitsverständnisses von John Rawls. Dessen Theorie
der Gerechtigkeit war zum Leitstern der Bürgerrechtsbewegung geworden, hatte
aber zugleich die Idee der Freiheit auf individuelle Rechte verengt. Waren die
emanzipativen Strömungen für eine umfassende Selbstbestimmung in allen
Lebensbereichen eingetreten, verwiesen die Kommunitaristen auf den Zerfall der
Familien, die zunehmende Isoliertheit in der Konsumwelt und die mangelnde
Bereitschaft, sich überhaupt noch in irgendeiner Weise in die Gemeinschaft
einzubringen. Jeder Freiheitsgewinn hatte ihrer Meinung nach auch einen Preis,
dessen Entrichtung eine Gesellschaft auf Dauer ruinieren könne. Charles Taylor
machte geltend, dass gemeinsam geteilte Werte nur durch die Zugehörigkeit zu
einer Gemeinschaft wirksam bewahrt werden könnten. Und der Soziologe Amitai
Etzioni legte weitreichende Vorschläge vor, wie ein neues Gemeinwesen
einzurichten sei.
Es ist ebenso kein Zufall, dass diese Debatte, die nach den
welthistorischen Ereignissen von 1989 mit der beginnenden Globalisierung
zunehmend an Bedeutung verlor, heute unter den Bedingungen einer Krise der
liberalen Weltordnung erneut aufflammt. Allerdings wird sie nun vorwiegend von
konservativer Seite geführt. Den Auftakt hat Russel Ronald Reno gemacht, ein
amerikanischer Theologe und Philosoph, indem er das Ende des „langen 20.
Jahrhunderts“ verkündete und damit die liberalen Grundüberzeugungen in der Nachkriegszeit
bis heute meinte. Er prophezeite eine Wiederkehr des Bedürfnisses nach starken
Bindungen, nach Identität, Solidarität und Loyalität. Im Unterschied zu den
1980er Jahren spielt die Religion heute eine zentrale Rolle. Waren die
Kommunitaristen noch für die Erneuerung republikanischer Werte eingetreten,
werden die nötigen Bindekräfte heute dem Glauben zugetraut. Dahinter verbirgt
sich nicht nur die Sorge um den Zerfall der Gesellschaft, sondern auch die
Befürchtung, die Überzeugungen anderer Kulturen könnten stärker sein als die
eigenen.
Galt es bislang als ausgemacht, dass der westliche
Liberalismus ein Alleinstellungsmerkmal weltpolitischer Überlegenheit sei, hat
sich inzwischen der Verdacht erhärtet, eine allein nach liberalen Prinzipien
geordnete Gesellschaft könnte der neuen globalen Rivalität nicht gewachsen
sein. Vor diesem Hintergrund plädiert der Politologe Patrick Deneen, der zu den
einflussreichsten Stichwortgebern der aktuellen Debatte in den USA gehört und
auch von J.D. Vance sehr geschätzt wird, für einen „katholischen
Kommunitarismus“. Demnach habe der Westen nur dann eine Überlebenschance in der
„postliberalen Zukunft“, wenn er sich auf gemeinschaftsstiftende Werte besinnen
kann. Während die Zäsur von 1989 eine globale Liberalisierung in Gang gesetzt
hat, zeichnet sich derzeit eine identitätspolitische Wende im weltweiten
Maßstab ab. Nach dem Ende der bisherigen Globalisierung sind zahlreiche Länder
auf der Suche nach ihrer Position in der entstehenden neuen Weltordnung, die
nicht mehr wie in der Vergangenheit durch den Westen dominiert werden wird.
Im Horizont dieses weltgeschichtlichen Umbruchs hat die
liberale Gesellschaft ihre einstige Vorreiterrolle eingebüßt. Hatten sich die
Europäer nach dem Ende der Blockkonfrontation noch als Avantgarde einer
postnationalen Weltgesellschaft gesehen, müssen sie sich jetzt mit ganz neuen
Anforderungen an ihre Selbstbehauptung auseinandersetzen. Dazu gehört nicht nur
die Notwendigkeit, ihre militärischen Fähigkeiten zur Verteidigung auszubauen,
sondern auch die Herausforderung, wie der Zusammenhalt in einer zunehmend
heterogenen und von Einwanderung geprägten Gesellschaft gewährleistet werden
soll. Neben der Wehrpflicht, die bereits einige europäische Länder wieder
eingeführt haben, wird es auch um gesellschaftspolitische Antworten wie eine
allgemeine Dienstpflicht gehen müssen, um die Bindung an das Gemeinwesen
sicherstellen zu können. Weder die USA noch die Europäische Union können sich
weiterhin als Vorbild für den Rest der Welt begreifen, sondern müssen ihre
Gesellschaften auf die fundamental veränderte Weltlage einstellen.
In diesem Kontext findet in Deutschland, wie in anderen
Ländern auch, eine tiefgreifende Auseinandersetzung über das nationale
Selbstverständnis statt, die allerdings vorwiegend dem rechten Lager überlassen
wird. Dabei ist es entscheidend für den Ausgang dieser Debatte, dass sie auch
in der politischen Mitte geführt wird. Denn es wäre zu kurz gegriffen, die
Polarisierung allein als politischen Antagonismus zwischen rechten und linken
Kräften zu begreifen, bei der jede Seite glaubt, die Probleme wären gelöst,
wenn nur die andere Seite nicht wäre. Für die Progressiven stellen die
reaktionären Kräfte die Ursache eines gesellschaftlichen Rückschritts dar. Und
die reaktionären Kräfte sehen den nationalen Niedergang in der Ideologie der
Progressiven begründet. Aber beiden Positionen liegt ein Problem
gesellschaftlicher Resilienz zugrunde, das es zu lösen gilt. Denn mit der
Verschiebung der politischen Gewichte in der Welt von West nach Ost haben die
bisherigen Zukunftserwartungen an die liberale Gesellschaft ihre stabilisierende
Funktion weitgehend verloren.
Ausgerechnet die Sozialdemokratie tut sich besonders schwer
damit, ihren Beitrag zu dieser Debatte zu leisten. Dabei kann sie auf eine
lange kommunitaristische Tradition zurückblicken. Seit der Gründung der Partei
ging es in der gewerkschaftlichen Bewegung immer auch darum, der
Konkurrenzgesellschaft eine Gemeinschaftserfahrung entgegenzusetzen. Es war der
Sozialdemokrat Ferdinand Tönnies, der das bis heute wichtige Begriffspaar
„Gesellschaft und Gemeinschaft“ in die politische Diskussion eingeführt und die
SPD angesichts der fragilen politischen Lage in der Weimarer Republik als die
maßgebliche „Partei der Republik“ verstanden hat. Aber das bedeutete für ihn
zugleich, dass auch eine liberale Gesellschaft auf eine politische Gemeinschaft
angewiesen ist, deren Mitglieder nicht nur zufällig, sondern auch wesentlich
miteinander verbunden sind. Die SPD hat sich stets als eine Partei mit einem
hohen Anspruch an die gesellschaftliche Integration ausgezeichnet, die sich
nicht bloß in der liberalen Forderung nach einer „offenen Gesellschaft“
erschöpfen kann.
Auch wenn sich die Gesellschaft seit den 1980er Jahren
verändert hat und die Problemlage eine andere geworden ist, haben die
philosophischen Argumente der Kommunitaristen nichts an ihrer Gültigkeit
verloren. Anstelle des liberalen Fokus auf individuelle Rechte und individuelle
Sozialleistungen richteten sie den Blick auf starke Einrichtungen, die sowohl
unterstützen als auch fordern. Denn dort entstehen die gesellschaftlichen
Bindekräfte, aufsteigend von der kommunalen bis zur nationalen Ebene. Ein wesentlicher
Faktor dabei ist die Gestaltung des öffentlichen Raums, in dem sich die
Menschen wechselseitig wahrnehmen, negativ oder positiv. Die SPD stellt immer
noch eine große Anzahl an Bürgermeisterinnen und Bürgermeistern, deren Wissen
richtungsweisend ist, um die gesellschaftlichen Konflikte überhaupt begreifen
und wirksam bearbeiten zu können. Von der kommunalen Ebene ausgehend, sollte
die Partei in die Diskussion eingreifen und dem rechten Lager die Hoheit über
die Debatte streitig machen. Denn auch in Deutschland gibt es gegenwärtig ein
übergreifendes Bedürfnis nach Gemeinschaft und kollektiver Identität. IPG 25
Weltklimakonferenz strauchelt und
lässt Millionen Menschen im Stich
Es gibt Geld für eine Anpassung an den Klimawandel und für
den Regenwald. Doch beim Umgang mit den Haupttreibern des Klimawandels findet
die Weltgemeinschaft nur den kleinsten gemeinsamen Nenner. So bleibt der Kampf
gegen Fluchtursachen wieder auf der Strecke. Von Martina
Herzog, Larissa Schwedes und Torsten Holtz
Mächtige Blockierer waren in Hochform und die USA als einer
der größten Klimasünder gar nicht erst dabei: Wegweisende Fortschritte im Kampf
gegen die Erderwärmung sind auf der Weltklimakonferenz in Brasilien trotz
turbulenter zweiwöchiger Verhandlungen nicht gelungen. Damit schwinden auch die
Hoffnungen, dass Fluchtursachenbekämpfung endlich höher priorisiert wird.
Umweltorganisationen und Aktivisten kritisierten die
Beschlüsse als unzureichend und inakzeptabel. Auch Bundesumweltminister Carsten
Schneider (SPD) zeigte sich „ein bisschen enttäuscht“ und warf den Ölstaaten
eine Blockadetaktik vor.
Zeitweise schien es unter dem Druck großer Proteste und
breiter Länder-Allianzen – darunter Deutschlands und der EU – möglich, einen
Plan für den Ausstieg aus der klimaschädlichen Verbrennung von Kohle, Öl und
Gas anzugehen. Doch selbst die Einigung, einen solchen Plan in den nächsten
Jahren zu erarbeiten – über derartige Trippelschritte ringt man auf
UN-Konferenzen – scheiterte.
Was beschlossen wurde – und was nicht
Vereinbart wurde statt des tagelang heiß diskutierten Wegs
zum Ausstiegsplan lediglich eine freiwillige Initiative, um die
Klimaschutz-Anstrengungen der Staaten zu beschleunigen. Schon bei der
Klimakonferenz vor zwei Jahren in Dubai hatten die rund 200 Staaten eine Abkehr
von diesen fossilen Brennstoffen beschlossen – wann und wie dies geschehen
soll, wurde nun anders als erhofft in Belém nicht präzisiert.
Die USA sind unter Präsident Donald Trump aus dem Pariser
Klimaabkommen ausgestiegen und blieben Belém fern. In der Vergangenheit waren
sie ein wichtiger Geldgeber im Kampf gegen den Klimawandel.
Trotzdem sollen reiche Staaten ihre Klimahilfen an ärmere
Länder zur Anpassung an die Folgen der Erderhitzung deutlich erhöhen: Von einer
Verdreifachung bis 2035 ist die Rede. Doch wird kein Basisjahr dafür und kein
konkreter Betrag genannt. Die Summe dürfte deutlich unter den jährlich 120
Milliarden US-Dollar liegen, die Entwicklungsländer vehement gefordert hatten.
Sabine Minninger von Brot für die Welt kritisierte, auch die Bundesregierung
habe in dem Punkt zu den „Bremsern“ gehört.
Gestartet wurde von Brasilien ein neuer Fonds zum Schutz des
Regenwalds, für den Deutschland eine Milliarde Euro über zehn Jahre gestreckt
bereitstellt. Länder, die ihre Wälder erhalten, sollen nach diesem neuen Modell
belohnt werden. Umgekehrt sollen sie für jeden zerstörten Hektar Wald Strafe
zahlen. Einen konkreten „Waldaktionsplan“, um die Zerstörung von Wald
einzudämmen, beschloss die Konferenz hingegen nicht. Es wird lediglich an einen
früheren Beschluss erinnert, die Entwaldung bis 2030 zu stoppen.
Eine „Konferenz der Wahrheit“ – nur anders als gedacht
UN-Generalsekretär António Guterres sagte, viele seien wohl
enttäuscht, insbesondere junge Menschen, indigene Völker und alle, die unter
den Folgen des Klimawandels leiden. „An alle, die demonstriert, verhandelt,
beraten, berichtet und mobilisiert haben: Gebt nicht auf! Die Geschichte ist
auf eurer Seite!“, ermutigte Guterres.
Enttäuschung macht sich Beobachtern zufolge vor allem in den
Regionen breit, wo die Menschen am stärksten unter den Folgen des Klimawandels
leiden und ihren Lebensraum verlieren. Zunehmende Dürren, Überschwemmungen und
andere Naturkatastrophen schlagen weltweit immer mehr Menschen in die Flucht.
Studien zufolge gehört der Klimawandel inzwischen zu den größten
Fluchtursachen. Perfide sei es vor diesem Hintergrund, dass reichte
Industriestaaten einerseits in Klimafragen wenig Engagement zeigen, andererseits
hohe Zäune bauen, damit Geflüchtete nicht in ihre Länder ziehen.
Mäßige Entschlossenheit
Brasilien hatte eine „Konferenz der Wahrheit“ versprochen
und auf einen großen Erfolg gehofft. Stattdessen ist nun eher die Wahrheit über
die mäßige Entschlossenheit der Weltgemeinschaft bei der Krisenbekämpfung ans
Licht gekommen. Die Konferenz sei nicht von wegweisenden Beschlüssen geprägt,
bemängelte der Direktor des Potsdam-Instituts für Klimafolgenforschung, Ottmar
Edenhofer. „Die Staaten versprechen zu wenig und selbst diese Zusagen werden
nicht eingelöst.“
Andererseits: Parallel zum Klimagipfel bekannten sich am
anderen Ende der Welt in Südafrika die G20-Staaten – wenn auch in abgespeckter
Besetzung und ebenfalls unverbindlich – zur verstärkten Bekämpfung des
Klimawandels. Sie sind für den Mammutanteil der weltweiten Emissionen
verantwortlich.
Wer Fortschritte blockierte
Umweltminister Schneider sagte, die Ölstaaten hätten mit
einer „Blockade“ ehrgeizigere Beschlüsse verhindert. Im zentralen
Abschlussdokument ist nicht die Rede von fossilen Energieträgern, auch Öl,
Kohle und Gas werden nicht explizit genannt – außer im Begriff „Treibhausgase“.
Der deutsche Greenpeace-Chef Martin Kaiser sprach von einem
Versagen. „Ölkonzerne und Exportländer wie Saudi-Arabien und Russland haben
verhindert, dass die Konferenz einen beschleunigten Ausstieg aus Öl, Gas und
Kohle verabschiedet.“ Auch die USA hätten vorher Druck auf kleine Länder
ausgeübt und so aus der Ferne zum Scheitern beigetragen.
Wo sich die Länder in Verhandlungen regelmäßig verhaken
Während viele Industriestaaten Fortschritte beim Kampf gegen
die Erderwärmung verlangen, rufen ärmere Länder nach mehr Geld für die
Anpassung daran. Jede Seite verlangt Zugeständnisse als Voraussetzung für
Fortschritte.
Ärmere Staaten und Schwellenländer verweisen auf die
Verantwortung der Industrieländer als Hauptverursacher der aktuellen
Erderwärmung. Sie fürchten, dass zu viel Tempo beim Klimaschutz ihre Chancen
auf wirtschaftliche Entwicklung beeinträchtigt. Ölförderländer wollen hingegen
ihr Geschäftsmodell sichern. „Trotz der sich dramatisch zuspitzenden Klimakrise
ist eine kleine Gruppe großer Staaten bereit, alles zu tun, um das fossile
Geschäftsmodell zu verlängern“, bilanzierte Christoph Bals, der politische Vorstand
von Germanwatch.
Selbst 20 Stunden nach dem geplanten Ende lieferten sich die
übernächtigten Kontrahenten im Abschlussplenum noch leidenschaftliche
Wortgefechte und versuchten mit Anträgen, ihre Inhalte auf den letzten Drücker
doch noch in den Beschlusstexten unterzubringen. Ein Vertreter Russlands warf
den lateinamerikanischen Staaten vor, wie Kinder nach den Süßigkeiten zu
grapschen – ein ungewöhnlich undiplomatischer Vorwurf, den diese entrüstet
zurückwiesen.
Was die Klimakonferenz in Brasilien besonders machte
Die Millionenstadt Belém am Rande des Regenwalds hielt für
die Gäste aus aller Welt manch ungewohnte Überraschung bereit: Mehrfach konnten
die hallengroßen Zelte den fast täglichen tropischen Regengüssen nicht
standhalten und es tropfte in die Flure der Konferenz hinein. Im Endspurt brach
dort sogar ein Feuer aus und legte den Gipfel stundenlang lahm. Indigene
Aktivisten belagerten im Kampf um mehr Mitsprache und Landrechte mehrfach das
Gelände der Konferenz.
Anders als bei vorherigen Konferenzen in autoritären Staaten
wie Aserbaidschan oder Ägypten regte sich draußen viel Protest. Höhepunkt waren
ein mehrtägiger „Gipfel des Volkes“ auf dem Uni-Gelände und ein riesiger,
bunter Marsch von Zehntausenden für mehr Klimaschutz.
Ob es im nächsten Jahr ähnlich sichtbare Proteste der
Zivilgesellschaft geben wird, bleibt abzuwarten. Dann soll die Klimakonferenz
im türkischen Badeort Antalya stattfinden, mit einer besonderen Rolle für
Australien. Die Türkei solle „Gastgeber und Präsidentschaft“ der nächsten
Klimakonferenz werden, Australien hingegen „Präsidentschaft für die
Verhandlungen“, hatte Umwelt-Staatssekretär Jochen Flasbarth erklärt.
Was der Klimawandel für Mensch und Natur bedeutet
Beim Verbrennen von Öl, Gas und Kohle entstehen die meisten
klimaschädlichen Treibhausgase, die dafür sorgen, dass sich der Planet immer
mehr aufheizt. Die zehn wärmsten Jahre seit Beginn der Aufzeichnungen waren die
vergangenen zehn.
Inzwischen geht die Wissenschaft davon aus, dass die im
Pariser Klimaabkommen angestrebte maximale Erderwärmung von 1,5 Grad im
Vergleich zur vorindustriellen Zeit mindestens befristet überschritten wird,
und zwar schon spätestens zu Beginn der 2030er Jahre. Die drastischen Folgen
wären mehr und heftigere Stürme, Waldbrände, Dürren, Überschwemmungen – und
Flucht. (dpa/mig 24)
Bundesverfassungsgericht rügt
Polizeipraxis bei Abschiebung
Die Polizei darf nicht auf Grundlage einer Vermutung die
Wohnungstür in einem Flüchtlingsheim aufbrechen, um eine Abschiebung
durchzusetzen. Das Verfassungsgericht stellt damit eine in den vergangenen
Jahren verschärfte Abschiebepraxis infrage. Pro Asyl spricht von einem
„Denkzettel für die Regierung“.
Bei der Durchsetzung einer Abschiebung darf die Polizei die
Wohnungstür in einem Flüchtlingsheim in der Regel nicht ohne richterliche
Befugnis aufbrechen. Ist der aktuelle Aufenthaltsort des Flüchtlings nicht
„sicher“ bekannt, handele es sich bei dem Vorgehen um eine Durchsuchung, sodass
eine richterliche Genehmigung erforderlich sei, entschied das
Bundesverfassungsgericht in einem am Donnerstag veröffentlichten Beschluss (AZ:
2 BvR 460/25). Andernfalls werde gegen das Grundrecht auf Unverletzlichkeit der
Wohnung verstoßen. Die Unterstützer des Beschwerdeführers sehen mit der
Entscheidung einer erst vor wenigen Jahren verschärften Abschieberegelung die
rechtliche Grundlage entzogen.
Im konkreten Fall sollte 2019 ein in einem Berliner
Übergangswohnheim untergebrachter Flüchtling morgens abgeschoben werden. Ob
dieser sich tatsächlich in seinem Zimmer aufhielt, war nicht bekannt.
Polizisten klopften mehrfach an der verschlossenen Tür und brachen diese
schließlich mit einem Rammbock auf. Eine richterliche Genehmigung hatten sie
nicht. Die Beamten fanden den gebürtigen Guineer in seinem Bett. Der Mann
sollte nach Italien abgeschoben werden, was jedoch wegen der abgelaufenen
Überstellungsfrist scheiterte.
Erfolgreiche Verfassungsbeschwerde
Der Geflüchtete hielt das Vorgehen der Beamten für
rechtswidrig und verwies auf das Grundrecht der Unverletzlichkeit der Wohnung.
Sowohl die zuständigen Behörden als auch das Oberverwaltungsgericht
Berlin-Brandenburg hielten die Maßnahme für rechtens. Sie argumentierten, das
Handeln der Polizei sei keine Durchsuchung gewesen.
Das Bundesverfassungsgericht sah das anders. Den Beamten sei
nicht sicher bekannt gewesen, ob sich der Flüchtling tatsächlich in seinem
Zimmer aufhält. Damit stellten das Aufbrechen der Tür und das Eindringen in den
Raum eine Durchsuchung dar. Der betroffene Mann hatte mit Unterstützung der
Flüchtlingshilfsorganisation Pro Asyl und der Gesellschaft für Freiheitsrechte
Verfassungsbeschwerde eingelegt.
Gesetzesverschärfung aus 2019
Hintergrund des Verfahrens ist eine 2019 beschlossene
Änderung im Aufenthaltsgesetz. Sie erlaubte der Polizei, die Wohnung eines
Menschen, der abgeschoben werden soll, auch ohne richterliche Genehmigung zu
betreten, „wenn Tatsachen vorliegen, aus denen zu schließen ist, dass sich der
Ausländer dort befindet“.
In der vergangenen Wahlperiode wurde der Passus nochmals
verschärft. Seitdem soll es bei beabsichtigten Rückführungen von Bewohnern von
Flüchtlingsheimen auch erlaubt sein, die Wohnungen anderer Personen und
Gemeinschaftsräume zu betreten. Ziel der Verschärfungen war, der Polizei mehr
Möglichkeiten bei der Durchsetzung von Abschiebungen einzuräumen.
Verschärfter Abschieberegel Grundlage entzogen
Für diese Regelung bleibe mit der Entscheidung des
Bundesverfassungsgerichts „nahezu kein Anwendungsbereich mehr“, bewertete der
Anwalt des Beschwerdeführers, Christoph Tometten, den Beschluss. Sarah Lincoln,
Juristin bei der Gesellschaft für Freiheitsrechte erklärte: „Abschiebungen sind
kein Freibrief und Schlafzimmer von Geflüchteten keine rechtsfreie Zone“,
sondern grundrechtlich besonders geschützt. Wiebke Judith von Pro Asyl
bewertete das Urteil als „Denkzettel für die Regierung“.
Die Linken-Bundestagsabgeordnete Clara Bünger forderte
politische Konsequenzen, indem statt über Verschärfungen bei Abschiebungen über
eine wirksame Bleiberechtsregelung nachgedacht werde. Seit Jahren sei zu
beobachten, dass Gesetzesverschärfungen und politischer Druck zu immer
brutaleren Abschiebungen führten. Rechte von Geflüchteten dürfen „nicht immer
weiter ausgehöhlt werden“. (epd/mig 21)
Interviews. „Moralische Empörung
reicht nicht aus“
Raphaël Glucksmann über die Krise der Sozialdemokratie,
überfällige Selbstkritik und den drohenden Wahlsieg der Rechten in Frankreich.
Die Fragen stellte Philipp Kauppert.
Sie sind derzeit „Sonderbeauftragter für die
sozialdemokratische Erneuerung“ in der S&D-Fraktion im Europäischen
Parlament. Was bedeutet diese Erneuerung für Sie?
In ganz Europa stehen wir vor nahezu derselben Situation.
Die Krise ist nicht national – sie ist europäisch, ja westlich. Was wir in den
USA mit der MAGA-Bewegung sehen, spiegelt sich hier wider. Angesichts des
Aufstiegs der extremen Rechten und des Mangels an Energie und Substanz auf
unserer eigenen Seite müssen wir grundlegende Fragen stellen: Wer sind wir?
Wofür stehen wir? Wie können wir nicht nur die europäische Sozialdemokratie,
sondern auch die europäische Demokratie selbst retten?
Deshalb haben wir in unserer Fraktion beschlossen, dass es
nicht reicht, drei Wochen vor den Wahlen ein gemeinsames Manifest zu schreiben.
Dann wiederholen wir nur Schlagworte – soziale Gerechtigkeit, gerechte
Transformation, soziale Ökologie. Wir brauchen eine tiefere Reflexion. Erstens:
Was haben wir falsch gemacht? Wenn man überall Wahlen verliert, funktioniert
irgendetwas nicht. Zweitens: Warum sind wir überhaupt Sozialdemokraten? Was
wollen wir verändern? Und drittens: Wie wollen wir das tun?
Politik ist nicht nur transaktional – ein Reagieren auf
Bedürfnisse oder Ängste –, sie ist auch transformativ. Wir müssen die Agenda
gestalten und nicht nur auf eine reagieren, die uns andere aufzwingen.
Andernfalls spielen wir jede Partie auf dem Spielfeld des Gegners. Wir wollen
aber auch zu Hause, auf unserem eigenen Platz spielen – müssen dafür aber
zunächst neu definieren, was dieses „Zuhause“ für uns bedeutet. Paradoxerweise
hat es die nationalistische extreme Rechte geschafft, sich über Grenzen hinweg
besser zu koordinieren als wir. Sie handeln international, während wir, die
selbsternannten Internationalisten, fragmentiert bleiben. Dieser Widerspruch
muss enden, sonst werden wir weiter verlieren.
Sie haben einige Tage in Deutschland verbracht und mit
SPD-Politikern und Intellektuellen gesprochen, während die Partei an einem
neuen Grundsatzprogramm arbeitet, das 2027 fertiggestellt sein soll. Geben
solche langfristigen Programme heute noch die nötige Orientierung?
Es geht nicht nur um ein Programm. Entscheidend ist der
Prozess der Selbstbefragung – dieselben Fragen, die wir uns in Frankreich und
in ganz Europa stellen: Wer sind wir, und welche Vision bieten wir an? Ja, ein
glaubwürdiges politisches Programm ist notwendig. Aber vor den politischen
Maßnahmen müssen Werte und ein gemeinsames Verständnis von Politik stehen. Die
Herausforderung der SPD ist besonders komplex: Sie muss Lehren aus den jüngsten
Wahlen und der Stimmung in Deutschland ziehen – und gleichzeitig regieren. Das
erzeugt Konflikte, nicht nur inhaltlicher, sondern auch zeitlicher Art.
Wenn man in der Regierung ist, insbesondere als
Juniorpartner, trägt man Verantwortung für Entscheidungen, die nicht unbedingt
von einem selbst stammen – und sieht sich gleichzeitig einer Krise nach der
anderen gegenüber. Dennoch darf man langfristiges Denken nicht zugunsten
kurzfristigen Überlebens opfern. In Frankreich haben wir das zu oft getan –
taktisch auf jede Krise reagiert und die tiefere Erneuerung vernachlässigt. Man
übersteht zwar jede Welle, aber am Ende fehlt die Substanz für eine transformative
Agenda. Alle, mit denen ich hier gesprochen habe, verstehen, dass jenseits
taktischer Fehler oder einzelner Themen eine tiefere Krise der Sozialdemokratie
besteht. Und genau jetzt ist der richtige Moment, sich ihr zu stellen.
Viele argumentieren, sozialdemokratische und
Mitte-links-Parteien hätten die Arbeiterschaft verloren, die zunehmend
rechtsextrem wählt. Wie kann dieser Trend umgekehrt werden?
Das ist tatsächlich der Kern des Problems. Die
Arbeiterklasse hat sich verlagert – frühere sozialistische Wähler in Frankreich
stimmen nun für die extreme Rechte. Doch das ist nicht nur eine Krise der
Sozialdemokratie; es ist eine Krise der Demokratie selbst. Jahrzehntelang waren
westliche Demokratien stabil, weil sie den arbeitenden Menschen ein zentrales
Versprechen gaben: Durch Arbeit kannst du dir ein besseres Leben aufbauen.
Dieses Versprechen wurde lange erfüllt – es trug Wohlstand und Vertrauen in die
Demokratie. Jetzt ist es gebrochen. Und wenn es zerbricht, wächst der
Populismus.
Wir können nicht länger einfach sagen: „No pasarán.“
Moralische Empörung reicht nicht aus. Wir müssen verstehen, warum ein
Fabrikarbeiter in Michigan oder Nordfrankreich, der sein Leben lang links
gewählt hat, heute Trump oder Le Pen unterstützt. Die Antwort ist: Er sieht
keinen Fortschritt und keine Würde mehr innerhalb der Demokratie. Die
Erneuerung der Sozialdemokratie bedeutet daher eine Rückkehr zu ihren Quellen.
Arbeitende Menschen müssen wieder eine demokratische Zukunft erkennen, die
ihnen Verbesserungen bietet. Andernfalls schwächt sich die Demokratie, und die
extreme Rechte wird zur Partei der Arbeiter – wie es bereits geschehen ist. Das
ist nicht nur eine tödliche Gefahr für die Sozialdemokratie, sondern für die
Demokratie selbst.
Natürlich ist die heutige Arbeiterschaft nicht mehr dieselbe
wie früher: diversifizierter, fragmentierter, individualisierter. Wir müssen
diese Transformation verstehen und dürfen die Vergangenheit nicht
romantisieren. Und wir müssen klar definieren, für wen wir sprechen und gegen
wen wir kämpfen. Heute stehen wir einem Phänomen gegenüber, das ich
„Kapitalismus der Einsamkeit“ nenne. Große digitale Plattformen beherrschen
nicht nur den politischen Diskurs, sondern auch den Alltag. Sie profitieren von
Vereinzelung und Isolierung – und diese untergräbt Solidarität, die Grundlage
der Sozialdemokratie. Wir stehen Machtkonzentrationen gegenüber wie der von
Elon Musk oder auch der Kommunistischen Partei Chinas mit TikTok, wo
Geschäftsinteressen mit ideologischem Einfluss verschmelzen. Um die Demokratie
zu verteidigen, müssen wir wissen, für wen wir kämpfen – und gegen wen.
Kommen wir zur französischen Politik. Die Lage dort wirkt
extrem angespannt. Wie beurteilen Sie den aktuellen Moment? Und würden Sie eine
Kandidatur bei den nächsten Präsidentschaftswahlen in Erwägung ziehen?
Die Wahlen 2027 werden ein Moment von Leben oder Tod für die
französische Demokratie – und für das europäische Projekt insgesamt. Die
Möglichkeit, dass Marine Le Pen oder ein anderer rechtsextremer Kandidat
gewinnen könnte, ist sehr real. Es gibt keine Obergrenze mehr für ihre
Unterstützung. Das bedeutet: Jede Entscheidung, die heute getroffen wird, muss
mit einer Ernsthaftigkeit erfolgen, die der französischen Politik oft fehlt.
Die Geschichte wird uns daran messen, was wir jetzt tun – oder unterlassen. Wenn
die französische Demokratie kollabiert, wird das gesamte europäische
Demokratieprojekt erschüttert.
Wir müssen daher mit einem Ziel handeln: diesen Kollaps zu
verhindern. Die Sozialdemokratie muss zeigen, dass sie der echte Schutzwall der
Demokratie ist. Ja, wir teilen mit den Konservativen die Überzeugung, dass eine
starke Verteidigung gegen Putins Aggression notwendig ist. Aber wir verstehen
„Verteidigung“ ganzheitlich: Sie umfasst militärische Stärke, sozialen
Zusammenhalt und den ökologischen Übergang. Diese drei Säulen bilden gemeinsam
die Verteidigung der Demokratie. Nur wir können eine solche umfassende Vision
anbieten – eine Alternative zu den antidemokratischen Kräften. In Frankreich
arbeite ich daran, diesen Ansatz aufzubauen, ohne Sektierertum und ohne Dogma.
In diesem Kampf werden wir alle brauchen, die an die Demokratie glauben – auch
jene, die in der Vergangenheit Macron gewählt haben.
Was auf der persönlichen Ebene geschieht, weiß ich noch
nicht. Aber es geht nicht um individuelle Ambitionen. Es geht darum, einen
Zusammenbruch zu verhindern. Die Wahl besteht nicht zwischen Sieg oder
Niederlage – sondern zwischen Erneuerung oder Ruin. Um erfolgreich zu sein,
müssen wir zuerst klären, wer wir sind. Es reicht nicht, „gegen die extreme
Rechte“ zu sein. Die Menschen müssen auch wissen, wofür wir stehen. Sie wissen
vielleicht, dass wir für soziale Gerechtigkeit oder höhere Löhne eintreten, aber
unsere politische Identität bleibt unklar – während nationalistische Kräfte
eine sehr klare haben. Diese Klarheit ist unser fehlendes Puzzlestück.
Zum Schluss: Wie sehen Sie die linksextreme La France
Insoumise im größeren Kampf um die Demokratie – und was bedeutet das für
mögliche Kooperationen bei zukünftigen Wahlen?
Wenn man den Kampf für die Demokratie anführt, kann man sich
nicht mit antidemokratischen Kräften verbünden. Tut man es doch, schenkt man
der extremen Rechten den Sieg. Sie wird einfach auf unsere Inkohärenz
verweisen: „Ihr werft uns Autoritarismus oder Putin-Nähe vor, aber ihr
verbündet euch mit Populisten, die gegen die EU und die europäische
Verteidigung sind.“ Sozialdemokrat zu sein, bedeutet zuallererst, Demokrat zu
sein. Das unterscheidet uns von der populistischen Linken. Wenn wir diesen
Unterschied verwischen, verlieren wir unsere Identität. Und dieses Verwischen
ist nicht nur moralisch falsch, sondern auch strategisch ein Fehler.
Deshalb: keine Allianz mit La France Insoumise (LFI).
Sie würde eine Niederlage garantieren. Wenn ein LFI-Kandidat die zweite Runde
der Präsidentschafts- oder Parlamentswahlen erreichen würde, wäre ein Sieg der
extremen Rechten sicher. Und sogar wenn wir selbst den Kandidaten stellten
[aber in einer Allianz mit LFI, Anmerkung der Redaktion], würden wir das
moralische Argument verlieren. Man würde uns Komplizenschaft mit Kräften
vorwerfen, die mit den schlimmsten Instinkten des Populismus gespielt haben.
Ja, die Ablehnung solcher Allianzen wird auch Rückschläge bringen. Aber
Kohärenz schafft langfristig mehr Glaubwürdigkeit. Ich werde sicherstellen,
dass es keine „unscharfe Strategie“ gibt. Die Menschen verdienen Klarheit.
Am Ende zweifeln die Wählerinnen und Wähler nicht am meisten
an unserer Kompetenz, sondern an unserer Aufrichtigkeit.
Glaubwürdigkeitsprobleme kann man mit guter Politik lösen; Probleme der
Aufrichtigkeit allerdings nicht. Die Menschen müssen glauben, dass wir meinen,
was wir sagen – auch wenn es etwas kostet. Für die Sozialdemokratie in
Frankreich wünsche ich mir, dass sie ohne Zögern wieder ihren Platz in der
europäischen sozialdemokratischen Familie einnimmt. Wir sollten aufhören, so zu
tun, als wären wir Radikale in der Opposition und Liberale an der Macht. Sagt
den Menschen die Wahrheit darüber, wer ihr seid. Langfristig werden sie
Authentizität dem politischen Schauspiel vorziehen. IPG 20
Statistikamt. Weniger Einwanderung
führt zu weniger Einschulung
Weniger Erstklässler – und ein klarer Grund: Seit die
Einwanderung zurückgeht, brechen auch die Einschulungszahlen ein. Besonders
stark ist der Rückgang im Saarland. Welche Entwicklungen das Statistische
Bundesamt sieht.
In Deutschland sind vorläufigen Ergebnissen zufolge erneut
weniger Kinder eingeschult worden. Die Zahl sank nach Angaben des Statistischen
Bundesamts zu Beginn des Schuljahres 2025/2026 um 2,2 Prozent auf rund 811.500
Kinder. Bereits im vorangegangenen Schuljahr war die Zahl der Erstklässler im
Vorjahresvergleich gesunken – erstmals seit 2015.
Das Bundesamt führte die aktuelle Abnahme zum einen auf den
Rückgang der Geburtenzahl im Jahr 2019 zurück. Zum anderen hätte in den
vergangenen Jahren auch die große Zahl der zugewanderten Kinder aus dem
Ausland, insbesondere der Ukraine, zu steigenden Einschulungszahlen geführt.
Dieser Effekt sei durch den Rückgang der Zuwanderung nun aufgehoben.
Größter Rückgang im Saarland
Sowohl die Zahl deutscher (minus 1,1 Prozent) als auch
ausländischer Kinder (minus 0,8 Prozent) im einschulungsrelevanten Alter sank
den Angaben zufolge zum Jahresende 2024 gegenüber dem Vorjahr. Insgesamt lebten
Ende vergangenen Jahres demnach 1,1 Prozent weniger Kinder im Alter von 5 oder
6 Jahren in Deutschland.
Die Zahl der Einschulungen liegt dem Bundesamt zufolge im
aktuellen Schuljahr in fast allen Bundesländern unter dem Vorjahresniveau – bei
den Zahlen handelt es sich teils noch um vorläufige Ergebnisse oder geschätzte
Werte. Den größten prozentualen Rückgang gab es demnach mit minus 8,5 Prozent
im Saarland, gefolgt von Sachsen-Anhalt (minus 5,6 Prozent), Thüringen (minus
5,5 Prozent) und Berlin (minus 4,2 Prozent). Lediglich in Bremen stieg die Zahl
der Einschulungen leicht um 0,6 Prozent.
Anteil der Einschulungen an Förderschulen leicht gestiegen
Mit 93 Prozent bundesweit startete der überwiegende Teil der
Kinder die Schullaufbahn an einer Grundschule. 3,5 Prozent wurden an
Förderschulen eingeschult, 2,5 Prozent an Schularten mit drei Bildungsgängen
sowie 0,9 Prozent an Freien Waldorfschulen. Die Zahl der Schulanfängerinnen und
Schulanfänger an Förderschulen stieg um 0,5 Prozent. Sie sank dagegen an
Grundschulen (minus 2,3 Prozent), Schularten mit drei Bildungsgängen (minus 2,0
Prozent) sowie an Freien Waldorfschulen (minus 4,0 Prozent).
51 Prozent der eingeschulten Kinder waren den Angaben
zufolge Jungen, 49 Prozent Mädchen. Während das Geschlechterverhältnis in
Grundschulen, Schularten mit drei Bildungsgängen und Freien Waldorfschulen
weitgehend ausgeglichen war, wurden mit 69 Prozent deutlich mehr Jungen in
Förderschulen eingeschult. (dpa/mig 20)
Freiwilligensurvey. Migranten
werden beim Ehrenamt immer wichtiger
Während das freiwillige Engagement insgesamt sinkt, steigt
es bei Menschen mit Migrationserfahrung spürbar an. Besonders stark
unterstützen sie Geflüchtete – trotz schlechterer Löhne, knapperer Zeit und
geringerer Einbindung in Vereine.
Das Ehrenamt steht in Deutschland weiter hoch im Kurs: 2024
engagierten sich laut dem sechsten Freiwilligensurvey im Auftrag der
Bundesregierung 36,7 Prozent der Bevölkerung freiwillig im Sportverein, für
karitative Zwecke, Kultur oder die Kirche. Das sind nach dem am Freitag
veröffentlichten Bericht zwar weniger als bei der Erhebung zuvor im Jahr 2019
(39,7 Prozent). Engagierte üben ihr Ehrenamt aber demzufolge inzwischen
häufiger aus und nehmen sich mehr Zeit dafür als vor sechs Jahren.
Dem Bericht zufolge wendet knapp ein Viertel der Ehrenamtler
(24 Prozent) drei bis fünf Stunden für die Tätigkeit auf, fast jede oder jeder
Fünfte (19 Prozent) sechs Stunden oder mehr. 2019 lagen diese Anteile zwei bis
drei Prozentpunkte darunter. Für die Erhebung, die rund alle fünf Jahre
stattfindet, wurden rund 27.500 zufällig ausgewählte Menschen ab 14 Jahren
telefonisch befragt.
Ehrenamtliches Engagement ist der Erhebung zufolge zudem
keine Frage von Geschlecht oder Alter. Frauen und Männer engagieren sich
demnach gleich häufig. Auch in den Altersgruppen unterscheiden sich die Werte
nur minimal, mit Ausnahme der ab 75-Jährigen, bei denen das Engagement deutlich
abnimmt. Am meisten sind laut Survey 30- bis 49-Jährige ehrenamtlich aktiv.
Unterschiede zeigen sich bei einer Betrachtung des Bildungsstands: Menschen mit
hoher Schulbildung engagieren sich demnach häufiger.
Engagement von Migranten steigt
Ebenfalls auffällig sind Unterschiede nach
Migrationsgeschichte. Laut Bericht engagieren sich 2024 rund 28 Prozent der
Menschen mit Migrationshintergrund freiwillig – ein Wert, der seit 2019 stabil
geblieben ist. Während das Engagement in der Gesamtbevölkerung und insbesondere
bei Menschen ohne Migrationshintergrund zurückging, legten Personen mit eigener
Zuwanderungserfahrung zu. Ihr Anteil stieg von gut 20 Prozent im Jahr 2019 auf
knapp 26 Prozent. Besonders stark engagieren sich Menschen dieser Gruppe für
Geflüchtete: 37 Prozent der Engagierten mit eigener Migrationserfahrung
unterstützten in den vergangenen fünf Jahren Geflüchtete, deutlich mehr als
2019.
Aus der Forschung weiß man, warum Menschen mit
Migrationserfahrung insgesamt seltener ehrenamtlich aktiv sind. Der Grund liegt
selten in fehlender Bereitschaft, sondern meist in fehlenden Möglichkeiten:
Viele arbeiten überdurchschnittlich häufig in schlechter bezahlten Branchen,
müssen mehr Stunden leisten, um ein vergleichbares Einkommen zu erzielen, und
haben dadurch weniger zeitliche und finanzielle Spielräume für unentgeltliches
Engagement. Zudem sind Menschen mit Migrationsgeschichte oft weniger stark in
etablierte Vereinsstrukturen eingebunden – sei es, weil sie dort kaum vertreten
sind oder weil der Zugang durch fehlende Netzwerke erschwert ist.
Ministerin: Engagement beständig trotz gesellschaftlichem
Wandel
Die Staatsministerin für Sport und Ehrenamt, Christiane
Schenderlein (CDU), folgerte aus dem Bericht, dass freiwilliges Engagement sich
auch bei rasantem gesellschaftlichen Wandel als sehr beständig erweise. Als
eine Herausforderung sieht sie die bessere Vereinbarkeit von Familie und
Ehrenamt vor dem Hintergrund, dass der stärkste Rückgang des Engagements bei
den Frauen zwischen 30 und 49 Jahren zu beobachten ist, wenngleich dies nach
wie vor die engagierteste Gruppe ist. Möglichkeiten sieht Schenderlein nach
eigenen Worten in der stärkeren Nutzung digitaler Möglichkeiten, um etwa zu
umgehen, dass Mütter kleiner Kinder zu abendlichen Vereinssitzungen gehen
müssen.
Feuerwehr und Katastrophenschutz gewinnen Engagierte –
Kultur und Kirche verlieren
Das meiste freiwillige Engagement findet dem Bericht zufolge
im Sport statt, gefolgt von karitativen Tätigkeiten. An dritter Stelle landen
die Bereiche Kultur und Musik, Schule und Kindergarten sowie kirchliche oder
andere religiöse Engagements.
Der Rückgang der Zahl der Engagierten zeigt sich dem Survey
zufolge in nahezu allen Bereichen, insbesondere bei Kultur und Musik, Schule
und Kindergarten sowie Kirche und Religionen. Freiwillige gewonnen hat in den
vergangenen Jahren nur der Bereich Unfall- und Rettungsdienst, Freiwillige
Feuerwehren sowie Bevölkerungs- und Katastrophenschutz.
Der am Freitag veröffentlichte Kurzbericht über die
Ergebnisse der Umfrage kann auf der Internetseite der Staatsministerin
heruntergeladen werden. Es soll den Angaben zufolge später noch ein
ausführlicherer Bericht erscheinen, der Potenziale bei der Gewinnung
Freiwilliger sowie deren Motive vertieft beleuchten soll. (dpa/mig 20)
Studie zeigt. Globaler Süden im
deutschen Visasystem „extrem“ benachteiligt
Je ärmer das Herkunftsland, desto länger müssen
Antragsteller auf einen Visa-Termin an deutschen Auslandsvertretungen warten –
oder sie bekommen gar keinen. Eine neue Studie macht sichtbar, wie stark
wirtschaftliche Ungleichheit die Chance auf Einreise prägt.
Menschen aus ärmeren Ländern müssen deutlich länger auf
einen Termin in deutschen Auslandsvertretungen warten – und haben oft kaum eine
Chance, überhaupt einen zu bekommen. Das zeigt eine neue Auswertung von mehr
als 16.000 Terminabfragen, die globale Unterschiede im deutschen Visasystem
sichtbar macht.
Durchgeführt wurde die Analyse von Forscher:innen des
Deutschen Zentrums für Integrations- und Migrationsforschung (DeZIM), der
Europa-Universität Flensburg und des Europäischen Hochschulinstituts in
Florenz. Im Mittelpunkt der Untersuchung stand die Frage, wie gerecht die
Chancen auf einen Termin im weltweiten Vergleich verteilt sind – und welche
Rolle strukturelle Faktoren spielen.
Die Ergebnisse zeichnen ein klares Bild: Je ärmer ein Land,
desto schlechter sind die Aussichten auf einen Visatermin. Das
Pro-Kopf-Bruttoinlandsprodukt steht laut Studie in einem „deutlichen
Zusammenhang“ mit Terminchancen und Wartezeiten: Eine geringere
Wirtschaftskraft bedeutet im Durchschnitt geringere Chancen, überhaupt einen
Termin zu bekommen, und längeres Warten auf den Termin.
Lange Wartezeiten in Afrika, kurze in Singapur und Kuba
Die längsten durchschnittlichen Wartezeiten fanden die
Forscher:innen in afrikanischen Ländern. Vertretungen in Ouagadougou (Burkina
Faso), Antananarivo (Madagaskar) und Kinshasa (DR Kongo) wiesen im Schnitt
besonders lange Wartezeiten bis zum nächsten buchbaren Termin auf. Nach Ländern
lagen Burkina Faso mit durchschnittlich 75,7 Tagen und Madagaskar mit 71,3
Tagen an der Spitze. Auffällig war auch Zypern mit 60,7 Tagen. Dies könnte, so
die Analyse, im Zusammenhang mit Anträgen von Drittstaatsangehörigen stehen, da
Zypern an einer hochfrequentierten Flüchtlingsroute im Mittelmeer liegt. In 17
Ländern betrugen die Wartezeiten mehr als einen Monat. Lange Wartezeiten gingen
dabei im Schnitt mit geringeren Terminchancen einher.
Ganz anders das Bild in anderen Regionen: In Singapur lag
die durchschnittliche Wartezeit auf einen Termin bei zwei Tagen, in Kuba bei
2,7 Tagen. Insgesamt waren die Wartezeiten in Europa, Lateinamerika, der
Karibik und Ozeanien deutlich kürzer als in vielen Ländern Afrikas.
Auch wirtschaftliche Beziehungen entscheiden über
Visavergabe
Eine Rolle spielen laut Studie auch wirtschaftliche
Beziehungen und Sprache. Länder, die enge Handelsbeziehungen zu Deutschland
pflegen, verzeichnen kürzere Wartezeiten. Zudem gilt: Je mehr Menschen eines
Landes sich mit der deutschen Bevölkerung verständigen können, desto größer ist
die Chance, in den dortigen Auslandsvertretungen einen freien Visatermin zu
finden.
Die Forscher:innen sehen in den Mustern Hinweise auf eine
ungleiche Verteilung von Ressourcen und politischen Prioritäten. Offizielle
Daten zur Personalstärke oder zu Budgets einzelner Auslandsvertretungen lagen
ihnen jedoch ebenso wenig vor wie Zahlen zu den tatsächlichen Terminanfragen.
Forscher kritisieren „extrem ungleiche Chancen“
Prof. Dr. Emanuel Deutschmann, Autor der Studie und
Juniorprofessor für Soziologische Theorie an der Europa-Universität Flensburg,
warnt vor den Folgen: „Die extrem ungleichen Chancen auf einen zeitnahen
Visatermin sind ungerecht, führen zu Frust und werden von den Betroffenen zu
Recht als diskriminierend empfunden.“
Auch wenn unklar bleibe, ob längere Wartezeiten im Globalen
Süden eine Nebenfolge von Unterbesetzung und Überforderung oder das Ergebnis
einer gezielten Abschreckungs- und Ausgrenzungspolitik sind, die Folgen seien
eindeutig: „Deutschlands Reputation als Einwanderungsland und
Tourismusdestination leidet, dringend benötigte Fachkräfte werden abgeschreckt,
Austausch und Kooperation eingeschränkt und globale Ungleichheiten letztlich
reproduziert und verstärkt.“
Studienautor fordert Transparenz
Dr. Niklas Harder, Co-Autor der Studie und Co-Leiter der
Abteilung Integration am DeZIM, fordert Chancengleichheit und mehr Transparenz
für eine gute Migrationspolitik – „egal aus welchem Land“. Er schlägt eine
öffentlich zugängliche Plattform mit aktuellen Wartezeiten vor als Teil des
Auslandsportals des Auswärtigen Amtes. „Transparenz ist auch die Grundlage
dafür, die Frage zu diskutieren, wie die unterschiedlichen Wartezeiten
entstehen“, so Harder.
Für die Studie wurden Angaben zufolge 16.182
computergestützte Terminabfragen bei 130 deutschen Botschaften und Konsulaten
in 109 Ländern ausgewertet. Die Abfragen fanden zwischen November 2023 und
September 2024 statt. Alle sechs Tage wurde erfasst, ob Termine verfügbar waren
und wie lange auf den nächstmöglichen Termin gewartet werden müsste. (mig 19)
„Wir versagen beim Klimaschutz“
Mit Sorge verfolgt Leo XIV. das Hin und Her auf der
laufenden Klimakonferenz COP30 in Brasilien. „Noch ist es Zeit, um den Anstieg
der globalen Temperatur unter der 1,5°C-Marke zu halten, aber das Zeitfenster
schließt sich gerade. Von Stefan von Kempis
Das sagte der Papst
in einer Videobotschaft an Kirchenvertreter aus dem globalen Süden, die sich im
Amazonasmuseum des Tagungsortes Belém getroffen haben. Die Botschaft wurde in
der vergangenen Nacht (MEZ) veröffentlicht.
„Das Klimaabkommen von Paris (von 2015) hat konkrete
Fortschritte gebracht und stellt weiterhin unser stärkstes Werkzeug dar, um die
Menschen und den Planeten zu schützen. Aber wir sollten ehrlich sein: Nicht das
Abkommen versagt, sondern wir sind es, die in unserer Antwort (auf den
Klimawandel) versagen. Was fehlt, ist der politische Wille bei einigen.“
Den Namen Trump erwähnt der Papst nicht
Den Namen Donald Trump erwähnt der Papst, der aus den USA
stammt, in seiner Videobotschaft nicht. Auf Anweisung des Präsidenten sind die
Vereinigten Staaten aus dem Klimaabkommen ausgetreten; sie haben keine
nationale Delegation nach Belém geschickt.
„Die Schöpfung schreit auf“
„Die Schöpfung schreit auf – durch Überschwemmungen,
Trockenheiten, Stürme und unerbittliche Hitze. Ein Drittel der Menschheit lebt
in einer Situation großer Verwundbarkeit wegen dieser klimatischen
Veränderungen. Für sie ist der Klimawandel keine ferne Drohung. Diese Menschen
zu ignorieren, würde bedeuten, unser gemeinsames Menschsein zu leugnen!“
Klimaschutz als Investition in eine gerechtere Welt
Leo XIV. rief – ganz im Stil seines Vorgängers Franziskus,
der vor zehn Jahren eine Enzyklika zum Thema Umwelt verfasst hat – zu
„schnellem Handeln“ auf, „mit Glauben und Prophetie“. An die Verhandler in
Belém gewandt bemerkte er: „Stärkerer Klimaschutz würde wirtschaftliche Systeme
hervorbringen, die robuster und gerechter wären. Das wäre eine Investition in
eine gerechtere und stabilere Welt.“
Papst Leo XIV. zum Klimagipfel in Brasilien - Ein Bericht
von Radio Vatikan
„Hüter der Schöpfung, nicht Rivalen bei ihrer Ausplünderung“
Dass er nicht zu den Leugnern des Klimawandels zählt, machte
Papst Leo deutlich, als er dazu ermunterte, sich „an die Seite der
Wissenschaftler“ zu stellen. „Wir sind Hüter der Schöpfung, nicht Rivalen bei
ihrer Ausplünderung. Senden wir gemeinsam ein klares globales Signal aus:
Nationen, die mit unverbrüchlicher Solidarität das Abkommen von Paris und die
Zusammenarbeit in der Klimapolitik unterstützen.“ Vn 18
Ungleiche Chancen. Armut trifft
Kinder mit Migrationsbiografie viermal so häufig
Armut trifft eingewanderte Familien besonders hart: Kinder
mit Migrationserfahrung sind viermal so häufig gefährdet wie Gleichaltrige ohne
solche Einwanderungsgeschichte. Ihnen fehlen Geld für Möbel, Urlaub oder ein
zweites Paar Schuhe – mit spürbaren Folgen für Bildung, Chancen und Teilhabe.
Kinder und Jugendliche in Deutschland, die selbst oder deren
Eltern eingewandert sind, sind viermal so häufig armutsgefährdet (31,9 Prozent)
wie Gleichaltrige ohne Einwanderungsgeschichte (7,7 Prozent). Das geht aus
Zahlen des Statistischen Bundesamtes hervor, die am Montag veröffentlicht
wurden.
Danach war insgesamt jedes siebte Kind in Deutschland im
vergangenen Jahr aus statistischer Sicht armutsgefährdet. 2,2 Millionen Kinder
und Jugendliche unter 18 Jahren entsprachen einem Anteil von 15,2 Prozent aller
Menschen in dieser Altersgruppe. Ein Jahr zuvor hatte der Anteil erst 14,0
Prozent betragen. Deutschland steht im Vergleich zum europäischen
Durchschnittswert von 19,3 Prozent besser da. Im Vergleich zur
Gesamtbevölkerung (15,5 Prozent) sind Kinder und Jugendliche etwas seltener von
Armut bedroht.
Risikofaktor: Bildung
Als armutsgefährdet gelten nach statistischer Definition
Menschen, die über weniger als 60 Prozent des mittleren
„Nettoäquivalenzeinkommens“ verfügen. Das ist ein gewichtetes
Pro-Kopf-Einkommen, das beispielsweise auch die Haushaltsgröße berücksichtigt. Im
Jahr 2024 lag die Schwelle für eine alleinlebende Person bei 1.381 Euro pro
Monat. Ein Alleinerziehenden-Haushalt mit einem Kind unter 14 Jahren gilt mit
weniger als 1.795 Euro netto im Monat als gefährdet. Haushalte mit zwei
Erwachsenen und zwei Kindern unter 14 Jahren waren unterhalb eines
Netto-Einkommens von 2.900 Euro armutsgefährdet.
Als Risikofaktor für geringe Einkommen und daraus folgende
Armutsgefährdung haben die Statistiker unter anderem niedrige
Bildungsabschlüsse der Eltern ausgemacht. 41,8 Prozent der Kinder von Eltern
ohne Berufsabschluss waren 2024 armutsbetroffen. Bei Kindern mit Eltern mit
Hochschulabschluss waren es 7,2 Prozent.
Möbel, Urlaub, Schuhe
Die konkreten Folgen der Armut zeigen sich an den
Möglichkeiten der Kinder und Jugendlichen, am sozialen und kulturellen Leben
teilzuhaben. Dies wird anhand von 17 Merkmalen abgefragt. Wenn mindestens drei
Kriterien aus finanziellen Gründen nicht erfüllt werden können, gelten die
Betroffenen als materiell oder sozial benachteiligt. Das trifft in Deutschland
demnach auf 11,3 Prozent der unter 16-Jährigen zu. In der EU beträgt der Wert
13,6 Prozent.
So lebten in Deutschland beispielsweise 19 Prozent der unter
16-Jährigen in einem Haushalt, der abgewohnte oder kaputte Möbel nicht ersetzen
konnte. Eine einwöchige Urlaubsreise war für 12 Prozent der Kinder und
Jugendlichen aus finanziellen Gründen nicht möglich. 3 Prozent konnten sich
kein zweites Paar Schuhe leisten. (dpa/epd/mig 18)
Die wahre Krise Europas? Souveränismus. Denn Alleingänge der
Nationalstaaten lösen keine transnationalen Probleme. Von Jan Zielonka
Was ist derzeit die größte antieuropäische Plage? Viele
würden an dieser Stelle wohl den Populismus oder den Nativismus nennen. Während
Ersterer einfache Lösungen für komplexe Probleme verspricht, steht Letzterer
für Bewegungen, welche die Rechte der einheimischen Mehrheit betonen und sich
gegen Zuwanderung oder Minderheiten richten. Aus meiner Sicht ist jedoch der
sogenannte „Souveränismus“ ein noch gravierenderes Problem. Er beschreibt den
Wunsch von EU-Staaten, auf eigene Faust und notfalls gegen die Präferenzen der
übrigen Mitglieder zu handeln – und verhindert damit, dass Europa die großen
Herausforderungen dieses Jahrhunderts wirksam angeht. Diese sind offenkundig
transnationaler Natur: von der Finanz- über die Migrations- und die
Corona-Krise bis hin zur durch Russland ausgelösten Sicherheitskrise. Keine
einzige davon konnte oder kann ein einzelner Staat allein bewältigen.
Wenn Regierungen sich als unfähig oder gar machtlos
erweisen, suchen die Bürger nach Sündenböcken, denen sie die Schuld für ihr
Elend geben können – und hoffen auf Wunder, die ihr Leben verbessern. Das
erklärt den Erfolg von Populismus und Nativismus: Sie sind nicht die Ursache,
sondern das Symptom einer tieferliegenden Malaise. Eigentlich wäre zu erwarten,
dass sich liberale Politikerinnen und Politiker dem Souveränismus und dessen
einfachen Antworten entgegenstellen. Doch sie beschränken sich meist auf die
Kritik an Populismus und Nativismus. Populismus gilt als gefährlich, Nativismus
als offen rassistisch. Der Souveränismus dagegen stößt selbst bei Liberalen oft
auf Zustimmung. Warum? Die Antwort darauf hängt eng mit unserem gegenwärtigen
Demokratiemodell und der europäischen Integration zusammen.
Der Nationalstaat bleibt der zentrale Ort der Demokratie –
wo das Volk, ob in Frankreich, Deutschland oder den Niederlanden, souverän
entscheidet und frei von äußeren Einflüssen sein soll. Die europäische
Integration war nach den Verwüstungen zweier Weltkriege von Beginn an darauf
ausgelegt, die Nationalstaaten zu bewahren, nicht darauf, sie abzuschaffen. Aus
diesem Grund hat der Rat der Europäischen Union, in dem die Staats- und
Regierungschefs zusammenkommen, und nicht die Kommission oder das Parlament, bei
allen wichtigen Entscheidungen das letzte Wort. An dem Tisch, an dem über
Europas Zukunft entschieden wird, sitzen letztlich nur Vertreter der
Nationalstaaten, die verpflichtet sind, ihre jeweiligen nationalen Interessen
zu verteidigen. Manche glauben fest an die Souveränität ihrer Länder, andere
agieren zurückhaltender. Doch keiner von ihnen möchte sich von der Kommission
oder anderen Mitgliedstaaten unter Druck setzen lassen.
Wenn die Nationalstaaten die zentralen Akteure im
EU-Geschehen sind – warum versprechen dann so viele Politikerinnen und
Politiker, die Entscheidungsmacht von Brüssel „zurück“ in ihre Hauptstädte zu
holen? Sie tun es, weil es bequem ist, die Brüsseler Eurokraten für die eigenen
Versäumnisse verantwortlich zu machen – sei es bei der Regulierung von
Migration, beim Kampf gegen steigende Schulden, Finanzspekulation, Klimawandel,
Sicherheitslücken und ausländische Desinformationskampagnen. Diese Kritik ist substanzlos:
Das Vereinigte Königreich hat die EU vor einigen Jahren verlassen, und keines
dieser Probleme ist auf der Insel verschwunden – im Gegenteil, sie haben sich
sogar noch verschärft.
Nach den Erfahrungen mit dem Brexit will heute kein Staats-
oder Regierungschef auf dem Kontinent die EU verlassen. Stattdessen versuchen
viele, sie in einen losen Zusammenschluss autonomer Staaten zu verwandeln – mit
wenigen bis gar keinen Auflagen aus Brüssel. Diese Politik wird nicht nur von
Figuren wie Viktor Orbán oder Geert Wilders betrieben. Auch vermeintlich
liberale und proeuropäische Politiker wie Polens Ministerpräsident Donald Tusk
oder Bundeskanzler Friedrich Merz beteiligen sich an diesem souveränistischen
Spiel. Wie sonst ließe sich die Wiedereinführung von Grenzkontrollen zwischen
Deutschland und Polen erklären? Und ist Ihnen schon aufgefallen, wie oft gerade
diese angeblich europäisch denkenden Regierungschefs von der Verteidigung ihrer
egoistischen nationalen Interessen sprechen, wenn es um Sicherheit, Migration
oder Wirtschaft geht?
Hier zeigt sich ein Paradoxon: Je offensichtlicher die
Nationalstaaten daran scheitern, transnationale Entwicklungen und die
disruptiven Folgen wechselseitiger Abhängigkeiten zu bewältigen, desto
hartnäckiger pochen ihre Politiker darauf, ihren eigenen Weg zu gehen – und
ignorieren dabei Institutionen wie die Vereinten Nationen, die
Welthandelsorganisation, die Weltgesundheitsorganisation und sogar die EU. Der
einzige Akteur, den sie nicht ignorieren, sind die USA, regiert vom
unberechenbarsten, transaktionsgetriebensten und gierigsten Präsidenten in der
Geschichte dieses großen Landes.
Die Europäische Union steckt derzeit in einer schwierigen
Lage. Den Souveränisten ist es gelungen, zentrale Vorhaben wie die grüne Agenda
oder den Migrationspakt zu verwässern, wenn nicht sogar ganz zu stoppen. Zwar
spricht die EU viel über ihre neue Rolle im Sicherheitsbereich, doch in der
Praxis sind die Fortschritte minimal. Die Mitgliedstaaten haben lediglich
zugesagt, mehr Geld für den Kauf amerikanischer Waffen auszugeben, die jedoch
nur mit Zustimmung der USA eingesetzt werden können, wie die Ukraine kürzlich
erfahren musste.
Selbst die „Koalition der Willigen“, die sich einem
aggressiven Russland entgegenstellen soll, ist von gegenseitigem Misstrauen,
Ressourcenmangel und Abhängigkeit von Uncle Sam geprägt. Diese
Entscheidungsunfähigkeit, die zu halbherzigen, oft nur kosmetischen Lösungen
für wachsende Probleme führt, ist nicht neu. Ein ähnliches Muster zeigte sich
bereits in früheren Krisen, als nationale Alleingänge eine gemeinsame
europäische Antwort verhinderten. Optimisten mögen einwenden, dass diese
Alleingänge immerhin nicht mehr zu Kriegen zwischen europäischen Staaten
führen. Angesichts der derzeitigen Lage der Union ist es jedoch wohl nur eine
Frage der Zeit, bis der Hobbes’sche Geist wieder in Europa Einzug hält, genährt
durch interne Konflikte und äußere Einflussnahme.
Was also kann getan werden, um die Zukunft Europas und
seiner verunsicherten, desorientierten und zunehmend verarmenden Bürgerinnen
und Bürger zu sichern? Die Antwort ist bekannt: Europa muss endlich zu einem
föderalen Superstaat werden. Oder, wie Josep Borrell, Guy Verhofstadt und
Domènec Ruiz Devesa es kürzlich formulierten: „Wir müssen eine echte föderale
Union werden, die endlich von den Zwängen der Einstimmigkeitspflicht befreit
ist und mit Kompetenzen in der Außen- und Sicherheitspolitik ausgestattet ist.“
Doch das ist leichter gesagt als getan, zumal in einer Zeit, in der das
Versprechen, zum stolzen und souveränen Nationalstaat zurückzukehren, ein
bewährtes Rezept für Wahlerfolge ist. Eine Föderation von Souveränisten aber
ist ein Widerspruch in sich.
Auch liberale Regierungschefs in Europa sehen ihre Staaten
als die stärkeren und besser legitimierten Akteure und lehnen eine Föderation
entsprechend ab. Doch man muss fragen: Sind die Nationalstaaten heute überhaupt
noch in der Lage, ihre traditionellen Aufgaben in Bereichen wie der Sozial-,
der Währungs- oder der Verteidigungspolitik zu erfüllen? Und ist die Demokratie
in den Nationalstaaten tatsächlich stark genug, um tragfähige Legitimität zu
schaffen? Daran habe ich erhebliche Zweifel.
Studien zeigen, dass die demokratische Legitimität unserer
Staaten einen historischen Tiefpunkt erreicht hat. Eine kürzlich von der
Sciences Po durchgeführte Umfrage ergibt, dass nur 26 Prozent der Franzosen der
Politik vertrauen, während 71 Prozent der Meinung sind, die Demokratie in ihrem
Land funktioniere nicht gut. Eine andere Erhebung zeigt, dass sich mehr als die
Hälfte der Europäer vorstellen kann, den klassischen Gesetzgeber durch eine KI
zu ersetzen. Auch die Fähigkeit der Staaten, gesellschaftliche und
wirtschaftliche Probleme wirksam zu lösen, befindet sich auf einem historischen
Tiefpunkt, mit nur geringen Unterschieden zwischen den einzelnen Ländern.
Die öffentlichen Dienste vieler Länder stehen kurz vor dem
Kollaps. Regierungen rühmen sich damit, ihre Grenzen gegen Migranten zu
verteidigen, doch die verfügbaren Daten stützen diese Behauptung kaum. Ebenso
offensichtlich ist, dass keiner der europäischen Staaten in der Lage wäre, sich
wirksam gegen ein wiedererstarktes Russland zu verteidigen oder entscheidenden
Einfluss auf die schwelenden Konflikte an Europas Südflanke, im Nahen Osten
oder in Nordafrika zu nehmen.
Damit soll nicht behauptet werden, Staaten seien völlig
nutzlos, geschweige denn, dass sie im Verschwinden begriffen wären. Doch sie
sind weder so leistungsfähig noch so demokratisch, wie sie selbst behaupten.
Nicht nur die EU, sondern auch Städte, Regionen und zahlreiche
Nichtregierungsorganisationen in Europa können oft eine bessere Bilanz bei der
Bereitstellung öffentlicher Güter vorweisen, selbst in sensiblen Bereichen wie
Migration, Sicherheit und Diplomatie. Zudem genießen diese nichtstaatlichen
Akteure ein höheres Maß an Vertrauen als die Nationalstaaten.
Eine Eurobarometer-Umfrage vom Frühjahr 2025 zeigt: 52
Prozent der Europäerinnen und Europäer vertrauen der EU, aber nur 36
beziehungsweise 37 Prozent ihrer nationalen Regierung beziehungsweise ihrem
Parlament. Schon die Erhebung des Vorjahres hatte ergeben, dass rund 60 Prozent
der Menschen in der EU Vertrauen in ihre regionalen oder lokalen Behörden
haben. Was also rechtfertigt das Quasi-Monopol der Staaten auf Entscheidungen
und Ressourcen? Vielleicht sollten wir die Staaten endlich dazu drängen, ihre
Souveränität und ihre Mittel nicht nur mit der EU, sondern mit einer breiteren
Gruppe von Akteuren zu teilen, die ich als die „fünfte Gewalt der Demokratie“
bezeichnen würde. Vielleicht ist es an der Zeit, den abstrakten Begriff der
europäischen Mehrebenen-Governance Wirklichkeit werden zu lassen.
Das Problem ist, dass diese fünfte Gewalt zersplittert und
unkoordiniert ist. Zudem fehlt ihr eine gemeinsame Stimme. Die EU richtet sich
in erster Linie nach den Bedürfnissen der Mitgliedstaaten und behandelt NGOs,
Regionen und Städte eher wie Kunden denn als unverzichtbare Partner. Einige
Regionen agieren beinahe wie eigenständige Staaten, andere konzentrieren sich
vor allem darauf, mehr Geld aus Brüssel zu erhalten. Städte hingegen sind
weniger an Souveränitätsspielen interessiert, doch ihre Anliegen sind meist
praktischer als politischer Natur, eher lokal als europäisch orientiert.
NGOs engagieren sich für wichtige, aber höchst
unterschiedliche Anliegen und müssen zugleich um öffentliche Unterstützung
konkurrieren. Da es keine Plattform gibt, welche die verschiedenen Zweige
dieser fünften Gewalt zusammenführt, sind sie anfällig für Manipulation und
Marginalisierung. Der Ausschuss der Regionen und die Social Platform, der
Dachverband europäischer Nichtregierungsorganisationen, sind lose organisiert
und wenig einflussreich. Die Europäische Bürgerinitiative, die
es EU-Bürgerinnen und -Bürgern erlaubt, neue Gesetzesvorschläge
einzubringen, hat bislang kaum praktische Wirkung entfaltet und konzentriert
sich meist auf eng umrissene Themen wie Käfighaltung oder Regionalsprachen.
Solange sich die unterschiedlichen Akteure dieser fünften
Gewalt nicht organisieren und zusammenschließen, um eine grundlegende Reform
des europäischen Entscheidungsprozesses zu fordern, werden die Nationalstaaten
sich weigern, wesentliche Befugnisse und Ressourcen mit ihnen zu teilen. Macht
wird selten freiwillig abgegeben, sie muss erkämpft werden. Die Empfehlung ist
daher einfach und klar: Diejenigen, die auf effektive Weise zu öffentlichen
Werten beitragen, sollten sich vereinen und ihre Stimme erheben.
Europa braucht einen grundlegenden Wandel. Im Moment treiben
jedoch die Souveränisten diesen Wandel voran. Wenn Bürgermeister,
NGO-Aktivisten und Proeuropäer an einen anderen, einen besseren Kontinent
glauben, sollten sie sich zusammenschließen und ihre eigene Vision
vorantreiben. Nennen wir sie einfach: ein Europa der Netzwerke. IPG 18
Bundesregierung kündigt Update für
den Aktionsplan gegen Rassismus an
Was genau ist Rassismus und wie kann der Staat am besten
dagegen vorgehen? Bis 2027 soll ein Aktionsplan dafür vorliegen. Zugleich sind
Kürzungen beim Programm „Demokratie leben“ geplant – also im Kampf gegen
Rassismus.
Die Bundesregierung will den Kampf gegen Rassismus auf eine
neue Grundlage stellen. Der im Koalitionsvertrag von CDU, CSU und SPD dazu
vereinbarte Prozess hat jetzt mit einer Auftaktsitzung von Vertretern der
verschiedenen Ministerien begonnen, wie das Büro der
Integrations-Staatsministerin und Beauftragten für Antirassismus, Natalie
Pawlik, mitteilte. Wie zugleich bekannt wurde, steht auch das Programm
„Demokratie leben“ unter besonderer Beobachtung. Union und SPD wollen dafür
weniger Geld geben als ursprünglich geplant.
Das geht aus einer Vorlage für die entscheidende Sitzung des
Haushaltsausschusses im Bundestag hervor, die der Deutschen Presse-Agentur
vorliegt. Demnach sollen statt der im ersten Etatentwurf vorgesehenen 191 nur
noch 186,5 Millionen Euro fließen. Das wäre allerdings immer noch mehr als in
den vergangenen Jahren (182 Millionen). Das Programm „Demokratie leben“ fördert
zivilgesellschaftliches Engagement für ein demokratisches Miteinander und die
Arbeit gegen Radikalisierung in der Gesellschaft – also auch gegen Rassismus.
Arbeitsdefinition aus der Zeit der Ampel-Koalition
Die Beauftragte, die die Federführung hat, sagte laut einer
Mitteilung: „Wir starten für die Bundesregierung den neuen Nationalen
Aktionsplan gegen Rassismus. Dort werden wir Maßnahmen gegen Rassismus bündeln
und gezielt weiterentwickeln.“ Im Koalitionsvertrag heißt es: „Wir werden den
Nationalen Aktionsplan gegen Rassismus aufbauend auf einer
wissenschaftsbasierten Rassismus-Definition neu auflegen, um Rassismus in
seinen verschiedenen Erscheinungsformen zu bekämpfen.“
Die frühere Beauftragte der Bundesregierung für
Antirassismus und heutige Entwicklungsministerin, Reem Alabali-Radovan (SPD),
hatte im März – vor der Bildung der schwarz-roten Koalition – der öffentlichen
Verwaltung eine Arbeitsdefinition von Rassismus an die Hand gegeben. Die von
Expertinnen und Experten in einem mehr als eineinhalb Jahre dauernden Prozess
formulierte Definition sollte Beamtinnen und Beamten im Alltag mehr Klarheit
verschaffen. Sie sei allerdings nicht verbindlich, sondern stelle lediglich ein
Angebot dar, wurde damals betont.
„Historisch gewachsene Einteilung von Menschen“
„Rassismus basiert auf einer historisch gewachsenen
Einteilung und Kategorisierung von Menschen anhand bestimmter äußerlicher
Merkmale oder aufgrund einer tatsächlichen oder vermeintlichen Kultur,
Abstammung, ethnischen oder nationalen Herkunft oder Religion“, heißt es in der
Definition.
Bestimmte Merkmale würden diesen Gruppen zugeschrieben, die
sie und die ihnen zugeordneten Personen als höher- oder minderwertig
charakterisierten. Die als minderwertig kategorisierten Gruppen werden demnach
herabgewürdigt und auf der Grundlage von negativen Stereotypen und Vorurteilen
abgewertet.
Alabali-Radovan hatte für die Formulierung der
Arbeitsdefinition im Juni 2023 einen Rat von zwölf Expertinnen und Experten für
Antirassismus berufen. An der Erarbeitung des nun von Pawlik angekündigten
neuen Plans sollen Wissenschaftler, die Zivilgesellschaft und die Bundesländer
beteiligt werden. Geplant ist den Angaben zufolge, den Plan 2027 dem Kabinett
zum Beschluss vorzulegen.
Aktionsplan aus 2017
Pawlik betonte: „Rassismus ist längst kein Randproblem
mehr.“ Alle 75 Minuten ereigne sich in Deutschland eine rassistische Straftat.
Betroffene müssten besser geschützt werden.
Der aktuelle Nationale Aktionsplan gegen Rassismus stammt
von 2017. Er formuliert konkrete Ziele wie etwa die Förderung von Diversität in
Arbeitsleben, Ausbildung und Beruf und die Bekämpfung von Rassismus im
Internet.
(dpa/mig 17)
Unicef-Bericht. Eine Million Kinder
in Deutschland wachsen in Armut auf
Bei der Bekämpfung von Kinderarmut stagniert die Entwicklung
in Deutschland laut Unicef seit Jahren. Für die betroffenen Kinder bedeutet das
Ausgrenzung und kaum Aufstiegschancen. Besonders schwer haben es Kinder von
Asylbewerbern. Von Markus Geiler
Mehr als eine Million Kinder in Deutschland wachsen laut
Unicef in Armut auf. Dadurch fehlten ihnen wesentliche Voraussetzungen zur
Teilhabe am gesellschaftlichen Leben und für späteren beruflichen Erfolg, heißt
es in dem am Mittwoch in Berlin vorgestellten Bericht des UN-Kinderhilfswerks.
Die Kinder hätten beispielsweise keinen Platz, um
Hausaufgaben zu machen, könnten sich kein zweites Paar Schuhe oder vollwertige
Mahlzeiten leisten und aus Geldmangel kaum an Freizeitaktivitäten
Gleichaltriger teilnehmen. 44 Prozent von ihnen lebten in überbelegten
Wohnungen. Mindestens 130.000 Kinder seien wohnungslos und in kommunalen
Unterkünften untergebracht.
Ein Viertel kann nicht gut lesen
Bei der Bekämpfung von Kinderarmut stagniere die Entwicklung
in Deutschland seit Jahren, kritisierte die Direktorin des Deutschen
Jugendinstituts und Miterstellerin des Berichts zur Lage der Kinder in
Deutschland, Sabine Walper. Insgesamt 1,9 Millionen der knapp 14 Millionen
Kinder und Jugendlichen hierzulande lebten vom Bürgergeld ihrer Familie. Hinzu
kämen Kinder, die mit Asylbewerberleistungen auskommen müssen.
Die ungleichen materiellen und sozialen Voraussetzungen in
den Familien wirkten sich auf alle Lebensbereiche der Kinder aus. So könne ein
Viertel der Kinder nicht gut lesen. 41 Prozent der Achtklässlerinnen und
Achtklässler verfügten lediglich über rudimentäre digitale Kompetenzen. Dabei
seien Kinder aus prekären Elternhäusern deutlich überrepräsentiert.
Jährlich 62.000 ohne Schulabschluss
Hinzu komme, dass sich besonders benachteiligte Kinder und
Jugendliche von ihrem Umfeld selten gut unterstützt fühlen. Jährlich verließen
mehr als 62.000 Jugendliche die Schule ohne Abschluss. Im internationalen
Vergleich steht Deutschland laut Walper damit schlechter da als andere
europäische Länder wie Finnland, Norwegen oder Portugal.
Immer mehr Kinder und Jugendliche leiden dem Bericht zufolge
zudem an gesundheitlichen Beschwerden. Im Jahr 2022 gaben 40 Prozent der 11-
bis 15-Jährigen an, dass sie mehrfach pro Woche oder sogar täglich Beschwerden
wie Kopfschmerzen, Bauchschmerzen oder Schlafprobleme haben. 2014 waren es 24
Prozent.
Steigende psychische Belastungen
Auch schätzt ein großer Teil der Kinder und Jugendlichen die
eigene psychische Gesundheit und Lebenszufriedenheit als nicht gut ein. „Auch
hier sind die Werte alarmierend“, sagte Walper. Sie liegen demnach nur bei 51
bis 67 von 100 Punkten, variierend nach Geschlecht und familiärem Wohlstand.
Den niedrigsten Durchschnittswert hätten finanziell benachteiligte Mädchen.
Der Vorsitzende von Unicef Deutschland, Georg Graf
Waldersee, betonte, wer Deutschlands Zukunft sichern wolle, müsse jetzt gezielt
in Kinder investieren – insbesondere in die aus armen Familien.
Die Kinderrechtsorganisation Save the Children erklärte,
Diskussionen um Social-Media-Nutzung seien wichtig, aber sie führten bei der
Beseitigung sozialer Ungleichheiten nicht weiter. Kinder bräuchten gut
ausgestattete Bildungs- und Betreuungseinrichtungen mit ausreichend
Fachpersonal sowie niedrigschwellige Hilfsangebote. (epd/mig 14)
Der Krieg im Sudan eskaliert, es herrschen apokalyptische
Zustände. Europa hat zu lange weggeschaut. Von Achim Vogt & Talal Salih
Die Lage im Sudan sei „apokalyptisch“, so fasste es
Außenminister Johann Wadephul am Rande der Sicherheitskonferenz Manama Dialogue
in Bahrain zusammen. Sein jordanischer Amtskollege Ayman Safadi zeigte sich
erschüttert über eine „humanitäre Katastrophe unmenschlicher Ausmaße“. Der
Sudan, gestand Safadi selbstkritisch ein, habe nicht „die nötige
Aufmerksamkeit“ bekommen. Einige Tage später folgten 16 Außenpolitiker, auch
aus Deutschland, mit einer gemeinsamen Erklärung: „Solche Handlungen stellen
(…) Kriegsverbrechen und Verbrechen gegen die Menschlichkeit nach dem
Völkerrecht dar.“ Neun weitere Staaten billigten die Erklärung. Adressiert
wurden damit die Gräueltaten der Rapid Support Forces (RSF) und der mit ihnen
verbündeten Milizen im Zuge der Erstürmung der Provinzhauptstadt El Fasher in
der sudanesischen Provinz Nord-Darfur. Der UN-Sicherheitsrat verurteilte am 30.
Oktober den Angriff und dessen verheerende Folgen für die Zivilbevölkerung, der
Internationale Strafgerichtshof (IStGh) in Den Haag nahm am 3. November
Ermittlungen auf.
Das Eingeständnis, zu lange weggeschaut zu haben, kommt
reichlich spät. Seit Monaten hatten Beobachter gewarnt, wenn El Fasher nach
anderthalb Jahren Belagerung fallen sollte, sei mit schwersten Verbrechen zu
rechnen. Ein potenzieller Völkermord mit Ansage sozusagen. Insofern ist der
Krieg im Sudan kein vergessener, sondern – wie es die Sudan-Expertin Marina
Peter formuliert – ein ignorierter. Bereits zu Beginn des inzwischen seit
zweieinhalb Jahren wütenden Krieges hatten die RSF ethnische Säuberungen in El
Geneina verübt, der Hauptstadt der Provinz West-Darfur. Schon diese Aktionen
trugen Züge eines Völkermordes. Die Massaker, denen laut Schätzungen bis
zu 15 000 Menschen zum Opfer fielen, richteten sich vor allem gegen die
Massalit, eine nicht-arabische Bevölkerungsgruppe. In El Fasher trifft es nun
die Zaghawa, ebenfalls eine nicht-arabische Gruppe.
Die RSF gingen 2013 aus den Dschandschawid hervor, die
bereits Anfang der 2000er Jahre für einen Völkermord in Darfur verantwortlich
waren. Aber es dauerte zwei Jahrzehnte, bis am 6. Oktober 2025 – just drei
Wochen vor den jüngsten Massakern – mit Ali Abd-Al-Rahman der erste
Verantwortliche der Dschandschawid vom IStGH für Kriegsverbrechen in Darfur
verurteilt wurde. Sudans Langzeitdiktator Omar al Bashir, der die
Dschandschawid systematisch für seine Zwecke eingesetzt hatte, wurde 2009 als
erstes amtierendes Staatsoberhaupt vom IStGH angeklagt, ein Jahr später auch
wegen Völkermordes.
In den 2000er Jahren erfuhr der Völkermord in Darfur
erhebliche mediale Aufmerksamkeit, nicht zuletzt aufgrund des Engagements
vieler Prominenter, darunter George Clooney und Mia Farrow. Sie reisten
seinerzeit öffentlichkeitswirksam selbst nach Darfur und sorgten für eine Welle
weltweiter Aufmerksamkeit, die heute vergessen und unmöglich zu wiederholen
scheint.
Das Schicksal des Sudan war es, dass der aktuelle Krieg am
15. April 2023 ausgerechnet in einer Zeit ausbrach, in der der russische
Angriffskrieg in der Ukraine bereits ein Jahr tobte, und wenige Monate bevor
mit dem Massaker der Hamas und dem nachfolgenden Krieg in Gaza Medien und
Politik, aber auch breite Teile der internationalen Öffentlichkeit vollständig
gebunden waren. Obwohl die Medien durchaus berichteten – soweit das unter den
Umständen und bei fast völlig fehlenden Zugängen für Berichterstatter überhaupt
möglich war –, blieben ein öffentlicher Aufschrei und damit letztlich
politische Reaktionen weitgehend aus.
Inzwischen ist Bewegung in die verfahrene Situation gekommen
– maßgeblich und ausgerechnet durch Donald Trump. Der selbsternannte
Friedensstifter und verhinderte Nobelpreisträger hat sich nun auch die
Beendigung des Sudan-Krieges auf seine Fahnen geschrieben, im Quartett („Quad“)
mit Ägypten, Saudi-Arabien und den Vereinigten Arabischen Emiraten. Die drei
arabischen Staaten sind die wichtigsten Unterstützer der am Konflikt
beteiligten Parteien im Sudan. Während Ägypten und Saudi-Arabien (mit anderen
Staaten wie der Türkei, Katar sowie eingeschränkt Russland und selbst dem Iran)
die De-facto-Regierung des Generals Abdel Fattah al-Burhan und die ihm
unterstehenden Sudanese Armed Forces (SAF) unterstützen, stehen die Vereinigten
Arabischen Emirate an der Seite der RSF.
In einer Erklärung einigten sich die Quad-Mitglieder am 12.
September in Washington auf fünf zentrale Bedingungen: die Wahrung der
territorialen Integrität des Sudan, das Primat der Diplomatie über eine
militärische Lösung, den ungehinderten Zugang für humanitäre Hilfe und den
Schutz von Zivilisten, den Stopp von Waffenlieferungen und – wohl am
bedeutendsten – einen inklusiven und transparenten politischen
Übergangsprozess, der auf einen dreimonatigen Waffenstillstand folgen und zu
einer zivil geleiteten Regierung führen soll. Ob allerdings ausgerechnet die
drei arabischen Unterstützer, die in ihren eigenen Ländern selbst wenig
Inklusivität zulassen, in der Lage sind, die Kriegsparteien wie gefordert aus
diesem Übergangsprozess herauszuhalten, ist fraglich. Stattdessen steht zu
befürchten, dass sich das Engagement der Trump-Administration auf das Erreichen
eines Waffenstillstands beschränkt.
Ohne Verständnis für die inneren Abläufe im Sudan läuft
Diplomatie jedoch Gefahr, die Zyklen zu wiederholen, die sie eigentlich beenden
will. Die aktuelle Katastrophe im Sudan kann nicht losgelöst von der Geschichte
des Landes verstanden werden. Seit der Unabhängigkeit im Jahr 1956 ist das Land
in einem Teufelskreis gefangen, in dem kurze und fragile demokratische Phasen
immer wieder durch Militärputsche unterbrochen wurden, die die Macht an
dieselben Eliten zurückgaben, die wiederholt daran gescheitert waren, einen auf
gefestigten Institutionen basierenden Staat aufzubauen. Von Anfang an war der
Staat Sudan strukturell unausgewogen – mit einem dominanten politischen
Zentrum, marginalisierten Randgebieten und einer Armee, die sich als Hüterin
der Nation versteht, statt sich der zivilen Autorität unterzuordnen.
Infolgedessen erlebte der Sudan nie eine nachhaltige
demokratische Regierungsführung. Jeder Versuch eines zivilen Übergangs wurde
schnell gewalttätig zunichtegemacht. Dies führte zu einer fast ununterbrochenen
Kette von Bürgerkriegen, die die Ressourcen des Landes erschöpften und sein
soziales Gefüge zerstörten. Der erste Krieg brach weniger als ein Jahrzehnt
nach der Unabhängigkeit aus und dauerte ein halbes Jahrhundert, bis er 2011 zur
Abspaltung des Südsudans führte. Die nachfolgenden Konflikte waren Symptome
derselben ungelösten Krise – der fehlenden Gerechtigkeit bei der Verteilung von
Macht und Reichtum und des Versagens, ein inklusives Konzept der
Staatsbürgerschaft zu formulieren. Im Laufe der Zeit zerfielen die zentralen
Institutionen des Staates. Der Sudan trat in eine „Ära der multiplen Armeen“
ein, in der fast jeder politische Akteur über eigene Streitkräfte verfügt. Das
Monopol legitimierter Gewalt – die Grundlage jedes Staates – hörte schlichtweg
auf zu existieren. Heute sind Waffen zu einem Instrument der politischen Macht
anstelle der nationalen Verteidigung geworden. Sudans ehemaliger
Premierminister Abdalla Hamdok warnte in einem Interview im Juni 2025: „Es gibt
keine militärische Lösung für dieses Problem. Keine Seite wird einen vollständigen
Sieg erringen können.“
Für viele zivilgesellschaftliche Kräfte – auch nach
zweieinhalb Jahren Krieg immer noch das Rückgrat der sudanesischen Gesellschaft
– ist der gegenwärtige Konflikt nur die logische Fortsetzung des Staatsstreichs
vom 25. Oktober 2021. Damals hatten Armee und RSF gemeinsam die nach der
Revolution von 2019 entstandene verfassungsmäßige Übergangsregierung und damit
die zarte Blüte einer sudanesischen Demokratiebewegung zerschlagen.
Die umfassende Lösung, die der Sudan jetzt braucht, kann
nicht aus einem vorübergehenden Waffenstillstand zwischen zwei Warlords
hervorgehen. Es muss ein nationales Projekt des Wiederaufbaus sein – die
Schaffung einer geeinten Armee unter vollständig ziviler Kontrolle, die
Einrichtung einer echten Übergangsjustiz, und die Erneuerung eines inklusiven
demokratischen Prozesses. Dies ist sowohl eine innenpolitische Notwendigkeit
als auch eine Bewährungsprobe für die internationale Gemeinschaft.
Hier wäre eine stärkere deutsche und europäische
Intervention dringend notwendig, um den Quad-Prozess, an dem realpolitisch
zurzeit kein Weg vorbeiführt, qualitativ zu unterfüttern. In einem ersten
Schritt hat der Rat der EU am 20. Oktober, wenige Tage vor dem Fall El Fashers,
die Forderungen des Quartetts unterstützt. Bei reinen Deklarationen darf es
indes nicht bleiben, eine substantielle EU-Politik würde eine eigene
diplomatische Initiative bedingen. Und sie müsste durch deutliche Akzente
gekennzeichnet sein: mehr Nachdruck bei der Durchsetzung des Waffenembargos und
Bereitstellung von deutlich mehr humanitärer Hilfe für das geschundene Land und
seine Menschen. IPG 13
Klima-Risiko-Index. Wetterextreme
treffen arme Staaten am härtesten
Vor allem ärmere Länder haben in den letzten Jahrzehnten
viele Tote und hohe Schäden wegen Extremwettern verzeichnen müssen. Wer sich
dem entziehen will, hat oft nur eine einzige Option: Flucht. Von Silvia Vogt
Nahezu 10.000 Wetterextreme mit mehr als 830.000 Toten und
Billionen an Schaden: Die Bilanz für die vergangenen drei Jahrzehnte ist dem
Klima-Risiko-Index 2026 zufolge verheerend. Die Rangliste der besonders
betroffenen Länder führen in dem Bericht der Organisation Germanwatch vor allem
ärmere Staaten an, aber auch Industrieländer landen im oberen Bereich. Auch
Deutschland gehört auf Platz 29 mit dazu, heißt es in der am Dienstag auf der
Weltklimakonferenz in Brasilien veröffentlichten Bestandsaufnahme.
An der Spitze des Index über die vergangenen 30 Jahre steht
Dominica, ein kleiner karibischer Inselstaat, der mehrfach von verheerenden
Wirbelstürmen getroffen wurde. Dominica nehme vor allem wegen der enormen
Schäden im Verhältnis zum Bruttoinlandsprodukt Rang eins ein, erklärte
Germanwatch. Auf Platz zwei folgt Myanmar. In dem südostasiatischen Land habe
allein der Zyklon „Nargis“ im Jahr 2008 fast 140.000 Menschen getötet und
Schäden in Höhe von 5,8 Milliarden US-Dollar angerichtet.
Viele Hitzeopfer in Europa
Auch Deutschland stehe mit Rang 29 auf dem Langzeit-Index
weit oben, heißt es weiter. In der EU seien nur Frankreich, Italien, Spanien
und Griechenland noch stärker betroffen. Neben den Sachschäden seien die
Todesopfer für die Platzierung Deutschlands verantwortlich – vor allem durch
Hitzewellen, die auch andere europäische Länder schwer getroffen hätten.
Insgesamt seien in Deutschland seit 1995 mehr als 24.400 Menschen durch
Wetterextreme ums Leben gekommen, fast 1,1 Millionen weitere seien zum Beispiel
durch Gesundheitsschäden oder Verlust des Eigentums direkt betroffen gewesen.
Die Schäden beliefen sich inflationsbereinigt auf fast 130 Milliarden US-Dollar
(112 Milliarden Euro).
„Bei Wetterextremen stellen Hitzewellen und Stürme die
größte Gefahr für Menschenleben dar“, fasste Co-Autorin Laura Schäfer die
Auswirkungen zusammen. „Stürme verursachten zugleich die mit Abstand größten
Sachschäden. Überflutungen hingegen waren für die meisten direkt von
Extremwetter Betroffenen – zum Beispiel durch Verlust ihres Eigentums –
verantwortlich.“ Dabei würden Länder wie Haiti, die Philippinen oder Indien –
allesamt in den Top Ten – teilweise in so kurzen Abständen von Überflutungen,
Hitzewellen oder Stürmen getroffen, dass sich ganze Regionen kaum noch von den
Katastrophen erholen könnten, erklärte Germanwatch.
Flucht oft die einzige Option
Für die Menschen in diesen Regionen ist Flucht oft die
einzige Option, wenn sie überleben wollen. „Überschwemmungen im Juli 2024
trieben tausende Menschen in die Flucht, während im April und Mai eine
Hitzewelle mit biszu 47 °C den Tod von 50 Menschen zur Folge hatte“, heißt es
in der deutschen Zusammenfassung des Berichts über Myanmar. Ein weiteres
Beispiel aus Papua-Neuguinea: „Im Mai 2024 tötete ein großer Erdrutsch in der
Provinz Enga 670 Menschen, zwang 1.250 Menschen zur Flucht.“
In der Wissenschaft herrscht Einigkeit: Der Klimawandel
gehört inzwischen zu einem der größten Fluchtursachen. Um dem entgegenzuwirken
fordern Experten von reichen Industriestaaten, mehr Engagement und Hilfe. Doch
das Gegenteil ist derzeit auf der Weltklimakonferenz in Brasilien zu
beobachten. Entwicklungshilfe sowie Klimaschutz werden immer weiter
zurückgefahren. Dass die reichen Länder sich zugleich abschotten, ihre Grenzen
für Geflüchtete schließen, bezeichnen Menschenrechtler als perfide und zynisch.
Die Folgen des Klimawandels seien akut, mit bloßem Auge sichtbar und aktuell.
Deutschland für Einzeljahr 2024 auf Rang 50
Bei der Auswertung allein bezogen auf das vergangene Jahr
führen die karibische Inselgruppe St. Vincent und die Grenadinen sowie Grenada
die Liste an. Sie wurden im Sommer 2024 von einem Hurrikan verwüstet. An
dritter Stelle folgt der Tschad. Das zentralafrikanische Land litt unter
verheerenden und teils über Monate anhaltenden Überflutungen. Deutschland steht
im Index für 2024 auf dem 50. Rang.
Seit 2006 erfasst der Klima-Risiko-Index von Germanwatch die
Zahl der Todesopfer, der betroffenen Menschen und die wirtschaftlichen Schäden
durch Extremwetter weltweit. Seit 2025 wird er nach einer methodischen
Überarbeitung auf der Basis der International Disaster Database (EM-DAT) sowie
sozioökonomischer Daten des Internationalen Währungsfonds (IWF) erstellt.
(epd/mig 13)
EU-Analyse. Deutschland wird von
der Asyl-Reform erheblich profitieren
Deutschland hat viel Energie für die Reform des EU-Asyl- und
Migrationssystems aufgewendet. Nicht umsonst, wie eine neue Analyse zeigt.
Danach wird die Bundesrepublik erheblich von der Reform profitieren – denn sie
sei gefährdet. Die Bundesregierung begrüßt den Bericht.
Deutschland kann verlangen, dass es unter dem neuen
EU-Solidaritätsmechanismus bis mindestens Ende 2026 keine zusätzlichen
Geflüchteten aus anderen Mitgliedstaaten aufnehmen muss. Das geht nach
Informationen der Deutschen Presse-Agentur aus einer Analyse von
EU-Innenkommissar Magnus Brunner zum sogenannten Solidaritätspool hervor, der
Staaten mit hohem Migrationsdruck im Zuge der EU-Asylreform entlasten soll.
Deutschland kann sich demnach darauf berufen, dass es sich
bereits um sehr viele Asylbewerber kümmert, für die eigentlich andere
EU-Staaten zuständig wären. Auch andere Solidaritätsbeiträge wie Geld- oder
Sachleistungen wären demnach von deutscher Seite nicht notwendig. Diese können
theoretisch von unterstützungspflichtigen EU-Staaten geleistet werden, die
keine Flüchtlinge aufnehmen wollen.
Deutschland begrüßt Bericht der EU-Kommission
Die Bundesregierung folgert daraus, im nächsten Jahr keine
Migranten aus anderen EU-Staaten übernehmen zu müssen. Wichtigste
Schlussfolgerung sei, „dass Deutschland 2026 keine Migranten aus anderen
EU-Mitgliedstaaten aufnehmen muss“, sagte Regierungssprecher Stefan Kornelius
am Mittwoch in Berlin. Die EU-Kommission erkenne in ihrem Bericht die
Leistungen an, die Deutschland in dem Bereich bereits mit der Aufnahme vieler
Migranten erbracht habe. Die Bundesregierung begrüße dies.
Als Länder, die im kommenden Jahr wegen eines hohen
Migrationsdrucks Anrecht auf Solidarität anderer EU-Staaten haben, stuft die
Kommission in ihrer Analyse Griechenland und Zypern sowie Spanien und Italien
ein. Griechenland und Zypern stehen demnach wegen unverhältnismäßig vieler
Ankünfte im vergangenen Jahr unter Druck, Spanien und Italien aufgrund
zahlreicher Seenotrettungen. Insbesondere Italien setzt deshalb Organisationen
privater Seenotretter durch politische, polizeiliche sowie juristische Maßnahmen
unter Druck, weist ihnen entferne Hafen zu oder setzt ihre Schiffe fest.
„Ausgeprägte Migrationslage“ in Ländern wie Österreich
Deutschland wird gemeinsam mit Staaten wie Belgien,
Frankreich und den Niederlanden zu der Gruppe von Ländern gerechnet, die im
kommenden Jahr Gefahr laufen könnten, aufgrund hoher Ankunftszahlen oder
Belastungen der Aufnahmesysteme unter hohen Migrationsdruck zu kommen. Sie
müssen Solidarität leisten, wenn sie sich nicht wie Deutschland die Bearbeitung
von Asylanträgen anrechnen lassen können, für die sich eigentlich nicht
zuständig wären.
Eine aktuelle Umfrage in deutschen Kommunen kommt indes zu
einer anderen Lagebewertung. Durch den Rückgang der Zahl der Asylsuchenden in
Deutschland seit Herbst 2023 hat sich demnach die Lage in den meisten deutschen
Kommunen entspannt. Nur noch jede rund zehnte Kommune arbeite bei der
Unterbringung geflüchteter Menschen noch „im Notfallmodus“.
Österreich, Polen, Bulgarien, Tschechien, Estland und
Kroatien befinden sich nach Einschätzung der Kommission in einer „ausgeprägten
Migrationslage“. Dies bedeutet, dass sie aufgrund der kumulierten Belastungen
der vergangenen fünf Jahre beantragen können, von Solidaritätspflichten ganz
oder teilweise befreit zu werden.
Zu den EU-Staaten, die nach den neuen Regeln wahrscheinlich
Migranten aus anderen Ländern aufnehmen oder andere Solidaritätsbeiträge
leisten müssen, zählen Länder wie Schweden, Portugal, Ungarn, Rumänien und
Luxemburg. Die neuen EU-Regeln sehen vor, dass jährlich mindestens 30.000
Übernahmen erfolgen sollen beziehungsweise Finanzbeiträge in Höhe von 600
Millionen Euro geleistet werden müssen. Im kommenden Jahr dürften es allerdings
weniger werden, da der Solidaritätsmechanismus erst Mitte 2026 in Kraft tritt.
EU-Innenkommissar sieht bereits Erfolge von neuer
Migrationspolitik
EU-Innenkommissar Magnus Brunner erklärte zu den Ergebnissen
der Analyse, es sei offensichtlich, dass Deutschland schon vor dem
Inkrafttreten des neuen Asylpakts einen großen Teil dieser Solidarität getragen
habe. Die Bundesrepublik werde daher erheblich von der Reform des Asyl- und
Migrationssystems profitieren – insbesondere durch die neuen Aufgaben der
Mitgliedstaaten an den Außengrenzen.
Dazu gehörten die Registrierung von Neuankommenden, die
Durchführung von Sicherheitsüberprüfungen und das neue Grenzverfahren.
Letzteres sieht vor, dass bestimmte Migranten künftig nach einem Grenzübertritt
unter haftähnlichen Bedingungen in streng kontrollierte Aufnahmeeinrichtungen
kommen könnten.
Grundsätzlich betonte Brunner, dass die strengere
Asylpolitik bereits heute Wirkung zeige. „Die illegale Migration ist im
vergangenen Jahr um 35 Prozent zurückgegangen“, sagte er. Als „illegale
Migration“ werden irreführend auch Grenzübertritte von Schutzsuchenden
bezeichnet. Nach internationalem Recht haben diese Menschen das Recht auf ein
Asylverfahren, die sie mangels legaler Fluchtwege zunächst nur durch einen
Grenzübertritt ohne Einreisepapiere beanspruchen können. Mithin sind sie nicht
„illegal“, sondern fordern ihr ausdrücklich verbrieftes Recht ein.
Der nun erstmals vorgelegte Bericht gilt als ein
entscheidender Schritt bei der Umsetzung der Reform des europäischen
Asylsystems (GEAS), die auch einen Solidaritätsmechanismus zur Entlastung von
besonders von Migration betroffenen Mitgliedstaaten enthält. Für ihn
berücksichtigte die EU-Kommission verschiedenste Kennzahlen – etwa, wie viele
illegale Grenzübertritte, Bootsrettungen oder Asylanträge ein Land registriert
sowie die wirtschaftliche Leistungskraft und Bevölkerungszahl eines Landes.
Daten werden vorerst unter Verschluss gehalten
Besonders belasteten Ländern steht nach dem neuen Asylsystem
die Solidarität anderer Mitgliedsstaaten zu, indem diese entweder Migranten
aufnehmen oder einen finanziellen Beitrag leisten. Solidarität kann demnach
aber auch geleistet werden, indem EU-Staaten Projekte gegen illegale Migration
in Drittstaaten fördern oder Material zur Verfügung stellen.
Das Ziel des Ausgleichs: Flüchtlinge sollen in dem Land
bleiben, in dem sie ankommen und nicht etwa nach Deutschland weiter fliehen.
Staaten wie Griechenland oder Italien sollen zudem an den Außengrenzen
beschleunigte Asylverfahren abwickeln. Dafür sollen die EU-Länder, in denen die
meisten Migranten ankommen, dann entlastet werden. Für diesen
Solidaritätsmechanismus bildet der Bericht der EU-Kommission die entscheidende
Grundlage.
Über die Vorschläge der EU-Kommission für den sogenannten
Solidaritätspool müssen nun die Mitgliedstaaten verhandeln. Sie haben dafür
auch detaillierte Zahlen bekommen, die von der EU-Kommission allerdings
entsprechend der Verordnung über das Asyl- und Migrationsmanagement vorerst
nicht öffentlich gemacht werden. Umgesetzt werden soll das neue Migrations- und
Asylpaket ab Mitte kommenden Jahres. (dpa/mig 13)
COP30, Krisentreffen am Amazonas:
Worum geht es bei der Klimakonferenz?
Zehn Jahre nach dem Abkommen von Paris ist die Klimakrise
alles andere als bewältigt. Stattdessen ist das Problem noch größer geworden.
Nun gibt es ein Krisentreffen an einem ganz besonderen Ort. Von Larissa
Schwedes
Vor zehn Jahren brach Jubel aus in Paris: Nach zähem Ringen
hatte sich die Weltgemeinschaft darauf verständigt, die Klimakrise in den Griff
bekommen zu wollen. Das Pariser Klimaabkommen war geboren. Inzwischen hat sich
die Krise aber deutlich weiter zugespitzt – und man trifft sich in Brasilien am
Rande des für das Weltklima so wichtigen Tropenwalds am Amazonas.
In den vergangenen Tagen kamen bereits Bundeskanzler
Friedrich Merz (CDU) und viele seiner Kollegen aus aller Welt nach Belém. Doch
erst jetzt, wo die Staats- und Regierungschefs wieder abgereist sind, geht es
richtig los mit den harten Verhandlungen. Es steht viel auf dem Spiel.
Wie steht es denn mittlerweile ums Klima?
Laut aktueller UN-Prognose steuert die Welt mit ihrer
aktuellen Klimapolitik auf 2,8 Grad Erwärmung bis zum Ende des Jahrhunderts zu
und reißt das international vereinbarte 1,5-Grad-Ziel schon innerhalb des
nächsten Jahrzehnts. Das würde heißen: mehr Stürme, mehr Überschwemmungen, mehr
Dürren und so weiter – von drohenden Kipppunkten mit unumkehrbaren Folgen mal
ganz abgesehen.
UN-Generalsekretär António Guterres betonte vor den
Staatenlenkern aus aller Welt: „Die bittere Wahrheit ist, dass wir es nicht
geschafft haben, unter 1,5 Grad zu bleiben.“ Bislang vermochten es die Menschen
trotz aller Konferenzen und Pläne nicht, das Ruder herumzureißen: Die
weltweiten Emissionen erhöhen sich weiterhin. Im vergangenen Jahr stiegen sie
der Weltwetterorganisation (WMO) zufolge sogar so drastisch wie seit Beginn der
modernen Messungen 1957 nicht.
Die Folgen sind real und messbar: Immer mehr Menschen müssen
aufgrund klimatischer Veränderungen ihren Lebensraum verlassen. Dürren,
Überschwemmungen aufgrund Starkregen und andere Naturkatastrophen machen ganze
Regionen unbewohnbar. Die meisten Menschen ziehen innerhalb ihrer Länder um,
nicht Wenige suchen ihr Glück aber auch im Ausland und zunehmend in reichen
Industriestaaten. Europa und USA wiederum machen ihre Grenzen dicht für
Geflüchtete. Menschenrechtler und Klimaschützer sehen darin einen Widerspruch.
Einerseits wolle man wenig gegen den Klimawandel tun, andererseits wolle man
keine Verantwortung für die Folgen tragen. Das sei kurzsichtig und keine
Lösung.
Und nun soll am Amazonas die Kehrtwende gelingen?
Brasilien will die Symbolkraft des Amazonas nutzen, um der
Welt die Dringlichkeit vor Augen zu führen. „Wer den Wald nur von oben sieht,
weiß nicht, was unter seinem Dach geschieht“, betont der brasilianische
Gastgeber Präsident Luiz Inácio Lula da Silva. Die Welt müsse der Realität ins
Auge sehen.
Der deutsche Greenpeace-Chef Martin Kaiser warnt: Nehme die
Entwaldung durch Abholzung noch um einige Prozent zu, verwandle sich der
Regenwald in eine Savanne. „Dann kippt das globale Klima. Ohne den Schutz des
Amazonas gibt’s keinen Klimaschutz. Das ist eine so simple wie unbequeme
wissenschaftliche Wahrheit.“ Große Waldgebiete wie der Amazonas sind natürliche
Speicher für Treibhausgase – was in Bäumen und Pflanzen steckt, belastet nicht
das Klima.
Mit Brasilien findet der Klimagipfel nach drei Jahren in
autoritär regierten Staaten – Ägypten, Vereinigte Arabische Emirate und
Aserbaidschan – erstmals wieder in einem demokratischen Land statt, das mehr
Raum für Proteste von Aktivistinnen und Aktivisten bietet.
Doch die Vorzeichen sind nicht die besten. Kriege und andere
Krisen lassen das Klima auf der Prioritätenliste vieler Regierungen nach unten
rutschen, fast überall sind die Kassen klamm. Die Öl- und Gaslobby will die
Energiewende ausbremsen – und hat mit US-Präsident Donald Trump einen mächtigen
Unterstützer bekommen.
Lässt sich Trump in Brasilien blicken?
In Belém wird der US-Präsident nicht erwartet – schon am
ersten Tag seines Amtsantritts hatte er im Januar den erneuten Austritt aus dem
Pariser Klimaabkommen unterzeichnet. Wirksam wird dieser Austritt allerdings
erst ein Jahr später.
Als Elefant im Raum ist Trump trotzdem präsent: Mit dem
Rückzug der USA fehlt Geld – sowohl für die UN-Konferenzen als auch bei der für
die ärmeren Länder so wichtigen Unterstützung bei Klimaschutz und Anpassung an
die steigenden Temperaturen und ihre Folgen.
Worum geht es bei der Konferenz konkret?
Viele Staaten haben ihre Hausaufgaben nicht gemacht: Nur
rund ein Drittel hat entgegen aller Verpflichtungen überhaupt bis zur Konferenz
neue Klimaschutzpläne bis zum Jahr 2035 eingereicht – und die vorliegenden
reichen zur Eindämmung der Krise nicht aus. „In den kommenden Jahren bis 2035
muss deutlich mehr geschehen als das übliche ‚business as usual’“, betont
Kaiser. Auch UN-Klimachef Simon Stiell macht zum Auftakt Druck: „Wir müssen
viel, viel schneller werden.“
Auf der offiziellen Agenda steht vor allem die Anpassung an
die Klimafolgen. Hier brauche es Indikatoren, die Fortschritte messbar machen,
erklärt Laura Schäfer, die bei der Organisation Germanwatch den Bereich
Internationale Klimapolitik leitet. „Dazu brauchen die ärmsten und
verletzlichsten Länder Klarheit und Verlässlichkeit, wie sie bei Maßnahmen für
Klimaschutz und dem Umgang mit Klimawandelfolgen finanziell unterstützt
werden.“
Gastgeber Brasilien wirbt für einen neuen,
milliardenschweren Fonds zum Schutz tropischer Regenwälder. Länder, die ihre
Tropenwälder erhalten, sollen belohnt werden. Für jeden zerstörten Hektar
sollen hingegen üppige Strafen fällig werden und in den Fonds fließen.
Welche Rolle spielen Deutschland und die EU?
Deutschland und die EU galten auf den Klimakonferenzen lange
als Kämpfer für mehr Ehrgeiz – doch diese Zeiten haben sich geändert. Wegen
enormer Widerstände hat sich die EU erst in letzter Minute auf das für die
Konferenz fällige Klimaziel bis 2035 geeinigt. Die EU will nun bei ihren
angestrebten Emissionsminderungen bis zu fünf Prozentpunkte schon ab 2031 durch
Klimazertifikate aus dem Ausland erzielen.
Der Klimaforscher Niklas Höhne vom NewClimate Institute
bezeichnete dies als Rückschritt, der es auch unwahrscheinlicher mache,
tatsächlich bis 2050 klimaneutral werden zu können. Die EU lasse nun
Zertifikate zu, die sie noch für ihr 2030er-Ziel wegen Zweifeln an ihrer
Seriosität ausgeschlossen habe.
Kanzler Merz hatte bei seinem Besuch in Belém angekündigt,
Deutschland wolle sich am Fonds beteiligen – eine konkrete Summe hatte er
jedoch nicht im Gepäck.
Was wäre ein Erfolg in Brasilien?
Im besten Fall würde ein Paket beschlossen, „um alle
notwendigen Schritte zu gehen, damit die globale Erwärmung doch noch unter
1,5-Grad-Pfad stabilisiert werden kann“, betont Kaiser – inklusive eines
verbindlichen Plans zum Ausstieg aus fossilen Energien. Bei der vergangenen
Klimakonferenz hatten Ölstaaten wie Saudi-Arabien versucht, eine Vereinbarung
zum angestrebten Ausstieg aus Kohle, Öl und Gas zu blockieren.
Zudem wäre Beobachtern zufolge wichtig, Zusagen an ärmere
Länder mit Geld zu unterfüttern. Im vergangenen Jahr in Aserbaidschan waren
einige dieser heiklen Fragen aufgeschoben worden.
Ist das Pariser Abkommen gescheitert?
Die Expertinnen und Experten sind sich einig: Ohne das
Abkommen wäre die Welt auf einem noch schlechteren Kurs – nämlich vier bis fünf
Grad Erderwärmung, wie sie zuvor prognostiziert wurden. „Das Pariser
Klimaabkommen hat etwas ins Rollen gebracht und das ist überhaupt nicht mehr
aufzuhalten“, hält Klimaforscher Höhne etwa mit Blick auf den rasanten Ausbau
erneuerbarer Energien fest. Die Welt habe sich verändert und das werde auch
weitergehen. (dpa/mig 12)
Vereinte Nationen. 86 Millionen
Menschen auf der Flucht von Klimawandel bedroht
Das Hilfswerk UNHCR schlägt Alarm: Drei von vier
Flüchtlingen und Vertriebenen leben in Ländern, die besonders anfällig für
klimabedingte Gefahren sind. Flüchtlingssiedlungen befinden sich oft in
Gebieten mit rauen Wetterbedingungen. Hilfsorganisationen protestieren in
Berlin gegen Kürzungen.
Millionen Menschen sind nach Angaben der Vereinten Nationen
einer doppelten Bedrohung durch Kriege und Klimawandel ausgesetzt. Für viele
Menschen auf der Flucht gebe es kein Entkommen aus diesem Gefahrenmix, erklärte
das Flüchtlingshilfswerk am Montag in Genf.
Anlässlich der beginnenden Weltklimakonferenz im
brasilianischen Belém betonte das UNHCR, dass 86 Millionen Menschen auf der
Flucht 2025 unter extremen Klimasituationen wie Dürre oder Hitzewellen gelitten
hätten. Laut UNHCR belief sich die Gesamtzahl der Menschen auf der Flucht 2025
auf 117 Millionen.
Flüchtlingshilfe verlangt mehr Hilfe für betroffene Länder
Somit lebten drei von vier Flüchtlingen und anderen
Vertriebenen in Ländern, die besonders anfällig für klimabedingte Gefahren
seien. Viele der weltweit größten Flüchtlingssiedlungen befinden sich dem UNHCR
zufolge in Gebieten, in denen die Wetterbedingungen rau und gefährlich seien.
Mark Ankerstein, Direktor der UNO-Flüchtlingshilfe, betonte:
„Wir müssen diese meist ärmeren Länder, die kaum Möglichkeiten haben, die
Menschen vor den Folgen von Extremwetter zu schützen, dringend stärker
unterstützen.“ Die UNO-Flüchtlingshilfe ist Partnerorganisation des UNHCR.
Vertreibungen durch Klimawandel
Zugleich verschärfen laut UNHCR Überschwemmungen, Stürme und
andere extreme Wetterereignisse sowie langsame Veränderungen wie der Anstieg
des Meeresspiegels und die Wüstenbildung die Krisensituationen, die zu
gewaltsamen Vertreibungen führen.
Derweil schließen immer mehr Industrieländer ihre Grenzen
für Geflüchtete und kürzen zugleich Hilfsgelder. Experten bezeichnen diese
Politik als zynisch. Einerseits seien die reichen Staaten für den Großteil der
Emissionen verantwortlich und die Treiber des Klimawandels. Andererseits wollen
sie den Opfern des Klimawandels nicht helfen. Diese Rechnung werde nicht
aufgehen.
Hilfsorganisationen protestieren gegen Kürzungen
In Berlin protstierten am Montag 16 Hilfsorganisationen
gegen geplante Kürzungen in der humanitären Hilfe und der Entwicklungsarbeit.
Mit einem großen Bumerang mit der Aufschrift „Die Kürzungen von heute sind die
Krisen von morgen“ warnten sie vor dem Bundestag vor weiteren Einschnitten und
deren Folgen. Für zahlreiche Menschen weltweit sei die humanitäre Hilfe aus
Deutschland „existentiell“, betonte die Welthungerhilfe. Ende November will der
Bundestag den Haushalt für das Jahr 2026 festlegen.
Die Organisationen verwiesen darauf, dass der Etat des
Bundesministeriums für wirtschaftliche Zusammenarbeit und Entwicklung auf 9,9
Milliarden Euro gesenkt werden solle. Das seien fast 30 Prozent weniger als
2022. Die Kürzungen bei der humanitären Hilfe seien noch drastischer und seit
2022 um 60 Prozent auf eine Milliarde Euro für 2026 geschrumpft.
Die geplanten Kürzungen würden den Zielen widersprechen, die
sich die Bundesregierung gesetzt habe, kritisierten die Organisationen. Armut,
Hunger und Ungleichheit müssten bekämpft und die humanitäre Hilfe für Menschen
in Not gestärkt werden. Durch ausbleibende Hilfe könnten sich Konflikte wie
etwa in Syrien, im Sudan, in Burkina Faso, Mali oder Somalia verschärfen. Es
sei im Interesse Deutschlands und Europas, das zu verhindern. (epd/mig 11)
Im globalen Wettrennen um Künstliche Intelligenz entscheidet
die Verfügbarkeit von Strom. Für den Westen ist das ein Problem. Von Jeffrey Wu
Nicht Algorithmen oder Chips, sondern elektrischer Strom
wird über die nächste Phase des globalen KI-Wettrennens entscheiden – und dies
verschafft China einen entscheidenden Vorteil. Während westliche
Technologieriesen geschlossene, kapitalintensive und enorme Rechenleistung
erfordernde Modelle in den Vordergrund stellen, setzt China auf Open-Source-KI
und baut seine Kapazitäten im Bereich erneuerbarer Energien und Kernenergie
massiv aus. Damit ist das Land in der Lage, leistungsstarke KI-Technologien in
großem Maßstab einzusetzen, ohne dabei sein Budget zu sprengen.
Diese Unterschiede sind Ausdruck einer grundsätzlicheren
Kluft. Während die Vereinigten Staaten und ihre Verbündeten KI als proprietäre
Technologie betrachten, sieht China darin eine öffentliche Infrastruktur und
baut ein offenes KI-Ökosystem auf, in dem sich dieselbe Philosophie
widerspiegelt, die auch in der Fertigung zum Tragen kommt: breite Akzeptanz,
schnelle Iteration und unablässige Kostensenkung. Bei den chinesischen
Open-Source-Modellen wie DeepSeek, Qwen und Kimi handelt es sich nicht nur um wissenschaftliche
Errungenschaften, sondern um strategische Instrumente, die auf Beteiligung
ausgelegt sind und die die wirtschaftliche Seite der KI verändern.
Die neueste Version von DeepSeek soll angeblich mit den
Fähigkeiten der von US-Unternehmen entwickelten Spitzensysteme mithalten
können, und das zu einem Bruchteil der Rechenkosten. Die API-Preise von Qwen
und Kimi sind um ein Vielfaches gesunken. Rein wirtschaftlich betrachtet
brechen die Grenzkosten des „Denkens“ ein. Die Inferenzkosten einiger
chinesischer Modelle betragen ein Zehntel oder weniger der Kosten, die bei
GPT-4 von OpenAI anfallen.
Doch je billiger KI wird, desto mehr wird weltweit davon
konsumiert, wobei jedes eingesparte Token 1 000 weitere generiert. Die gleiche
Dynamik, die einst das Kohlezeitalter befeuerte, ist nun die treibende Kraft
des digitalen Zeitalters. In China geschieht dies ganz bewusst: Niedrige
Inferenzkosten in Verbindung mit den offenen Gewichten chinesischer Modelle
sollen Universitäten, Start-ups und lokale Behörden zu Experimenten anregen.
All diese Aktivitäten erfordern jedoch Energie: Die Internationale Energieagentur
erwartet, dass sich der weltweite Stromverbrauch von Rechenzentren bis 2030
(gegenüber dem Niveau von 2024) verdoppeln wird und zwar vor allem aufgrund der
KI-Workloads. Allein das Training von GPT-4 hat wahrscheinlich Millionen
Kilowattstunden verbraucht – genug, um San Francisco drei Tage lang mit Strom
zu versorgen.
Was einst als Wettstreit der Algorithmen galt, entwickelt
sich zusehends zu einem Wettbewerb der Kilowatt, und China ist auf dem besten
Weg, als Sieger daraus hervorzugehen. Im Jahr 2024 hat das Land 356 Gigawatt an
Kapazitäten im Bereich erneuerbarer Energien geschaffen – mehr als die USA, die
Europäische Union und Indien zusammen – wobei 91 Prozent der gesamten neuen
Energieerzeugung aus Solar-, Wind- und Wasserkraft stammen. Die
Batteriespeicherkapazität hat sich gegenüber 2021 verdreifacht, und ein Ultra-Hochspannungsnetz
transportiert nun saubere Energie über tausende Kilometer, von Wüsten zu
Datenzentren.
China investiert zudem massiv in Kernenergie. Laut der
Information Technology and Innovation Foundation liegen die Ausgaben für
Forschung und Entwicklung im Bereich Kernenergie etwa fünfmal höher als in den
USA. Mit Reaktoren der vierten Generation und kleinen modularen Designs, die
sich in der Pilotphase befinden und bald zum Einsatz kommen werden, sorgt die
Kernenergie im Hintergrund für die Grundlastversorgung, die intermittierende
erneuerbare Energien nicht leisten können.
Diese Kombination aus offenen KI-Modellen, kostengünstigen
erneuerbaren Energien und einer stabilen Versorgung mit Kernenergie bildet so
etwas wie ein Schwungrad aus Energie und Rechenleistung: Mehr sauberer Strom
ermöglicht mehr Rechenleistung, wodurch wiederum das Stromnetz optimiert wird.
Bereits heute liefern maschinelle Lernsysteme Prognosen im Bereich
Solarstromproduktion, verwalten die Energiespeicherung und gleichen die Last im
riesigen chinesischen Stromnetz in Echtzeit aus. Das Resultat besteht in einer
Neuordnung der Branche, da die herkömmlichen Trennlinien zwischen Energie,
Halbleitern und Software verschwinden. Rechenzentren sind die neuen Kraftwerke
und GPUs die neuen Turbinen. China elektrifiziert nicht nur seine Industrie,
sondern auch seine Intelligenz.
Abgesehen von der Stärkung seines eigenen Netzes für saubere
Energie exportiert China auch die Bausteine des neuen weltweiten
Energiesystems. Die Exporte aus dem Bereich sauberer Technologien – darunter
Solarmodule, Netzakkus und Elektrofahrzeuge – erreichten im August dieses
Jahres den Rekordwert von 20 Milliarden US-Dollar und übertrafen damit die
Exporte von Unterhaltungselektronik aus dem vorangegangenen Jahrzehnt. Auch
wenn der Westen Chips und Software exportiert, so ist es doch China, das den
für deren Nutzung erforderlichen Strom herstellt.
Unterdessen führen die Energieprobleme des Westens –
veraltete Stromnetze, langwierige Genehmigungsverfahren und hohe Preise – zu
digitalen Engpässen. In den USA und anderen Ländern wird der Ausbau von
Rechenzentren in zunehmendem Maße durch einen erschwerten Zugang zu
zuverlässiger Stromversorgung eingeschränkt. In einigen Gebieten – wie
beispielsweise Virginia und Dublin – gelten Moratorien für neue Rechenzentren.
Schon immer begünstigten industrielle Revolutionen jene
Gesellschaften, die Energie am effizientesten in Produktivität umwandeln
konnten. Im 19. Jahrhundert war Kohle der Schlüssel zu einem Weltreich. Im 20.
Jahrhundert war Erdöl Trumpf. Und im 21. Jahrhundert wird es saubere Energie in
Verbindung mit Rechenleistung sein. Wer den billigsten Strom hat, verfügt auch
über die kostengünstigste Intelligenz – und profitiert von wachsendem Wohlstand
in beiden Bereichen.
Dank einer systemischen Abstimmung von Investitionen und
Anreizen, die in Demokratien nur schwerlich rasch repliziert werden könnte,
richtet sich China derzeit in dieser begehrten Position ein. Doch China wird
von seinem Erfolg nicht allein profitieren. Für Schwellenländer, die sich
Hochleistungsrechner bislang nicht leisten konnten, bieten offene Modelle und
sinkende Energiekosten die Möglichkeit, KI zugänglich und sogar unverzichtbar
zu machen, ähnlich wie dies bei Strom oder Breitband der Fall war.
Überfluss garantiert jedoch keine Stabilität. Ohne
ausreichende Investitionen in die Erzeugung und Speicherung sauberer Energie
könnte der steigende Energiebedarf für KI die Stromnetze belasten und die
Fortschritte bei der Dekarbonisierung gefährden. Wie im Industriezeitalter
könnte Effizienz zu Überfluss führen, und Fortschritt womöglich mit wachsenden
Ungleichgewichten einhergehen. Der Umgang mit dem Spannungsfeld zwischen
Überfluss und Einschränkung wird darüber entscheiden, ob KI zu einem Instrument
der Selbstermächtigung oder zu einem neuen Motor der Ungleichheit wird.
Vor zwei Jahrhunderten wandelte die Dampfmaschine Wärme in
Bewegung um – und veränderte die Weltwirtschaft. Heute verwandelt KI
Elektrizität in Erkenntnis, und wer beides beherrscht, wird die Regeln des
Fortschritts wieder neu schreiben. PS/IPG 10
COP30: Vatikan hofft auf
„Kurswechsel“ in Klimapolitik
Hohe Dringlichkeit, niedrige Erwartungen: In Belém
(Brasilien) hat an diesem Montag der 30. Klimagipfel der Vereinten Nationen
begonnen.
Der Vatikan nimmt an der COP30 mit einer zehnköpfigen
Delegation unter der Leitung von Kardinalstaatssekretär Pietro Parolin teil.
Stellvertretender Leiter der Delegation ist der Apostolische Nuntius in
Brasilien, Erzbischof Giambattista Diquattro. Er hofft, wie er im Interview mit
Radio Vatikan sagt, auf einen „Kurswechsel“ in der internationalen
Klimapolitik.
„Die Überlegung, die Papst Franziskus vor zwei Jahren in
seiner Botschaft an die COP 28 anstellte, scheint mir aktueller denn je: ‚Es
ist ein Kurswechsel erforderlich – nicht nur eine teilweise Änderung des
Kurses, sondern eine neue Art, gemeinsam voranzugehen‘. Das Pariser
Klima-Abkommen hat eine Art Neuanfang markiert, jetzt muss der Weg neu
beschritten, jetzt muss ein konkretes Zeichen der Hoffnung gesetzt werden!“
Das Pariser Abkommen, das Diquattro erwähnt, wurde vor genau
zehn Jahren geschlossen – vorbereitet unter anderem durch eine beispiellose
Umwelt-Enzyklika aus dem Vatikan, ‚Laudato si‘‘ von Papst Franziskus.
Für eine deutliche Beschleunigung des ökologischen
Wandels
„Auch diese COP (von Belém) sollte ein Wendepunkt sein: Sie
sollte einen klaren und greifbaren politischen Willen zum Ausdruck bringen, der
zu einer deutlichen Beschleunigung des ökologischen Wandels führt!“
Konkret hofft der Papst-Vertreter in Belém auf Maßnahmen,
die drei Merkmale aufweisen: Sie sollten „effizient, verbindlich und leicht
überprüfbar“ sein. „Und sie müssen in vier Bereichen umgesetzt werden:
Energieeffizienz, erneuerbare Energiequellen, Abschaffung fossiler Brennstoffe
und Aufklärung über einen weniger von diesen abhängigen Lebensstil.“
Ein Wunschzettel für Belém
Der Vatikan will mit seiner Anwesenheit auf dem
internationalen Klimagipfel im Amazonasgebiet dafür sorgen, dass bestimmte
Themen nicht untergehen.
„Erstens scheint die Erziehung zu einer ganzheitlichen
Ökologie ein entscheidender Bereich zu sein, um die Klimakrise anzugehen.
Dieses Thema gewinnt zunehmend an Bedeutung, da viele Länder die
Bildungsdimension in ihre nationalen Beiträge (NDCs) bis 2035 aufnehmen. Es
wird daher von entscheidender Bedeutung sein, diesen Prozess aufmerksam zu
verfolgen.“
Ein zweiter Aspekt betrifft nach Diquattros Angaben die
Umsetzung der auf einem früheren Klimagipfel beschlossenen Verpflichtung, die
Abhängigkeit von fossilen Brennstoffen global zu verringern. „Der Heilige Stuhl
betont die Notwendigkeit einer konsequenten Anwendung dieses Instruments und
bekräftigt, dass Bildung eine wesentliche Säule für die Erreichung der Ziele
des Pariser Abkommens in der nächsten Überprüfungsphase darstellt.“
Ruf nach Umbau der globalen Finanzarchitektur
Ein weiterer Punkt auf der Vatikan-Wunschliste von Belém
wäre eine Reform der globalen Finanzarchitektur und ihrer Verbindung zur
Klimafinanzierung. Aus der Sicht des Heiligen Stuhls sollte die
Auslandsverschuldung armer Staaten gegen die ökologische Schuld entwickelter
Staaten gewissermaßen aufgerechnet werden.
„Ein weiteres Thema wird der gerechte Übergang sein, der
nicht nur wirtschaftliche, sondern auch soziale und ökologische Kriterien
umfassen muss… Schließlich wird die Debatte über den Gender-Aktionsplan
Gelegenheit bieten, die unverhältnismäßige Belastung von Frauen durch den
Klimawandel zu bekräftigen und zu ihrer aktiven Beteiligung an der Umsetzung
des Pariser Abkommens aufzurufen.“
Der Nuntius nennt noch einige weitere Punkte, für die sich
die Vatikan-Delegation in Belém interessieren wird, etwa die Dossiers zum
Schutz des Amazonas-Regenwaldes, der Landwirtschaft und der
Ernährungssicherheit. Mit einer Rede auf dem der COP vorgeschalteten
Klimagipfel hat Kardinal Parolin die Positionen des Heiligen Stuhls schon
öffentlich markiert. In den nächsten Tagen wird die Delegation vor allem auf
Hintergrundgespräche setzen. (vn 10)
Haushaltspläne. UNHCR warnt Berlin:
Weniger Hilfe = mehr Flüchtlinge
Die Bundesregierung will die Zahl der Geflüchteten senken,
gleichzeitig halbiert sie die humanitäre Hilfe. UN-Flüchtlingshochkommissar
Grandi warnt: Bleiben Hilfsgelder so knapp wie jetzt, dürften bald mehr
Menschen aus Afrika und dem Nahen Osten nach Europa fliehen.
Der UN-Hochkommissar für Flüchtlinge, Filippo Grandi,
appelliert an den Bundestag in Berlin, die humanitäre Hilfe auszuweiten. „Die
humanitäre Hilfe so niedrig zu lassen, wie sie jetzt ist, ist ein riesiger
strategischer Fehler“, sagte Grandi der Deutschen Presse-Agentur.
Am 13. November trifft sich der Haushaltsausschuss im
Bundestag, um letzte Hand an den Bundeshaushalt 2026 zu legen. Deutschland hat
die humanitäre Hilfe dieses Jahr gegenüber 2024 mehr als halbiert – von 2,3
Milliarden Euro auf 1,05 Milliarden Euro. Für 2026 sind Ausgaben in gleicher
Höhe vorgesehen. Gleichzeitig ist es erklärtes Ziel der Bundesregierung, die
Zahl der Geflüchteten zu senken. Laut Grandi ist das ein Widerspruch.
Flüchtlingssituation wie 2015 denkbar
„Wenn humanitäre Hilfe zurückgeht, werden wieder Menschen
Richtung Europa drängen, das macht mir große Sorge“, sagte Grandi. „Denken Sie
an 2015.“ Er erinnert an das Jahr, in dem Hunderttausende Flüchtlinge nach
Deutschland kamen. In den Monaten war die humanitäre Unterstützung für syrische
Flüchtlinge in Nachbarländern ihrer Heimat wegen Geldmangels gekürzt worden.
Das sei einer der Gründe für die Fluchtbewegung gewesen.
In diesem Jahr sei die Lage ähnlich: wegen drastisch
gekürzter Mittel aus den USA, Deutschland, Großbritannien, Frankreich und
anderen Ländern sei etwa die Hilfe für Menschen aus dem Sudan geschrumpft, die
in den Tschad geflohen sind. „Wissen Sie, wer die Gegend dort heute
kontrolliert? Die Schlepper“, sagte Grandi. „Sie sagen den Leuten: hier
bekommst Du nichts, gib mir ein bisschen Geld, dann bringen wir Dich nach
Libyen, und dann nach Europa.“
Krisen ohne mehr Geld nicht zu bewältigen
Grandi appelliert an die deutschen Politiker, die Gelder für
2026 doch noch zu erhöhen. Neben den Flüchtlingen aus dem Sudan suchten auch
Menschen in der von Konflikten und Klimawandel stark betroffenen Sahel-Zone in
Afrika Auswege, wenn sie vor Ort keine Lebenschance mehr sähen. „Erwarten Sie
nicht, dass die humanitären Organisationen diese Krisen bewältigen können, wenn
Sie den Kurs nicht umkehren“, sagte Grandi. (dpa/mig 10)
„Klimaschutz dient unserer
Sicherheit“. Podium unmittelbar vor der UN-Klimakonferenz COP30
„Ein intaktes Klima und eine umfassende Artenvielfalt kommen
uns Menschen unmittelbar zugute.“ Diese Auffassung hat gestern (6. November
2025) Weihbischof Rolf Lohmann (Münster) bei der Podiumsdiskussion
„Schöpfungsbewahrung 10 Jahre nach Laudato si’ – Luxus oder Notwendigkeit?“ in
Berlin vertreten. Das müsse, so Weihbischof Lohmann, der Vorsitzender der
Arbeitsgruppe für ökologische Fragen der Deutschen Bischofskonferenz ist,
deutlicher zur Sprache kommen. Es gäbe eine internationale Verpflichtung, sich
gegen die weltweit nachlassenden Bemühungen für Klima- und Umweltschutz zu
stellen. Anlass der Veranstaltung war das zehnjährige Jubiläum der Umwelt- und
Sozialenzyklika Laudato si’ von Papst Franziskus. Dazu eingeladen hatten die
Kommission für gesellschaftliche und soziale Fragen der Deutschen
Bischofskonferenz und die Katholische Akademie in Berlin.
Im Vorfeld der COP30 in Belém (Brasilien), die am kommenden
Montag beginnt, erörterte das Podium Möglichkeiten, den Klima- und Umweltschutz
wieder oben auf die gesellschaftliche und politische Tagesordnung zu bringen.
Einig waren sich alle, dass es sachliche Debatten und transparente
Kommunikation über den Wert des Klima- und Umweltschutzes für Wirtschaft und
Gesellschaft braucht. Denn nur gemeinsam könne die Bewahrung der Schöpfung
gelingen.
Die Klimaökonomin Prof. Dr. Sabine Fuss betonte mit Blick
auf die COP30: „Zehn Jahre nach Laudato si’ und dem Pariser Klimaabkommen sehen
globale Gemeingüter wie Klima und Biodiversität sich steigendem Druck
ausgesetzt. Mit Blick auf die COP30 in Brasilien wird deutlich, dass eine
wirksame Governance dieser Gemeingüter und die Stärkung multilateraler
Kooperationen entscheidend sind, um ökologische Stabilität und soziale
Gerechtigkeit miteinander zu verbinden.“
Der stellvertretende Vorsitzende der
CDU/CSU-Bundestagsfraktion für Umwelt, Klimaschutz, Naturschutz und nukleare
Sicherheit, Wirtschaftliche Zusammenarbeit und Entwicklung, Nachhaltigkeit,
Andreas Jung MdB, erklärte: „Es ist wichtig, dass wir ein gesamtgesellschaftliches
Bewusstsein schaffen, dass Klima- und Umweltschutz wichtig ist. Das ist kein
bloßes ‚grünes‘ Thema, sondern muss ein überparteiliches Anliegen sein.“ Die
Präsidentin des Deutschen Caritasverbands, Eva Maria Welskop-Deffaa,
bekräftigte das weiterhin beflügelnde Potenzial der Enzyklika: „Die Erinnerung
an zehn Jahre Laudato si’ ist zugleich die Erinnerung an zehn Jahre Pariser
Klimaabkommen. Als Caritas setzen wir alles daran, den ermutigenden Geist der
Klima-Enzyklika für die Verhandlungen in Belém wachzuhalten: Das Klima ist ein
Gemeingut, das für alle da ist und von allen geschützt werden muss. Ohne mutige
Vorreiter-Allianzen bei der globalen Klimafinanzierung werden die Klimaziele
nicht erreichbar sein.“
Der Geschäftsführer des Zentralverbands des Deutschen
Handwerks, Karl-Sebastian Schulte, hob die Verbindung von Energiewende und
lokaler Wirtschaft hervor: „Das Handwerk spielt eine zentrale Rolle für den
Klimaschutz, da es wirksame Maßnahmen umsetzt und selbst zunehmend energie- und
ressourceneffizient arbeitet. Wie die Kirche trägt das Handwerk aktiv zur
Bewahrung der Schöpfung bei und schafft durch seine regionale Verbundenheit
Ausbildungs- und Arbeitsplätze vor Ort, sodass Menschen nicht nur Beschäftigung
erhalten, sondern auch aktiv am Klima- und Umweltschutz mitwirken können.
Kirche und Handwerk verbindet seit jeher der Werteansatz der Bewahrung von
Schöpfung, Werten und Traditionen.“
Wie aktuell der Auftrag von Laudato si’ heute ist,
verdeutlichte Weihbischof Lohmann mit Verweis auf die Sicherheitspolitik:
„Kooperation und gemeinsame Finanzierung sind nicht nur zentral für den Klima-
und Umweltschutz; sie sind zugleich auch geopolitisch wichtig, weil sie die
weltweite Zusammenarbeit zwischen den Staaten befördern und einen
Interessenausgleich ermöglichen. Klima- und Umweltschutz dient somit unserer
Sicherheit.“ Dbk 7
„Die Konjunkturritter der Angst
wollen keinen Dialog“
Martin Schulz über die Verteidigung der Demokratie,
Vertrauen in die Politik und den Umgang mit Rechtspopulismus. Die Fragen
stellte Philipp Kauppert.
In der neu erschienenen Mitte-Studie der FES ist die erste
gute Nachricht, dass die deutlich überwiegende Mehrheit der Deutschen weiter
demokratisch eingestellt ist. 76 Prozent lehnen explizit rechtsextreme
Einstellungen ab. Reicht das aus, um positiv in die Zukunft zu blicken?
Ja und nein. 76 Prozent sind eine stabile Grundlage, aber
dass fast ein Viertel der Deutschen bei dieser Frage zumindest indifferent ist,
ist eine zu hohe Zahl. Deshalb gilt: Die demokratischen drei Viertel der
Gesellschaft sind gefordert, die anderen von der demokratischen Sache zu
überzeugen. Dabei gibt es allerdings eine Gefahr: Diese Mehrheit besteht aus
sehr unterschiedlichen politischen Strömungen, von neoliberal bis
sozialistisch. Wenn sie sich nur auf einen Minimalkonsens gegen rechts einigt,
droht sie konturlos zu werden. Wir müssen also lernen, gemeinsam für die
Demokratie zu streiten, und gleichzeitig unsere Unterschiede in
Grundüberzeugungen und Politikansätzen deutlich zu zeigen. Wenn das gelingt,
ist die Demokratie stabil.
Ein weniger positives Ergebnis der Studie ist das wachsende
Misstrauen in die Demokratie und ihre Institutionen. Wie erklären Sie sich
dieses Phänomen – auch mit Blick auf die Bundesregierung und die Parteien der
sogenannten demokratischen Mitte?
Der alltägliche Blick in die Nachrichten ist schwer
erträglich – selbst für Berufspolitiker. Bürgerinnen und Bürger, die sich nicht
ständig mit Politik beschäftigen, fühlen sich hingegen von den Nachrichten
regelrecht überfordert. Früher sagten viele: „Was die da in Berlin machen,
betrifft mich doch nicht.“ Das hat sich geändert. Heute spüren die Menschen:
Ich bin betroffen. Gleichzeitig empfinden sie: Ich kann es nicht beeinflussen.
Und dann folgt der Gedanke: Dafür gibt es doch Politiker – aber die schaffen es
ja auch nicht. Diese Wahrnehmung führt zu einem angstbesetzten Misstrauen, auf
das demokratische Parteien in der westlichen Welt bislang nicht ausreichend
reagieren, und damit lassen sie den Extremisten Platz für ihre radikale
antidemokratische Agenda.
Zwei Dinge sind entscheidend: Erstens müssen wir anders
kommunizieren. Ehrlich sagen: Ja, die Lage ist instabil, und es gibt keine
schnellen Lösungen – aber wir arbeiten daran. Vertrauen wächst nur, wenn man
die Realität beschreibt, statt sie zu beschönigen. Zweitens: Viele
Alltagsbelastungen kann der Staat sehr wohl verbessern – aber im Moment wirkt
es für viele so, als passiere das nicht. Steffen Mau hat es treffend gesagt:
Wenn die Bahn immer zu spät kommt, zerstört das auch das Vertrauen in die Demokratie.
Wenn es keinen funktionierenden ÖPNV mehr gibt, obwohl du drei Kinder hast und
leider nicht vier Chauffeure beschäftigen kannst – das ist
Demokratiezerstörung. Wenn Schulen marode sind, Pflegeplätze fehlen, und Kitas
kein Personal haben – das alles zerstört Demokratie, weil es das Vertrauen in
staatliches bürgerzentriertes Handeln untergräbt. Viele Menschen glauben, dass
die Politiker gar nicht mehr wissen, wie es ist, wenn man einen normalen Job
hat, sich an die Regeln hält und Kinder großzieht. Vertrauen für Demokratie
zurückzugewinnen heißt, ehrlich zu sagen, dass Veränderungen Zeit brauchen –
und zugleich die Alltagsprobleme dieser Menschen ernst zu nehmen.
Die Mitte-Studie zeigt außerdem eine zunehmende
Polarisierung. Wie können wir als Gesellschaft damit umgehen – und vor allem:
Wie lässt sich verhindern, dass sich Menschen weiter abwenden, etwa in Richtung
Rechtspopulismus?
Die Konjunkturritter der Angst wollen keinen Dialog. Sie
haben eine apodiktische Meinung, und wer widerspricht, ist ein Feind.
Kompromisse sind nicht vorgesehen. Das ist die Zerstörung demokratischer
Kultur. Demokratie lebt nämlich vom Dialog. Hier kommt der viel zitierte
Begriff der Zivilgesellschaft ins Spiel. Es sind nicht Bundestag oder Landtage,
die das alleine lösen können, sondern alle demokratischen
zivilgesellschaftlichen Akteure: Gewerkschaften, Kirchen, NGOs, Gemeinden,
Städte, Bürgermeisterinnen und Bürgermeister. Sie alle sind prädestiniert,
Dialogplattformen zu schaffen. Ebenso die Universitäten, Schulen, Sportvereine,
Altenheime, Jugendzentren, Brauchtumsvereine. Überall dort, wo Öffentlichkeit
entsteht und Menschen zusammenkommen, müssen wieder mehr und neue Räume des
Gesprächs entstehen.
Nach meiner Erfahrung als Kommunalpolitiker gelingt das am
besten tatsächlich auf der lokalen Ebene. Sie ist die Ebene, auf der sich das
Leben der Menschen abspielt – und auf der Vertrauen am besten wachsen kann: Man
trifft die Leute in der Bäckerei oder im Park, kann sie ansprechen, sieht, was
sie direkt bewegen. Deshalb ist eine bessere finanzielle Ausstattung der Städte
und Gemeinden von existenzieller Bedeutung: sowohl um kleine Probleme wie
fehlende Fußgängerübergänge schnell zu lösen, aber auch um Alltagsrisiken
abzufedern. Vor Ort werden dadurch Räume für den Dialog geschaffen, die bei der
Überwindung der Polarisierung helfen.
Die aktuelle Debatte über die „Brandmauer“ nach rechts hat
in den letzten Wochen hohe Wellen geschlagen, vor allem innerhalb der CDU. Was
bedeutet diese Diskussion für das progressive Lager?
Für uns ist klar: Wir sind die Gegner der extremen Rechten –
und sie haben uns als ihre Gegner identifiziert. Die AfD ist eine
anti-aufklärerische, anti-diverse, anti-sozialdemokratische, anti-grüne Partei.
Wir sind für sie der Feind. Die CDU dagegen ist nicht nur ihr Feind, sondern
ihre Beute. Der Raubvogel hat sich seine Beute ausgeschaut. Die AfD will die
Union spalten und schwächen. Deshalb ist die Brandmauer-Debatte vor allem eine
Debatte der Union. Wir als progressive Kräfte brauchen sie nicht – wir sind die
Brandmauer.
Ich empfehle der CDU und CSU, die eigenen Studien der
Konrad-Adenauer-Stiftung ernst zu nehmen. Überall dort, wo sich moderate
Konservative auf einen Deal mit der extremen Rechten eingelassen haben, wurden
sie von ihr pulverisiert. Sie können nie so radikal sein, wie die Extremisten
es fordern. Man muss den Zauberlehrlingen in der Unionsfraktion sagen: Wer den
Geist aus der Flasche lässt, bekommt ihn nicht mehr hinein. Schaut nach
Frankreich, Italien, in die Niederlande, nach Belgien, Schweden, Finnland – überall,
wo sich die Moderaten mit den Rechtsextremen eingelassen haben, sind sie
abgestürzt.
Das Gegenargument lautet: Die Einbindung der extremen
Rechten könne sie mäßigen und so auch zu einer Entzauberung ihrer
Radikalpositionen beitragen – etwa wie in Schweden, wo die konservative
Minderheitsregierung faktisch von den rechtsextremen Schwedendemokraten
gestützt wird.
In Schweden sehen wir, dass die Moderaten zwar regieren,
aber quasi täglich Wähler verlieren – sowohl an die Sozialdemokraten als auch
an die Schwedendemokraten. In Finnland ist es ähnlich. In Spanien versucht die
konservative Partido Popular aktuell eine Art Mittelweg zu gehen. Sie sprich
die Anliegen der Wähler von VOX durchaus an, grenzt sich aber stärker von der
rechtsextremen Partei als solcher ab. Der Ausgang ist offen. Aber die
Erfahrungen zeigen: Parteien wie die Schwedendemokraten, die Wahren Finnen oder
VOX in Spanien wollen sich gar nicht mäßigen. Und die deutschen Rechtsextremen
sind im internationalen Vergleich aktuell die radikalsten. Deshalb ist die
Brandmauer-Debatte in Deutschland eine andere. Bei uns sollte es nicht um
taktische Optionen gehen, sondern zuallererst um die Verteidigung und Stärkung
demokratischer Grundsätze. IPG 7
Mitte-Studie. Demokratiefeindlichkeit
und Rassismus im „Stadtbild“ verfestigt
Die große Mehrheit der Bundesbürger sieht sich als
überzeugte Demokraten. Doch einige haben auch ganz andere Ansichten. Der Wunsch
nach einem starken Führer ist verbreitet – ebenso gruppenbezogener Rassismus. Von
Basil Wegener
Mehr als jede und jeder Siebte würde einer Studie zufolge
Verhältnisse wie in einer Diktatur in Deutschland befürworten. Sogar rund jede
fünfte Person zeigt sich offen für extreme und nationalistische Positionen. Ein
klar rechtsextremes Weltbild teilen laut der neuen „Mitte-Studie“ der
Universität Bielefeld und der Friedrich-Ebert-Stiftung 3,3 Prozent. Abwertende
Meinungen über Asylbewerber und Langzeitarbeitslose seien für viele
selbstverständlich geworden.
Allerdings ist nach den neuen Umfragedaten der Anteil der
Menschen mit klar rechtsextremen Einstellungen im Vergleich zur Vorgängerstudie
von vor zwei Jahren damit von acht um 4,7 Prozentpunkte zurückgegangen. Doch im
längeren Zeitvergleich sei das Niveau konstant: Seit 2014 habe es stets
zwischen zwei und drei Prozent Rechtsextreme gegeben.
Sorgen wegen des zunehmenden Rechtsextremismus
Zu so einem rechtsextremen Weltbild gehört dabei eine
Befürwortung einer Diktatur, die Verharmlosung des Nationalsozialismus, eine
völkisch-nationalistische Ideologie, Fremdenfeindlichkeit oder
Sozialdarwinismus, also eine Unterscheidung zwischen Höher- und Minderwertigen,
wie der Studienautor Andreas Zick erläuterte. „Wir reden hier von Menschen, die
18 Aussagen eindeutig zustimmen.“ Konstant bleibe ein Graubereich mit
Teilzustimmungen mit 21 Prozent.
Nach eigener Einschätzung verorteten 57 Prozent der
Befragten ihre politischen Ansichten „genau in der Mitte“ – eine leicht
steigende Tendenz. „Die Mehrheit der Menschen in Deutschland ist demokratisch
eingestellt und äußert Sorgen wegen des zunehmenden Rechtsextremismus“, so die
Autoren um den Bielefelder Konfliktforscher. Für die laut der Universität
repräsentative Umfrage führten die Umfrageinstitute Uzbonn und Nhi² vom 30. Mai
bis zum 4. Juli 2.001 Interviews mit 18- bis 94-Jährigen durch. Auftraggeber ist
die SPD-nahe Friedrich-Ebert-Stiftung.
Nationalistischer Graubereich
Rund 20 Prozent äußern sich ambivalent gegenüber
rechtsextremen und nationalchauvinistischen Aussagen, stimmen also weder zu
noch lehnen sie ab. „Dieser Graubereich“, so die Experten, „hat sich gegenüber
dem Vorjahr gefestigt und zeigt eine Offenheit für antidemokratische
Orientierungen“.
Zustimmung findet bei fast einem Viertel der Befragten der
Satz: „Das oberste Ziel der deutschen Politik sollte es sein, Deutschland die
Macht und Geltung zu verschaffen, die ihm zusteht.“ 30 Prozent finden dies
teils/teils. 15 Prozent bejahen voll oder überwiegend: „Wir sollten einen
Führer haben, der Deutschland zum Wohle aller mit starker Hand regiert.“ Zehn
Prozent finden dies teils/teils, rund 75 Prozent lehnen die Aussage ab. Ein
Viertel findet: „Was Deutschland jetzt braucht, ist eine einzige starke Partei,
die die Volksgemeinschaft insgesamt verkörpert.“
Antidemokratische Einstellungen
„Das Demokratie-Misstrauen ist sehr deutlich angestiegen“,
sagte Zick. Beim Großteil der Misstrauenden sei dies eine umfassende
Einstellung. Kein Vertrauen in die demokratischen Institutionen hätten zwei von
fünf Bundesbürgerinnen und -bürgern, in demokratische Wahlen rund 18 Prozent –
dreimal so viel wie vor vier Jahren. Nur 52 Prozent der Befragten stimmt zu,
dass die deutsche Demokratie im Großen und Ganzen ganz gut funktioniere. Ein
Viertel (24 Prozent) verneint dies – ein Rekordwert.
Einhergehen diese Zweifel laut der Analyse mit
Einstellungen, die „dem liberalen Geist des Grundgesetzes“ widersprechen: Zwar
meinen laut der Studie fast 88 Prozent, in einer Demokratie solle die Würde und
Gleichheit aller an erster Stelle stehen. Doch 34 Prozent sind laut Umfrage der
Ansicht: „Im nationalen Interesse können wir nicht allen die gleichen Rechte
gewähren.“ Ein Viertel meint, es werde zu viel Rücksicht auf Minderheiten
genommen. 7,5 Prozent billigten körperliche Gewalt gegen „Fremde“.
Gruppenbezogene Menschenfeindlichkeit
Generell stellen die Wissenschaftler „Gewöhnungseffekte und
Normalisierung“ bei rechtsextremen Einstellungen fest. Abwertende Ansichten
gegenüber Asylsuchenden haben mehr als 30, gegenüber Langzeitarbeitslosen sogar
36 und gegenüber Transmenschen 19 Prozent. Ein Drittel unterstellt Geflüchteten
Sozialmissbrauch. Dass für Menschen mit Behinderung in Deutschland teils „zu
viel Aufwand betrieben“ werde, meinen acht Prozent.
Und wie verbreitet ist Antisemitismus? Die Forscher fassen
die Zustimmungswerte als stabil zusammen. 5,5 Prozent meinen eher oder voll,
Juden hätten eine Mitschuld an ihren Verfolgungen. Knapp 13 Prozent meinen dies
teils/teils. Aufgrund des Nahostkonflikts geben 17 Prozent an, sie könnten „gut
verstehen, dass man etwas gegen Juden hat“.
Die Mehrheit tickt anders
Fast vier von fünf Befragten bezeichnen sich grundsätzlich
als überzeugte Demokratinnen und Demokraten – sechs Punkte mehr als vier Jahre
zuvor. Drei Viertel lehnen rechtsextreme Einstellungen ab, 70 Prozent empfinden
den zunehmenden Rechtsextremismus als Bedrohung für Deutschland. 88 Prozent
meinen, Würde und Gleichheit solle an erster Stelle stehen.
Der Vorsitzende der Friedrich-Ebert-Stiftung, der frühere
SPD-Kanzlerkandidat Martin Schulz, forderte, Verantwortungsträger und
Zivilgesellschaft müssten gegenhalten. „Mandatsträgerinnen und Mandatsträger,
von lokaler über Länderebene bis hin zur Bundesregierung und darüber hinaus
müssen zeigen, dass sie mit den Mitteln der Demokratie die bestehenden
Herausforderungen meistern und das Alltagsleben der Menschen spürbar verbessern
können.“
Soziale und ideologische Hintergründe
Ein hoher Schulabschluss geht laut der Studie mit deutlich
geringerer Zustimmung zu antidemokratischen Einstellungen einher. Männer
befürworten teils deutlich häufiger als Frauen Rechtsextremismus und Gewalt. Im
Osten gebe es mehr Fremdenfeindlichkeit und Rassismus. Im Westen seien
Sozialdarwinismus und Klassismus, also Herabwürdigung aufgrund sozialer
Herkunft, weiter verbreitet.
Ein Viertel der Befragten hängt laut der Studie einer
„libertär-autoritären Ideologie“ an. Motto: Jeder und jede solle in erster
Linie auf sich selbst achten. Diese Gruppe neige deutlich stärker zu einem
rechtsextremen Weltbild und billige stärker politische Gewalt. Befragte mit
dieser Ideologie stimmten zu 20 Prozent der Aussage zu: „Gegen politische
Gegner muss man auch mal Gewalt einsetzen, um nicht den Kürzeren zu ziehen.“
Klima im Abseits?
Der Anteil derer, die den Klimawandel als große Bedrohung
sehen, ist von früher rund 70 gemäß der Studie auf 56 Prozent gesunken.
Entsprechend sinke der Anteil in der Bevölkerung, die eine „klar
klimaprogressive Haltung“ vertritt, auf nur noch gut die Hälfte. Klimapolitisch
aus Sicht der Forscher rückschrittliche Haltungen sind dabei laut Studie oft
mit Distanz zur Demokratie verbunden. (dpa/mig 6)
Wegen angeblicher Christenverfolgung droht Trump Nigeria mit
dem Militär. Doch die Gewalt im Land hat ganz andere Ursachen. Von Lennart
Oestergaard
Das internationale Anprangern der Verfolgung von Christen
gehört seit langem zu den bevorzugten politischen Themen von Donald Trump und
seiner Administration. Jüngstes Ziel seiner verbalen Attacken ist nun Nigeria:
Die USA stuften das Land vergangene Woche als Country of Particular
Concern ein – als Staat, in dem die Religionsfreiheit systematisch
verletzt werde. Auf dieser Liste stehen sonst Länder wie China, Myanmar,
Nordkorea, Russland oder Pakistan. Gleichzeitig drohte Trump, US-Hilfen für
Nigeria zu streichen, und stellte sogar militärische Maßnahmen in Aussicht,
sollte das Land Christen nicht besser schützen.
Auslöser für diese Rhetorik scheinen Berichte der United
States Commission on International Religious Freedom und anderer Organisationen
zu sein. Unbestritten ist, dass in Nigeria seit Jahren zahlreiche christliche
Zivilisten durch Gewalt ums Leben kommen. Entscheidend ist jedoch: Das Gleiche
gilt für viele Muslime. Die Hauptursache ist nicht religiöse Verfolgung,
sondern die weitreichende Unsicherheit im Land. Nigeria ist von vielen
unterschiedlichen Konflikten geprägt – und Religion spielt dabei meist keine
zentrale Rolle. Oft wird sie erst im Nachhinein herangezogen, um die Opfer oder
die Konfliktparteien zu beschreiben, ohne dass der Streit ursprünglich etwas
mit Glauben zu tun gehabt hätte.
Im Norden Nigerias fordert der islamistische Terrorismus –
vor allem durch Boko Haram und den westafrikanischen Ableger des Islamischen
Staates (IS), der derzeit an Einfluss gewinnt – zahlreiche muslimische
Zivilopfer. Immer wieder werden ganze Dörfer überfallen und Muslime getötet,
die sich der extremistischen Ideologie der Terrorgruppen verweigern. Durch die
jahrelange Vernachlässigung des Nordens und die schwache Präsenz des
nigerianischen Staates ist dort ein Machtvakuum entstanden. Dieses wird nun vom
IS genutzt, der teilweise über modernste Ausrüstung bis hin zu Drohnen verfügt
und vor allem Polizei- und Militäreinrichtungen angreift.
Auch der häufig als religiös dargestellte Konflikt zwischen
sesshaften christlichen Bauern und nomadischen muslimischen Hirten in
Zentralnigeria ist im Kern ein Streit um Acker- und Weideland – ein Konflikt,
der durch den Klimawandel weiter verschärft wird. Die Hirten gehören meist der
Fulani-Ethnie an, während die Bauern anderen Volksgruppen entstammen. In den
vergangenen Jahren kam es vor diesem Hintergrund zu brutalen, teils gezielten
Angriffen, etwa auf Kirchen. Doch auch diese Gewalt hat eine ausgeprägte
ethnische Dimension. In einem Land mit mehr als 300 ethnischen Gruppen stiftet
die Zugehörigkeit zu einer Volksgruppe oft mehr Identität als die Religion. Die
Angriffe – ebenso wie manche Vergeltungsakte – lassen sich daher nicht von den
tieferliegenden Konflikten um Land und Ressourcen trennen.
In vielen Landesteilen bestimmen außerdem Bandenkriminalität
und Entführungen den Alltag. Dies ist vor allem eine Folge schwacher
staatlicher Kontrolle, fehlender Strafverfolgung und tiefer wirtschaftlicher
Spannungen – und nicht religiöser Motive. Die Regierung von Präsident Bola
Tinubu, die 2023 mit dem Versprechen angetreten ist, die massive Unsicherheit
entschieden zu bekämpfen, hat dieses Versprechen bislang nicht eingelöst. Ihr
Umgang mit den zahlreichen Sicherheitskrisen wirkt träge und selbstzufrieden –
und unterscheidet sich damit kaum von dem früherer Regierungen.
Die Reaktionen auf Trumps Drohungen fallen in Nigeria sehr
unterschiedlich aus. Viele erinnern sich an seine vollmundigen Ankündigungen
zur Rolle Grönlands, auf die letztlich kaum Taten folgten. Auch jetzt sehen
viele seine Äußerungen eher als innenpolitische Symbolik – als Signal an seine
christlich geprägte, teils fundamentalistische Anhängerschaft.
Angesichts der weit verbreiteten Unzufriedenheit mit der
Regierung Tinubu, der es trotz des großen wirtschaftlichen Potenzials des
Landes bisher nicht gelingt, die Lebensbedingungen spürbar zu verbessern,
äußern manche Nigerianer – teils sarkastisch – sogar den Wunsch nach einer
externen Intervention. Andere lehnen jede Einmischung von außen entschieden ab
und verweisen auf die desaströse Bilanz früherer US-Einsätze im Irak, in Libyen
und Afghanistan sowie auf negative Erfahrungen mit dem französischen Engagement
in Westafrika. Vor dem Hintergrund des Ressourcenreichtums Nigerias,
insbesondere bei seltenen Erden und anderen Rohstoffen, wirft die plötzliche
Aufmerksamkeit für die angebliche Christenverfolgung Fragen auf: Könnte sie
nicht vielmehr ein Vorwand für geoökonomische Interessen sein?
Die nigerianische Regierung hat inzwischen deutlich gemacht,
dass sie grundsätzlich an einer engeren sicherheitspolitischen Zusammenarbeit
und an gemeinsamen Militäreinsätzen interessiert ist – allerdings nur, wenn
diese abgestimmt und mit Zustimmung der Regierung erfolgen, ohne die
Souveränität des Landes einzuschränken. Gerade das Thema Souveränität ist
in Westafrika derzeit besonders heikel: Der Austritt Malis, Burkina Fasos und
Nigers aus der Westafrikanischen Wirtschaftsgemeinschaft ECOWAS wurde auch als
Protest gegen westlichen Einfluss inszeniert. Im Senegal wiederum verdankt der
neue Präsident seinen Wahlsieg nicht zuletzt seiner stark antifranzösischen
Rhetorik; Frankreich hat inzwischen alle Truppen aus dem Land abgezogen. Ein
US-Engagement, das dem früheren französischen Einfluss in den frankophonen
Staaten Westafrikas ähnelte, ist für die meisten Nigerianerinnen und Nigerianer
völlig undenkbar.
Für Deutschland und Europa bedeutet das: Nigeria braucht
Respekt, keine Bevormun
dung. Europas Botschaft sollte eindeutig sein –
uneingeschränkte Unterstützung der nigerianischen Souveränität und Anerkennung
seiner Bedeutung in Westafrika, auf dem afrikanischen Kontinent und weit
darüber hinaus. Der „Gigant Afrikas“ ist mit mehr als 230 Millionen
Einwohnern und seinem großen Rohstoffreichtum nicht nur demografisch und
wirtschaftlich ein Schwergewicht, sondern auch ein zentraler Partner bei der
Verteidigung einer regelbasierten Weltordnung. Globale Zukunftsfragen in einer
multipolaren Welt – von Migration über Sicherheit im Sahel bis hin zu
Klimaschutz, Energieversorgung und Rohstoffsicherheit – lassen sich nur in
enger Zusammenarbeit mit Ländern wie Nigeria lösen, und nicht durch sinnfreie
Drohungen. IPG 4
OECD-Studie. Große Lücken bei Jobs
und Löhnen für Migranten
Rekordhoch bei den Asylanträgen, weniger dauerhafte
Zuwanderung: Die OECD-Länder erleben bei der Migration gegenläufige Trends. Auf
den Arbeitsmärkten zeigen sich große Ungleichheiten.
Migrantinnen und Migranten werden in Deutschland im
Vergleich zu Einheimischen deutlich seltener angestellt als in anderen
OECD-Ländern und bekommen beim Jobeinstieg auch weniger Geld. Angesichts der
großen Unterschiede sollten Deutschland und andere Staaten mehr ausländische
Qualifikationen anerkennen, empfiehlt die Organisation für wirtschaftliche
Zusammenarbeit und Entwicklung (OECD) in ihrem jährlichen Migrationsbericht.
Während der Anteil der Angestellten unter den Eingewanderten
in der Bundesrepublik 2024 bei 69,6 Prozent lag, war er demnach bei
Einheimischen 10,3 Prozentpunkte höher. Diese Lücke war bei den untersuchten
OECD-Ländern nur in der Türkei und den Niederlanden größer.
Bei hoch qualifizierten Migrantinnen und Migranten war der
Abstand im vergangenen Jahr in Deutschland sogar noch deutlicher – der
Unterschied zu den einheimischen Arbeitskräften beträgt hier etwa 15
Prozentpunkte. Zur OECD gehören 38 Länder, darunter fast alle EU-Staaten sowie
die USA, Großbritannien oder Japan.
Migranten verdienen weniger als einheimische Arbeitskräfte
Allgemein führt der Bericht die erschwerte Anerkennung von
in anderen Ländern erlangten Qualifikationen in den OECD-Ländern – etwa im
Gesundheitssektor – als einen Grund für solche Unterschiede an. Die Autorinnen
und Autoren empfehlen den Ländern, bei der Jobsuche zu unterstützen und mehr
Jobmobilität zu ermöglichen.
Der in Brüssel vorgestellte Bericht untersucht zudem, wie
sich Einkommen von eingewanderten und einheimischen Arbeitskräften im Zeitraum
von 2000 bis 2019 unterscheiden. Migranten verdienten demnach in den 15
untersuchten OECD-Ländern beim Eintritt in den Arbeitsmarkt im Schnitt 34
Prozent weniger als einheimische Arbeitskräfte im selben Alter und mit gleichem
Geschlecht. In Deutschland sind es 43 Prozent weniger.
Größtenteils ließe sich dieser Unterschied dadurch erklären,
dass Migranten überdurchschnittlich oft in Branchen und Firmen mit niedriger
Bezahlung arbeiteten, sagte OECD-Generalsekretär Mathias Cormann. Etwa 71
Prozent der Migranten in den OECD-Ländern sind laut Bericht angestellt, weniger
als 10 Prozent arbeitslos gemeldet.
Erstmals seit drei Jahren nimmt dauerhafte Zuwanderung in
OECD-Länder ab
Erstmals nach drei Jahren nahm die dauerhafte Zuwanderung in
die Mitgliedsstaaten der OECD ab. Etwa 6,2 Millionen Menschen – rund vier
Prozent weniger als 2024 – wanderten im vergangenen Jahr in die 38 OECD-Länder
ein und können dort langfristig bleiben.
Trotz sinkender Zahlen bleibe die dauerhafte Zuwanderung auf
einem historisch hohen Niveau, heißt es im Bericht der Organisation mit Sitz in
Paris. Demnach gab es 2019 insgesamt noch 15 Prozent weniger Einwanderer, die
in einem OECD-Land eine klare Bleibeperspektive hatten. Dauerhaft eingewandert
sind laut Definition im Bericht Menschen mit der klaren Absicht und rechtlichen
Perspektive, auf unbestimmte Zeit in einem Land zu bleiben.
Besonders in Deutschland und anderen EU-Ländern kamen im
Vergleich zum Vorjahr weniger Menschen dauerhaft an. Während auch in
Großbritannien die Zuwanderung abnahm, verzeichneten die USA einen Anstieg von
20 Prozent.
Erneut so viele Asylanträge wie nie zuvor
Die Zahl der Asylanträge in der OECD-Staaten erreichte im
vergangenen Jahr wie schon 2023 ein Allzeithoch. Mit 3,1 Millionen lag sie 13
Prozent höher als im Vorjahr. Der Anstieg geht dabei aber vor allem auf die
USA, Kanada und Großbritannien zurück – in den OECD-Ländern in der EU, Asien
und Lateinamerika baten hingegen weniger Menschen um Asyl.
EU-Migrationskommissar Magnus Brunner sagte bei der
Vorstellung des Berichts in Brüssel, während weniger irreguläre Migration in
die EU ein Erfolg sei, brauche es mehr legale Zuwanderung für den Arbeitsmarkt.
Der OECD-Bericht zeigt: Arbeitsmigration nahm im vergangenen Jahr stark ab, die
Zuwanderung aus humanitären Gründen in OECD-Staaten ist hingegen deutlich mehr
geworden. Hauptgrund für die Zuwanderung bleibt laut dem Bericht die
Zusammenführung von Familien. (dpa/mig 4)
Migranten teilen demokratische
Werte
Die meisten Migranten in Deutschland und Europa stimmen
demokratischen Werten wie Pressefreiheit und Rechtsstaatlichkeit zu. Auch
antidemokratische Einstellungen sind ähnlich verbreitet wie bei Menschen ohne
Einwanderungsgeschichte.
Zuwanderer in Deutschland und anderen europäischen Staaten
haben laut einer Untersuchung der Universität Mannheim ähnlich ausgeprägte
demokratische Werte wie Menschen ohne Migrationshintergrund. Die
Wissenschaftler des Mannheimer Zentrums für Europäische Sozialforschung
stellten außerdem fest, dass die demokratischen Überzeugungen mit der Dauer des
Aufenthalts in Europa zunehmen.
Bei Menschen, die vor der Migration viele Jahre in autoritär
regierten Staaten verbracht haben, seien die Zustimmungswerte für Kernelemente
der liberalen Demokratie etwas geringer als bei Menschen aus diesen Staaten,
deren politische Sozialisation vorwiegend im Zielland stattfand.
Antidemokratische Einstellungen gleich hoch
Laut der Untersuchung, die im „European Journal of Political
Research“ veröffentlicht wurde, lehnt eine Minderheit aus autoritären Ländern
von rund fünf Prozent demokratische Werte ab. Dieser Anteil sei vergleichbar
mit den Menschen ohne Migrationshintergrund, die antidemokratische
Einstellungen vertreten.
Für ihre Untersuchung haben die Autoren der Studie Daten des
European Social Survey und des deutschen Integrationsbarometers ausgewertet.
Als Migrantinnen und Migranten im Sinne der Untersuchung wurden nur
Zugewanderte betrachtet, die selbst im Ausland gelebt haben und bei denen
mindestens ein Elternteil ebenfalls außerhalb des Ziellandes geboren wurde.
(dpa/mig 3)