Webgiornale novembre 2025

 

Inhaltsverzeichnis

1.     Concorso nel 70° dell’accordo italo-tedesco. Scade il 14 novembre. 1

2.     Consiglio europeo: Costa (presidente), “decisioni importanti”. 1

3.     L’Europa può cavarsela da sola?. 1

4.     Frontiere in Movimento. L’emigrazione italiana in Germania a 70 anni dall’Accordo italo-tedesco. 1

5.     Papa Leone alla FAO: "Permettere che milioni di persone muoiano vittime della fame è un’aberrazione etica". 1

6.     Una costante storica: guerre e prezzo dell’oro. 1

7.     A Berlino convegno sul futuro del progetto europeo. 1

8.     Darmstadt, mostra sulla fotografia italiana, fino all’11 gennaio. 1

9.     Cosmo italiano, le recenti puntate. 1

10.  Novembre 2025: cinque cambiamenti importanti 1

11.  Correre da soli?. 1

12.  Settant’anni dall’accordo italo-tedesco sull’invio di manodopera. 1

13.  Servizi per i cittadini e le imprese all'estero: iniziato l’esame dell’Aula. 1

14.  Il WTO, chiusura o riforma?. 1

15.  Confsal-Unsa, un sindacato concentrato sui problemi del posto di lavoro nella Farnesina. 1

16.  Consolati: una riforma per i servizi agli italiani nel mondo. 1

17.  Una proposta: l’italiano come lingua di lavoro nell’UE. 1

18.  Perché è un accordo storico. 1

19.  Case vuote in Italia, emergenza abitativa all’estero: il paradosso degli emigranti dimenticati 1

20.  Non ghettizzare gli italiani all'estero: la nuova visione del CGIE. 1

21.  A Francoforte la mostra “Anatomia della fragilità”, sul corpo. 1

22.  Brevi di politica e cronaca tedesca. 1

23.  Il primo ricordo e la costruzione del sé: la memoria come colonna portante della vita. 1

24.  La parlamentare Manuela Ripa a Mezz’Ora Italiana. 1

25.  Nulla è cambiato?. 1

26.  Saarbrücken: ricordato il contributo dei connazionali 1

27.  Cittadinanza italiana per i figli degli italiani all’estero. 1

28.  Israele celebra l’anniversario del 7 ottobre. 1

29.  La fiducia. 1

30.  Rapporto Immigrazione Caritas-Migrantes 2025. Giovani di origine straniera: si trasforma con loro l’Italia che spera. 1

31.  I lavori del Comitato di Presidenza del Cgie. 1

32.  La coerenza. 1

33.  Il muro nel Mediterraneo. 1

34.  Da “clandestini” a cittadini. La lunga strada in salita. 1

35.  Camera. Andrea Riccardi sui Comitati della Dante. 1

36.  “Voci d’Italofonia” alla XXV Settimana della lingua italiana nel mondo. 1

37.  Al Cgie il duro attacco di Merlo (Maie) al Governo: Legge Tajani inutile e ingrata. 1

38.  La coerenza. 1

39.  Accoltellata Iris Stalzer, la neosindaca dell'Spd è in fin di vita. 1

40.  Le strategie di promozione dell’italiano all’estero. 1

41.  In Germania dal prossimo anno la “Aktivrente”. 1

42.  La nuova legge sulle comunità abruzzesi nel mondo. 1

43.  Legge sull’obesità, la prima al mondo, su prevenzione e cura. 1

44.  Non sono ragazzi “dispersi”. 1

45.  “Lingua oltre i confini”: il 19 novembre la Prima Conferenza Internazionale dell’Italofonia. 1

46.  Rapporto Immigrazione Caritas-Migrantes 2025. Giovani di origine straniera: si trasforma con loro l’Italia che spera. 1

47.  Al Senato l’audizione del Comitato di Presidenza del Cgie. 1

48.  Patenti europee, la svolta digitale e le nuove regole: cosa cambia. 1

49.  Vecchiaia: la saggezza del tempo. 1

50.  Il CGIE verso una nuova centralità nelle istituzioni 1

51.  Incontro online dello CSER “Migrazioni a fumetti”. 1

52.  Incentivi al rientro, la proposta del CGIE: “Un portale unico nazionale”. 1

 

 

1.     Was Migranten über Merz‘ „Stadtbild“ sagen. 1

2.     Studie offenbart tiefe Vorurteile. Jeder Zweite glaubt an „Islamisierung“ Deutschlands. 1

3.     Das neue nukleare Zeitalter. 1

4.     Deutlich mehr Abschiebungen im laufenden Jahr 1

5.     Vatikan-Vertreter bei der UNO: Aufrüstung ist eine Illusion. 1

6.     80 Jahre UN-Charta. Die regelbasierte Weltordnung zerbröselt. 1

7.     Merz rudert zurück. Können auf Menschen mit Migrationserfahrung nicht verzichten. 1

8.     Papst: Migranten werden wie Müll behandelt und Völker ausgeraubt. 1

9.     Kapitalismus auf Steroiden. 1

10.  Statistisches Bundesamt. Einwanderer in vielen Mangelberufen stark vertreten. 1

11.  UN: Erzbischof Caccia - Frieden nicht durch Drohung möglich. 1

12.  Experte kritisiert Aus der beschleunigten Einbürgerung. 1

13.  Interviews. „Migration wird politisch instrumentalisiert“. 1

14.  Merz will AfD mit „Stadtbild“ besiegen. 1

15.  Kirchen dringen auf konkrete Beschlüsse bei Weltklimakonferenz COP30. 1

16.  Medienberichte über ausländische Tatverdächtige „drastisch verzerrt“. 1

17.  Wenn die Blätter fallen – wer muss fegen?. 1

18.  Merz will „Problem“ mit „Stadtbild“ durch Rückführung lösen. 1

19.  Trügerischer Erfolg. 1

20.  Studie. Großteil der Geflüchteten in Deutschland armutsgefährdet. 1

21.  Gallagher: Gaza-Abkommen ist gut, erfordert aber Arbeit zur Stabilisierung. 1

22.  Studie. Zuwanderung spaltet Menschen in Deutschland am stärksten. 1

23.  Kirche kritisiert geplante EU-Verordnung für mehr Abschiebungen. 1

24.  „Das ist der Preis Norwegens, nicht unserer“. 1

25.  Made by Migration. Zuwanderer prägen Deutschlands Innovationskraft. 1

26.  Hoffnung auf allen Seiten. Waffenruhe in Gaza – Kehrt Frieden ein in Nahost?. 1

27.  EU schafft Passstempel ab. Neues Grenzsystem für die europäische Migrations- und Asylpolitik. 1

28.  Vatikan/UNO: Weniger Rüstung, Schuldenerlass für arme Länder 1

29.  Union, SPD und AfD beschließen Aus für Turbo-Einbürgerung. 1

30.  Scharfe Debatte im Bundestag über Umsetzung der EU-Asylreform.. 1

31.  Ende des Schreckens?. 1

32.  Wehret den Anfängen. Nimm Faschismus ernst! 1

33.  Neuer Aktionsplan. Drei Schwerpunkte in der Entwicklungspolitik. 1

34.  Armutsbericht. Migranten arbeiten öfter – und haben weniger. 1

35.  Pompöse Farce. 1

36.  Europa: Unsere Idee kennt keine Grenzen! 68. Bundeskongress der Europa-Union in Chemnitz. 1

37.  35 Jahre Einheit. Die Mauer fiel uns auf den Kopf 1

38.  Frankfurt/M. Verso Sud 31. 31. Festival des italienischen Films | 21.11.–3.12.2025. 1

 

 

 

Concorso nel 70° dell’accordo italo-tedesco. Scade il 14 novembre

 

Berlino - “Un biglietto di Buone Feste per l’Ambasciata: un augurio che unisce!” è il nuovo concorso promosso dall’Ambasciata d’Italia a Berlino con l’obiettivo di promuovere l’amicizia tra Italia e Germania, coinvolgendo le giovani generazioni e rafforzando la diffusione della lingua e della cultura italiana in Germania.

L’iniziativa rientra nell’ambito delle celebrazioni del 70° anniversario del primo accordo bilaterale sulla manodopera del 1955, che facilitò l’arrivo dei lavoratori italiani in Germania creando un partenariato fondamentale tra i due Paesi.

Il concorso è rivolto agli alunni e alle alunne delle scuole in Germania, di ogni ordine e grado, nonché studenti dei corsi di lingua e cultura italiana di età minore di diciotto anni, invitati a creare un biglietto di auguri natalizio che esprima, con creatività e originalità, i valori dell’amicizia tra i due Paesi e la cultura italiana.

Il biglietto vincitore diventerà il biglietto ufficiale di auguri natalizi dell’Ambasciata e della Rete consolare in Germania per il 2025 e l’autore o l’autrice saranno invitati alla una cerimonia di premiazione che si terrà presso l’Ambasciata, ricevendo un attestato e un riconoscimento speciale.

Il biglietto prescelto e una selezione di altre cinque opere finaliste verranno esposti in Ambasciata durante la cerimonia di premiazione e verranno pubblicati sul sito e sui canali social dell’Ambasciata. Tutti i partecipanti riceveranno un attestato di partecipazione.

Tutte le indicazioni per partecipare sono disponibili sul bando pubblicato dall’Ambasciata al sito https://ambberlino.esteri.it/wp-content/uploads/2025/10/BANDO-CONCORSO-AUGURI-BUONE-FESTE-2025.pdf. La scadenza per l’invio delle opere è venerdì 14 novembre 2025. Ulteriori informazioni si possono richiedere via email all’indirizzo stampa.berlino@esteri.it. (aise/dip 10)

 

 

 

 

Consiglio europeo: Costa (presidente), “decisioni importanti”

 

Bruxelles. “Avevo dichiarato che oggi sarebbe stato il momento delle decisioni. Abbiamo mantenuto la parola. Su tutti i fronti”. Così, con – forse – eccessivo ottimismo, Antonio Costa, commenta l’esito del Consiglio europeo svoltosi ieri a Bruxelles e terminato a notte inoltrata. “Abbiamo affermato più volte che sosterremo l’Ucraina per quanto necessario e per tutto il tempo necessario. Oggi abbiamo raggiunto tre accordi importanti. In primo luogo, i leader europei si sono impegnati a garantire che il fabbisogno finanziario dell’Ucraina sia coperto per i prossimi due anni. Abbiamo chiesto alla Commissione di presentare ‘opzioni’ il prima possibile, in modo che l’Ucraina disponga delle risorse necessarie per continuare a difendersi e lottare per una pace giusta e duratura nel 2026 e nel 2027, se necessario”.

Il presidente del Consiglio europeo aggiunge: “La Russia dovrebbe prenderne atto; l’Ucraina disporrà delle risorse finanziarie necessarie per difendersi dall’aggressione russa nel prossimo futuro. Ora è necessario lavorare sugli aspetti tecnici, legali e finanziari del sostegno europeo, e torneremo su questo tema al Consiglio europeo di dicembre”. È chiaro a tutti che la guerra non terminerà presto, nonostante le richieste e le aspettative del Presidente Zelensky, ieri a Bruxelles, e le vane promesse di Donald Trump.

“In secondo luogo, abbiamo adottato il 19° pacchetto di sanzioni, che aumenterà la nostra pressione sulla Russia e danneggerà ulteriormente la sua macchina da guerra”. Sanzioni promesse anche dagli Usa, scatenando la reazione di Putin.

“In terzo luogo, gli Stati membri hanno concordato di rafforzare le misure e coordinare le azioni per smantellare la flotta ombra russa. In sintesi: continuiamo a utilizzare tutti i mezzi a nostra disposizione per mettere l’Ucraina in una posizione di forza se e quando inizieranno i negoziati con Putin. Speriamo che questo momento arrivi presto. Ma, indipendentemente dalle circostanze, il nostro messaggio è chiaro: l’Europa non deluderà l’Ucraina”. La tanto attesa decisione sull’utilizzo degli asset russi per finanziare l’Ucraina è stata ancora una volta rinviata: ma su questo Costa ha glissato, decisione rimandata. Così come nessuno ha promesso, come richiesto da Zelensky, soldati e altri missili.

Il secondo ambito in cui il Consiglio europeo, secondo il presidente Antonio Costa, ha espresso i suoi risultati è la difesa. “Oggi – ha riferito in Conferenza stampa – abbiamo chiuso un ciclo che avevamo aperto lo scorso febbraio, quando ho convocato un brainstorming dedicato a questo tema. In meno di un anno, lavorando a stretto contatto con la Commissione europea, abbiamo delineato le basi per l’Europa della difesa. Abbiamo approvato nuovi strumenti finanziari per sviluppare queste capacità, in piena coerenza con la Nato. Le nostre priorità sono ora chiare, a partire dalla difesa anti-droni e aerea. E guardiamo, naturalmente, al nostro fianco orientale”. Poi ha esposto due scadenze: “La fase 1 sarà finalizzare entro la fine dell’anno le ‘coalizioni di capacità’ che guideranno questi progetti; la fase 2 sarà quella di avviare e portare avanti progetti concreti all’inizio del 2026”. Gli Stati membri saranno “al posto di guida per portare avanti i nostri sforzi congiunti, con un ruolo più importante per i ministri della Difesa e l’Agenzia europea per la difesa”.

La difesa europea, ha dichiarato Costa, “non si limita a spendere di più. Si tratta di spendere in modo più intelligente, lavorare insieme e garantire risultati ai nostri cittadini. È così che costruiamo la sovranità dell’Europa. E la Roadmap per la preparazione alla difesa presentata oggi dalla Commissione europea” è stata “un elemento decisivo in tal senso”.

Il presidente del Consiglio europeo Costa ha poi segnalato le altre “conclusioni” del summit, contenute in un lunghissimo documento che segnala decisioni e lascia intendere le mancate convergenze. Su competitività e clima: “L’Europa è in prima linea nell’azione per il clima. Trasformare questa sfida in opportunità economiche. Posizionarsi come leader nelle tecnologie del futuro. Oggi abbiamo ribadito il nostro impegno nei confronti dell’Accordo di Parigi e abbiamo concordato sulla necessità di essere pragmatici e flessibili nella nostra strategia, per garantire che le ambizioni climatiche dell’Europa e la competitività della nostra economia e delle nostre industrie vadano di pari passo e non lascino indietro nessuno”. C’è, al fondo, la contrarietà di numerosi governi verso il Green Deal. “Guardando al 2040, stiamo definendo un percorso chiaro e realistico per raggiungere i nostri obiettivi climatici: assicurandoci che la nostra transizione sia giusta e accessibile per cittadini e imprese; sostenendo la modernizzazione e la decarbonizzazione delle nostre industrie; seguendo il principio di neutralità tecnologica, per garantire il raggiungimento dei nostri obiettivi nel modo più efficiente in termini di costi; e garantendo che la transizione contribuisca a una solida base industriale europea”. Parlando di ambiente emergono più gli interessi delle imprese che quelli della salute e il rispetto del Creato.

Quindi altri temi: “L’accessibilità e il costo degli alloggi sono tra le questioni concrete più urgenti per milioni di europei. Sebbene in questo ambito le competenze rimangano a livello nazionale, regionale e locale, ho voluto che i leader europei si riunissero e discutessero di come l’Unione europea possa integrare e sostenere i loro sforzi. Il nostro dibattito è stato molto utile e concreto. Ha offerto una guida politica per la preparazione del Piano europeo per l’edilizia abitativa a prezzi accessibili da parte della Commissione europea”.

“In conclusione: oggi il Consiglio europeo ha adottato misure concrete su Ucraina, difesa, clima e competitività. E abbiamo aperto un nuovo ciclo per la politica abitativa. E continueremo a impegnarci. Per i nostri cittadini, per il nostro futuro e per il nostro posto nel mondo”. Su altri temi urgenti e divisivi, fra cui le migrazioni, Costa tace.

Nel riferire del Consiglio europeo tenutosi a Bruxelles, durante la conferenza stampa accanto ad Antonio Costa, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen ha affrontato diversi temi. “Abbiamo avuto discussioni proficue e compiuto progressi in diversi ambiti. Vorrei iniziare con l’Ucraina. Stamattina abbiamo adottato il 19° pacchetto di sanzioni, un pacchetto ampio e articolato che colpisce al cuore l’economia di guerra russa. Parallelamente, gli Stati Uniti stanno procedendo con la propria serie di sanzioni contro la Russia: insieme ai nostri partner e alleati abbiamo un impatto maggiore. E continueremo a esercitare pressioni sulla Russia per tutto il tempo necessario: sosterremo l’Ucraina per tutto il tempo necessario a garantire la fine delle stragi e una pace giusta e duratura. Questo è anche il nostro messaggio al Presidente Zelensky.

“Abbiamo avuto una discussione proficua sul prestito di riparazione, da finanziare con i beni russi immobilizzati”, gli asset. “Ci ha permesso di identificare i punti che dobbiamo ancora chiarire”. Questione rimandata a dicembre per diversi nodi giuridici e finanziari.

Sulla difesa: “Discussione molto positiva sulla nostra Roadmap per la Prontezza 2030. In primo luogo, la Roadmap individua le lacune in termini di capacità, nonché gli obiettivi e le tappe per raggiungerli entro il 2030. Questo è ovviamente in stretto coordinamento con la Nato. In secondo luogo, si tratta di un approccio a 360 gradi. Perché la nostra sicurezza riguarda la protezione dei confini. Oggi è a est, domani potrebbe essere a sud. I progetti faro che abbiamo individuato ne sono un chiaro esempio: la Drone Alliance, l’Eastern Flank Watch, la difesa spaziale o lo scudo aereo europeo. In terzo luogo, la Roadmap prevede un’impennata della spesa per la difesa. È quindi per noi molto importante che questi investimenti nella difesa siano un motore di crescita. In altre parole, vogliamo un ritorno sugli investimenti, che arriverà fino a 800 miliardi di euro entro il 2030”.

“Passando ai nostri obiettivi climatici. Siamo sulla buona strada per raggiungere l’obiettivo del 2030. Naturalmente abbiamo concordato tutti su un obiettivo chiaro di neutralità climatica entro il 2050. Ora abbiamo davanti a noi la fase intermedia del 2040. Avevamo proposto un obiettivo del 90% e introdotto nuove flessibilità. E oggi abbiamo assistito a un forte sostegno a un approccio ambizioso e pragmatico. Abbiamo anche discusso delle flessibilità per raggiungere questo obiettivo: sotto forma di crediti internazionali e flessibilità tra i diversi settori economici. In breve: maggiore flessibilità su come raggiungere gli obiettivi”.

Infine, per quanto riguarda l’edilizia abitativa, “è e rimarrà una competenza nazionale, ma – ha affermato Von der Leyen – alcune di queste sfide trarrebbero beneficio da un approccio europeo coordinato. Pertanto, quest’anno presenterò un Piano europeo per l’edilizia abitativa a prezzi accessibili. E poiché abbiamo discusso della necessità di un forte coordinamento europeo, convocheremo il primo Vertice Ue sull’edilizia abitativa nel 2026”. Sulle migrazioni e sul Patto per l’asilo e la migrazione – tema all’ordine del giorno – nessuna novità.

Gianni Borsa sir 24

 

 

 

 

L’Europa può cavarsela da sola?

 

Sotto la nuova amministrazione del 2025, gli Stati Uniti hanno voltato le spalle in modo dimostrativo alla promozione della democrazia internazionale, all’integrazione euro-atlantica e al sostegno materiale diretto all’Ucraina. Di conseguenza, si discute sempre più del nuovo ruolo dell’Europa, sia nella difesa dell’Ucraina che nell’affrontare le autocrazie e altre sfide internazionali. Non solo i partner europei della NATO dovranno assumersi maggiori responsabilità per la propria sicurezza, ma l’Europa dovrà ora affrontare anche altre questioni globali fondamentali senza il sostegno degli Stati Uniti, dalla tutela dell’ambiente e dei diritti umani allo sviluppo politico e socioeconomico.

Il problema è che “Europa” è un concetto vago quando si tratta di affari esteri e difesa. Nonostante gli stretti legami e la vicinanza geografica, le nazioni europee hanno culture strategiche e prospettive geopolitiche diverse. In molti paesi europei, l’ascesa dei partiti radicali di destra e di sinistra ha portato a un’estrema polarizzazione dell’opinione pubblica, non solo sugli affari interni ma anche su quelli esteri.

L’attuale pluralismo geostrategico del continente sta portando a formulazioni incoerenti degli interessi nazionali e a punti di vista divergenti su questioni transfrontaliere rilevanti tra le capitali europee. Le divisioni ideologiche separano non solo l’UE dagli Stati europei illiberali al di fuori dell’Unione, come la Bielorussia o la Serbia. La diversità normativa dell’Europa porta anche a disaccordi all’interno dell’Unione su quali dovrebbero essere le priorità e gli obiettivi della politica estera dell’UE.

Nonostante queste complicazioni, le sfide e i rischi per la democrazia e la libertà globali stanno aumentando. Oggi più che mai, l’UE sarebbe necessaria come aggregatore, promotore e attuatore di una politica estera europea comune, proprio come l’Unione determina le politiche commerciali europee. Per adempiere a questo compito, gli Stati membri dell’UE dovrebbero tornare al loro precedente consenso normativo relativo o adottare un nuovo trattato sull’Unione europea che conferisca poteri sovranazionali più forti a Bruxelles o, nella migliore delle ipotesi, fare entrambe le cose. Nulla di tutto ciò sembra probabile nel prossimo futuro.

Senza un accordo geostrategico tra gli Stati membri dell’UE e/o un nuovo trattato dell’Unione, sono necessarie altre soluzioni istituzionali. Una possibile soluzione è la creazione di alleanze ad hoc in materia di politica estera e di sicurezza tra Stati membri dell’UE che condividono gli stessi principi e che uniscono le forze per perseguire questo o quell’obiettivo. Il trattato di Lisbona consente una cooperazione differenziata all’interno dell’Unione e quindi un’azione congiunta da parte di gruppi di governi europei affini. Tuttavia, il principio del consenso e il diritto di veto nazionale sulle decisioni fondamentali limitano il ruolo potenziale del Consiglio dell’UE, della Commissione e del Servizio europeo per l’azione esterna come veicoli istituzionali per una politica estera consolidata delle democrazie europee impegnate.

In ogni caso, la cooperazione intraeuropea può essere efficace solo fino a un certo punto. Da sole, le democrazie europee sono troppo deboli per affermarsi nei conflitti geopolitici, economici e militari globali. Per una cooperazione transeuropea più ampia, sta attualmente emergendo un modello di pianificazione e coordinamento interdemocratico con la Coalizione dei Volenterosi (COW) sull’Ucraina, operativa dalla primavera del 2025.

Questa alleanza informale di democrazie riunisce 33 paesi i cui governi concordano ampiamente sui valori generali, gli interessi nazionali e gli obiettivi di politica estera. La COW, finora certamente poco strutturata, comprende paesi europei non membri dell’UE, come il Regno Unito e la Norvegia, e persino paesi lontani dall’Europa, come l’Australia e il Giappone. Sebbene l’attuale COW si occupi solo dell’Ucraina, in futuro potrebbe ampliare il proprio raggio d’azione ad altre questioni importanti per il futuro della democrazia in tutto il mondo.

Il conflitto globale principale di oggi ruota maggiormente, secondo i termini del professore di Stanford Michael McFaul, attorno al contrasto tra autocrazie e democrazie e meno attorno a uno “scontro di civiltà”, come lo definì più di trent’anni fa il compianto professore di Harvard Samuel Huntington. La famosa tesi di Huntington non spiega l’attuale cooperazione tra la Russia cristiano-ortodossa, l’Iran fondamentalista islamico e la Corea del Nord paleocomunista nella guerra contro l’Ucraina, anch’essa cristiano-ortodossa. La composizione dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai o del gruppo BRICS non corrisponde allo schema di Huntington di collaborazione e conflitto internazionale determinato culturalmente. Al contrario, il titolo del libro di prossima pubblicazione di McFaul, ex ambasciatore degli Stati Uniti a Mosca, Autocrats vs. Democrats: China, Russia, America, and the New Global Disorder (Autocrati contro democratici: Cina, Russia, America e il nuovo disordine globale), coglie meglio la dimensione chiave della futura cooperazione e del confronto tra Stati.

Lo sforzo congiunto, nell’ambito della COW, di aiutare l’Ucraina da parte dei paesi dell’UE e dei paesi extra-UE non è quindi una coincidenza, ma piuttosto sintomatico. È parte integrante di una ridefinizione globale delle linee di conflitto derivante dalla crescente contrapposizione mondiale tra ordini ad accesso aperto e ordini ad accesso chiuso. Ciò dovrebbe avere implicazioni istituzionali per le relazioni tra quelle democrazie europee e non europee interessate a difendere e promuovere i valori e le regole della democrazia liberale.

Oggi, gli autocrati e i loro diplomatici, così come ideologi come il fascista russo Aleksandr Dugin, sono impegnati nella creazione e nell’espansione di reti e alleanze transcontinentali statali e non statali. I governi, i partiti e gli intellettuali antiliberali di Asia, Europa, Americhe e Africa si sostengono e si coordinano sempre più tra loro. Per ragioni di autoconservazione, gli Stati, i partiti e le altre organizzazioni europee e non europee favorevoli alla democrazia dovrebbero fare lo stesso. I governi e le società civili delle democrazie liberali devono costruire coalizioni e istituzioni mondiali che superino i confini geografici e culturali.

Il G7 e la NATO, potenziali centri nevralgici della cooperazione interdemocratica globale, sono attualmente ostacolati dall’impulso antiliberale, dall’improvvisazione amministrativa e dalla confusione strategica della nuova amministrazione statunitense. L’UE rimane afflitta dalle contraddizioni nazionali tra i suoi Stati membri e dalle complicazioni strutturali nel suo processo decisionale. In questo contesto, la COW, finora informale, sull’Ucraina potrebbe offrire una soluzione. Insieme ad altre reti, la COW può servire da esempio o addirittura da nucleo per una futura cooperazione generale tra civiltà tra governi e gruppi democratici. Andreas Umland, Aff.Int.28

 

 

 

 

 

Frontiere in Movimento. L’emigrazione italiana in Germania a 70 anni dall’Accordo italo-tedesco

 

Un convegno per rileggere 70 anni di storia migratoria

Nel 1955 la firma dell’Accordo bilaterale tra Italia e Repubblica Federale di Germania segnò l’inizio di una delle esperienze migratorie più importanti dell’Europa contemporanea. Migliaia di lavoratori e lavoratrici italiani attraversarono allora le Alpi in cerca di un futuro migliore, portando con sé lingue, tradizioni, culture e speranze che avrebbero profondamente inciso sul tessuto sociale, economico e culturale tedesco.

A settant’anni da quell’intesa, il convegno “Storia, società e prospettive dell’emigrazione italiana in Germania – Frontiere in movimento”, svoltosi sabato, ha voluto intrecciare memoria e attualità, riflettendo sulle trasformazioni dell’esperienza migratoria italiana e sulle nuove sfide che essa pone oggi.

L’incontro ha riunito studiosi, rappresentanti istituzionali, esponenti del mondo associativo e delle nuove generazioni, in un dialogo che ha restituito la complessità di una storia collettiva ancora in evoluzione.

A dare il benvenuto ai partecipanti e al pubblico è stato Francesco Vizzarri, che ha aperto ufficialmente i lavori del convegno, salutando gli ospiti e presentando i diversi panel tematici. Vizzarri ha anche svolto il ruolo di moderatore, accompagnando con competenza e sensibilità l’intero svolgimento della giornata, favorendo il confronto tra i relatori e il pubblico in sala.

Un viaggio nella memoria e nella storia sociale

A inaugurare le relazioni è stato l’onorevole Toni Ricciardi, storico dell’emigrazione e deputato, che ha ricostruito le tappe fondamentali dell’esodo italiano verso l’Europa occidentale dopo il 1945. Nella sua relazione, Ricciardi ha sottolineato come la migrazione italiana in Germania sia stata non solo una vicenda economica, ma anche un potente motore di trasformazione sociale e culturale.

È poi intervenuta Licia Linardi, direttrice del Corriere d’Italia, che ha ripercorso la storia del giornale e delle Missioni cattoliche italiane, strumenti centrali di informazione e coesione per gli emigrati nel dopoguerra.

Il delegato delle Missioni cattoliche italiane, don Gregorio Milone, ha aggiornato i presenti sulla situazione attuale delle comunità, ricordando l’impegno pastorale e sociale di questi centri, ancora oggi punti di riferimento per molti connazionali.

Associazionismo e sindacato: radici e futuro

Pino Tabbì, presidente delle ACLI Germania, ha presentato la storia delle Acli Germania e la sua attualità. Mentre il presidente nazionale delle ACLI, Emiliano Manfredonia, ha affrontato il tema del futuro dell’associazionismo italiano all’estero, ponendo l’accento sulla necessità di rinnovare linguaggi e strumenti per rispondere ai bisogni delle nuove mobilità.

Nella sessione dedicata a “Sindacati, diritti sociali, cittadinanza ed emigrazione attuale”, moderata da Tabbì, sono intervenuti Rocco Artale, storico sindacalista e testimone del lungo cammino degli italiani verso il riconoscimento dei diritti, e la sociologa Edith Pichler (Università di Potsdam), che ha illustrato le nuove forme di mobilità giovanile e precarietà.

Il giudice e scrittore Alessandro Bellardita ha riflettuto sui “diritti in emigrazione”, mentre Maria Chiara Prodi, segretaria generale del CGIE, è intervenuta online sul tema della rappresentanza politica e della partecipazione civica degli italiani all’estero.

Le voci delle donne e delle nuove generazioni

Un momento particolarmente significativo è stato l’intervento della dr. Lisa Mazzi, scrittrice interculturale e docente all’Università del Saarland, che ha raccontato la presenza femminile nell’emigrazione italiana “ieri e oggi”, tra resilienza, invisibilità e protagonismo sociale.

La tavola rotonda conclusiva, moderata da Licia Linardi, ha dato voce a esperienze dirette e contemporanee di emigrazione: l’impreditore Giuseppe Fusco “Dolce momento” di Francoforte, la psicologa Alessia De Carlo (Stoccarda) e Maurella Carbone, insegnante e rappresentante del Coordinamento Donne Italiane di Francoforte. Storie diverse, ma accomunate dal desiderio di partecipare attivamente alla vita delle comunità locali senza rinunciare al legame con l’Italia.

Frontiere in movimento: la migrazione come chiave del presente

Il convegno ha ricordato come la storia dell’emigrazione italiana in Germania non appartenga soltanto al passato. Le nuove generazioni di mobilità affrontano ancora oggi questioni cruciali – precarietà lavorativa, parità di genere, accesso ai servizi, rappresentanza politica – che rendono attuale la riflessione su quelle “frontiere in movimento” che continuano a segnare la nostra Europa.

L’evento si è chiuso con un messaggio condiviso da tutti i relatori: la memoria dell’emigrazione è un patrimonio vivo, capace di illuminare le sfide del presente e di costruire un futuro fondato su partecipazione, diritti e solidarietà.

Le relazioni complete dei singoli relatori saranno pubblicate prossimamente sul Corriere d’Italia. CdI on 21

 

 

 

 

 

Papa Leone alla FAO: "Permettere che milioni di persone muoiano vittime della fame è un’aberrazione etica"

 

Il Pontefice: "Chi patisce la fame non è un estraneo. È mio fratello e devo aiutarlo senza indugio" - Di Marco Mancini

Roma. "Il cuore del Papa, che non appartiene a sé stesso ma alla Chiesa, e, in un certo senso, a tutta l’umanità, mantiene viva la fiducia che, se si sconfiggerà la fame, la pace sarà il terreno fertile dal quale nascerà il bene comune di tutte le nazioni". Lo ha detto il Papa, intervenendo oggi alla Sede della FAO in occasione della Giornata Mondiale dell'Alimentazione e della Celebrazione dell’80° Anniversario della fondazione dell'Organizzazione.

"La nostra coscienza - ha ammonito - deve interpellarci ancora una volta di fronte al dramma - sempre attuale - della fame e della malnutrizione. Porre fine a questi mali non spetta solo a imprenditori, funzionari o responsabili politici. È un problema alla cui soluzione tutti dobbiamo contribuire: agenzie internazionali, governi, istituzioni pubbliche, Ong, entità accademiche e società civile, senza dimenticare ogni persona in particolare, che deve vedere nella sofferenza altrui qualcosa di suo. Chi patisce la fame non è un estraneo. È mio fratello e devo aiutarlo senza indugio".

Si tratta - ha precisato Papa Leone - di un obiettivo "tanto nobile quanto ineludibile: mobilitare tutte le energie disponibili, in uno spirito di solidarietà, affinché nel mondo a nessuno manchi il cibo necessario, sia in quantità sia in qualità. In tal modo, si porrà fine a una situazione che nega la dignità umana, compromette lo sviluppo auspicabile, costringe ingiustamente moltitudini di persone ad abbandonare le proprie case e ostacola l’intesa tra i popoli".

"Dobbiamo ricordare con forza - ha sottolineato ancora il Papa - che raggiungere l’obiettivo Fame Zero sarà possibile solo se ci sarà una volontà reale di farlo, e non soltanto dichiarazioni solenni. È necessario, ed estremamente triste, ricordare che, nonostante i progressi tecnologici, scientifici e produttivi, seicento settantatré milioni di persone nel mondo vanno a dormire senza mangiare. E altri duemilatrecento milioni non possono permettersi un’alimentazione adeguata dal punto di vista nutrizionale. Sono cifre che non possiamo considerare mere statistiche. Forse il dato più toccante è quello dei bambini che soffrono di malnutrizione, con le conseguenti malattie e il ritardo nello sviluppo motorio e cognitivo. Non è un caso, bensì il segno evidente di una insensibilità imperante, di un’economia senz’anima, di un modello di sviluppo discutibile e di un sistema di distribuzione delle risorse ingiusto e insostenibile. In un tempo in cui la scienza ha prolungato la speranza di vita, la tecnologia ha avvicinato continenti e la conoscenza ha aperto orizzonti un tempo inimmaginabili, permettere che milioni di esseri umani vivano - e muoiano - vittime della fame è un fallimento collettivo, un’aberrazione etica, una colpa storica".

Il Papa ha poi ricordato come "gli scenari dei conflitti attuali hanno fatto riemergere l’uso del cibo come arma da guerra. Sembra allontanarsi sempre più quel consenso espresso dagli Stati che considera un crimine di guerra la fame deliberata, come pure l’impedire intenzionalmente l’accesso al cibo a comunità o interi popoli. Il diritto internazionale umanitario vieta senza eccezioni di attaccare civili e beni essenziali per la sopravvivenza delle popolazioni. Con dolore siamo testimoni dell’uso continuo di questa crudele strategia che condanna uomini, donne e bambini alla fame negando loro il diritto più elementare: il diritto alla vita. Tuttavia, il silenzio di quanti muoiono di fame grida nella coscienza di tutti, anche se spesso ignorato, messo a tacere o distorto. Non possiamo continuare così, poiché la fame non è il destino dell’uomo ma la sua rovina. Rafforziamo, quindi, il nostro entusiasmo per porre rimedio a questo scandalo! Non fermiamoci pensando che la fame è solo un problema da risolvere. È molto di più. È un grido che sale al cielo e che esige la rapida risposta di ogni nazione, di ogni organismo internazionale, di ogni istanza regionale, locale o privata. Nessuno può restare al margine della strenua lotta contro la fame. È una battaglia di tutti".

"Contemplando l’attuale panorama mondiale - ha osservato il Pontefice - si ha l’impressione che siamo diventati testimoni abulici di una violenza lacerante, quando, in realtà, le tragedie umanitarie ben note a tutti dovrebbero spronarci a essere artigiani di pace. Un’emorragia che dovrebbe attirare immediatamente la nostra attenzione e che dovrebbe portarci a raddoppiare la nostra responsabilità individuale e collettiva, risvegliandoci dal funesto letargo in cui siamo immersi. Il mondo non può continuare ad assistere a spettacoli così macabri come quelli in corso in numerose regioni della terra. Bisogna porvi fine il prima possibile. Non possiamo limitarci a proclamare valori. Dobbiamo incarnarli. Gli slogan non fanno uscire dalla miseria. È urgente superare un paradigma politico tanto aspro, basandosi su una visione che prevalga sul pragmatismo dominante che sostituisce la persona con il beneficio. Non basta invocare la solidarietà: dobbiamo garantire la sicurezza alimentare, l’accesso alle risorse e lo sviluppo rurale sostenibile".

"È giunta l’ora - ha concluso Leone XIV - di assumere un rinnovato impegno, che incida positivamente sulla vita di quanti hanno lo stomaco vuoto e si aspettano da noi gesti concreti che li sollevino dalla loro prostrazione. Tale obiettivo può essere raggiunto solo mediante la convergenza di politiche efficaci e l’attuazione coordinata e sinergica degli interventi. L’esortazione a camminare insieme, in concordia fraterna, deve diventare il principio guida che orienta le politiche e gli investimenti, perché solo attraverso una cooperazione sincera e costante si potrà costruire una sicurezza alimentare giusta e accessibile a tutti. Solo unendo le nostre mani, potremo costruire un futuro dignitoso,nel quale la sicurezza alimentare si riaffermi come un diritto e non come un privilegio. Con questa convinzione, vorrei sottolineare che nella lotta contro la fame e nella promozione di uno sviluppo integrale, il ruolo della donna si configura come indispensabile, anche se non viene sempre sufficientemente apprezzato. Desidero richiamare l’attenzione internazionale sulle moltitudini che non hanno accesso all’acqua potabile, al cibo, alle cure mediche essenziali, a un alloggio decente, all’istruzione di base o a un lavoro dignitoso, affinché possiamo condividere il dolore di coloro che si nutrono solo di disperazione, lacrime e miseria. Non possiamo aspirare a una vita sociale più giusta se non siamo disposti a liberarci dall’apatia che giustifica la fame come fosse una musica di sottofondo alla quale ci siamo abituati". Aci 16

 

 

 

 

 

Una costante storica: guerre e prezzo dell’oro

 

La crescita del valore dell'oro è sempre avvenuta in concomitanza con eventi bellici, più raramente in seguito a crisi economiche. Questa la spiegazione che si trova nei manuali di economia: l’oro viene cercato e quindi con l’aumento della domanda si apprezza nei momenti di insicurezza (guerre o crisi) poiché è giustamente considerato un bene “rifugio".

Ma esaminando l’andamento del prezzo dell’oro in relazione al debito statale nelle varie epoche storiche ci si rende facilmente conto che guerre e prezzo dell’oro non sono causa le une dell'altro: le guerre si fanno quando i debiti statali non sono più sostenibili e non si trovano altre vie per eliminarli. Ovviamente eliminare i debiti significa la corsa all’oro per chi ha risparmi da mettere in salvo mentre i crediti si dissolvono nel nulla.

Questa correlazione la si comprende meglio capovolgendo il punto di vista: in realtà non è il valore dell'oro che cresce ma sono le monete cartacee ("fiat money") che si deprezzano.

Il deprezzamento delle monete cartacee è a sua volta il meccanismo più semplice per diminuire il debito, laddove a sua volta il deprezzamento delle monete  altro non è che un altro nome per "inflazione" che entro certi limiti è intrinseca al sistema economico mercantilista-capitalistico (alta inflazione per brevi periodi o limitata inflazione a lungo termine) ma per eventi straordinari può divenire iperinflazione e azzerare  sia i  risparmi che i debiti ed i crediti, laddove  i risparmi depositati in banca sono a loro volta crediti poiché  il risparmiatore che deposita i propri risparmi su un conto corrente stipula  un contratto in base al quale diviene per la somma depositata creditore della banca e la banca divenuta sua debitrice gli conferisce un interesse per l’utilizzo della somma di cui diviene proprietaria e della quale può liberamente disporre.

Se Karl Marx aveva con grande acutezza ed acribia analizzato il sistema di produzione capitalistico mostrandone con precisione il funzionamento, John Maynard Keynes aveva a sua volta ben individuato ed illustrato le relazioni fra capitale, moneta, investimenti, ruolo dello Stato, quindi disoccupazione/ piena occupazione, inflazione/ deflazione e stabilità monetaria, domanda /offerta, prestiti/ investimenti. Il tutto partendo dall’assioma intuitivo secondo cui la crescita economica può essere realizzata unicamente con investimenti e quindi con prestiti/ crediti (che sono appunto creazione di moneta dal nulla da parte delle banche).

Forse per questo Keynes, allargando il campo d’indagine, ebbe notevole successo nelle speculazioni borsistiche, al contrario di Marx, che pare avesse avuto prevalentemente risultati negativi speculando in borsa.

Base della teoria keynesiana è l’equilibrio del reddito nazionale (Y) riassunto nella nota formula Y = C (consumo) + I (investimenti) + G (spesa pubblica). Da cui deriva che per rimanere a livelli compatibili coi profitti, il tasso d'interesse e cioè il costo dei crediti richiede logicamente una adeguata stabilità dei prezzi e quindi un controllo sia dell'inflazione (che vanificherebbe i profitti) che della deflazione - da affrontare questa coi noti interventi statali keynesiani - che a sua volta riducendo la domanda farebbe aumentare la disoccupazione innescando cicli di recessione. Esiste anche il fenomeno composito di stagnazione/inflazione, come appunto attualmente avviene in Europa, ma qui entra in gioco la variante "energia" che ai tempi di Bretton Wood e della teoria keynesiana non aveva ancora il ruolo decisivo assunto nell'epoca attuale.

Alla base di tutto il sistema tuttavia, allora come oggi, resta pur sempre l'oro.

Infatti a Bretton Wood   nel 1944  Keynes aveva chiamato la sua proposta "BANCOR"  (dal francese "banque or") cioè una unità contabile che avrebbe dovuto regolare gli scambi economici internazionali.

Il Bancor era sí basato sull'oro, aveva un limite che era anche una garanzia di funzionamento: l'oro poteva essere scambiato con Bancor, ma con Bancor non si poteva comprar oro, era quindi escluso che investitori o speculatori potessero commerciare con oro/bancor ed era evitato l'inconveniente della convertibilità fissa (che a Bretton Wood venne venne invece fissata col dollaro per poi venire miseramente abolita nel 1971 quando le guerre USA avevano ridotto il dollaro a carta straccia).

Inoltre il bancor non era una moneta vera e propria ma appunto una unità contabile della ICU (Unione di Compensazione Internazionale, International Clearing Union): Paesi con surplus di esportazioni avrebbero ricevuto Bancor sul proprio conto presso l'ICU e su questi avrebbero pagato interessi (5% fino al 10%): un meccanismo per scoraggiare i surplus di esportazioni degli esportatori più aggressivi ed obbligare i Paesi con bilancia commerciale negativa (surplus di importazioni contro le esportazioni) a prendere provvedimenti per riequilibrare la propria bilancia commerciale.

Dunque una base aurea ma non speculativa, esattamente l'opposto dell'attuale sistema in corso di disgregazione. Infatti anche se ancora il dollaro è in apparenza la moneta di riferimento negli scambi internazionale, gran parte ed in misura crescente il commercio viene regolato con altre monete come appunto fanno i Paesi BRICS (yen, rupia, rublo, rand sudafricano e real brasiliano).

E non è per capriccio o collezionismo che esattamente questi Paesi stanno da anni incrementando le proprie riserve auree, bensí con lungimirante obiettivo di de-dollarizzare gli scambi commerciali.

Dunque l'oro resta di fatto e di diritto l'unica base stabile direttamente o indirettamente a sostegno delle monete cartacee, mentre il binomio petrolio-dollaro si sta a sua volta sgretolando: è un processo irreversibile anche se non privo di fortissime resistenze.

 

Infatti i Paesi colonialisti attaccano i movimenti di liberazione non solo quando essi cercano di scacciare gli occupanti ma anche quando la lotta è ... monetaria. In Libia il colonnello Gaddafi sperimentò sulla sua pelle pagando con la vita il tentativo di utilizzare una moneta con base aurea (Dinaro Oro) per liberare l'Africa dalla dominazione monetaria del dollaro e del franco francese. Al popolo bue in Europa vennero raccontate le più false e ridicole menzogne su Gaddafi, odiato in particolare dall'Inghilterra per aver sostenuto la lotta di liberazione del Sudafrica contro l'apartheid.

Ma la vera ragione della distruzione della Libia e dell’assassinio di Gaddafi fu appunto il timore di USA e Paesi ex-colonialisti di diritto ma rimasti colonialisti di fatto (USA,Inghilterra e Francia) di perdere il controllo economico dell'Africa, processo peraltro inevitabile ed attualmente in corso di completamento grazie agli investimenti cinesi e russi, cioè all'arrivo di capitali invece di eserciti di occupazione e rapina.

Da quanto sopra si possono trarre insegnamenti per comprendere quando si sta svolgendo sotto i nostri occhi in Europa e dintorni: il prezzo  dell'oro cresce quotidianamente raggiungendo vette incredibili: se nel 2024 l'incremento in euro era stato del 27 %, quest'anno è stato finora (inizio ottobre) già del circa 50 %.

Ma allo stesso tempo stagnano gli investimenti pubblici e diminuiscono quelli privati: un fatto che non deve sorprendee nessuno poiché in tutta Europa ed in particolare in Germania sia grandi che piccole ditte falliscono o ridimensionano il personale, licenziamenti di decine di migliaia di addetti sono fatti correnti e ovviamente non servono capitali se non si rinnovano gli impianti ma invece li si chiude.

La pubblicità per attirare i cittadini ad investire nel bene rifugio (oro e metalli preziosi) è martellante, pareggiata unicamente dall'offerta di investimenti nel settore di produzione bellico.

E se a ciò aggiungiamo l'enorme debito pubblico in crescita per consentire all'industria degli armamenti di assorbire almeno in parte il personale licenziato da altri settori produttivi civili, ben si comprende che anche in questo caso ci si trova dinanzi a una congiuntura di malefici effetti che preclude alla guerra.

Una guerra che come era facilmente prevedibile è in corso ma anche già perduta dai vassalli europei della NATO, spinti dagli USA contro la Russia, una ripetizione di quella del 1941 (Operazione Barbarossa)  iniziata dalla Germania e che viene ancora una volta giocata in territorio ucraino.

Difficile valutare il reale ruolo degli USA in questo momento poiché dietro i continui voltafaccia del Presidente non si riescono ad individuare i veri centri di potere che decideranno come chiudere la partita iniziata dal trio Obama/Biden/Hillary Clinton nel 2013/14 e lasciata in eredità a Trump che evidentemente tutto può fare meno che ammettere che cosí come l'allargamento della NATO, si è trattato di un tradimento delle promesse e degli accordi per la stabilità e sicurezza reciproca in Europa e che sarebbe cosa sensata per tutti ripetere quanto avvenuto in Corea, Vietnam, Afganistan e cioè ammettere le maligne intenzioni, accettare la sconfitta e risparmiare ulteriori massacri e distruzioni.

Ma essendo appunto le ragioni di questo- come di tutti gli altri conflitti - di natura economica, saranno coloro che detengono il potere finanziario ed economico a decidere ... ed i malcapitati di tutte le parti coinvolte a subire le tragiche conseguenze...Europa compresa. 

Graziano Priotto, Konstanz-Praga, de.it.press 9

 

 

 

 

 

A Berlino convegno sul futuro del progetto europeo

 

Berlino - In un’epoca di grandi sfide per l’Europa, tornano al centro del dibattito due figure fondamentali del secondo dopoguerra: Alcide De Gasperi e Konrad Adenauer. A loro è stato dedicato il convegno “De Gasperi, Adenauer e il futuro del progetto europeo”, organizzato congiuntamente dalla Fondazione De Gasperi e la Fondazione Konrad Adenauer, in collaborazione con l’Ambasciata e l’Istituto Italiano di Cultura di Berlino.

Presenti numerosi rappresentanti di spicco del mondo diplomatico, accademico, culturale e giornalistico, provenienti da Italia e Germania.

L’evento ha rappresentato un momento di riflessione sull’eredità politica e umana di due protagonisti della costruzione europea. È stato esplorato non solo il loro comune impegno per l’integrazione del continente, ma anche la straordinaria amicizia personale che li unì e che seppe gettare ponti duraturi tra Italia e Germania.

A introdurre il convegno, alla presenza dell’ambasciatore Fabrizio Bucci, il direttore dell’Istituto Italiano di Cultura, Alessandro Turci, e la direttrice della Fondazione De Gasperi, Martina Bacigalupi. La proiezione del cortometraggio “De Gasperi, visionario e costruttore” è stata accompagnata dagli interventi del presidente della Fondazione, Angelino Alfano, del policy advisor for Italy della Konrad Adenauer Stiftung, Philipp Burkhardt, e dell’ambasciatore Luigi Mattiolo, già ambasciatore a Berlino e consigliere diplomatico dell’ex presidente del Consiglio Mario Draghi.

È seguita una conversazione con Mara Gergolet, corrispondente in Germania del Corriere della Sera, e Tobias Piller, ex corrispondente in Italia e attuale editorialista di Frankfurter Allgemeine Zeitung, moderata da Martina Bacigalupi. Al centro del dibattito l’attualità della visione di De Gasperi e Adenauer in un contesto internazionale che mette alla prova la coesione politica e culturale dell’Europa, un’occasione per riscoprire le radici dell’Europa unita e interrogarsi sul futuro del suo cammino politico e ideale.

L’ambasciatore Bucci, nella sua nota conclusiva, ha sottolineato come l’eredità del pensiero pragmatico e visionario di De Gasperi e Adenauer non sia oggi solo un monumento da celebrare, bensì anche un “compito da raccogliere”, rimarcando così la rilevanza della loro lezione, che “ci invita a guardare oltre l’immediato, ad avere il coraggio della visione”. Queste due figure fondamentali, ha aggiunto, “ci mostrano che l’Europa si costruisce quando i leader hanno la forza di pensare al bene comune europeo. Ci mostrano che la cooperazione tra Italia e Germania, tra i nostri due popoli, è una condizione essenziale per far avanzare l’intero progetto europeo”.

L’ambasciatore Bucci ha inoltre ricordato come il Piano d’Azione italo-tedesco, firmato nel novembre 2023 proprio a Berlino, sia una prova concreta della cooperazione tra Italia e Germania nel contesto europeo. “Un documento che ha segnato un nuovo capitolo della nostra relazione bilaterale, fondato su una visione chiara: rafforzare la cooperazione in tutti i settori come contributo decisivo al futuro dell’Unione Europea”, ha concluso.

Il convegno si inserisce nel programma dell’Anno Degasperiano, promosso in occasione del 70° anniversario della scomparsa di Alcide De Gasperi: uno statista lungimirante, considerato tra i padri fondatori dell’Unione Europea e dell’Italia democratica. (aise/dip 2)

 

 

 

 

 

 

Darmstadt, mostra sulla fotografia italiana, fino all’11 gennaio

 

Era ormai da più di quarant’anni che la fotografia italiana contemporanea non trovava nei paesi di lingua tedesca, ma anche in Europa, non solo uno spazio espositivo prestigioso, ma soprattutto un’attenzione al mezzo di comunicazione più rappresentativo e narrativo di una nazione come l’Italia che vanta grandi maestri dietro l’obiettivo quali Franco Fontana, Luigi Ghirri, Gabriele Basilico, Guido Guidi, solo per citarne alcuni. Così ci ha ricordato il fotografo italiano William Guerrieri – in rappresentanza di ben 10 colleghe e colleghi presenti all’inaugurazione, sabato 27 settembre a Darmstadt presso la Kunsthalle – all’apertura di una ricca e ben articolata mostra dedicata alla fotografia italiana dal 1980 ai giorni nostri, curata da Ralph Goertz dell’Institut für Kunstdokumentation und Szenografie (Istituto per la documentazione artistica e la scenografia) di Düsseldorf. Un’inaugurazione alla quale erano presenti 150 visitatori, aperta dai saluti istituzionali del Direttore della Kunsthalle León Krempel, del sindaco della città di Darmstadt Hanno Benz e del Console Generale d’Italia Massimo Darchini.

La mostra – che trova il pieno sostegno dell’Ufficio culturale del Consolato – è veramente unica proprio per essere una retrospettiva che presenta 42 artisti italiani e 350 lavori esposti in prima assoluta in Germania e si sviluppa negli spazi della Kunsthalle di Darmstadt in forma di dialogo tra i grandi maestri degli anni ‘80 e‘90 e le nuove generazioni di fotografe e fotografi di questo primo quarto di secolo. Nelle sette sale della Galleria d’arte di Darmstadt si apre così al pubblico un panorama che spazia dagli esordi poetici della “Scuola italiana” alle voci innovative del presente, dimostrando che in Italia la fotografia è molto più che semplice documentazione: è un mezzo di dialogo, riflessione e speranza.

Non è una mostra sull’Italia meta turistica, luogo ideale di bellezza connotato dalle immagini patinate e oleografiche del Bel Paese, ma uno spaccato della società, dell’economia, dei territori, delle autorappresentazioni delle nuove generazioni, uno specchio delle trasformazioni sociali e culturali di un paese che si presenta nelle sue diverse dinamiche socio-economiche e culturali, nelle atmosfere di assenza e presenza e di profonde trasformazioni urbane. In questa esposizione i fotografi non sono solo cronisti, ma anche voci di un’epoca che media tra passato e presente.  Artisti che disvelano nuove prospettive sull’identità, sull’appartenenza e sul plurale concetto di patria, temi che stanno assumendo un’importanza crescente nel nostro mondo globalizzato. È la fotografia che porta con sé l’insopprimibile testimonianza di un’identità, una storia, uno spazio preciso e inaggirabile dove allo spettatore si chiede di addentrarsi in quel frammento di un vissuto rintracciabile e narrabile.

Sono tutti fotografi che hanno nobilitato lo sguardo sulla quotidianità, condensato poeticamente lo spazio urbano e rurale e ripensato il rapporto tra immagine e memoria, tra mezzo fotografico e capacità di rappresentazione di una nazione che muta come paesaggio umano sia culturalmente che socialmente ed economicamente, capace di mantenere tuttavia una sua vitalità anche nelle differenze territoriali, nelle contraddizioni tra modernità e tradizione, nel confronto tra le generazioni e la periferica presenza di giovani con retroterra migratorio, in quel nuovo senso di estraniamento e solitudine dei luoghi.

Ciò è particolarmente evidente nelle posizioni più recenti degli anni 2000: fotografe e fotografi come Francesca Iovene, Giulia Iacolutti, Carmen Colombo, Michela Palermo, Tomaso e Federico Clavarino, Piero Percoco, ed altri, affrontano questioni quali la migrazione e la diversità, la cultura della memoria e le nuove realtà sociali, l’intimità, l’adolescenza e le sue potenzialità e incongruenze, il genere e l’identità collettiva. Le loro opere combinano approcci concettuali con una forte impronta personale, ampliando così gli orizzonti della fotografia italiana con nuove forme espressive.

Questo nuovo viaggio in Italia, attraverso quattro decenni di fotografia italiana, consentirà ai visitatori di entrare in contatto con dimensioni e sguardi altri sull’Italia contemporanea, da una parte esplorando la varietà dell’arte fotografica italiana e dall’altra  riscoprendo attraverso la forza dell’immagine fotografica, un tratto o le tracce di quei luoghi italiani che narrano le incertezze e i mutamenti del quotidiano nonché i diversi spazi urbani, o intimamente personali, pienamente vissuti e trasformati o viceversa come spazi ed individui soggetti alla sottile e costante influenza di quell’ambiente.

Questa quanto mai suggestiva mostra fotografica – che rimarrà aperta fino al 11 gennaio – farà, come esposto dal curatore Ralph Goertz, ulteriori due tappe in Germania nel 2026 e nel 2027 con focus espositivi diversi quali quello cronologico o tematico, in attesa che anche in Italia trovi una sede espositiva che la ospiti. Un prezioso catalogo (pubblicato dalla casa editrice Buchhandlung Walter und Franz König), corredato da un’ampia scelta di foto ed interessanti contributi esplicativi in tedesco e in inglese, completa questo progetto unico ed alquanto originale nella sua varietà di temi, tecniche fotografiche, modalità di esposizione, ed accenti che sa porre nel presentare la fotografia italiana contemporanea.

Michele Santoriello, de.it.press

 

 

 

 

 

Cosmo italiano, le recenti puntate

 

Gianaurelio Cuniberti e le nanotecnologie che aiutano il mondo

(24.10) L’ospite di questa puntata è professore e ricercatore a Dresda, dove tra scienza dei materiali, biosensori e intelligenza artificiale sviluppa invenzioni che trovano applicazione poi nell’industria. Ed è un’epoca splendida per essere scienziati, assicura Gianaurelio Cuniberti chiacchierando con Cristina Giordano, soprattutto in Germania. Ma cosa fa esattamente Cuniberti e come può la sua ricerca migliorare il mondo in cui viviamo? 

Più sanzioni, pochi risparmi: il dibattito sul Bürgergeld

(23.10) Muove i primi passi la discussa riforma del Bürgergeld, il sussidio tedesco simile al reddito di cittadinanza. I risparmi miliardari promessi da Merz sono smentiti dalle previsioni del Ministero del Lavoro. E molti percettori non possono lavorare. Cristina Giordano dà uno sguardo ai dati con Enzo Savignano e con Roland Preuß, giornalista esperto di mercato del lavoro per la "Süddeutsche Zeitung". Konstanze Michelitsch è consulente in italiano sul sussidio per il patronato INCA-CGIL a Monaco.

La difficilissima ricerca di alloggio per chi studia in Germania

(22.10) Ogni autunno la storia si ripete: in tutte le città universitarie tedesche parte la ricerca frenetica di una stanza in affitto o di un posto in uno studentato da parte delle matricole universitarie. E, di anno in anno, la caccia a un posto letto a prezzi accettabili diventa più complicata. Enzo Savignano ci presenta i numeri del fenomeno, uno studente italiano di Colonia ci racconta la sua esperienza. E infine vi spieghiamo come gli ostelli della gioventù stiano provando a dare una mano.

 

Quali assicurazioni è importante avere - e quali no - in Germania?

(21.10) I tedeschi hanno la fama di essere uno tra i popoli con più assicurazioni al mondo, quanto c'è di vero in questo cliché? Con Enzo Savignano riepiloghiamo quali sono le assicurazioni obbligatorie in Germania. Con l'assicuratore Michele Piccolo vediamo, invece, quali sono le assicurazioni volontarie più importanti da avere. Infine, con Elke Weidenbach della Verbraucherzentrale, chiariamo cosa si deve fare per non cadere in trappole assicurative o uscire da una polizza che non ci conviene.

Il dibattito sul servizio militare infiamma la Germania

(20.10) Il cancelliere Merz vuole trasformare la Bundeswehr nell'esercito con più uomini e mezzi di tutta l'Ue. Per questo i soldati tedeschi dovrebbero passare da 180.000 a 260.000. In mancanza di volontari, però, questo comporta il ritorno alla leva. Sui tempi e sui modi di questa operazione il dibattito è accesissimo. Ce ne parla Enzo Savignano. Sentiamo poi le opinioni sul tema di due italiani in Germania. E cerchiamo di capire se alla VW di Osnabrück in futuro si produrranno carri armati.

Folio Verlag, l'editore-pontiere tra mondo italiano e tedesco

(17.10) Ludwig Paulmichl, sudtirolese classe 1960, è direttore e cofondatore di Folio Verlag, casa editrice con sede a Bolzano e a Vienna che, dai primi anni '90, traduce i migliori autori italiani per i lettori di lingua tedesca. Lo abbiamo raggiunto alla Fiera del libro di Francoforte per parlare del suo lavoro di scopritore e mediatore culturale, di gusti letterari… e di feste memorabili alla Buchmesse.

Campare d'arte in Germania: si può?

(16.10) Siete persone creative e vi chiedete se in Germania si può vivere lavorando nel campo dell'arte? Agnese Franceschini ci parla della situazione degli artisti in Germania, dei finanziamenti statali e delle agevolazioni previste per legge. Lorenzo Pompa e Mattia Noal, artisti figurativi italiani che vivono in Germania, ci raccontano le loro esperienze.

Stop dell'UE agli hamburger vegetariani, ha senso?

(15.10) Il parlamento europeo ha votato contro il “meat sounding”, cioè l’uso di termini come bistecca, salsiccia o hamburger per definire prodotti che non contengono carne. Dietro questo voto ci sono forti interessi economici: ce ne parla Enzo Savignano. Ma questi prodotti vegetali cosa contengono e quanto sono veramente preferibili alla carne? Lo abbiamo chiesto alla nutrizionista Silvia Soligon

 

Consigli su come riscaldare casa senza spendere troppo

(14.10) Come ogni anno di questi tempi, l'accensione del riscaldamento domestico è accompagnata dal timore della bolletta che riceveremo a fine inverno. Quali sono i consigli più utili per riscaldare in modo efficace, magari anche ecologico, e, soprattutto, senza rimetterci un patrimonio? Ne parliamo con la collega Agnese Franceschini, con Gerhild Loer della Verbraucherzentrale NRW e con il progettista termotecnico, Simone Gualandi

Cannabis legale e droghe pesanti: cosa è cambiato in Germania?

(13.10)A un anno e mezzo dalla legalizzazione parziale della cannabis non si registra in Germania un aumento significativo del consumo ma rimane il problema del mercato nero: i dettagli da Agnese Franceschini. Quali droghe vengono consumate in Germania e da chi? Lo abbiamo chiesto a Peter Raiser del Deutschen Hauptstelle für Suchtfragen. Con Federico Varese, criminologo e docente all’Università di Oxford, abbiamo parlato del ruolo della 'ndrangheta nel commercio illegale di cocaina.

 

Parlando di storia tedesca con Gianluca Falanga

(10.10) Gianluca Falanga è un ricercatore specializzato in storia contemporanea tedesca. Ha pubblicato diversi studi sia sulla DDR e le sue spie che sul nazionalsocialismo. Originario di Salerno, Falanga vive da anni a Berlino dove attualmente lavora presso il Museo della Stasi. In questo podcast Luciana Caglioti e Falanga ripercorrono 80 anni di storia tedesca con uno sguardo all'oggi e senza tralasciare vantaggi e svantaggi del vivere in una città come Berlino.

Non solo pranzo della domenica: mangiare insieme fa bene!

(09.10) Il pranzo della domenica italiano è ora sulla bocca di tutti, come simbolo della cucina italiana candidata a patrimonio immateriale dell'Unesco. E mangiare insieme fa bene, dimostrano vari studi, ma cosa rimane di questo rituale quando andiamo a vivere all'estero, lontani dalla famiglia? Luciana Caglioti ne parla con Cristina Giordano e con Marinella Sammarco, chef di Stoccarda, per cui cibo, convivialità, dialogo, sostenibilità e salute sono inscindibili.

Scopri la pensione aziendale tedesca, la Betriebsrente

(08.10) È sempre più importante integrare la pensione statale, anche in Germania: una buona possibilità è la "Betriebsrente", pensione aziendale in cui investono molti dipendenti con l'aiuto dei datori di lavoro.Per chi conviene e a cosa fare attenzione? E se torniamo a vivere in Italia? Di quale riforma discute il governo tedesco? Luciana Caglioti ne parla con le colleghe Luciana Mella e Cristina Giordano e con l'esperto Klaus Stiefermann della Arbeitsgemeinschaft für betriebliche Altersversorgung e.V.

 

Come funziona il canone TV in Germania e perché è criticato?

(07.10) Il sistema radiotelevisivo pubblico in Germania è molto sviluppato e solidamente finanziato attraverso il "Rundfunkbeitrag". Questa vasta offerta però è da tempo sotto attacco sia da parte di una parte del mondo politico che da ricorsi di singoli che si rifiutano di pagare il canone. Con la collega Agnese Franceschini e Diemut Roether di epd medien approfondiamo il tema. Mentre con il ricercatore Luca Bagnariol parliamo dell'attuale stato di salute dell'informazione in Italia.

Cresce la paura di un attacco russo in Europa

(06.10) Cresce il nervosismo in Europa per le ripetute violazioni dello spazio aereo ad opera di droni non identificati e aerei russi, ce ne parla Agnese Franceschini. Come dovrebbero reagire i paesi europei e quanto è realistica l'ipotesi di un conflitto tra paesi NATO e Russia? Lo abbiamo chiesto a Vincenzo Camporini, ex capo di stato maggiore dell'Aeronautica Militare.

Il passato nazista di grandi aziende tedesche

(02.10) Non è un capitolo chiuso, quello della collaborazione di grandi aziende tedesche con il regime nazista: sia per loro dichiarata volontà, come emerge dall'appello lanciato quest'anno in favore della democrazia, sia per il lavoro degli storici che fa emergere nuovi dettagli. Ad esempio su una nota azienda cosmetica del mondo Demeter, come racconta Giulio Galoppo a Francesco Marzano. Lo storico di Berlino Tommaso Speccher ci parla dell'oscuro passato e dell'atteggiamento di BMW, Bahlsen e altre.

Un'italiana guida Deutsche Bahn, luce in fondo al tunnel?

(01.10) A Evelyn Palla, altoatesina, il compito di risanare le ferrovie tedesche afflitte da mille problemi, come ci racconta Giulio Galoppo. Per Andrea Giuricin, docente di economia dei trasporti, solo l'ingresso di concorrenti privati sul mercato tedesco può migliorare la qualità dei servizi. Intanto il prezzo del Deutschlandticket sale a partire dal 2026.

Assistenza agli anziani: mancano i posti ed esplodono i costi

(30.09) Anche in Germania gli anziani bisognosi di cure ed assistenza sono in costante aumento, ma mentre le strutture specializzate lamentano una cronica carenza di personale, gli anziani e le loro famiglie si trovano spesso di fronte a costi insostenibili per un posto in una casa di riposo e alla crescente difficoltà a reperire un aiuto anche a domicilio. Ne parliamo col collega Giulio Galoppo, con Irmelind Kirchner dell’AOK e con Gabriele Landolfo, esperto del settore.

Il cibo che non si butta via

(29.09) In occasione della Giornata mondiale contro lo spreco alimentare guardiamo da vicino il fenomeno in Italia e in Germania con Giulio Galoppo. Giulia Riccio, italiana che vive a Münster, è una delle attiviste della rete Foodsharing che ha organizzato una campagna di sensibilizzazione contro gli sprechi alimentari. Con il "professor antispreco" Andrea Segrè scopriamo perché alcuni cibi possono essere consumati anche oltre la data di scadenza. Dip 24

 

 

 

 

Novembre 2025: cinque cambiamenti importanti

 

Il mese di novembre 2025 porterà in Germania alcune novità significative che riguardano i cittadini in vari ambiti: credito, burocrazia, tasse, assicurazioni e pensioni. Ecco cosa cambia e cosa dovresti sapere per non farti trovare impreparato

Stop alla trappola del “Compra ora, paga dopo”

I modelli di pagamento “Buy Now, Pay Later”, che permettono di acquistare subito e pagare in seguito senza interessi, sono sempre più diffusi, soprattutto tra i giovani. Tuttavia, l’apparente semplicità può portare facilmente a ritrovarsi in difficoltà finanziarie. Dal 20 novembre 2025 entreranno in vigore nuove regole di protezione dei consumatori, basate sulla direttiva UE sul credito al consumo. Anche i piccoli prestiti e i pagamenti rateali fino a 200 € saranno soggetti a una verifica della solvibilità, e i fornitori dovranno informare chiaramente i clienti sui costi e le conseguenze dei ritardi. In più, sarà possibile stipulare i contratti di credito online, senza più necessità di documenti cartacei o firme fisiche.

Meno burocrazia grazie al registro digitale

Il 3 novembre 2025 segna una tappa importante nella modernizzazione della pubblica amministrazione. Con il cosiddetto “Registermodernisierungsgesetz”, i dati personali dovranno essere inseriti una sola volta e poi condivisi tra le autorità competenti. Ciò significa meno moduli da compilare e meno visite agli uffici. La novità principale riguarda l’utilizzo della numerazione fiscale (ID-Nummer) nei registri dei documenti d’identità, che permetterà di aggiornare automaticamente le informazioni, ad esempio in caso di cambio di residenza o richiesta di nuovo passaporto o carta d’identità.

Più soldi in busta paga grazie alla Lohnsteuermäßigung

Chi vuole ricevere subito i vantaggi fiscali invece di aspettare la dichiarazione dei redditi può presentare domanda per la riduzione dell’imposta sul reddito (Lohnsteuermäßigung) entro il 30 novembre 2025. Il beneficio riguarda chi ha almeno 1.830 € di spese pubblicitarie o 600 € di spese straordinarie o oneri eccezionali nell’anno in corso. Il vantaggio fiscale sarà immediatamente applicato sulla busta paga di dicembre, senza bisogno di allegare documenti, anche se sarà comunque necessario presentare la dichiarazione dei redditi per il 2025.

Attenzione alle scadenze della Kfz-Versicherung

Se pensi di cambiare assicurazione auto, il 30 novembre 2025 è il termine ultimo per la normale disdetta dei contratti che si sarebbero rinnovati automaticamente dal 1° gennaio 2026. In caso di aumento dei premi, resta valido il diritto di recesso speciale fino a un mese dalla ricezione della nuova tariffa. Anche se decidi di restare con il tuo assicuratore, conviene chiedere una tariffa aggiornata 2026, che spesso offre migliori condizioni senza il fastidio di un cambio contratto.

Riforma del supplemento pensionistico per l’invalidità

Dal 1° dicembre 2025, il supplemento alla pensione per chi riceve una rendita di invalidità sarà integrato direttamente nella pensione mensile. La cifra sarà calcolata in base ai punti retributivi al 30 novembre 2025. Eventuali aumenti saranno corrisposti automaticamente e copriranno fino a 17 mesi di arretrati (da luglio 2024 a novembre 2025). Il nuovo calcolo influirà anche sul reddito considerato per le pensioni ai superstiti. Controllare il proprio estratto conto pensionistico potrebbe portare a sorprese piacevoli. CdI on 21

 

 

 

 

 

Correre da soli?

 

Questo Esecutivo di centro/destra potrebbe anche presentare delle ”novità” politiche. Tramontate le manovre d’apparentamento impossibili, la Penisola, ora, dovrà trovare i parametri indispensabili per andare oltre. I partiti, “vecchi” o “ringiovaniti”, sono destinati a un declino anche perché fagocitati dall’apparato che loro stessi hanno incoraggiato. Il primo ministro donna nella storia della Repubblica ne è un segnale.

 

Con la Meloni, la politica sembra essere stata surrogata con un principio ancora tutto da chiarire. Insomma, i maggiori “servizi” al popolo italiano dovrebbero essere attivati già con l’inizio della primavera. I “tempi” per questa svolta sembrano, quindi, assai prossimi. A patto che i politici di “nuova” generazione accettino la lezione del passato sistema. Per evitare “ricadute”.

 

Non rilevando più una diatriba tra Maggioranza e Opposizione, si dovrebbe uniformare una gestione più funzionale dell’Azienda Italia. Rappresentare le necessità del Popolo potrebbe tornare uno degli scopi del nostro Parlamento. Le premesse per una “nuova arte di governare” non dovrebbero mancare. Non tanto per particolari capacità politiche, ma per necessità che è stata intesa da chi amministra lo Stato col capestro della ”fiducia”. Sembrano maturati anche i tempi per dare un nuovo “spessore” politico per i Connazionali all’estero. Tanto da proporre una struttura autonoma che abbiamo chiamato DIE (Dipartimento per gli Italiani all’Estero).

 

Con l’auspicio di “novità” socio/economiche degne di tale nome continua l’impegno informativo. Sempre sperando che basti la capacità del nostro Primo Ministro per mettere in “fila” la squadra dell’attuale maggioranza governativa. Sempre che all’orizzonte politico non appaia “qualcuno” intenzionato a “correre da solo”. Per ora, le nostre considerazioni, più che motivate, restano “in pectore”; come il DIE. Giorgio Brignola, de.it.press

 

 

 

 

 

Settant’anni dall’accordo italo-tedesco sull’invio di manodopera

 

Gli anniversari non si celebrano, si studiano

Breve premessa: questo articolo è scritto senza ausilio dell’Intelligenza Artificiale. È piuttosto frutto di un’Ignoranza Naturale, accompagnata dalla consapevolezza di non sapere nulla e dalla perenne esigenza di volerne sapere di più.

Detto questo, saltano agli occhi gli annunci e gli inviti di queste settimane e mesi per le “celebrazioni”, in taluni casi per i “festeggiamenti” del settantesimo anniversario dell’accordo italo-tedesco sul reclutamento di manodopera, noto anche come „Anwerbevertrag“.

La domanda è questa: ma cosa c’è da festeggiare e da celebrare? La triste ricorrenza di quando due Stati trovarono un accordo sulla pelle dei lavoratori?  

Nel 1955, Germania e Italia sembrano essersi detto: “A me manca manodopera di scarso livello, dopo che i miei uomini, tornati dalla guerra o ancora prigionieri in Russia, sono pochi e mezzo sciancati. A me, invece, manca il lavoro e i disoccupati cominciano a dare fastidio, buttandosi tra le braccia del Partito Comunista. Bene. Facciamo l’accordo!”.

Ho letto da qualche parte che “Gli anniversari non si celebrano, si studiano!”

E questa mia interpretazione del pensiero socioeconomico, alla base dell’accordo del ’55, non è certo frutto di studio e non sarà andata proprio così, ma il succo della questione rimane: una Germania postbellica in crescita e con capitali bramosi di espansione, che arrancavano nel trovare uomini e donne necessari per mantenere in moto una colossale produzione, a fronte di un’Italia con un meridione cronicamente ridotto con le pezze ai fondelli, afflitto da analfabetismo, mortalità infantile, addirittura fame e … disoccupazione!

L’accordo sul reclutamento della manodopera tra Italia e Germania si sarebbe dovuto chiamare più onestamente “Accordo Italo-tedesco per il Meridione d’Italia e alcune zone depresse del Settentrione”.

Non era trascorso nemmeno un secolo dalla guerra tra Piemonte e Regno delle Due Sicilie, al cui seguito il Mezzogiorno era ridotto letteralmente alla fame. Il risultato? La prima emigrazione di massa! Tra il 1876 e il 1915 circa 14 milioni di italiani lasciarono il Paese.

Poi la Prima guerra mondiale, poi la Seconda e, non tanto stranamente, il fenomeno si ripeteva inesorabilmente. L’Italia unita, e ora repubblicana, non era in grado di sanare la sua parte più malata: il Meridione.

Nel 1955, anno dell’Accordo Italo-tedesco sul reclutamento della manodopera, la Legge fondamentale e fondativa della Repubblica italiana, la Costituzione, approvata il 22 dicembre 1947, aveva appena otto anni e doveva essere ancora accompagnata per mano prima di rendersi autonoma, accettata, normale per tutti.

I pericoli di quel periodo? Gli estremismi. La fame del Meridione, e i gravi disagi in alcune zone del Settentrione come il Friuli, creavano mostri pericolosi per la giovane Italia Repubblicana. Il separatismo in Sicilia, la nostalgia del “Duce” da un lato e il Marxismo Leninismo dall’altro, con un Partito Comunista Italiano affascinato dal volto umano di Nikita Krusciov, dopo la morte del burattinaio Mangiafuoco, in arte Josif Stalin.

Una pentola a pressione senza valvola di sfogo. Ed è qui che il Governo dell’epoca, democristiano fino al midollo e guidato dal siciliano Mario Scelba, fece un atto esemplare di “Realpolitik”: questa gente deve uscire dal Paese prima che salti tutto in aria.

Per salvare la Costituzione, la Costituzione fu piegata quasi fino alla frattura.

L’articolo 1 della Costituzione Italiana sancisce, infatti, che „L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro“ e che „La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione“.

Con l’accordo fu sancita la negazione del primo obbligo costituzionale che è la “fondazione sul lavoro” di una nazione ora dichiaratamente incapace di offrire pane e lavoro a buona parte dei propri cittadini.

La seconda, e gravissima negazione costituzionale dell’accordo del ’55, toccava proprio la base della Democrazia: la sovranità popolare.

Una volta mandati all’estero, infatti, questi cittadini furono praticamente esclusi dall’esercizio della “Sovranità popolare”.  Chi andava più a votare? Quale emigrato in Germania poteva mai più interessarsi della vita politica, civile, amministrativa del proprio Paese? Lontano dagli occhi, lontano dal cuore e… dalle urne elettorali della “Madre Patria” e così sia! Amen.

E, a proposito di Amen. Furono i preti italiani a prendersi cura di questi uomini, soli ed emarginati, appena arrivati in Germania. Nella mia pubblicazione del 2016 “Cinquant’anni della Missione Cattolica Italiana a Francoforte sul Meno” sono raccolte le testimonianze dei primi missionari in Germania come Don Aldo Casadei e Don Silvano Ridolfi. Racconti che fanno accapponare la pelle sulle condizioni di vita di questa gente, di quelli che furono l’oggetto vivente di questo Accordo Bilaterale.

Myriam Gigliotti (L’accordo italo – tedesco del 20 dicembre 1955 – Progetto Radici) scrive: „L’obiettivo della temporaneità? della permanenza in Germania dei “Gastarbeiter”, in questo periodo, è palesemente quello di disincentivare lo stabilizzarsi dei lavoratori italiani sul territorio germanico ed evitare di conseguenza un incremento della comunità? italiana attraverso possibili ricongiungimenti familiari. Si tratta di un’emigrazione italiana che viene definita di tipo “fordista”, nella quale cioè? prevale una concezione dell’immigrazione funzionalista, strettamente connessa ai fabbisogni congiunturali di manodopera.”

E da qui scaturisce il sentimento di tristezza, almeno quello mio personale, di fronte a questo settantesimo anniversario. Non si può festeggiare e celebrare un trattato che ha incoraggiato l’abbandono della propria terra, a scapito della fascia più debole della società italiana.

E se questa “emigrazione di massa studiata a tavolino” non è finita in dramma collettivo, lo si deve alla Chiesa cattolica da un lato e ai Sindacati dei lavoratori tedeschi dall’altro. Furono i sindacati tedeschi a dare una prima dignità ai lavoratori italiani, definendoli “Kollegen” e non più “Gastarbeiter”, soprattutto quando li accettarono alle urne per le elezioni dei Consigli di fabbrica, indipendentemente dalla nazionalità di provenienza. Ora l’emigrato si definiva come lavoratore tra i lavoratori.   

 I datori di lavoro tedeschi considerarono anche questo. Con L’accordo italo-tedesco del 20 dicembre 1955,“Anwerbevertrag“, la Germania imponeva, infatti, il principio della rotazione, negando fino all’ultimo di essere un Paese di immigrazione “Einwanderungsland”, mentre l’Italia cedeva all’osceno baratto “uomini per merci agevolate”, camuffato da trattato a favore di un’emigrazione “regolata e protetta” e in nome di una “Realpolitik” tanto necessaria quanto cinica.

Quel trattato non ha nulla da spartire con l’integrazione italiana in Germania.

Quella integrazione se la sono conquistata uomini e donne emigrati sul posto di lavoro, nel vicinato, a scuola solo ed esclusivamente grazie a infiniti sacrifici e alla indomabile volontà di dare una vita dignitosa ai propri figli.

Non c’è niente da festeggiare, non c’è niente da ringraziare ma tanto da riflettere, per esempio, su quale sia oggi la posizione dello Stato italiano nei confronti di oltre sette milioni d’Italiani sparsi per il mondo.

I figli dei figli dei lavoratori del ’55 hanno perso il riconoscimento automatico della cittadinanza italiana. I corsi di lingua e cultura italiana ai figli degli emigrati sono, di fatto, aboliti, i servizi consolari azzoppati dalla spending review -e non si sono mai più ripresi- con una brutale digitalizzazione che mortifica gli anziani, proprio quelli che nel ’55 furono spediti in Germania.

 Eravamo scomoda zavorra per l’Italia di allora? Forse lo siamo ancora? Domande polemiche? Sì! A volte bisogna anche esagerare per ottenere ascolto in una pericolosa tendenza alla rimozione di tutto quello che fu alla base dell’emigrazione. Fa male sentire che i propri nonni in Germania hanno anche dormito nelle baracche con i pidocchi, ma negare la loro storia significa anche negare la loro forza di volontà.    

Per quanto mi riguarda, faccio ogni sforzo per non dimenticare la faccia di mio padre, morto a cinquantanove anni appena finito il turno di notte in una fabbrica tedesca.

Questa è la mia cicatrice in pieno volto che mi brucia ogni volta che si alzano i calici, brindando all’emigrazione con tarallucci e champagne. Pasquale Marino, CdI on. 13

 

 

 

 

 

 

Servizi per i cittadini e le imprese all'estero: iniziato l’esame dell’Aula

 

Roma - È iniziato questa mattina nell’Aula di Montecitorio l’esame del disegno di legge "Disposizioni per la revisione dei servizi per i cittadini e le imprese". Di iniziativa governativa, il ddl è collegato alla manovra di finanza pubblica per il 2025.

Ad illustrare il testo ai colleghi è stato il relatore Andrea Orsini (Fi), il cui intervento è stato seguito da quello di Toni Ricciardi (Pd), relatore di minoranza, e di Fabio Porta (Pd), unico deputato iscritto a parlare.

Il provvedimento è composto da sette articoli divisi in tre Capi, il primo dei quali “incide profondamente sulle funzioni consolari”, ha detto Orsini, perchè “concentra le risorse sulle attività prettamente di rappresentanza e di tutela dei connazionali all'estero, sottraendo ai consolati le competenze burocratiche e amministrative che non sono proprie della loro funzione: mi riferisco, nello specifico, al riconoscimento della cittadinanza iure sanguinis”. Le pratiche per il riconoscimento, infatti, saranno gestite “da un'apposita struttura specializzata presso il Ministero degli Esteri”. Questo accadrà, in base ad un emendamento approvato in Commissione, presumibilmente dal 2028, cioè “dal 1° gennaio del terzo anno solare successivo a quello in corso alla data dell'entrata in vigore della legge”.

Ai consolati rimarrà la competenza di “accertare il mantenimento della cittadinanza da parte di persone residenti nella circoscrizione e già riconosciute come cittadini, e il conseguente riconoscimento del possesso della cittadinanza per i loro figli minori”.

Le domande di riconoscimento della cittadinanza che saranno presentate alla nuova struttura del Maeci dovranno essere inviate “esclusivamente tramite servizio postale, in deroga a quanto previsto dal codice dell'amministrazione digitale, corredate dalla documentazione cartacea originale e della prova del versamento dei servizi consolari”. La scelta del mezzo cartaceo, ha rivendicato il relatore, “ha lo scopo di rendere più facile l'individuazione di anomalie, frodi o di altre scorrettezze nella documentazione che proviene da Paesi molto diversi fra loro sul piano sia della digitalizzazione stessa sia dei controlli di regolarità antifrode. Naturalmente, le comunicazioni ufficiali fra il richiedente e il MAECI si svolgeranno esclusivamente con posta elettronica, con valore di notifica, anche se non certificata”.

L’iter del provvedimento – grazie all’approvazione di un altro emendamento – dovrà concludersi non in 48 mesi ma in 36.

L'articolo 2 “disciplina la legalizzazione di firme di atti da e per l'estero, ai fini di superare alcune incertezze applicative”, l'articolo 3 tratta modifiche alla legge sull'anagrafe e il censimento degli italiani all'estero per adeguarla ai cambiamenti normativi avvenuti in materia di anagrafe – cioè l’Anpr - l'articolo 4 introduce alcuni aggiornamenti alla normativa sui passaporti.

Quanto alla Carta di identità elettronica, l'articolo 5 prevede che “la carta d'identità sia titolo valido per l'espatrio, se non sussiste una condizione che legittima il diniego al ritiro del passaporto”. Grazie ad un altro emendamento, ora gli iscritti Aire potranno chiedere la Cie anche ai Comuni di residenza.

L'articolo 6 contiene alcune disposizioni organizzative relative all'ordinamento del personale della Farnesina e l’ultimo, il 7, reca le coperture finanziarie.

Relatore di minoranza e deputato eletto all'estero, Toni Ricciardi ha riconosciuto le modifiche approvate in Commissione, sostenendo però che non sono ancora sufficienti per tutelare i connazionali che, ha ricordato citando il sottosegretario Silli, sono diventati 7.300.000.

Anche in questa sede, Ricciardi ha ribadito le critiche delle opposizioni alla centralizzazione delle pratiche di cittadinanza alla Farnesina – “ancora non è ben chiaro come codesta organizzazione possa gestire una pletora di cittadinanze variegate e variopinte e capire come intervenire dal punto di vista legislativo e procedurale”; al tempo previsto per espletare le pratiche – 36 mesi sono comunque più dei 24 previsti dalla legge sulla Pa; all’esclusività della trasmissione della documentazione cartacea in un mondo che ha va verso la digitalizzazione.

“Siete il Governo che maggiormente ha sottratto agli italiani all'estero”, ha detto Ricciardi citando le riforma sulla cittadinanza entrata in vigore a maggio.

“Anche durante la trattazione in Aula, attraverso gli emendamenti che abbiamo ripresentato e attraverso gli ordini del giorno, continueremo e cercheremo di attenuare la penalizzazione crescente che, ahinoi, questo Governo sta adottando nei confronti di un patrimonio che l'Italia ha e che sono gli italiani all'estero”, ha annunciato il deputato eletto all’estero, secondo cui “nell'arco del prossimo quinquennio, rischieremo di raggiungere quota 10 milioni di iscritti all'AIRE”.

Unico iscritto a parlare Fabio Porta, deputato Pd eletto in Sud America, che ha riconosciuto “alcuni significativi miglioramenti” apportati in Commissione al ddl che continua ad avere “un impianto che mantiene fortissime criticità che rischiano di tradursi in nuovi oneri per i connazionali e in nuovi colli di bottiglia per la stessa rete consolare, specialmente nella fase di transizione”. L’auspicio è che “i lavori dell'Aula” possano “perfezionare questo provvedimento, salvaguardando diritti, efficienza, sostenibilità finanziaria”.

Ribadite le critiche alla nuova legge sulla cittadinanza, Porta, come Ricciardi, ha reiterato le perplessità delle opposizioni per la gestione centralizzata delle pratiche, la loro “cartacizzazione” e i tempi: perché, come detto, “è vero che, grazie a un nostro emendamento accolto dal relatore, dal Governo, li abbiamo ridotti da 48 a 36 mesi, ma ricordo che il tempo normale previsto dalla legge di un iter amministrativo è di 24 mesi”. Secondo Porta, la nuova struttura “non sarà adeguata a rispondere a un flusso che arriverà da tutto il mondo”. Quanto ai flussi finanziari, “noi avevamo chiesto di introdurre il criterio secondo il quale i consolati devono essere remunerati, retribuiti, sostanzialmente rafforzati, in base a quanto incassano rispetto ai servizi, quindi passaporti, cittadinanze e documenti anagrafici. Questo criterio non è stato recepito, gli emendamenti volti ad evitare tagli al funzionamento della rete non sono stati accolti, e anche questo danneggia, sostanzialmente, il provvedimento”. Il deputato ha quindi elencato tutte le proposte delle opposizioni bocciate dalla maggioranza, soffermandosi in particolare sul “no” all’emendamento che “prevedeva una durata illimitata dei passaporti oltre il compimento dei 70 anni”, che avrebbe molto aiutato i connazionali più anziani. Porta – così come Ricciardi - ha quindi il lavoro del relatore e la disponibilità del sottosegretario Silli grazie alle quali nel passaggio in Commissione il testo è stato migliorato: “siamo riusciti a fare slittare di 1 anno la decorrenza di questo nuovo servizio, dal 1° gennaio 2027 al 1° gennaio 2028; abbiamo approvato interventi significativi sui tempi dei procedimenti di riconoscimento della cittadinanza; abbiamo rafforzato la tutela dei dati nel possibile affidamento a operatori esterni delle fasi di spedizione, ricezione, digitalizzazione delle istanze di cittadinanza, prevedendo la conformità alle indicazioni del Garante per la protezione dei dati personali, come proposto in un altro emendamento approvato in Commissione”. Il “risultato più importante” per Porta risiede nell’aver introdotto la possibilità del rilascio della Cie nei Comuni, una “richiesta storica delle comunità italiane all'estero”.

All’Aula “chiediamo di completare la transizione digitale del procedimento di cittadinanza con piattaforme sicure, integrate, prevedendo l'uso degli originali solo quando strettamente indispensabili e con pre-verifiche digitali certificate; di rimodulare i tetti transitori alle domande per nuovo ufficio e consolati, legandoli a indicatori di performance e obiettivi di implementazione tecnologica per evitare che i 36 mesi siano sistematici mentre dovrebbero essere eccezionali; di rafforzare la rete con un incremento selettivo di organico, fondi di funzionamento, ripristinando un equilibrio più favorevole alle sedi all'estero nella riassegnazione dei proventi; di attuare la legge di riforma dei patronati”. Sulla Cie “vogliamo che si stabilisca un cronoprogramma vincolante per i comuni, affinché la carta d'identità elettronica venga effettivamente concessa con un monitoraggio pubblico e supporto ai comuni. Infine, occorre definire standard operativi tra MAECI e Viminale per assicurare l'aggiornamento tempestivo dei registri, anche ai fini elettorali, dello stato civile”. (aise/dip 14) 

 

 

 

 

 

 

 

Il WTO, chiusura o riforma?

 

La tempesta sulle tariffe doganali scatenate dall’Amministrazione Trump sottintende un forte attacco al sistema commerciale internazionale. Si concretizza un sostanziale disconoscimento dell’approccio multilaterale regolato dal World Trade Organization (WTO) – al quale partecipano 166 Paesi –, sostituito da iniziative unilaterali. Gli effetti intimidatori e coercitivi su singoli Paesi, non compatibili con il WTO, mettono a rischio le regole del gioco consolidate. Peraltro, già da qualche anno il WTO è indebolito a causa delle divergenze tra i Paesi firmatari su argomenti fondamentali quali sviluppo, trattamento speciale e differenziato, e necessità di riforme. Questa situazione ha ridotto la rilevanza del WTO e causato il lento declino della sua missione, volta a garantire condizioni eque e paritarie e la liberalizzazione degli scambi commerciali.

Tutto ciò mette a rischio la stabilità degli scambi e la funzione chiave del WTO, cioè il sistema di risoluzione delle controversie, che prevede che un paese soccombente possa ricorrere in appello. Questo sistema è stato bloccato dagli Stati Uniti: non approvando la nomina dei giudici, hanno provocato la paralisi dell’organismo di appello del WTO, che di fatto ha cessato la sua funzione. Tale blocco imposto dagli Usa comporta che i Paesi membri non possano più ricorrere alla funzione che giudica le controversie: un Paese che perde una disputa può ricorrere in appello, ma il suo funzionamento è bloccato. Continue reiterazioni mettono in crisi il sistema del WTO.

Le critiche – peraltro giustificate – di inefficienza del WTO inducono ad affermazioni come declino, collasso, disincanto per una sua riforma, mentre si assiste al consolidarsi dell’anarchia e della frammentazione nel sistema commerciale multilaterale che regola gli scambi.  Il quadro è frammentato e contrastato e solleva interrogativi.

I diversi approcci Cina, USA e UE

Pechino considera centrale il ruolo del WTO (ne è membro dal 2001) nell’ambito del multilateralismo che intende cavalcare. Alla riunione della Shanghai Cooperation Organisation (SCO) a Tianjin, con lo «Statement of the Council of Heads of State of the SCO Member States in Support of the Multilateral Trading System» è stata affermata l’importanza della cooperazione multilaterale in contrapposizione a misure protezioniste e coercitive che violano la Carta delle Nazioni Unite, i principi e le regole del WTO, del quale si favorisce una riforma. Tuttavia, il ruolo della Cina è da tempo al centro delle controversie riguardanti da un lato la capacità del WTO di garantire i propri standard, e dall’altro pratiche commerciali scorrette come sussidi e prestiti non dichiarati, dumping e furto di proprietà intellettuale.

Gli Stati Uniti, accentuando le proprie politiche commerciali unilaterali, mettono in evidenza le criticità del WTO.  In pratica, Trump vuole fare piazza pulita del multilateralismo che ha garantito per decadi stabilità e garanzie nella regolamentazione degli scambi commerciali. Già nel 2019 gli Usa avevano provocato una paralisi nel funzionamento del WTO per la risoluzione delle controversie, non approvando la nomina di due dei tre giudici dell’Appellate Body, che ha quindi cessato la sua funzione.

La critica principale sollevata dagli Usa contro l’Appellate Body del WTO riguarda la sua troppo estesa (judicial overreaching) interpretazione dei Trattati WTO, che crea nuovi obblighi e impatta sulla creazione di precedenti legali. Secondo gli Usa – che hanno perso il 90% dei casi anti-dumping – questi aspetti non rientrerebbero tra le competenze dell’Appellate Body. È evidente che si vuole libertà d’azione, considerando che la norma multilaterale prevale su tutte le altre, ma non è comunque chiaro l’obiettivo americano: negoziare per riformare, smontare il WTO o ritirarsi? Si osserva dunque un approccio ambiguo, di “va e vieni”, a volte anche collaborativo. Trump ha nominato infatti un nuovo ambasciatore presso il WTO e il Direttore Generale dell’organizzazione Okonjo-Iweala ha nominato sua vice un’altra americana.

Eppure, per salvaguardarsi da dazi unilaterali, Paesi come Brasile e Cina hanno comunque fatto ricorso al WTO. Allo stesso tempo la Commissione Europea aveva minacciato a sua volta la richiesta di consultazione, poi ritirata, preliminarmente a un ricorso al WTO contro gli Usa, come deterrente per arrivare a una soluzione diplomatica bilaterale. Ma anche se si fosse arrivati, in sede di contenzioso WTO di ultima istanza, a una condanna degli Usa, come per esempio abolire o ridurre le misure giudicate incompatibili che causano un “unfair advantage”, l’impossibilità di appellarsi blocca il funzionamento del processo.

 Il WTO potrebbe funzionare?

Senza aderire a posizioni fortemente critiche espresse dalla von der Leyen, che ha considerato il WTO “defunct”, e dal Cancelliere Merz, che ha dichiarato che il WTO “non funziona da anni”, si aprono questioni sull’efficacia dei ricorsi al WTO. In realtà, il funzionamento del meccanismo per la risoluzione delle controversie a un certo punto si inceppa ma non del tutto.

Per fronteggiare le azioni unilaterali di Trump, i Paesi del WTO possono sempre minacciare ricorsi all’organizzazione  come deterrente, confermando così il suo ruolo. Per rispondere alla crisi del sistema innescata dalla decisione americana di impedire l’operatività del ricorso all’appello nelle controversie, si è trovata una soluzione parziale ad interim (Multi-Party Interim Appeal Arbitration Arrangement – MPIA), contemplata dal WTO, che ricorre alle stesse procedure, preservandole. In pratica, i 26 Paesi partecipanti, tra i quali Ue e Cina, accettano volontariamente di rinunciare a qualsiasi appello al WTO Appellate Body per evitare situazioni di “void”, e si affidano a un arbitrato. Sono previsti limiti, quali l’efficacia solo tra le parti in causa e la competenza solo per quanto necessario, senza creare precedenti legali, né interpretare le norme, né confermare, modificare o rigettare le conclusioni adottate dal WTO Dispute Settlement Panel. I primi ricorsi hanno mostrato che l’MPIA funziona.

Il WTO va considerato marginale?

L’attivismo e il crescente interesse dei Paesi per il WTO in questi anni mostrano un quadro differente rispetto alle critiche. Dal 2024 a oggi infatti il numero di nuove controversie portate al WTO è raddoppiato e la maggioranza dei Paesi rispetta le regole dell’organizzazione. Tra le più note richieste di attivazione di Panel o consultazioni, ci sono quelle sui dazi sulle auto elettriche cinesi o sull’acciaio e l’alluminio. Come ricorda Angela Ellard, già vice Direttore Generale del WTO, “si può dire che il sistema WTO è malconcio e poco efficiente, ma continua a funzionare per la risoluzione delle controversie. Da quando, sei anni fa, l’Appellate Body ha cessato di funzionare, si sono registrati 28 casi di controversie risolte, 32 appelli “nel vuoto” del blocco delle procedure e 13 i casi portati all’appello volontariamente dalle parti in causa con l’accordo temporaneo ad interim MPIA”.

Accanto alle controversie si presenta un quadro più ampio e dinamico del WTO, che include varie iniziative: l’accordo multilaterale sui sussidi alla pesca del 2022 è entrato in vigore il 15 settembre. È il primo che riguarda sostenibilità e clima (protezione dei global commons e level playing field), la sospensione vincolante circa i vaccini per il COVID-19, l’accordo Trade Facilitation, le decisioni sulla sicurezza alimentare, la moratoria sui dazi per l’e-commerce e l’avvio di negoziati per la riforma del WTO.

Lasciar passare la tempesta, tra disillusioni e proposte di riforma del WTO

In questa turbolenza globale si possono individuare alcune prospettive, sullo sfondo della notevole capacità di tenuta del commercio internazionale nel primo semestre di quest’anno, corrispondente all’annuncio delle tariffe “reciproche” di Trump. Secondo l’Unctad, gli scambi globali sono aumentati di 300 miliardi di dollari nello stesso periodo. Si tenta di superare lo stallo di Ginevra.

Von der Leyen ha proposto agli 11 Paesi dell’accordo di partenariato CPTPP (Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership) – da cui la prima Amministrazione Trump si era già ritirata nel 2016 – di elaborare proposte comuni per una riforma. Si è anche dibattuta l’idea di un nuovo accordo commerciale, una sorta di alternativa o “sostituto” del WTO, ma senza gli Stati Uniti, che avrebbe una forza economica e un’ampiezza dell’area di libero scambio sufficienti da imporsi e preoccupare grandi potenze con intenzioni coercitive. Sarebbe una soluzione negoziata esterna al WTO.

I Paesi firmatari del WTO, alla sua ultima Conferenza Ministeriale del 2024, hanno ribadito l’impegno prioritario per una riforma di meccanismi e procedure per superare l’impasse, ripristinando un sistema di risoluzione delle controversie che funzioni pienamente e correttamente, senza tuttavia trovare un consenso. L’attività è proseguita in luglio con un secondo round di consultazioni informali coordinate dal Facilitator for WTO Reform e dal WTO General Council. Ma c’è disaccordo perfino sul significato di WTO reform. È una situazione in cui tra i Paesi rimane un sostanziale disaccordo sui temi di fondo del WTO, insieme alla percezione che questo non costituisca una soluzione ai problemi del commercio, e alla disillusione e perdita di fiducia nel multilateralismo. Per superare questa sfiducia viene auspicato dal Facilitator un cambio culturale e di comportamento.

In questo quadro è degno di nota l’importante passo avanti per la rimozione di un ostacolo alla riforma del WTO: il premier cinese Li Qiang ha annunciato, a margine dell’Assemblea Generale dell’ONU, la rinuncia, riguardo ai negoziati per la riforma, al “trattamento speciale e differenziato” in quanto paese in sviluppo, sempre osteggiato dagli USA. La decisione riflette le nuove realtà economiche e conferma l’impegno di Pechino per un sistema commerciale bilanciato ed equo.

Il Public Forum organizzato a settembre dal WTO ha avuto in agenda anche la riforma dell’Organizzazione, tema che coinvolge molti Paesi interessati a trovare una soluzione. I tempi saranno lenti, ma proseguono lungo un percorso mentre il WTO continua, bene o male, a funzionare, mentre incombe il rischio di passare da un sistema di regole multilaterali “rules-based” al ritorno a un sistema “powers-based” fondato sulla competizione tra grandi potenze.

Fabrizio Braghini, Aff.Int. 28

 

 

 

 

 

 

 

Confsal-Unsa, un sindacato concentrato sui problemi del posto di lavoro nella Farnesina

 

Si chiama Confsal-Unsa e sta per Confederazione dei Sindacati Autonomi dei Lavoratori, mentre UNSA sta per Unione Nazionale Sindacati Autonomi e il tre 3 ottobre 2025 non ha chiamato i propri iscritti al grande sciopero contro la politica italiana verso la guerra nella Striscia di Gaza e per la solidarietà con il popolo palestinese.

Sciopero politico, quindi, indetto da vari sindacati, in capo a tutti La CGIL seguita da USB, Cib Unicobas, SGB e CUB.

Cacio sui maccheroni per organizzazioni sindacali che, tradizionalmente e ideologicamente, con i partiti al governo hanno scarsissima identificazione?

Facciamo però una premessa, prima di ragionare se sia giusto o no da parte di un sindacato chiamare ufficialmente i propri iscritti a schierarsi pro o contro partiti politici che formano un governo.

Lo sciopero generale è certamente legittimo e spesso efficace. Lo insegna la storia. Chi non ricorda lo sciopero generale in Polonia ai tempi di Lech Walesa con il suo sindacato Solidarnosc? Fu l’inizio della caduta di un intero sistema politico, la prima crepa che finì con il crollo del muro di Berlino. Ad onore del vero, insieme al coraggio dei lavoratori dei cantieri di Danzica, capeggiati dal futuro Presidente della Polonia Walesa, bisogna ricordare anche i milioni di dollari che dal Vaticano arrivarono a Varsavia per sostenere la lotta e lasciamo poi stare da dove venivano quei milioni maneggiati da un certo Marcinkus molto noto alla Giustizia italiana.

Affermiamo semplicemente che lo sciopero politico è legittimo, talvolta giusto e di tanto in tanto anche efficace.

Ma se un sindacato decide di non indirizzare i propri iscritti, e sotto la propria sigla, alla mobilitazione politico-partitica è per questo un sindacato inerme e poco sensibile alla questione, in questo caso, umanitaria in Palestina?

Conosco benissimo quel Sindacato, ne conservo ancora la tessera tra le cose più care. E la cosa che maggiormente ho ammirato in tanti anni di lotta per la difesa dei lavoratori, all’interno del MAECI e sparsi per il mondo nella rete consolare, era proprio la parola “autonomia” scritta a lettere cubitali sulla propria bandiera.

E cosa s’intende per autonomia? Coltivare l’orticello per gustare autonomamente i pomodorini d’estate o accendere il fuocherello per rendersi autonomi dalle grandi multinazionali del gas o del petrolio?    

No di certo. Per autonomia si intende libertà e indipendenza da correnti e partiti politici, proprio mentre i grandi e storici sindacati legavano i propri interessi a quelli dei partiti (CGIL uguale filocomunisti, UIL uguale filosocialisti CISL uguale filodemocristiani) fino ad entrare in conflitto tra opportunità partitica e interessi dei lavoratori.

Vi assicuro che all’interno della Confsal-Unsa ho incontrato iscritti a quel sindacato convinti che Giorgia Meloni sia come la Madonna di Lourdes capace, cioè, di lenire i mali del mondo e ho incontrato iscritti che tutte le sere si leggono e si rileggono il Capitale di Carlo Marx. Quello che ci univa e ci unisce? L’incredibile capacità di pragmatica concentrazione sui problemi e sulle difficoltà sul posto di lavoro.

Vi assicuro che il tre ottobre, nelle piazze di quasi cento città italiane e in mezzo a più di due milioni di persone, c’erano anche quelli della Confsal-Unsa Esteri per dare forza alla giusta espressione di un’indignazione popolare. Sì, ma senza la bandiera del Sindacato! Certo, senza la bandiera del Sindacato giacché in quel sindacato non si danno ordini di squadra e in quel Sindacato è rispettata l’opinione politica di ogni iscritto che, come il, voto, è personale e segreta. Pasquale Marino, CdI on 20

 

 

 

 

 

Consolati: una riforma per i servizi agli italiani nel mondo

 

Roma – “Oggi votiamo un provvedimento molto importante per la comunità italiana nel mondo: una riforma concreta dei servizi consolari, dell’AIRE, delle procedure di cittadinanza e dei documenti d’identità per gli italiani all’estero.

Basti pensare alla possibilità di rinnovare la Carta d’Identità Elettronica (CIE) nei comuni in Italia anche per noi italiani all’estero e all’integrazione dell’AIRE nell’Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente, che finalmente unifica i dati tra Comuni, Farnesina e consolati, rendendo l’amministrazione più vicina ai cittadini nel mondo.

Le procedure per la cittadinanza saranno gestite centralmente a Roma, trattandosi di pratiche particolarmente complesse e impegnative, in modo da snellire l’iter e alleggerire il lavoro dei consolati all’estero.

Il termine per la conclusione delle pratiche di cittadinanza scende da 48 a 36 mesi, grazie a un nostro emendamento riformulato: un passo importante per rendere più rapida e concreta la procedura e venire incontro alle legittime aspettative dei nuovi italiani.

L’AIRE diventa parte integrante dell’Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente, un passo fondamentale che consente finalmente un collegamento diretto e automatico tra Comuni, Farnesina e consolati, rendendo i dati più aggiornati e i servizi più efficienti.

È fondamentale prevedere un adeguamento salariale per il personale dei nostri consolati e introdurre un sistema equo di valutazione delle performance individuali dei contrattisti, soprattutto nei Paesi dove il costo della vita è elevato: penso, ad esempio, alla Svizzera e al Regno Unito, dove gli stipendi attuali risultano spesso troppo bassi rispetto al contesto locale.

Rivendico con orgoglio una parte del merito di queste riforme, alle quali ho lavorato con convinzione e perseveranza da anni, attraverso proposte, incontri e interlocuzioni costanti con le comunità italiane all’estero, con la Farnesina e con i ministeri competenti [vedi comunicati allegati]. Una riforma concreta, che questo governo di centrodestra ha saputo realizzare, dimostrando con i fatti di lavorare davvero nell’interesse degli italiani nel mondo.

Nelle precedenti legislature la sinistra è stata quasi sempre al governo, ma questi provvedimenti li ha portati a compimento il centrodestra, con serietà e senso di responsabilità.

Un ringraziamento ai ministeri e ai ministri coinvolti, in particolare al Ministro degli Esteri Antonio Tajani di Forza Italia, al Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi della Lega, al Sottosegretario all’Interno Nicola Molteni, sempre della Lega, e al Sottosegretario agli Esteri con delega agli italiani nel mondo Giorgio Silli, per l’impegno e la collaborazione istituzionale durante questi anni di lavoro.

Un ringraziamento particolare va a tutta la rete consolare e diplomatica nel mondo per l’impegno quotidiano e la professionalità con cui opera, pur in condizioni non sempre facili.

Ringrazio anche le opposizioni per il contributo costruttivo offerto durante l’esame del provvedimento.

C’è ancora molto da fare, ma dopo decenni di immobilismo, il centrodestra, al governo da tre anni, ha imboccato con decisione la strada giusta per dare finalmente risposte concrete agli italiani all’estero” – lo ha dichiarato l’On. Simone Billi, capogruppo della Lega Salvini Premier in Commissione Esteri e presidente del Comitato sugli Italiani nel Mondo, intervenendo nell’Aula di Montecitorio.

“Questo è il governo più avverso nei confronti degli italiani all’estero nella storia repubblicana, e la legge approvata oggi ne è un’ulteriore conferma. Siamo di fronte al secondo atto di un percorso che abbiamo già fortemente contrastato nell’ambito della legge sulla cittadinanza”. Lo ha detto in Aula alla Camera Toni Ricciardi, vicepresidente del Gruppo PD durante le dichiarazioni di voto finali al ddl sulla revisione dei servizi per i cittadini e le imprese all'estero, approvato dall'Aula.

“In questa legislatura - ha aggiunto l'esponente dem, che questa mattina ha svolto la relazione di minoranza - l’esecutivo ha operato tagli ai finanziamenti, sospeso l’adeguamento degli assegni pensionistici esteri, annullato le agevolazioni per chi decide di rientrare in patria e approvato una normativa sulla cittadinanza che rischia di recidere i legami con le nostre comunità sparse nel mondo”.

“Riteniamo sconcertante – ha aggiunto – che questo governo neghi diritti a chi ha profonde radici italiane, per poi concederli facilmente a soggetti vicini politicamente. In commissione ci siamo impegnati a fondo per migliorare il testo attraverso una serie di proposte emendative, alcune delle quali sono state accolte, come la riduzione dei tempi per la definizione delle pratiche da 48 a 36 mesi, l’obbligo di confronto sindacale per la ridefinizione dei contratti del personale e l’emissione della CIE nei comuni italiani a partire dal 1° giugno 2026, mentre molte altre sono state purtroppo respinte".

"La legge sulla revisione dei servizi per i cittadini e le imprese all'estero - ha concluso Ricciardi - non solo non risolve le criticità esistenti, ma finisce per esasperarle e amplificarle, come spesso accade, con i provvedimenti votati da questa maggioranza. Il ritorno alla modulistica cartacea, le difficoltà operative riscontrate nei consolati e la volontà di affidare ai privati la gestione dei servizi consolari sono scelte che hanno il solo scopo di danneggiare i cittadini, non di aiutarli. Il Partito Democratico continuerà a battersi per la tutela dei diritti degli italiani nel mondo, un patrimonio umano prezioso da difendere e valorizzare, e non da penalizzare".  

Un importante momento di confronto su strumenti e strategie per affrontare le sfide della vita tra più luoghi e culture, con la partecipazione di esperte ed esperti della psicologia d’espatrio: l’Ambasciata italiana a Berlino, in collaborazione con il Comites, ha organizzato il 13 ottobre, un incontro dedicato alla tematica “Promuovere il benessere psicologico degli italiani in Germania”.

“In Germania vive la seconda comunità italiana più numerosa al mondo: una comunità ben integrata e attiva costituita oggi da professionisti, giovani, ricercatori, imprenditori, artisti, che si muovono all’interno di uno spazio di cittadinanza europea”, ha ricordato l’Ambasciatore Fabrizio Bucci. “Si tratta di una presenza importante, che facilita la costruzione di ponti per una migliore comprensione reciproca fra popoli. L’Ambasciata e la rete consolare rappresentano il punto di riferimento degli Italiani all’estero, in modo sinergico con la rete dell’associazionismo e con il COMITES”.

Tra i temi affrontati durante l’incontro vi sono stati i rapporti con le radici e i luoghi di origine, la promozione del benessere psicologico durante la mobilità, l’adattamento culturale e l’integrazione personale nei nuovi contesti e la costruzione di una rete di professionisti per la salute mentale.

L’incontro ha offerto ai numerosi presenti un utile spazio di dialogo grazie alla partecipazione degli esperti Anna Pisterzi, psicologa e presidente di Transiti – Psicologia d’espatrio; di Giona Chiovetto, psicologo e membro della medesima associazione; di Giulia Borriello, psicologa e presidente dell’associazione Salutare e.V.; e di Luciana Degano-Kieser, medico psichiatra. L’incontro, moderato da Federico Quadrelli, presidente del COMITES di Berlino, è stato seguito da un dibattito molto partecipato con il pubblico intervenuto all’evento.

L’iniziativa si è inserita nell’ambito del progetto “Traiettorie in Europa”, promosso con il sostegno del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, che mira a promuovere il benessere psicologico delle persone italiane all’estero.  Aise/De.it.press 14

 

 

 

 

 

Una proposta: l’italiano come lingua di lavoro nell’UE

 

Alla cortese attenzione di

* S.E. il Presidente della Repubblica Italiana

* Il Presidente del Consiglio dei Ministri

* Il Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale

* Il Ministro della Cultura

Egregi Signori,

mi permetto, in qualità di cittadino italiano ed europeo, di sottoporre alla Vostra attenzione una proposta di grande valore culturale, politico e simbolico: l’iniziativa affinché la lingua italiana divenga lingua di lavoro dell’Unione Europea.

L’Italia è tra i fondatori dell’Unione e la lingua italiana rappresenta uno dei pilastri della civiltà europea: è veicolo di arte, scienza, filosofia, musica e diritto, ed è tuttora una delle lingue più studiate al mondo. La sua presenza attiva nelle istituzioni europee non solo renderebbe più equa la rappresentanza linguistica, ma contribuirebbe anche a rafforzare il principio di diversità culturale che è alla base del progetto europeo.

Oggi le lingue di lavoro prevalenti dell’UE sono l’inglese, il francese e il tedesco. Tuttavia, l’uso dell’italiano come lingua di lavoro — oltre che ufficiale — darebbe maggiore visibilità all’Italia e al suo contributo storico e contemporaneo alla cultura europea. Ciò favorirebbe, inoltre, una partecipazione più diretta e consapevole dei cittadini italiani nei processi decisionali europei.

Con questa proposta, chiedo che il Governo della Repubblica Italiana:

1. Valuti la possibilità di presentare in sede di Consiglio dell’Unione Europea una richiesta formale per l’inserimento della lingua italiana tra le lingue di lavoro;

2. Promuova, in collaborazione con gli altri Paesi di cultura neolatina, una iniziativa diplomatica comune per sostenere la diversità linguistica europea;

3. Sostenga la diffusione dell’italiano presso le istituzioni e le agenzie europee, anche attraverso programmi culturali e formativi dedicati.

Sono consapevole che un tale percorso richiede tempo, consenso e impegno diplomatico; tuttavia, ritengo che il riconoscimento della lingua italiana come lingua di lavoro rappresenti un passo importante per riaffermare il ruolo dell’Italia nel cuore dell’Europa.

Confidando nella sensibilità e nell’attenzione delle Alte Istituzioni destinatarie, porgo i miei più deferenti saluti.

Con osservanza, Giuseppe Tizza, dip 13

 

 

 

 

Perché è un accordo storico

 

Con l’accordo Trump-Netanyahu accade qualcosa di storico che va al di là del conflitto mediorientale. Per la prima volta, infatti, un’amministrazione repubblicana lega a sé stessa e alla destra globale l’idea di pace, diplomazia e mediazione: concetti tradizionalmente associati alle amministrazioni democratiche negli Stati Uniti e al mondo progressista.

Lo scambio di ostaggi e l’incertezza del futuro

Vediamo quali sono i chiaroscuri dell’accordo, uno per uno. L’accordo ha giustamente suscitato speranze da entrambe le parti del conflitto, soprattutto perché vi sono alte probabilità che la prima parte dell’intesa, riguardante lo scambio di ostaggi israeliani contro prigionieri palestinesi, possa effettivamente essere attuata. Il coinvolgimento di Trump nell’accordo crea le condizioni necessarie affinché lo scambio avvenga. Ciò che accadrà successivamente rimane però del tutto incerto e rischia di creare le condizioni per una continuazione del conflitto o, in alternativa, di ridefinire come “pace” un’occupazione o una futura dipendenza della Striscia di Gaza da parte di Israele.

Nonostante i venti punti del piano prevedano il ritiro delle forze israeliane dalla Striscia, questo avverrà solo in modo graduale, controllando inizialmente il 52% del territorio, successivamente ridotto al 40% e poi al 15%. La gradualità del ritiro è già di per sé problematica, se si considera la difficoltà di arrivare a un disarmo totale di Hamas e alla rinuncia del movimento a far parte di qualsiasi entità di governance della Striscia. In concreto, così com’è, il piano potrebbe di fatto facilitare una presenza di lungo periodo delle forze israeliane a Gaza. Anche se concentrate esclusivamente in corridoi strategici che garantiscono alla Striscia accesso alla ricostruzione e agli aiuti umanitari, tale presenza militare potrebbe comunque essere sufficiente a determinare un ruolo dominante di Israele nel definire il futuro politico ed economico della Striscia e dei suoi abitanti.

Un piano senza Stato palestinese: i limiti dell’accordo

A questo si aggiunge l’assenza di qualsiasi riferimento al riconoscimento dello Stato di Palestina, la mancanza di garanzie sul futuro della Cisgiordania — dove l’annessione di territori da parte dei coloni continua — e la negazione di qualunque autorità all’Autorità Palestinese sul futuro della Striscia. Non esistono piani perfetti: i negoziati producono sempre compromessi imperfetti. Tuttavia, sebbene il piano abbia il merito di salvare vite umane da entrambe le parti, rischia allo stesso tempo di porre le basi per un effettivo consolidamento del progetto di annessione territoriale di Israele, riconoscendo ai civili palestinesi un semplice “diritto” a esistere.

Le modalità di negoziazione del piano hanno poi ridefinito i concetti di diplomazia e mediazione. Tradizionalmente concepiti come dialogo, concessione e ascolto tra le parti, il piano per Gaza è di tutto ciò proprio l’opposto. Redatto da pochissimi, circolato tra pochissimi e con minime revisioni, il piano è il più perfetto risultato della cosiddetta diplomazia della forza. Si tratta, in sostanza, di utilizzare tutte le forme di pressione — militare ed economica — sugli avversari per costringerli ad acconsentire a un accordo vantaggioso solo per la parte più forte, ma comunque definito come “processo negoziale”. Pressione e incentivi — più che consultazioni — permettono di assicurare sostegno e approvazione da parte di altri attori regionali, Turchia, Qatar e Egitto — anche se fondamentalmente esclusi dal negoziato.

La diplomazia della forza: negoziare senza negoziare

Per alcuni la diplomazia alla Trump è oggi la sola possibile per placare i venti di guerra. Ma in controbattuta a questo facile argomento vi è il fatto che la diplomazia di Trump ad oggi ha solo prodotto risultati di breve periodo (cessate il fuoco alcuni addirittura conclusi dopo guerre iniziate proprio durante l’Amministrazione Trump o, al meglio, accordi temporanei) senza aver di fatto risolto nessun conflitto. Nel caso dell’accordo su Gaza, come in quello del cessate il fuoco di dodici giorni tra Israele e Iran, la diplomazia della forza produce accordi fragili che si presentano come successi, ma che in realtà posticipano il negoziato, congelano il conflitto e non lo risolvono, anzi lo allungano.

Accordi frutto della diplomazia della forza non sembrano che approfondire le ingiustizie che sono alla base dell’azione violenta, creando di fatto le condizioni perché queste si ripetano. Si ricordi poi che l’utilizzo della forza che successivamente “apre la strada” alla diplomazia è esercitato indistintamente su tutti — avversari e popolazione civile, bambini inclusi. In questo senso, la nuova diplomazia proposta da Trump è una diplomazia che non solo viola il diritto internazionale umanitario, ma che risulta essenzialmente incompatibile con esso. Facendo ciò svela e approfondisce le contraddizioni dell’Occidente — Europa inclusa — mettendo a nudo l’egoismo dei singoli governi sempre più inclini a celebrare fugaci successi di tregue e cessate il fuoco, sempre meno capaci di lavorare in contesti multilaterali per una risoluzione del conflitto, e sempre più preoccupati di frenare le critiche della propria opinione pubblica.

Una pace senza giustizia

Nella concezione di Trump, la pace è un accordo commerciale di successo, raggiunto con ogni mezzo possibile, vantaggioso per alcuni e meno per altri. Quello che Trump ci promette con questo accordo è che può esserci pace anche senza giustizia. Parte del problema è che i responsabili del fallimento della diplomazia, intesa in senso più tradizionale, sono proprio le forze progressiste che, nel corso degli anni, non hanno saputo darle sostanza. L’amministrazione Biden, di fatto, ha rinunciato a dare sostanza a questi concetti attraverso azione, diplomazia e principi. I conservatori sono invece riusciti ad appropriarsi delle nozioni di pace, negoziato e accordo, ripensandole in termini meramente transazionali e privandole di qualsiasi valore etico a esse connesso.

Maria Luisa Fantappie, Aff.Int. 14

 

 

 

 

 

Case vuote in Italia, emergenza abitativa all’estero: il paradosso degli emigranti dimenticati

 

Per decenni, migliaia di emigranti italiani hanno investito i risparmi di una vita nella costruzione di case nei paesi d’origine. Spinti dalla nostalgia e dal desiderio di mantenere un legame con la propria terra, molti di loro hanno edificato abitazioni che sognavano di abitare al momento del ritorno in patria. Oggi, tuttavia, quelle stesse case sono spesso vuote, chiuse o in rovina, mentre nei paesi esteri dove la presenza italiana è ancora forte — Germania, Svizzera, Belgio e Francia in primis — si registra una crescente carenza di alloggi a prezzi accessibili.

Il risultato è un paradosso tutto italiano: migliaia di abitazioni inutilizzate nei borghi e nelle periferie del Sud e delle isole, a fronte di una forte domanda abitativa nei paesi dove la comunità italiana è ormai radicata. Gli esperti parlano di “investimenti affettivi” più che economici, dettati dal desiderio di mantenere un punto di riferimento nella terra natale. Ma dietro questa realtà si nasconde anche un vuoto istituzionale.

Le istituzioni italiane, infatti, non hanno mai affrontato in modo organico la questione. Né in passato si è cercato di orientare gli emigranti verso forme d’investimento più sostenibili o produttive, né oggi si adottano politiche capaci di valorizzare il patrimonio immobiliare lasciato inutilizzato. I governi locali e nazionali hanno spesso ignorato il problema, lasciando che interi quartieri costruiti con sacrifici e rimesse finissero nel degrado.

Oggi il fenomeno continua, sebbene in forma minore. Molti nuovi emigranti, spesso giovani e altamente qualificati, preferiscono investire all’estero piuttosto che in patria, consapevoli della mancanza di prospettive concrete in molte aree interne italiane. Nel frattempo, i paesi d’origine restano custodi silenziosi di un patrimonio immobiliare che rappresenta la memoria di un’emigrazione passata ma anche il simbolo di un’occasione mancata.

Giuseppe Tizza, de.it.press 18

 

 

 

 

 

Non ghettizzare gli italiani all'estero: la nuova visione del CGIE

 

Roma - È stata una settimana ricca e intensa quella che si chiude oggi, venerdì 3 ottobre, per il Comitato di Presidenza del Consiglio Generale degli Italiani all'Estero - CGIE, riunitosi a Roma. Una settimana fatta di incontri istituzionali, politici e interni al Consiglio. E fatta anche di "concretezza". Il tutto, sempre con un tema al centro: gli italiani all'estero.

Un "lavoro sistematico" ha contraddistinto la settimana. Un lavoro volto a far "cambiare lo sguardo" verso gli italiani all'estero e alle possibilità che il mondo dell'emigrazione può offrire all'Italia. Uno sguardo che deve rimodellarsi pensando a quella "miniera d'oro" che rappresentano le comunità tricolori nel mondo, come spiegato dalla Segretaria Generale del CGIE, Maria Chiara Prodi, nel punto stampa del CdP a conclusione dei lavori alla Farnesina.

Prodi ha quindi spiegato come il CdP in questa settimana abbia incontrato le Commissioni Affari Esteri di Camera e Senato e la Commissione Bilancio del Senato, per parlare degli investimenti che si possono prevedere nella prossima legge finanziaria e chiedendo con forza la calendarizzazione della prossima Conferenza Permanente Stato-Regioni- Province Autonome-CGIE, per la quale Prodi ha spiegato che il CdP "si è battuta. Altrimenti perderemo risorse umane ed economiche". Poi c'è stata anche l'interlocuzione con tutti i gruppi parlamentari oltre che con tutte le Commissioni Tematiche del CGIE. In queste discussioni, il CdP ha fatto emergere la volontà di non "ghettizzare" il mondo dell'emigrazione: "tutto il Paese deve avere un rapporto con gli italiani all'estero e capire la miniera d'oro che sono questi". Ma "non tutti gli interlocutori sono risultati sensibili al tema".

Oltre agli incontri parlamentari e politici, il CdP ha incontrato anche i rappresentanti delle Regioni e il Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro - CNEL. Anche con loro è emersa la "visione precisa" e "concreta" del CdP, come spiegato sia dalla Segretaria Generale Prodi che dal Vicesegretario Generale per l’Europa e l’Africa del Nord, Giuseppe Stabile. Come temi sono stati dunque trattati il bilancio, le modifiche sulla legge di cittadinanza, la messa in sicurezza del voto all'estero, la riforma del CGIE, la necessità di promuovere all'estero lingua e cultura italiane e la volontà di creare una "cultura della migrazione" attraverso lo studio della storia dell'emigrazione italiana.

Sulla cittadinanza Prodi ha sottolineato con fermezza: "non abbiamo cambiato la nostra valutazione dal parere espresso a giugno e votato in larghissima maggioranza durante la plenaria". Il Vicesegretario Generale per l’America Latina, Mariano Gazzola, è stato più duro sul tema che è "particolarmente sentito in America Latina": "Siamo preoccupati dalla criminalizzazione della doppia cittadinanza. Seguiamo con attenzione i lavori in Senato e la vicenda giudiziaria mentre attendiamo il pronunciamento della Corte Costituzionale". Gazzola ha poi aggiunto: "questa è una legge che ha introdotto lo ius soli in Italia. Chi l'ha proposta se ne deve fare carico, trovando soluzioni ai problemi che ha creato". Dello stesso avviso il Componente di Nomina Governativa, Ricardo Merlo, secondo cui "l'Italia è diventata una plutocrazia. All'estero diventerà italiano solo chi ha i soldi per pagare gli avvocati. Qualcosa si doveva da fare per modificare la legge, ma non con questa assurda legge nata da Tajani".

Prodi ha dunque informato che il CGIE chiederà una proroga riguardo alla cittadinanza dei minori, figli di italiani all'estero, poiché con il termine di un anno non è possibile completare l'iter. Inoltre, ha spiegato di aver consegnato, specie dopo l'apertura del Presidente Mattarella ("che è ancora particolarmente sentita dalla comunità italiana all'estero"), "i nostri lavori a tutti gli interlocutori". "Ad oggi, gli italiani residenti all'estero sono ufficialmente 7 milioni e 300 mila. Un dato impressionante per la velocità con cui aumenta. Davanti a queste cifre serve un lavoro congiunto per far fronte alle problematiche che sorgono".

"Grande attenzione" è stata poi dedicata agli incentivi di rientro mentre per quanto concerne la riforma del CGIE "abbiamo iniziato un ragionamento più approfondito e nel 2026 (ano del 40esimo compleanno del CGIE) ne continueremo a parlare ricordando chi sono le comunità italiane all'estero e la loro storia della migrazione".

CdP molto soddisfatto, come riportato dalla SG Prodi, per l'accordo, che è "un punto di arrivo ma anche di partenza" con il CNEL. Un accordo che "ci darà strumenti nuovi per esseri più inseriti nei gangli delle istituzioni".

Soddisfazione è stata espressa anche per la creazione della comunità dell'italofonia, anche se Prodi ha voluto evidenziare che "non ci può essere questa comunità senza gli italiani all'estero".

Nei prossimi mesi, il CGIE vorrà chiedere la proroga per l'iscrizione dei minori per l'ottenimento della cittadinanza e porteranno "i bisogni degli italiani all'estero in bilancio". Sono in programma anche diversi webinar tematici al riguardo.

Infine, anche su Marcinelle la Segretaria Generale ha espresso le sue sensazioni positive: "Marcinelle è un luogo che ha dato un impulso all'Europa. Sarà un punto di arrivo avere questa giornata riconosciuta dall'Ue. Ma sarà anche un punto per pensare al futuro e alla capacità di fare rete".

Parlando dell'incontro con Silli, invece, si è discusso sulla problematica della tempistica, ma il CGIE ha voluto ribadire la volontà di creare "una nuova narrativa più rispettosa degli italiani all'estero".

Intervenendo a seguire, la Vicesegretaria Generale per i Paesi Anglofoni extraeuropei, Silvana Mangione, ha spiegato di aver chiesto un investimento ai gruppi di Camera e Senato sulla lingua e la cultura e per "il mantenimento dell'italianità". Secondo lei, infatti, "esiste una nuova emigrazione in cui l'italiano si sta perdendo. Stiamo intervenendo in questi luoghi con idee ludiche. Ma l'italofonia è un investimento che l'Italia deve fare". La risposta ottenuta, però, non è stata "entusiastica" poiché "la coperta è troppo corta".

Anche il Vicesegretario Stabile ha rimarcato la necessità di una "nuova narrativa", così come è necessario, secondo lui, "potenziare il rientro" degli italiani all'estero con "misure ad hoc". "Ma fino ad oggi non c'è stato un interlocutore unico", e per questo "abbiamo pensato di raccogliere queste misure e renderle conoscibili anche all'estero: agevolazione alle imprese, regime agevolato agli impatriati, flat tax per neo residenti". "Vogliamo fare un lavoro interistituzionale - ha concluso Stabile che ha puntato molto sulla "concretezza" -, coinvolgendo tutto il Sistema Paese in Italia e all'estero. Sono convinto che se ognuno di noi facesse il proprio, in pochissimo tempo il Paese cambierebbe".

Tommaso Conte, Componente per l’Europa e l’Africa del Nord, ha invece espresso dubbi sulla doppia cittadinanza: "molti ci hanno detto che siamo i veri ambasciatori d'Italia, ma oggi gli enti gestori storici hanno chiuso o stanno chiudendo e questo significa che c'è un problema".

Per Gianluca Lodetti, Vicesegretario Generale di Nomina governativa, è molto importante ora fare uno "sforzo supplementare nell'ambito informativo. Abbiamo bisogno di informazione ma anche di una crescita culturale del paese, perché sennò non riusciremo a mettere insieme l'Italia e l'Italia fuori dall'Italia". Per questo, a suo modo di vedere, è "importante insegnare ai nostri figli quello che è stato il nostro percorso migratorio e sentire vicina la diaspora che finora è sempre stata lontana".

"Siamo in attesa di riscontri sulle modifiche alla legge che abbiamo proposto - ha ricordato in conclusione della Conferenza Stampa la SG Prodi -. Ma nel frattempo c'è una legge vigente ed è necessario che gli italiani all'estero lo sappiano". 

(l.m. aise/dip 3)

 

 

 

 

 

A Francoforte la mostra “Anatomia della fragilità”, sul corpo

 

Francoforte/M. Da giovedì 2 ottobre al Frankfurter Kunstverein di Francoforte è aperta al pubblico – e sarà accessibile fino al 1 marzo 2026 – la nuova esposizione di arte contemporanea e scienza in dialogo, dal titolo “Anatomie der Fragilität – Anatomia della fragilità. Immagini del corpo nell’arte e nella scienza”.   La mostra presenta e mette a confronto modelli anatomici storici, arte greca arcaica, ex voto etruschi, protesi bioniche, con opere artistiche contemporanee di due artiste italiane, Chiara Enzo e Agnes Questionmark, in un percorso di scoperta via via successivo della fragilità del nostro corpo in diverse dimensioni, fino ad una trasformazione morfologica finale umana rappresentata da nuove corporeità a mo’ di figure acquatiche ed iper fantastiche che occupano tutto il salone al terzo piano e che sono state realizzate appositamente per questa mostra dall’artista romana Questionmark.  Punto di partenza nell’androne della Galleria-Museo è la statua di un Kouros greco, alta due metri, una replica del 530 a.C., che riflette gli standard di bellezza dell’epoca; eroizzazione eterna tra i vivi in cui l’aristocratico veniva commemorato al culmine della sua bellezza e virtù. Questa rappresentazione idealizzata di un corpo muscoloso, compatto e eretto, con un sorriso arcaico, – sostituti di persone reali che in questa forma scultorea trovavano rifugio dall’incertezza e mutevolezza della vita –  viene messa in discussione già nel primo piano nella mostra.  Al primo piano troviamo infatti un contesto di prima fragilità, dove la perdita di parti del corpo o la deformazione di tessuti a causa di malattie dermatologiche – sono quest’ultimi i modelli anatomici provenienti dalla collezione di calchi in cera delle malattie della pelle dell’Università di Medicina di Francoforte –  ci avvicinano rispettivamente alla dimensione della privazione permanente o delle trasformazioni che lasciano il loro segno tangibile e visibile sull’epidermide. Dal corpo idealizzato infatti si passa al lavoro della protesista Sophia de Oliveira, che con l’Alternative Limb Project realizza protesi che non si limitano a sostituire parti del corpo, ma interpretano e ampliano artisticamente l’aspetto di queste e la loro funzione. L’obiettivo non è quello di riparare o standardizzare il corpo, ma piuttosto di offrire la possibilità di un progetto-rappresentazione individuale di sé attraverso questi arti artificiali polifunzionali. Come l’immagine e la riproduzione del corpo sia cambiata nel corso dei secoli è dimostrato dalla quanto mai stupefacente sala delle ceroplastiche provenienti dai musei Luigi Cattaneo e di Palazzo Poggi dell’Università di Bologna, per la prima volta in assoluto esposti all’estero.  Ben 10 preziosi e delicati manufatti in ceroplastica tra cui anche un prezioso artefatto della prima donna anatomista, docente e abile modellista in cera Anna Morandi Manzolini e la statua di donna giacente (la Venerina), creata da Clemente Susini nel 1782 a Firenze.  La figura, il cui torso ed addome, aperto e svelato, lascia intravedere gli organi interni, giace su un cuscino con la testa reclinata all’indietro, come fosse una Venere del Tiziano. Oltre alla perfetta riproduzione degli organi interni ed anche di un feto, non possono non sorprendere il visitatore la presenza di una chioma creata con capelli veri ed una collana di perle che cinge il collo, il tutto chiaramente disposto in modo erotico, ma anche perfettamente didascalico ed anatomicamente sorprendente per precisione ed estetica raffinatezza. Il contrasto con l’esperienza immersiva di realtà virtuale che si trova proprio di fronte alle teche delle ceroplastiche è ancora più evidente: i visitatori possono esplorare virtualmente l’interno del corpo. Il collettivo londinese “Marshmallow Laser Feast”, in collaborazione con il Fraunhofer Institute for Digital Medicine, ha esaminato ed elaborato artisticamente materiale grezzo come scansioni tomografiche, esami e dati sul flusso sanguigno. Sono inoltre esposti nella sala contenente gli ex voto etruschi – oggetti in terracotta che riproducono parti anatomiche malate che si portavano alle divinità per l’intercessione col divino con la speranza di una guarigione auspicata –  piccoli quadri iperrealistici di Chiara Enzo elaborati con una tecnica particolare che illude lo spettatore, il quale immagina siano fotografie, mentre al contrario sono superfici dipinte e stratificate, a tempera o acquerello, di patologie organiche, che obbligano i presenti ad avvicinarsi al quadro con l’intento di creare un rapporto personalizzato ed una particolare attenzione del visitatore verso l’affezione dell’organismo. La mostra “Anatomia della fragilità” è stata curata dalla direttrice italiana del Kunstverein Franziska Nori e dalle tre giovani assistenti Anita Lavorano, Pia Seifüßl e Angel Moya Garcia che hanno pensato un percorso che progressivamente spiazza lo spettatore, lo invita a immergersi nelle varie declinazioni della corporeità. Per questa  esposizione il Frankfurter Kunstverein ha creato una collaborazione intensa con molte istituzioni pubbliche ed anche private, sia tedesche che italiane, tra cui la collezione di antichità e la sala delle sculture antiche dell’Università Johann Wolfgang Goethe di Francoforte, nonché con la collezione di antichità dell’Università Justus Liebig di Giessen e grazie al patrocinio e sostegno del Consolato Generale d’Italia a Francoforte anche con la Soprintendenza della città di Bologna ed il Ministero della Cultura che hanno in tempi eccezionalmente brevi dato tutte le autorizzazioni al trasporto e all’esposizione dei delicatissimi ma quanto mai incredibili pezzi provenienti dai due musei bolognesi.  Un’esposizione che prevede inoltre nei prossimi mesi visite guidate e confronti-dialoghi tra specialisti di settore e l’uditorio per sollecitare sia il pubblico internazionale di Francoforte che le nuove generazioni a confrontarsi con la riproduzione, idealizzazione, gli aspetti storici e sociali nonché le nuove tendenze di rappresentazione del corpo umano, non solo come elemento estetico e autocelebrativo, ma come entità complessa che nel mutamento narra e scopre la sua dimensione pienamente umana. Michele Santoriello, dip 7

 

 

 

 

 

 

Brevi di politica e cronaca tedesca

 

Merz e il dibattito sullo "Stadtbild": quando l’architettura diventa politica

Martedì 14 ottobre, durante una conferenza stampa a Potsdam, rispondendo a una domanda sulla strategia adottata contro l'AfD sulla politica migratoria, Merz ha affermato che si è “molto avanti” su questo fronte, aggiungendo: “Ma naturalmente abbiamo ancora questo problema nel panorama urbano (Stadtbild) ed è per questo che il ministro federale dell'Interno Alexander Dobrindt (CSU) sta lavorando per consentire rimpatri su larga scala”.

La dichiarazione è stata criticata sui social network perché interpretata come un rifiuto dei migranti dando vita ad una vivace – e polarizzata – discussione pubblica in Germania sul significato di “Stadtbild (panorama urbano)”, sul cosa si voglia intendere con “problema”, e sulle implicazioni politiche. Il dibattito ha sollevato la domanda se e come la presenza di persone straniere modifichi il volto delle città.

Il Portavoce del Cancelliere, Stefan Kornelius, ha respinto ogni accusa. Non si può accusare il Cancelliere di razzismo, ha affermato. Merz ha sempre chiarito “che, a suo avviso, la politica migratoria non deve riguardare l'esclusione, ma un'immigrazione regolamentata in modo uniforme”, ha aggiunto. Kornelius ha anche sostenuto di non credere “che il Cancelliere federale abbia un problema con il panorama urbano”.

 

Sachsen-Anhalt: AfD contro la campagna nelle scuole per combattere il razzismo

Nel Land del Sachsen-Anhalt, che tra un anno andrà al voto regionale e che secondo i sondaggi vede attualmente Alternative für Deutschland (AfD) al 39% dei consensi, la campagna scolastica contro il razzismo è diventata oggetto di forte scontro politico. L'AfD, partito di estrema destra, si è schierato apertamente contro l’iniziativa, chiedendo che venga revocata la promozione nelle scuole sul tema della diversità.

Il vicesegretario dell'AfD, Hans‑Thomas Tillschneider, ha chiesto che "ogni tentativo da parte degli insegnanti di presentare un'opinione politica anche solo come attraente o di tendenza" venga proibito; e ha aggiunto che «l'antirazzismo è diretto in primo luogo contro l'“opposizione patriottica”» e che la «penetrante propaganda della diversità» avrebbe lo scopo di «distruggere la normalità eterosessuale».

 

Le Filippine Paese ospite della 77esima Buchmesse di Francoforte

Dal 15 al 19 ottobre si è svolta la 77ª edizione della Frankfurter Buchmesse a Francoforte sul Meno alla presenza di circa 238.000 visitatori totali, di cui 120.000 provenienti dal pubblico generale e circa 4.350 editori/espositori, provenienti da moltissimi Paesi, a conferma del ruolo centrale della Buchmesse come hub internazionale dell’editoria. Paese ospite d’onore le Filippine che ha presentato la propria cultura letteraria con un ampio programma nazionale e internazionale.

Fra gli autori protagonisti dell’evento, figurano nomi internazionali come Maja Lunde, Lea Ypi, Kamel Daoud e V.E. Schwab, che hanno partecipato a incontri e firmacopie nell’ambito del ricco palinsesto della manifestazione.

L’evento ha dunque confermato la sua importanza non solo per il mercato del libro, ma anche come momento di dialogo culturale internazionale, grazie alla combinazione di industria editoriale e festival aperto al pubblico con una grande presenza di giovani.

 

Da Malta                                                                         

Alex Borg, è stato eletto leader del Partito Nazionalista di centro-destra maltese, diventando ufficialmente capo dell’opposizione lo scorso 10 settembre. A 30 anni è il più giovane capo dell’opposizione nella storia di Malta.

Borg ha rivolto un appello all’unità nazionale: «Questo è un momento cruciale. Un momento che deve unire e non dividere. Dobbiamo superare le differenze, dimenticare i colori blu e rosso e ricordarci soltanto del bianco e del rosso, i colori che ci uniscono come popolo». Il nuovo capo dell’opposizione ha inoltre assicurato che la sua azione politica sarà rivolta «a tutti coloro che aspirano ad un Paese migliore».

 

Dalla KAS...                                                                      

Dal 16 al 18 ottobre l'isola di S. Servolo ha ospitato la IV edizione della Conferenza internazionale "Global governance of climate change and Sustainability" promossa dal Think Tank Vision, diretto dal Prof. Francesco Grillo, Bocconi, in collaborazione con la Fondazione-Konrad-Adenauer, la Fondazione Giorgio Cini, Venice Sustainability Foundation, l'Università Bocconi, Politecnico Milano, LUISS, Istituto Universitario di Architettura di Venezia (IUAV), Venice International University (VIU) e Università Ca' Foscari di Venezia.

Esperti, imprenditori internazionali, studenti provenienti dalle più prestigiose università internazionali hanno discusso sulle strategie per combattere il cambiamento climatico e la riduzione dell'effetto serra a salvaguardia del nostro pianeta.

Droni sull'areoporto di Monaco: allarme sicurezza

Il traffico aereo tedesco ha vissuto momenti di forte tensione a causa della presenza non autorizzata di droni. L’aeroporto di Monaco di Baviera, uno dei principali hub del Paese e snodo cruciale per i collegamenti europei, è stato costretto alla chiusura. Centinaia di passeggeri sono rimasti bloccati a terra, mentre le autorità di sicurezza hanno avviato immediatamente indagini per individuare i responsabili. Secondo la Polizia federale, si è trattato di una grave violazione delle norme sulla sicurezza aerea. Gli avvistamenti di droni nell’area di decollo e atterraggio hanno portato alla sospensione dei voli per oltre un’ora, con ritardi a catena anche su altri scali, tra cui Francoforte e Stoccarda. Nonostante l’episodio si sia concluso senza incidenti, l’allerta rimane alta. Il ministero dei Trasporti e della Digitalizzazione, in stretto coordinamento con il ministero dell’Interno, ha annunciato un rafforzamento immediato dei controlli negli aeroporti e l’adozione di tecnologie anti-drone più avanzate.

Tra le misure in discussione: l’estensione dei sistemi radar dedicati alla rilevazione di piccoli velivoli non identificati; una rete di risposta rapida con l’intervento coordinato di polizia, aviazione civile e forze armate; sanzioni più severe per i voli non autorizzati in prossimità delle infrastrutture critiche. “La sicurezza dei cittadini e delle nostre infrastrutture deve restare una priorità assoluta”, ha dichiarato il ministro dei Trasporti, Patrick Schnieder (CDU), sottolineando che: “Gli aeroporti tedeschi devono poter contare su strumenti moderni di difesa anche contro minacce di nuova generazione”. L’episodio ha riacceso un ampio dibattito pubblico sulla sicurezza interna e sull’uso dei droni civili. La CDU/CSU ha chiesto un’azione più decisa a livello federale, ricordando che episodi simili si sono già verificati in altri Paesi europei.

Dal fronte dell’opposizione, i Verdi hanno espresso sostegno alle misure di emergenza, ma hanno invitato a non limitare eccessivamente l’uso civile dei droni per scopi commerciali o scientifici. L’estrema destra AfD, invece, ha sfruttato l’occasione per criticare il governo federale, accusandolo di “ritardi strutturali” nella modernizzazione delle forze di sicurezza. L’incidente di Monaco conferma quanto la sicurezza tecnologica e quella fisica siano ormai strettamente intrecciate. Come ha ricordato il cancelliere Friedrich Merz: “La libertà e la modernità devono andare di pari passo con la sicurezza. È nostro dovere assicurare che nessuno possa mettere a rischio la fiducia dei cittadini nelle infrastrutture del Paese”.

 

Festa dell’Unità Tedesca, Merz: “La Germania pensa e agisce nel segno dell’Europa”

Nel suo intervento per la Festa dell’Unità Tedesca, il 3 ottobre, il Cancelliere tedesco Friedrich Merz (CDU/CSU) ha richiamato i valori fondanti della Repubblica Federale e il ruolo centrale della Germania in Europa e nel mondo. “Vogliamo essere un Paese europeo aperto al mondo. La Germania pensa e agisce nel segno dell’Europa”, ha dichiarato Merz, sottolineando come l’unità nazionale e quella europea siano oggi più che mai legate da una responsabilità comune.

Il Cancelliere ha inoltre richiamato l’attenzione sui profondi mutamenti dell’ordine globale e sulla necessità per la Germania e per l’Europa di rafforzare la propria capacità di difesa: “Dobbiamo di nuovo imparare a difenderci. L’asse del potere nel mondo cambia. Le autocrazie ci sfidano, perciò dobbiamo essere in grado di difenderci. Noi assumiamo questa responsabilità.” Merz ha espresso gratitudine alle donne e agli uomini della Bundeswehr, riconoscendo il valore del loro servizio per la sicurezza del Paese e dell’Europa: “Dobbiamo già oggi alle nostre soldatesse e ai nostri soldati gratitudine per il fatto di essere pronti a svolgere questo servizio per il nostro Paese. Vogliamo poter difendere la nostra libertà in modo che non siamo costretti a difenderla”. Con queste parole,  Merz ha ribadito il principio guida della CDU: una Germania forte in un’Europa unita, capace di affrontare le sfide globali con determinazione, apertura e senso di responsabilità.

 

Elezioni locali in Renania Settentrionale-Vestfalia: la CDU conferma la leadership

Nel secondo turno delle elezioni locali del Land più popoloso della Germania, il Nordreno Vestfalia (NRW), nel cuore della Ruhr segnata dalla deindustrializzazione, la CDU ha consolidato la sua posizione. Mentre la SPD ha registrato una perdita netta di consenso, l'estrema destra AfD non sfonda pur ottenendo un incremento di consensi ed i Verdi subiscono un significativo arretramento: anche se conquistano la cittadina universitaria di Münster passano dal 20% nel 2020 al 13,5% nel 2025.

La CDU ha ottenuto il 33,3% dei voti, confermandosi come il principale partito della regione. Questa performance è stata accompagnata da una serie di vittorie significative, tra cui quella storica di Alexander Khalouti a Dortmund, che ha posto fine a 79 anni di governo della SPD nella roccaforte rossa. Anche in altre città importanti come Leverkusen e Bielefeld, la CDU ha prevalso, consolidando la sua influenza politica in NRW. 

L'Alternative für Deutschland (AfD), passando dal 5,1% nel 2020 al 14,5% nel 2025, diviene la terza forza politica nella regione senza però ottenere alcun sindaco al secondo turno in città come Duisburg, Gelsenkirchen e Hagen. La SPD ha subito un calo significativo dei suoi consensi, scendendo al 22,1% dei voti.

La sconfitta a Dortmund, una roccaforte storica del partito socialdemocratico, rappresenta un duro colpo per la sua leadership regionale. La presidente della SPD NRW, Sarah Philipp, ha riconosciuto la grave sconfitta dichiarando: "Questo fa male".

 

Deutsche Bahn: Evelyn Palla nuova CEO                

Dal primo ottobre l'altoatesina Evelyn Palla è la nuova amministratrice delegata di Deutsche Bahn, le ferrovie tedesche, succedendo a Richard Lutz, che lascia dopo quasi un decennio la guida del gruppo. La decisione, approvata dal Consiglio di Sorveglianza, segna un cambio di passo atteso da tempo, in un momento in cui il sistema ferroviario tedesco affronta difficoltà strutturali e richieste di riforma.

Con la sua nomina, Palla diventa la prima donna alla guida di Deutsche Bahn nella storia dell’azienda. Il contesto in cui assume la leadership è complesso. Le ferrovie tedesche soffrono da anni di ritardi, inefficienze e infrastrutture deteriorate. La puntualità dei treni a lunga percorrenza è ai minimi storici, mentre cantieri e guasti tecnici creano disagi tra i pendolari. Al tempo stesso, il governo federale è chiamato a dare un segnale di serietà nella gestione di un settore cruciale per la transizione ecologica e per la competitività economica del Paese. 

Nel suo primo intervento da CEO designata, Evelyn Palla ha parlato di “un giorno di nuovo inizio” per i clienti e per i dipendenti di Deutsche Bahn. Ha promesso una riorganizzazione più snella, meno burocrazia e più efficienza, con investimenti concentrati sulle infrastrutture ferroviarie e sul miglioramento della qualità del servizio. Il suo obiettivo dichiarato è restituire ai cittadini un sistema ferroviario affidabile e competitivo, capace di riconquistare la fiducia perduta. Se Evelyn Palla riuscirà a tradurre le sue intenzioni in risultati concreti – treni più puntuali, infrastrutture più moderne, un servizio più vicino ai cittadini – la sua nomina potrà essere ricordata come il punto di svolta per Deutsche Bahn e, più in generale, per la mobilità tedesca. Kas 10 e 24

 

 

 

 

 

Il primo ricordo e la costruzione del sé: la memoria come colonna portante della vita

 

C’è una domanda che, nella sua apparente semplicità, racchiude un’intera filosofia dell’essere: “Qual è il tuo primo ricordo?”

Non è un esercizio di nostalgia, né un gioco della mente. È, piuttosto, un atto di scavo nelle fondamenta stesse dell’identità. Il primo ricordo è la radice più profonda dell’albero della memoria, e da quella radice si diramano rami, foglie e frutti che danno forma alla personalità, alle paure, ai desideri e alle scelte di una vita intera.

Il primo ricordo non è mai casuale. È un frammento di tempo che la mente ha scelto — o forse è stata costretta — a conservare come testimonianza originaria del proprio esistere. Spesso è un evento emotivamente intenso: una gioia improvvisa, una paura, una perdita, uno stupore infantile di fronte al mondo. Quel momento, impresso nella memoria, è come una prima firma del destino sul foglio ancora bianco dell’esperienza.

Gli psicologi sostengono che il primo ricordo sia il punto di incontro tra memoria e identità. Non ricordiamo soltanto ciò che è accaduto, ma il modo in cui abbiamo sentito ciò che è accaduto. E quel sentire plasma il nostro modo di percepire la realtà. Chi conserva come primo ricordo un momento di calore e protezione tenderà, nella vita, a cercare relazioni fiduciose e a credere nella bontà del mondo. Chi, invece, ricorda un episodio di paura o abbandono, costruirà la propria personalità attorno al bisogno di sicurezza, di controllo, o di riscatto.

Il primo ricordo, dunque, agisce come una lente. Attraverso di esso vediamo tutto il resto, anche se non ne siamo consapevoli. È una bussola emotiva che orienta la direzione della vita, un piccolo seme che contiene già, in potenza, l’intera pianta del carattere. Anche se il tempo passa e la memoria si stratifica, quel nucleo originario resta presente, nascosto ma attivo, come il battito costante di un cuore invisibile.

C’è poi un’altra dimensione più sottile: il primo ricordo non appartiene solo al passato, ma anche al presente. Ogni volta che lo evochiamo, lo ricostruiamo. Ogni volta che lo raccontiamo, lo riscriviamo. In questo senso, la memoria è una forma di creazione continua: non solo ricordiamo ciò che è stato, ma lo reinventiamo secondo ciò che siamo diventati. È per questo che il primo ricordo parla non soltanto del bambino che fummo, ma dell’adulto che siamo oggi.

E forse, alla fine, il primo ricordo non è tanto un’immagine quanto un sentimento originario — la prima volta che abbiamo sentito di esistere. Che sia il calore di una mano, il colore di un tramonto o la paura del buio, quel momento segna il passaggio dall’indistinto al consapevole. Da lì comincia tutto: la storia, la voce interiore, il senso della vita.

Per questo, chiedere a qualcuno qual è il suo primo ricordo non è un gesto di curiosità, ma un atto di conoscenza profonda. In quella risposta — magari breve, incerta, o raccontata con un sorriso — c’è racchiuso il disegno di un’intera esistenza. Perché ogni vita, in fondo, non è altro che il lungo eco del suo primo ricordo. Giuseppe Tizza, de.it.press 17

 

 

 

 

 

La parlamentare Manuela Ripa a Mezz’Ora Italiana

 

È l’unica parlamentare europea del Saarland, ed ha il passaporto italiano!

È sotto gli occhi di tutti che le carriere politiche italiane in Germania sono molto rare. A differenza degli amici turchi e di altre nazionalità extraeuropee, gli italiani hanno mostrato scarsa ambizione nel seguire percorsi partitici ed elettorali, fino ad ottenere un posto saldo nel parlamento federale, nei parlamenti regionali ed in quello europeo.

Salta tanto più all’occhio il percorso politico della giurista Manuela Ripa, con alle spalle una biografia da manuale.

In piena generazione Erasmus, nasce a Saarbrücken, figlia di un funzionario del Consolato italiano in quella città e di un’insegnante di ruolo dei corsi di lingua e cultura italiana.

Un percorso di studi eccellente con soggiorni di specializzazione a Londra e Oxford e i primi passi professionali al Ministero degli Affari Esteri tedesco, alla Corte Europea in Lussemburgo e come assistente allo stesso Parlamento europeo.

Poi i primi approcci con la politica con la “P” dei partiti, quando è referente personale del Ministro federale dell’Ambiente, il liberale Philipp Rösler.

Probabilmente è qui che la nostra connazionale parlamentare europea trova nel tema ambientale, nella salute pubblica e nella tutela delle fasce deboli una sua missione professionale.

Si iscrive al partito ÖDP, Ökologisch-Demokratische Partei, una sorta di costola verde della Democrazia Cristiana. Alla domanda: cosa vi distingue dai Verdi, la risposta è immediata: non accettiamo finanziamenti dall’industria!

La ÖDP si propone come movimento sociale e ambientalista, fermamente ancorato in alcuni principi conservatori ed etici. Proprio alcuni di quei principi che i Verdi sembrano aver spesso relativizzato e talvolta anche tradito.

Comunque sia, mentre vari connazionali con la tessera del partito dei Verdi, SPD, CDU o FDP sono stati messi in fila, anzi in fine coda di lunghissime liste elettorali, la Ripa, proprio grazie all’appartenenza a un partito minore è entrata nel Parlamento europeo per la seconda legislatura consecutiva.

Una biografia politica italiana che nel Saarland diventa importante, oltre le individuali convinzioni politiche, giacché Manuela Ripa rappresenta l’unica candidata del Saarland ad aver raggiunto un mandato europeo.

 Alla domanda: quanto Saarland troviamo nell’attività quotidiana, la parlamentare risponde che tutto il suo sguardo politico è filtrato da occhiali saarlandesi.

 Se si considera che in questo Saarland, con meno di un milione di abitanti, risiedono oltre trentamila potenziali elettori italiani e di origine italiana, è quasi scontato che questi occhiali si colorino di tanto in tanto anche di bianco, rosso e verde. CdI on 8

 

 

 

 

 

 

 

 

Nulla è cambiato?

 

Nell’ undicesimo mese del venticinquesimo anno del nuovo Millennio, ci chiediamo cosa ci riserverà il futuro. Ovviamente, memori del nostro tribolato passato.

 Sotto un profilo politico, magari non pienamente condivisibile, anche questa Terza Repubblica è in ambascia. Per ridare fiducia al Paese, è indispensabile una seria riforma socio/economica. Da noi, prima di tutto, hanno da essere rassicurati i cittadini. Quindi, c’è da auspicare un profilo politico che consenta una più ampia realtà operativa per chi ancora crede nel futuro nazionale.

 

 Di Promesse ne sono state fatte parecchie. Vedremo se saranno realizzate. La Prima Repubblica è crollata per effetto “mani pulite”. La Seconda è tramontata, magari con meno clamore, per l’apatia politica di una Maggioranza che, non a caso, s’è rivelata anche Opposizione. E’ inutile tergiversare. Altri nodi verranno al pettine.

 

 I nostri dubbi politici restano. Insomma, l’Italia può essere rappresentata in ogni parte del mondo. Chi conta sono gli italiani. A questo punto, riflettendo, poco rilievo ha questionare sul “sesso” degli angeli. Ciò che preme è da garantire, nel modo migliore, la sovranità popolare. Il passato, nel bene, come nel male, non ritorna e il futuro è tutto da costruire. Almeno, lo dovrebbe.

 

Basta, però, che non venga meno la volontà di migliorare. Ora, dovrebbe essere il Parlamento a dare al Paese un assetto politico praticabile. Per cambiare, bisogna avere idee chiare ed evitare il vittimismo che è alleato dei tempi “lunghi” e delle giustificazioni”brevi”. Del resto, non è ancora sicuro che tra le macerie della Prima e Seconda Repubblica non ci siano “mattoni” ancora utilizzabili per risistemare un nuovo modello politico nazionale. Del quale, però, si sente la necessità. Giorgio Brignola, de.it.press

 

 

 

 

 

 

Saarbrücken: ricordato il contributo dei connazionali

 

Saarbrücken. Sabato 20 settembre, il Centro VHS di Saarbrücken si è trasformato in un luogo di memoria, riconoscimento e visione del futuro. Con il titolo “Imparare dalla storia – da lavoratori ospiti a protagonisti della società nel Saarland”, il Comites Saar ha tenuto una cerimonia commemorativa in occasione del 70° anniversario dell’accordo bilaterale di reclutamento tra Germania e Italia. Il programma articolato, composto da una tavola rotonda, una mostra e una cerimonia di premiazione solenne, ha reso omaggio al contributo storico delle migranti e dei migranti italiani – mostrando come dalla privazione sia nata la partecipazione.

Al centro dell’evento c’è stata una tavola rotonda di alto livello con rappresentanti della politica, dei sindacati e della società civile. Insieme hanno ripercorso un’epoca in cui le lavoratrici e i lavoratori italiani giungevano nel Saarland in condizioni estremamente difficili – senza alloggio, senza corsi di lingua, senza strutture di accoglienza. Vivevano in baracche, guardati con sospetto, spesso emarginati. Nulla fu loro regalato. Eppure hanno saputo affermarsi, conquistare il proprio spazio e prendere in mano la propria vita: con lavoro instancabile, con cuore, con la ferma volontà di diventare parte integrante della società. Hanno fondato famiglie, si sono impegnati in associazioni e sindacati, hanno plasmato i quartieri – gettando così le basi per una comunità italo-saarlandese oggi ricca, solidale e profondamente radicata.

“Oggi siamo orgogliosi di ciò che è nato da tutto questo”, ha dichiarato Patrizio Nicola Maci, Presidente del Comites Saar. “Questa storia non è solo il nostro passato – è la nostra identità, la nostra responsabilità e il nostro futuro condiviso”.

“L’evento ha unito l’elaborazione storica a formati partecipativi e alla formazione culturale – ha commentato il Presidente del Comites, Patrizio Maci -. Le testimonianze dirette e i racconti personali del pubblico hanno reso evidente: la storia della migrazione italiana è una storia di coraggio, sradicamento e nuovi inizi – ma anche di integrazione, costruzione identitaria e solidarietà europea. I figli e i nipoti della prima generazione partecipano oggi attivamente alla vita sociale – bilingui, con due cuori nel petto. Questa doppia appartenenza non è una contraddizione, ma una ricchezza che mostra come dalla migrazione nasca la cittadinanza, e come dai percorsi individuali emerga una memoria collettiva che ci unisce tutti”.

L’iniziativa si inserisce in un progetto a lungo termine di comprensione e dialogo tra Italia e Germania, che non si limita a conservare la memoria, ma la rende viva. In stretta collaborazione con il DGB, la IG Metall, la VHS Saarbrücken e altri partner, si sta costruendo una rete articolata che integra le esperienze della prima generazione nel discorso pubblico. Attraverso interviste, formati educativi e eventi aperti, le storie di vita vengono rese visibili e portate nella quotidianità di scuole, associazioni e istituzioni. Nasce così uno spazio per il dialogo interculturale, per l’incontro tra generazioni e per una riflessione condivisa sull’appartenenza, la partecipazione e l’identità europea – non come concetti astratti, ma come realtà vissuta.

Il Comites Saar ha quindi voluto lanciare un segnale forte per la memoria, per il riconoscimento e per un futuro in cui la diversità non sia solo accettata, ma riconosciuta come fondamento di una società aperta e orientata al dialogo.

La comunità italiana incontra le istituzioni

Nella serata di mercoledì, 1 ottobre, si è svolto a Saarbrücken un incontro di grande rilievo, organizzato dal Comites su invito del suo Presidente, Patrizio Maci. L’iniziativa ha visto la partecipazione di autorevoli rappresentanti istituzionali italiani e di numerosi protagonisti della vita culturale, associativa ed economica del territorio.

Ospiti d’onore della serata sono stati l’Ambasciatore d’Italia a Berlino, Fabrizio Bucci, e il Console Generale d’Italia a Francoforte, Massimo Darchini, che hanno incontrato connazionali appartenenti sia alla prima ondata migratoria – quella degli anni ’50 e ’60 seguita al patto italo-tedesco sulla manodopera – sia alle nuove generazioni di italiani che oggi vivono, studiano e lavorano in Saarland, portando innovazione e contribuendo alla vita della società tedesca.

Tra le presenze di rilievo, l’eurodeputata tedesca di origini italiane Manuela Ripa, il conduttore radiofonico della storica trasmissione La mezz’ora italiana Pasquale Marino, già dipendente del Consolato, che ha ripercorso con intensità la storia dell’emigrazione italiana nella regione e che, proprio in questa occasione, ha ricevuto un premio dal Comites come riconoscimento del suo impegno per la comunità. Presente anche il Cavaliere della Repubblica Italiana, Giuseppe Nardi, imprenditore farmaceutico calabrese e co-proprietario della nota azienda tedesca Dr. Theiss Naturwaren. A rappresentare il mondo dell’arte, il ballerino italiano Gaetano Franzese, per anni protagonista al Teatro Statale di Saarbrücken.

Ha partecipato all’incontro anche il Consultore della Regione Calabria in Germania, Silvestro Parise, Presidente dell’associazione Kalabria Italiae Mundi e.V., che con il suo impegno testimonia la vivacità delle radici calabresi in Germania. Al tavolo degli ospiti figuravano anche il Presidente del Saarbrücken FC, Salvo Vitino, e numerosi rappresentanti di associazioni, enti e realtà locali. Nel Saarbrücken FC militano anche giocatori italiani, un segnale ulteriore della presenza attiva e apprezzata dei nostri connazionali nel mondo sportivo della regione.

Durante il suo intervento, l’Ambasciatore Bucci ha sostenuto che “le istituzioni italiane devono essere di strada, vicine agli italiani che vivono nei territori”, sottolineando il valore di momenti di incontro come quello di Saarbrucken. Parole ribadite anche dal Console Generale Darchini, che ha rimarcato la solidità dei rapporti tra Italia e Germania, non solo dal punto di vista economico – con l’Italia tra i primi partner commerciali della Germania – ma anche sul piano culturale, sociale e istituzionale.

L’incontro ha rappresentato non solo un’occasione di celebrazione dei 70 anni dal patto italo-tedesco sulla manodopera, ma anche un momento per guardare al futuro e rafforzare ulteriormente quel ponte tra i due Paesi che oggi è più vivo che mai. In questo contesto, è stata ricordata con particolare rilievo la prossima visita del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in Germania – la seconda nel giro di un anno – segnale forte della centralità di questo legame bilaterale.

La serata si è conclusa in un clima di unità e collaborazione: istituzioni, associazioni e cittadini italiani uniti dall’impegno di portare avanti i valori dell’italianità e di continuare a scrivere nuove pagine di amicizia tra Italia e Saarland. (s.pa. aise/dip 30/3.10.25) 

 

 

 

 

 

Cittadinanza italiana per i figli degli italiani all’estero

 

Un recente e più accurato chiarimento del D. Lgs n. 36/2025, che riforma i criteri di riconoscimento della cittadinanza italiana per i figli degli italiani all’estero, prevede la possibilità di chiedere la cittadinanza italiana per i figli nati all’estero da genitori che sono cittadini italiani per nascita, anche quando hanno altra cittadinanza al momento della nascita del figlio. Questa precisazione normativa è particolarmente rilevante per le famiglie della comunità italiana residente all’estero. Durante questi primi mesi dall’emanazione della legge, si era ritenuto che il possesso di una seconda cittadinanza potesse costituire un ostacolo al mantenimento o al riconoscimento di quella italiana. L’interpretazione chiarisce invece che il vincolo originario con l’Italia resta valido, purché almeno uno dei due genitori sia italiano per nascita.

Quello che di fatto cambia è il procedimento amministrativo di riconoscimento della cittadinanza per i figli nati all’estero di cittadini italiani per nascita che al momento della nascita del figlio detengono anche un’altra cittadinanza e non rientrano nelle eccezioni previste dalla normativa all’art. 1 comma 1: prima della nuova legge, si trattava di un mero atto di trascrizione della nascita effettuato dall’ufficiale di stato civile. Dopo la legge, per coloro che non soddisfano uno dei casi dell’art. 1 comma 1 ma sono cittadini italiani per nascita è ancora possibile trasmettere la cittadinanza italiana ai propri figli nati all’estero facendo una domanda di cittadinanza per beneficio di legge, secondo quanto previsto dall’art 1 bis e ter della nuova norma. Le ricerche e le analisi giuridiche che hanno portato a questa conclusione sono state condotte dal Consigliere del CGIE (Consiglio Generale degli Italiani all’Estero), Carmelo Vaccaro, di concerto l’On. Toni Ricciardi, con i Consiglieri del CGIE Svizzera e in collaborazione con l’avv. Alessandra Testaguzza. Si è trattato di un lavoro lungo, complesso e basato sul confronto con esperti del settore, volto a eliminare le incertezze interpretative della Legge.

Da un quesito inoltrato al MAECI la risposta qui di seguito è inequivocabile:

“Nel merito, tenuto conto che la normativa citata nella sua lettera riguarda segnatamente l’acquisto della cittadinanza dei minori per beneficio di legge ( articolo 1, commi 1-bis e 1-ter del decreto-legge n. 36/2025), Le segnalo che i requisiti che la normativa prevede per le istanze relative a tale fattispecie, sono la cittadinanza straniera o l’apolidia del minore, la cittadinanza per nascita del padre o della madre ( che deve essere posseduta, a prescindere dalla naturalizzazione) e la dichiarazione di volontà dell’acquisto di cittadinanza, resa dai genitori o dal tutore.” “La relativa domanda deve essere presentata al consolato di competenza, richiedendo il formulario e la documentazione da allegare, entro e non oltre il 31 maggio 2026.”

La Legge rimane comunque uno strappo inatteso e una negazione degli sforzi fatti dagli italiani emigrati, per quanto questo chiarimento ne contenga parzialmente gli effetti negativi e la delusione degli italiani di seconda e terza generazione, che fino al 1992 hanno dovuto affrontare procedure lunghe e incerte per vivere e lavorare all’estero senza perdere la cittadinanza italiana.  La novità riguarda dunque la possibilità, per i figli di cittadini italiani per nascita, di poter trasmettere ai propri figli la cittadinanza italiana anche se, per motivi di integrazione nel Paese di residenza, hanno acquisito successivamente un’altra nazionalità. Di seguito verranno illustrati i punti principali.

Acquisto della cittadinanza da parte del minore straniero nato all’estero 

Secondo la nuova norma, i genitori di un bambino nato all’estero possono chiedere la trascrizione della nascita all’ufficio di stato civile del consolato nei seguenti casi:

* se uno dei genitori o uno dei nonni piede esclusivamente la cittadinanza italiana al momento della nascita del bambino

* oppure se uno dei genitori ha avuto la residenza legale continuativa in Italia per almeno 2 anni dopo aver acquisito la cittadinanza italiana e prima della nascita (o adozione) del figlio.

Quando il bambino nato all’estero invece non rientra nei due casi sopra, può acquisire la cittadinanza mediante dichiarazione dei genitori (o tutore) se almeno uno dei genitori è cittadino italiano per nascita. In questo caso non serve che la cittadinanza italiana del genitore sia esclusiva.

In sede di conversione in legge del decreto-legge n. 36/2025, infatti, sono state introdotte le Disposizioni per favorire il recupero delle radici italiane degli oriundi e il conseguente acquisto della cittadinanza italiana.

L’Art. 1-bis prevede che il minore, straniero o apolide, del quale il padre o la madre sono cittadini per nascita, diviene cittadino se i genitori o il tutore dichiarano la volontà dell’acquisto della cittadinanza e la dichiarazione è presentata entro un anno dalla nascita del minore o dalla data successiva in cui è stabilita la filiazione, anche adottiva, da cittadino italiano.

(“Art 1-bis. Il minore straniero o apolide, del quale il padre o la madre sono cittadini per nascita, diviene cittadino se i genitori o il tutore dichiarano la volontà dell’acquisto della cittadinanza e ricorre uno dei seguenti requisiti: 

1. successivamente alla dichiarazione, il minore risiede legalmente per almeno due anni continuativi in Italia;

 la dichiarazione è presentata entro un anno dalla nascita del minore o dalla data successiva in cui è stabilita la filiazione, anche adottiva, da cittadino italiano. )

E’ stata inoltre prevista una norma transitoria (comma 1-ter dell’articolo 1 del decreto-legge n. 36/2025) per i minori di età alla data di entrata in vigore del decreto (che non avevano cioè compiuto i 18 anni al 24 maggio 2025) e che non avevano presentato la suddetta dichiarazione all’autorità consolare prima del 27 marzo 2025.

1-ter. ((Per i minorenni alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, figli di cittadini per nascita di cui all’articolo 3-bis, comma 1, lettere a), a-bis) e b), della legge 5 febbraio 1992, n. 91, la dichiarazione prevista dall’articolo 4, comma 1-bis, lettera b), della medesima legge può essere presentata entro le 23:59, ora di Roma, del 31 maggio 2026.))

 Quindi in tali casi il minore, straniero o apolide, del quale il padre o la madre sono cittadini per nascita, anche se possiedono altre cittadinanze, diviene cittadina/o se i genitori o il tutore dichiarano la volontà dell’acquisto della cittadinanza e la dichiarazione è presentata all’Ufficio consolare entro il 31 maggio 2026 per i bambini già nati prima dell’entrata in vigore della legge oppure entro un anno dalla nascita del bambino stesso.

Questo implica che la cittadinanza sarà riconosciuta da quando viene fatta la dichiarazione e non al momento della nascita.

I documenti richiesti per presentare la domanda e ottenere il riconoscimento.

– L’estratto dell’atto di nascita in originale in formato CIEC, ai fini della successiva trascrizione in Italia.

– Una copia dei documenti di identità e il certificato di residenza dei genitori e del minore.

– Di norma, lo status di cittadino per nascita del genitore risulta direttamente dalla documentazione già agli atti della sede consolare. Qualora ciò non fosse possibile, sarà necessario presentare anche un estratto per riassunto dell’atto di nascita del genitore, rilasciato dal Comune italiano di nascita o di trascrizione, e/o altra documentazione integrativa idonea ad accertarne la cittadinanza per nascita.

– In alcuni casi potrà essere richiesto anche l’estratto dell’atto di matrimonio dei genitori (se non ancora trascritto in Italia), oppure la dichiarazione di riconoscimento di paternità, nel caso di figli nati fuori dal vincolo matrimoniale.

Per maggiori informazioni, rivolgersi all’Ufficio cittadinanza del proprio Consolato di competenza. Carmelo Vaccaro, La Notizia di Ginevra/dip

 

 

 

 

 

Israele celebra l’anniversario del 7 ottobre

 

Israele commemora il secondo anniversario dell’attacco del 7 ottobre 2023, mentre Hamas e i negoziatori israeliani conducono colloqui indiretti per porre fine ai due anni di guerra a Gaza nell’ambito di un piano di pace proposto dagli Stati Uniti.

Due anni fa, alla fine della festa ebraica di Sukkot, i militanti guidati da Hamas hanno lanciato un attacco a sorpresa contro Israele, rendendolo il giorno più sanguinoso nella storia del Paese. I combattenti palestinesi hanno violato il confine tra Gaza e Israele, assaltando le comunità del sud di Israele e un festival musicale nel deserto con armi da fuoco, razzi e granate. L’attacco ha causato la morte di 1.219 persone sul fronte israeliano, per lo più civili, secondo un conteggio dell’AFP basato sui dati ufficiali israeliani. I militanti hanno anche rapito 251 ostaggi portandoli a Gaza, 47 dei quali rimangono prigionieri, tra cui 25 che secondo l’esercito israeliano sono morti.

Nella giornata di martedì 7 ottobre, in Israele sono state organizzate cerimonie commemorative per ricordare l’anniversario. Decine di parenti e amici delle vittime del festival musicale Nova hanno acceso candele e osservato un minuto di silenzio sul luogo dell’attacco nel sud di Israele, dove i militanti palestinesi hanno ucciso più di 370 persone e preso in ostaggio decine di altre.

Lunedì 6 ottobre molti israeliani si sono recati sul luogo dove si è svolto il festival Nova. “Quello che è successo qui è stato un evento molto difficile e grave”, ha dichiarato all’AFP Elad Gancz, un insegnante, mentre piangeva i morti. “Ma noi vogliamo vivere e, nonostante tutto, andare avanti con le nostre vite, ricordando coloro che erano qui e che, purtroppo, non sono più con noi”.

Un’altra cerimonia è prevista a Tel Aviv, in piazza degli Ostaggi, dove ogni settimana si tengono manifestazioni per chiedere il rilascio dei prigionieri.

Una commemorazione ufficiale organizzata dallo Stato è prevista per il 16 ottobre.

La campagna militare di rappresaglia di Israele a Gaza, per via aerea, terrestre e marittima, continua senza sosta, causando decine di migliaia di morti tra i palestinesi e vaste distruzioni. Il ministero della sanità gestito da Hamas afferma che almeno 67.160 persone sono state uccise, cifre che le Nazioni Unite considerano attendibili. I loro dati non distinguono tra civili e combattenti, ma indicano che oltre la metà dei morti sono donne e bambini.

Interi quartieri sono stati rasi al suolo, con case, ospedali, scuole e reti idriche in rovina. Centinaia di migliaia di abitanti di Gaza rimasti senza tetto sono ora rifugiati in campi sovraffollati e aree aperte con scarso accesso a cibo, acqua e servizi igienici. “Abbiamo perso tutto in questa guerra: le nostre case, i nostri familiari, i nostri amici, i nostri vicini”, ha detto Hanan Mohammed, 36 anni, sfollata dalla sua casa a Jabalia. “Non vedo l’ora che venga annunciato il cessate il fuoco e che questo spargimento di sangue e questa morte senza fine finiscano… non è rimasto altro che distruzione”.

Dopo due anni di conflitto, il 72% della popolazione israeliana si è dichiarato insoddisfatto della gestione della guerra da parte del governo, secondo un recente sondaggio dell’Istituto per gli studi sulla sicurezza nazionale.

Un compito titanico

Nel corso della guerra Israele ha ampliato la propria influenza militare, colpendo obiettivi in cinque capitali regionali, tra cui Teheran, e uccidendo diverse figure di spicco di Hamas e il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah.

Israele e Hamas devono ora affrontare una crescente pressione internazionale affinché pongano fine alla guerra, con un’indagine delle Nazioni Unite che il mese scorso ha accusato Israele di genocidio a Gaza e gruppi per i diritti umani che accusano Hamas di crimini di guerra nell’attacco del 7 ottobre. Entrambe le parti respingono le accuse.

La scorsa settimana, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha presentato un piano in 20 punti che chiede un cessate il fuoco immediato una volta che Hamas avrà rilasciato tutti gli ostaggi, il disarmo del gruppo e un graduale ritiro israeliano da Gaza.

I colloqui indiretti sono iniziati lunedì 6 ottobre nella località turistica egiziana di Sharm el-Sheikh, con i mediatori che fanno la spola tra le delegazioni sotto stretta sorveglianza. Al-Qahera News, legata ai servizi segreti egiziani, ha affermato che le discussioni si sono concentrate sulla “preparazione delle condizioni sul terreno” per uno scambio di ostaggi e prigionieri secondo il piano di Trump. Una fonte palestinese vicina ai negoziatori di Hamas ha affermato che i colloqui, avviati alla vigilia dell’anniversario del 7 ottobre, potrebbero durare diversi giorni.

Trump ha esortato i negoziatori ad “agire rapidamente” per porre fine alla guerra a Gaza, dove lunedì sono proseguiti gli attacchi israeliani. Il presidente degli Stati Uniti ha dichiarato a Newsmax TV: “Penso che siamo molto, molto vicini a un accordo… Credo che ora ci sia molta buona volontà. In realtà è piuttosto sorprendente”.

Sebbene entrambe le parti abbiano accolto con favore la proposta di Trump, raggiungere un accordo sui dettagli si preannuncia come un compito titanico. La guerra ha già visto due tregue che hanno permesso il rilascio di decine di ostaggi. Tuttavia, il capo dell’esercito israeliano, il tenente generale Eyal Zamir, ha avvertito che se questi negoziati dovessero fallire, l’esercito “tornerà a combattere” a Gaza. Di Jay Deshmukh e Chloe Rouveyrolles-Bazire, A. F.-P.

 

 

 

 

 

La fiducia

 

L’Italia avrebbe bisogno di un quadro istituzionale più responsabile; ma non solo di quello. Del resto, questo Governo, ovviamente, dovrà fare fronte a specifiche attribuzioni. Di fatto, però, gli eventuali errori resterebbero a carico del Popolo italiano. Non riusciamo, infatti, a scorgere vera coesione politica. Questo Esecutivo, che dovrebbe sostenere un nuovo assetto della Penisola, ha, ancora, da meglio qualificarsi. Del resto, il tempo non gli manca.

 

Intanto, se siamo in ambascia, la responsabilità di qualcuno sarà. Il tramonto del potere alla vecchia maniera preoccupa chi ritiene d’essere ancora politicamente utile. L’Italia dovrebbe disfarsi di tante “figure” che hanno fatto il loro tempo. Ritirarsi avrebbe ancora una sua dignità. Soprattutto se lo facesse per il bene nazionale. Oggi non ci sono punti di riferimento nel firmamento dei tanti, troppi, partiti italiani. Amministrare le leggi è sempre una grande responsabilità. Applicarle appare sempre complesso. Ma, per i problemi nazionali, non ci sono le premesse per garantire una razionale ripresa.

 

Se il Potere Legislativo continuerà a mantenere la “fiducia” a questo Esecutivo, il quadro nazionale potrebbe essere meno condizionato. Il 2026 potrebbe essere l’anno per una possibile presa d’atto politica rinnovata. Lo scacchiere del “sistema” resta, tuttavia, incerto e i nostri pronostici restano, tutti, da verificare. Anche perché la “fiducia”, una volta ottenuta, bisogna sapere conservarla.

Giorgio Brignola, de.it.press

 

 

 

 

 

Rapporto Immigrazione Caritas-Migrantes 2025. Giovani di origine straniera: si trasforma con loro l’Italia che spera

 

I giovani di origine straniera, nati o cresciuti in Italia, sono di fatto i protagonisti silenziosi della trasformazione del Paese. Non solo destinatari di interventi, ma generatori di speranza, portatori di identità plurali e di un futuro da costruire insieme. È il messaggio al centro della XXXIV edizione del “Rapporto Immigrazione”, realizzato da Caritas Italiana e Fondazione Migrantes, intitolato in quest’anno giubilare «Giovani, testimoni di speranza».

Il Rapporto

Il volume – 392 pagine, con la firma di 48 tra curatori e collaboratori – dopo la consueta premessa sul contesto internazionale, offre una rappresentazione della situazione degli immigrati residenti in Italia secondo 8 ambiti di vita quotidiana: cittadinanza, economia, scuola, sanità, disagio sociale, sport, comunicazione e appartenenza religiosa. La sfida raccolta dal Rapporto è quella di provare a fare dei tanti volti della mobilità il volto composito di un Paese.

I numeri dell’immigrazione in Italia e nel mondo.

In Italia, gli stranieri regolarmente residenti sono oltre 5,4 milioni, pari al 9,2% della popolazione. Nel 2024, più del 21% dei nuovi nati ha almeno un genitore straniero. I principali Paesi di origine dei cittadini stranieri in Italia restano i medesimi, ma negli ultimi anni si osserva una crescita significativa di nuovi arrivi dal Perù e Bangladesh. Tutto questo si registra in un contesto globale in cui, nel 2025, nel mondo si contano 304 milioni di migranti internazionali, il doppio rispetto al 1990, e oltre 123 milioni di profughi e sfollati.

Giovani di origine straniera: potenziali protagonisti della trasformazione del Paese

Il Rapporto 2025 pone al centro i giovani con background migratorio, che rappresentano una risorsa vitale per la società italiana. Molti di loro affrontano difficoltà nel riconoscimento e nella partecipazione, ma la loro esperienza è una narrazione vivente di speranza e cambiamento. «Dare loro spazio – sottolineano Caritas Italiana e Fondazione Migrantes nell’introduzione al volume – non è un favore, ma un investimento per il futuro dell’Italia, che si costruisce anche – e soprattutto – con chi ha il coraggio di sognarlo, da dentro e da fuori».

Lavoro, casa e povertà: le sfide dell’inclusione

Nel 2024 gli occupati in Italia sono 24 milioni, di cui oltre 2,5 milioni stranieri (10,5%). Crescono i rapporti di lavoro attivati con cittadini stranieri (+5,8% in un anno), ma persistono disuguaglianze e sfruttamento, soprattutto nel settore agricolo e in quello dei servizi.

Le difficoltà abitative restano un nodo cruciale: l’indagine Caritas-Migrantes evidenzia forti discriminazioni e barriere di accesso alla casa per le famiglie straniere. Sul fronte economico, mentre l’incidenza della povertà tra i cittadini italiani si attesta al 7,4%, tra gli stranieri raggiunge il 35,1% (sono 1.727.000 i cittadini stranieri in condizione di povertà assoluta).

«Investire in strategie di inclusione e in percorsi legali – ha detto nel suo intervento S.E. mons. Carlo Maria Redaelli, arcivescovo metropolita di Gorizia e presidente di Caritas Italiana – non è un favore, ma un atto di responsabilità verso il futuro delle nostre comunità e di quelle che arrivano: si può e si deve fare meglio di quanto fatto finora».

Scuola, sport e religione: spazi di cittadinanza e futuro

Nell’anno scolastico 2023/2024 si registra la presenza di oltre 900 mila alunni con cittadinanza non italiana, con un’incidenza pari all’11,5%, segno di una società sempre più multiculturale. Lo sport si conferma terreno fertile di inclusione e cittadinanza attiva: tuttavia, solo il 35% delle ragazze straniere pratica attività sportiva, contro il 62% delle coetanee italiane, e merita attenzione il fenomeno dello sport trafficking. Sul piano della appartenenza religiosa, tassello fondamentale nella comprensione del senso di partecipazione alla comunità, si stima che all’inizio del 2025 il totale dei cristiani superi ancora la maggioranza assoluta degli stranieri residenti in Italia, raggiungendo il 51,7%, seppure in netto calo rispetto al 53,0% stimato per il 2024. «Il Rapporto conferma – ha detto il direttore generale della Fondazione Migrantes, mons. Pierpaolo Felicolo – che dopo la prima accoglienza è fondamentale l’accompagnamento costante a una esistenza dignitosa e alla partecipazione diretta alla vita del Paese. Diamo meno spazio a ciò che facciamo e diciamo noi per loro, e più alla voce, alla testimonianza e allo sguardo sul Paese dei cittadini immigrati».

Baturi (CEI): «Una trasformazione silenziosa, ma radicale»

L’Italia vive una trasformazione – afferma il segretario generale della Conferenza episcopale italiana, S.E. mons. Giuseppe Baturi, nella sua Prefazione al volume –, che passa attraverso i volti, le storie e i sogni di giovani ragazze e ragazzi che «frequentano le stesse scuole dei loro coetanei italiani, parlano i dialetti locali, tifano per le squadre del cuore, ma spesso continuano a sentirsi – e a essere percepiti – come “ospiti permanenti”, non pienamente parte della comunità». In questo senso «le comunità cristiane in Italia hanno oggi la possibilità di essere laboratori privilegiati di convivenza, luoghi in cui si sperimenta in piccolo ciò che il Paese intero fatica a realizzare». Nella situazione fotografata dal Rapporto, scrive mons. Baturi, la cittadinanza si conferma uno dei «passaggi sempre più indispensabili». Migrantes on.14

 

 

 

 

 

I lavori del Comitato di Presidenza del Cgie

 

Roma – Si sono conclusi alla Farnesina i lavori del Comitato di Presidenza del Cgie. I risultati di questa settimana, ricca di incontri e di impegni, sono stati illustrati alla stampa dalla Segretaria Generale del Cgie Maria Chiara Prodi e dagli altri componenti del Comitato di Presidenza. “Il tema degli italiani all’estero – ha esordito Prodi – non può essere confinato, abbiamo bisogno che tutto il Paese riesca a comprendere, sia la necessità di mantenere un rapporto con le comunità all’estero, con i dovuti investimenti, sia la miniera d’oro che sono italiani all’estero, una realtà disponibile ad aiutare la crescita del nostro paese”. “In questa settimana – ha proseguito la Segretaria Generale – ci siamo concentrati sugli incontri con le Commissioni in  Parlamento, ma abbiamo anche firmato un accordo interistituzionale con il CNEL e scritto a tutte le regioni, per intrattenere un rapporto più ordinario. Stiamo cioè facendo un lavoro sistematico per fare in modo che lo sguardo verso gli italiani all’estero cambi grazie al nostro lavoro di rappresentanza, in fondo è questo che ci viene chiesto”. Prodi ha poi rilevato come il Cgie stia lavorando su specifiche tematiche: promozione della lingua e cultura,  insegnamento della storia dell’emigrazione e riforma del Consiglio Generale. Un punto, quest’ultimo, su cui si tornerà a dicembre anche in considerazione del fatto che il 2026 sarà l’anno che festeggerà i quarant’anni dall’insediamento dei Comites, ricordando quanto è stato ottenuto negli anni passati, come ad esempio la creazione dello stesso Cgie e della circoscrizione Estero.   “Abbiamo avuto in questi giorni la conferma  – ha poi aggiunto la Segretaria Generale –  che gli italiani all’estero iscritti all’AIRE sono ad oggi 7 milioni 300mila, è un dato impressionante e soprattutto per la velocità con cui questo numero aumenta. Noi siamo convinti che di fronte a queste cifre l’unica risposta possibile sia un lavoro congiunto con le istituzioni, al fronte a tutte le problematiche che questa realtà comporta”.  Prodi ha poi ricordato sia l’accordo siglato con il Cnel, che darà al Cgie strumenti nuovi, sia la necessità convocare la Conferenza Stato, Regioni, Province autonome e Cgie, che ha una programmazione triennale, nonché l’esigenza di fornire al Consiglio Generale risorse adeguate per il suo funzionamento dettato dalla legge istitutiva. La Segretaria Generale ha anche rilevato che il Cgie parteciperà al lavoro portato avanti dalla Farnesina per la  nascita di una comunità sull’italofonia, in quanto “non ci può essere una comunità dell’italofonia senza le comunità degli italiani all’estero”  “Nei prossimi mesi – ha sottolineato Prodi – continueremo ad insistere per avere attenzione sulle modifiche della legge sulla cittadinanza, la più urgente è ovviamente la richiesta di proroga sui termini della prescrizione dei minori, termine che per ora è definito al 31 maggio del 2026”. Dopo aver ricordato l’importanza dei pareri obbligatori ma non vincolanti espressi dal Cgie, la Segretaria Generale ha sottolineato come, mentre l’Europa vede nella nostra forma di rappresentanza uno strumento innovativo di contatto con le diaspore, “si stia lavorando per celebrare i settant’anni di Marcinelle, la tragedia dell’8 agosto del 2026, non solo come l’immagine della sacrificio italiano nel mondo, ma anche come luogo che ha dato l’impulso alla nascita dell’Unione Europea attraverso il lavoro”.

Ha poi preso la parola la Vice Segretaria Generale per i Paesi Anglofoni extraeuropei Silvana Mangione che ha sottolineato la necessità di portare avanti adeguati investimenti per la promozione dell’italofonia, sottolineando come in Paesi di lingua non romanza i figli della nuova emigrazione ,quando giungono all’asilo o alla scuola, si allontanino dall’italiano, preferendo la lingua locale. “Per quanto riguarda gli Stati Uniti una delle cose che ci preoccupano –  ha poi rilevato Mangione – sono l’applicazione dei dazi e la delocalizzazione delle imprese italiane, perché questa potrebbe portare a delle conseguenze e cioè che venga considerato come prodotto Made in italy, qualcosa che in realtà sia prodotto altrove, laddove le maestranze siano totalmente locali. Quindi ci si troverebbe di fronte ad una imperfezione nel portare avanti lo stile inconfondibile della produzione italiana”. Segnalata dalla Vice Segretaria Generale anche la totale mancanza di presenza nella rappresentanza sia dell’Africa, sia dell’Asia, un continente, quest’ultimo, dove stanno crescendo micro comunità italiane.  A seguire è intervenuto il Vice Segretario per l’Europa e l’Africa del Nord Giuseppe Stabile che si è soffermato sull’esigenza di potenziare le politiche economiche e fiscali miranti al rientro dei nostri connazionali in patria. Per Stabile bisogna far sapere agli italiani all’estero che sono state emanate dall’Italia varie misure specifiche per favorire il rientro in Italia. “ Il problema – ha spiegato Stabile – è che fino ad oggi non c’è stato un interlocutore unico che raccogliesse tutte quelle misure poste in essere dalle varie articolazioni dello Stato. Vi sono i comuni, le regioni, i vari ministeri interessati e così le varie iniziative si disperdono.  Noi abbiano pensato di raccogliere tutte queste misure e di renderle conoscibili in maniera capillare anche all’estero”. In partica un’iniziativa informativa che coinvolga le componenti del nostro sistema Paese nel mondo, come i consolati , le ambasciate, le camere di commercio, le associazioni e i Comites. Stabile ha anche precisato che tutte le proposte volte a migliorare il sistema delle politiche economiche e fiscali atte a incentivare il rientro sono a costo zero.

Da segnalare anche l’intervento del componente del CdP per l’Europa e l’Africa del Nord Tommaso Conte che ha rilevato come il decreto legge approvato quest’anno vada ad incidere negativamente sulla possibilità di trasmettere la cittadinanza da parte dei possessori di doppia cittadinanza. Una fattispecie che in Europa è molto diffusa. Conte ha inoltre rilevato le difficoltà incontrate dagli Enti Gestori che in Germania si stanno riducendo di numero. Alla luce di ciò per il consigliere si corre il rischio che rimangano senza corsi di lingua italiana aree dove la presenza delle comunità italiane è ancora numerosa e dinamica, con molti nuovi arrivi ogni anno. Anche il Vice Segretario Generale per l’America Latina Mariano Gazzola ha parlato del problema della doppia cittadinanza, sottolineando come con la nuova legge sulla cittadinanza rischi di aumentare ulteriormente l’uso delle vie legali. Gazzola ha anche rilevato come dal decreto flussi siano esclusi oriundi italiani provenienti da alcuni paesi. Una interpretazione che, per Gazzola, andrebbe ampliata aumentando il numero dei paesi di provenienza. Dal canto suo il Vice Segretario Generale di Nomina governativa Gianluca Lodetti ha sottolineato come grazie all’accordo con il Cnel, un ente molto propositivo in campo normativo, il Consiglio Generale voglia sviluppare anche propria la possibilità di proposta legislativa verso il Governo. “Vi sono vari ambiti – ha poi spiegato Lodetti – nei quali abbiamo ritenuto importante lavorare con il Cnel. Il primo è quello della crescita economica del sistema paese, quindi la valorizzazione del contributo delle collettività all’estero, ma vi è anche il problema della tutela dei lavoratori italiani all’estero, le politiche di rientro e di incentivazione. Vi è poi la politica studentesca e universitaria con la necessita a creare quella mobilità circolare che facciamo difficoltà a portare avanti, nonché la diffusione della lingua italiana, la ricerca scientifica e l’innovazione, con la valorizzazione dei ricercatori italiani all’estero. Infine la partecipazione e l’associazionismo all’estero”.  Lodetti ha anche evidenziato l’esigenza di una informazione strutturata e sistematica per gli italiani all’estero, ad esempio sulla cittadinanza e gli incentivo di rientro.  “L’insegnamento della storia dell’emigrazione – ha infine rilevato Lodetti – non ha solo un intento educativo per identificare il percorso dell’emigrazione italiana, ma ha anche quello di insegnare ai nostri figli quello che è stato il percorso migratorio, affinché loro abbiano gli strumenti per comprendere i processi migratori del mondo e sentire vicina una diaspora che fino ad oggi è stata vista come lontana”. A seguire l’intervento di Walter Petruziello, componente del CdP per l’America Latina, che ha evidenziato il costante lavoro svolto dal Comitato di Presidenza sulla questione della nuova legge di cittadinanza e la necessità di una proroga per il termine di registrazione dei minori all’estero nati prima dell’entrata in vigore di questa norma.  A infine preso la parola il componente di nomina governativa del CdP Ricardo Merlo che ha criticato la nuova legge sulla cittadinanza, auspicando un cambiamento della norma, anche alla luce del prossimo pronunciamento della Corte Costituzionale. (G.M.- Inform/dip)

 

 

 

 

 

La coerenza

 

Fare una considerazione sull’attuale politica italiana,pure se inserita a livello UE, sarebbe ostinarsi su un ingannevole problema. Quindi, ci sembra più opportuno tralasciare i suoi molteplici seguiti. Intanto, vedremo quali nuovi accorgimenti saprà propinarci questo Esecutivo di Centro/Destra. Non a caso, ma con nostro stupore, già ci si riferisce di un “terzo polo” di centro che dovrebbe compattare gli incerti e delusi dell’area mediana del nostro Parlamento. Se si volesse realmente voltare pagina, la “Vecchia Guardia” non dovrebbe essere mobilitata. Basta con le garanzie per affrontare una nuova via. La nostra politica sa di vecchio. Anche per gli aspiranti Parlamentari ci dovrebbe essere un limite d’età per partecipare, come candidati, alle elezioni.

 

 Sotto questo profilo, gli ultimi anni della Repubblica, non sono stati dissimili da quelli che potrebbero ripresentarsi. L’onestà politica è l’unico parametro che realmente dovrebbe contare; anche per il futuro. Se si troverà un “accordo”, serio, il Parlamento dovrebbe assumersi il compito di concretare quelle premesse che dovrebbero traghettare l’Italia dal “passato” al “futuro”. Con più logicità e meno parole e compromessi. Il tutto senza compromessi.

 

 Pur con questi presupposti, non siamo però nelle condizioni d’assicurare atteggiamenti che incoraggino le nostre tesi. L’arcano da sbrogliare è, e rimane, quello della tenuta politica non solo di “facciata”. Non siamo nuovi a queste considerazioni, ma i risultati, nostro malgrado, ci hanno dato, purtroppo, sempre ragione. Anche se, per coerenza, avremmo voluto non averla.

Giorgio Brignola, de.it.press

 

 

 

 

 

Il muro nel Mediterraneo

 

C’è un muro nel Mediterraneo. Invisibile, eppure invalicabile. Non è fatto di cemento, ma di paure, diseguaglianze e silenzi. Divide il Nord dal Sud, l’Europa dall’Africa, il benessere dalla miseria, la speranza dalla disperazione. È il muro che impedisce ai popoli delle due sponde di riconoscersi ancora parte di una stessa storia.

Un tempo, quel mare era il grande ponte tra le civiltà. Da una costa all’altra viaggiavano idee, merci, religioni, conoscenze. Il Mediterraneo era la culla del dialogo e dell’incontro. Oggi è diventato il teatro di una frattura profonda, il confine più sorvegliato del pianeta. Migliaia di persone ogni anno cercano di attraversarlo e non tornano più. Non c’è bisogno di muri visibili quando il mare stesso è diventato un confine mortale.

Questo muro non nasce solo dalla politica, ma da un atteggiamento collettivo: l’indifferenza. Abbiamo imparato a convivere con le tragedie quotidiane del mare nostrum come se fossero un fenomeno naturale, inevitabile. Abbiamo costruito un linguaggio che disumanizza: “flussi”, “sbarchi”, “quote”, come se parlassimo di numeri e non di persone. È questa la vera barriera: quella che separa la nostra coscienza dalla realtà.

Eppure, il Mediterraneo non è soltanto dolore. È ancora il luogo dove il dialogo può rinascere. Ci sono porti che accolgono, città che cooperano, scuole e università che costruiscono scambi culturali tra giovani del Nord e del Sud. Ci sono artisti, scienziati e cittadini che vedono nel mare non una linea di separazione, ma un orizzonte comune.

La sfida è ricostruire il Mediterraneo come spazio di incontro. Non serve abbattere un muro di pietra, ma aprire un varco nei cuori e nelle politiche. Serve una visione nuova, capace di vedere nell’altro non un pericolo ma una risorsa, non un estraneo ma un vicino.

Quel muro invisibile potrà cadere, se torneremo a considerare il Mediterraneo per ciò che è sempre stato: una casa condivisa da popoli diversi, un mare di vita e di speranza.

Il giorno in cui guarderemo di nuovo l’altra sponda come parte di noi, il Mediterraneo tornerà a unire. E quel muro, lentamente, scomparirà.

Giuseppe Tizza, de.it.press 5

 

 

 

 

 

Da “clandestini” a cittadini. La lunga strada in salita

 

Sempre più Md. (Mohammad) e Inaya, mentre Amira e Laurentiu cedono il passo a Sofia e Matteo. È nelle storie e nei volti dei cittadini stranieri in Italia che emerge con più evidenza il cambiamento intercorso nelle caratteristiche nell’immigrazione nell’ultimo quarto di secolo. Da un lato, la conferma di alcuni scenari storici, come la forte presenza numerica di cittadine e cittadini romeni (oltre 1 milione nel 2024, in maggioranza donne) e albanesi (400 mila); dall’altro, il lento, graduale ma sostanziale cambiamento nella loro partecipazione al contesto italiano.

Questa si evidenzia non soltanto nel crescente radicamento socio-economico sul territorio, ma anche nel sentimento di inclusione culturale del quale – come metteva in luce l’Istat nel 2023 – una scelta di nomi per i nuovi nati e nate del tutto comune a quella dei cittadini italiani autoctoni è soltanto uno dei tratti più emblematici; infine, il delinearsi di nuove, consistenti, dinamiche di mobilità, come l’aumento degli ingressi dal Bangladesh, che negli ultimi anni ha condotto l’Italia a essere una delle mete europee privilegiate per gli emigranti di tale nazionalità, insieme al Regno Unito (cfr. lo studio di Morad-Sacchetto pubblicato per l’Organizzazione internazionale per le migrazioni nel 2020).

Guardare agli ultimi 25 anni dell’immigrazione in Italia non è soltanto un esercizio simbolico: alla fine degli anni Novanta il numero di cittadini stranieri residenti superava la soglia storica del primo milione, oggi quintuplicata. Un cambiamento di scenario che ha coinvolto tanto la composizione dei flussi e le ragioni delle partenze quanto le nazionalità di provenienza, insieme allo stile di presenza sui territori e all’atteggiamento della società e della politica.

Al volgere del secondo millennio, gli stranieri residenti in Italia si stimavano essere poco meno di un milione e mezzo (2,5% della popolazione totale), prevalentemente di sesso maschile e di età compresa fra i 19 e i 40 anni. Le nazionalità più rappresentate erano quella marocchina (146 mila persone), albanese (115 mila) e filippina (61 mila), mentre si assisteva già a una contrazione dell’immigrazione dall’Asia e dal continente americano, in special modo settentrionale, a fronte di un aumento degli arrivi dall’Europa dell’ex blocco sovietico (Jugoslavia, con 55 mila presenze, e Romania, con poco più di 51 mila).

A leggerla oggi, colpisce la sesta posizione per numerosità dei cittadini statunitensi (47 mila) e la decima dei tedeschi (35 mila), segno di un’immigrazione di differente tipologia, contesto e storia, che progressivamente è stata soppiantata dai nuovi flussi in ingresso, sostenuti anche dalla crescente economia informale italiana, di lavoratori impiegati per lo più nell’agricoltura, nell’edilizia e nel lavoro domestico.

25 anni dopo la situazione è molto cambiata. La presenza di oltre 1 milione di cittadini romeni – comunitari – regolarmente residenti in Italia dice di una crescita dal ritmo incalzante, almeno nei primi anni Duemila, che ha condotto il totale dei cittadini stranieri in Italia a superare oggi i 5,2 milioni (poco meno del 9% della popolazione complessiva). Numericamente più arretrati, ma non meno consistenti nell’aumento delle presenze, sono anche le comunità albanese (416 mila) e marocchina (412 mila), seguite da quelle cinese (308 mila) e ucraina (273 mila). Significativa è però soprattutto la definizione di nuove direttrici migratorie dal Sudest asiatico – Bangladesh (192 mila), India (171 mila) e Pakistan (159 mila), su tutti – segno dei nuovi caratteri dell’immigrazione.

Al cambiare della mobilità umana, è cambiata infatti l’Italia. Se l’ultimo decennio degli anni Novanta ha coinciso con la presa di coscienza – sociale, politica ed ecclesiale – della nuova mobilità che coinvolgeva la Penisola, non più soltanto in uscita, all’inizio del nuovo millennio la crescita della popolazione straniera in Italia si accompagnava a un inasprimento della crisi economica globale e alla paura della cosiddetta “invasione”.

L’approccio securitario ai fenomeni migratori ha polarizzato il campo politico e, con esso, il dibattito sociale. L’attenzione mediatica su Lampedusa e, emblematicamente, sugli “sbarchi” di migranti dopo le traversate del Mediterraneo centrale ha sostenuto la narrazione di un “loro” contrapposto a un “noi”, suggerendo aspirazioni divergenti e interessi contrapposti.

Gli ingenti movimenti migratori originati dalle numerose crisi internazionali, a partire dalle Primavere arabe fino ai tragici conflitti in area mediorientale, hanno scosso le coscienze, insieme alle frequenti tragedie in mare, su tutte la morte di quasi 400 persone al largo di Lampedusa il 3 ottobre 2013. D’altro canto, si è trattato di un’empatia di breve durata, che ha attraversato rapidamente le maglie larghe dell’indifferenza mediatica, politica e sociale.

In pochi anni la strumentalizzazione elettorale, sostenuta da una narrazione mediatica troppo spesso miope, hanno fatto dei “clandestini” il capro espiatorio delle inquietudini, delle contraddizioni e delle ineguaglianze della società italiana, europea e mondiale. Il risultato è stato un progressivo disinvestimento nelle politiche a sostegno dell’inclusione dei cittadini stranieri, a favore di presunte soluzioni di chiusura.

L’approccio nazionale alla mobilità umana in ingresso è divenuto sempre più un riflesso delle politiche europee, orientate al contenimento dei flussi più che a un lungimirante programma di gestione strutturale del fenomeno, che promuova vie legali di ingresso, accoglienza e inclusione.

A farne le spese sono anzitutto i minori stranieri, inseriti in un sistema di accoglienza e poi in un sistema scolastico spesso tutt’altro che attenti alle loro esigenze; i lavoratori immigrati, ostaggio di contesti produttivi che sovente li sfruttano, fino a casi estremi di riduzione in schiavitù; i cittadini stranieri che, pur vivendo e lavorando da molti anni in Italia, faticano a regolarizzare la propria presenza a causa di un sistema normativo irrealistico; i milioni di giovani con background migratorio nati in Italia, che vedono disattese le speranze e le opportunità di una piena partecipazione civile, anche attraverso la cittadinanza.

Fra il Grande Giubileo del 2000, il primo «per tutte le culture», come qualcuno allora lo ha definito, e l’Anno Santo che stiamo vivendo accanto ai «migranti, missionari di speranza», è avvenuta una metamorfosi che sotto lo stimolo della mobilità umana ha rimodellato la società, l’economia, la politica, la scuola, le famiglie, la cultura, il tessuto urbano e il panorama religioso della Penisola.

Un volto multiculturale nuovo e insieme antico, che sarà tanto più valorizzato quanto l’Italia saprà rafforzare i canali legali per l’ingresso dei lavoratori e i ricongiungimenti familiari; snellire una burocrazia che genera esclusione, irregolarità e abusi; promuovere programmi di inclusione a livello nazionale e locale; cooperare con l’Unione europea per una politica migratoria condivisa, che sappia fare dei tanti volti della mobilità il volto composito di un continente in cammino.  (Simone Varisco | Migranti Press 7/8 2025)

 

 

 

 

 

Camera. Andrea Riccardi sui Comitati della Dante

 

Roma – Ha avuto luogo, presso la Commissione Affari Esteri della Camera, l’audizione del Presidente della Società Dante Alighieri Andrea Riccardi. Si è parlato delle attività svolte e sulle iniziative avviate dalla Dante per la promozione della lingua e della cultura italiana nel mondo. Nel suo intervento Riccardi ha ricordato come la Dante Alighieri sia stata istituita alla fine dell’800 su impulso di Giosuè Carducci, con lo scopo di promuovere la diffusione della lingua italiana all’estero soprattutto tra gli emigranti. Ad oggi i comitati nel mondo sono oltre 400 e la Dante è presente in 80 Paesi: solo in Argentina ci sono 80 Comitati su un totale di 120 nell’intera America Latina. Riccardi ha anche segnalato le difficoltà affrontate dalla Dante negli anni passati sia per quanto riguarda la sede centrale di Roma che i diversi comitati sparsi fuori dall’Italia. “La rete dei Comitati era ed è la ricchezza della Dante e si basa sui principi di rappresentatività democratica”, ha rilevato il Presidente definendo importante questa autonomia periferica ma anche la capacità di tessitura della sede centrale. Per quanto riguarda i soci della Dante, è stato evidenziato che nella maggior parte dei casi si tratta di persone di origine italiana o comunque simpatizzanti della nostra lingua e cultura. Riccardi ha anche parlato degli importanti investimenti sulla lingua fatti da vari Paesi: ad esempio nella vicina Spagna solo la ‘corona’ versa al Cervantes 70 milioni annui, risorse superiori a quanto impegnato dall’Italia. Il Presidente ha poi sottolineato come in questi anni si sia lavorato per rafforzare i Comitati all’estero e portare avanti la formazione ai docenti. La Dante ha anche sviluppato la piattaforma online Dante Lab per l’apprendimento dell’italiano a distanza. Ci sono poi le scuole italiane nel mondo e una di queste, sulle quali si sta investendo molto, è quella di Tirana. “Nel secondo Paese italofono nel mondo non esisteva l’insegnamento della lingua italiana”, ha precisato Riccardi spiegando così l’impegno su Tirana dove in passato questa materia era presente solo in ambito accademico. Tuttavia il centro nevralgico dell’insegnamento dell’italiano nel mondo resta l’America Latina con i suoi 26 istituti scolastici. In proposito Riccardi ha segnalato la chiusura di alcune scuole di italiano, come ad esempio quella in Eritrea, Ad Asmara vi era infatti una delle scuole italiane più antiche. Un luogo dove l’insegnamento dell’italiano, ha spiegato il Presidente, è stato recentemente e almeno in parte ripristinato presso la Casa degli Italiani: il tutto è stato possibile recuperando parte del corpo docente della soppressa scuola italiana. Riccardi ha poi rilevato come in generale la Dante Alighieri sia orientata a valorizzare le ragioni che portano all’avvicinamento all’italiano passando “da nostalgia a simpatia”. Il Presidente ha anche ricordato che il prossimo 19 novembre si terrà a Roma un meeting dedicato all’italofonia. Svizzera, Albania, San Marino e America Latina: questi i Paesi menzionati da Riccardi per evidenziare come l’italiano sia parlato e diffuso anche al di fuori dei confini nazionali pur non essendo allo stesso livello di diffusione di altre lingue europee come inglese o spagnolo. La lingua resta comunque un tassello importante per veicolare anche elementi associati alla cultura in senso più ampio fino ad arrivare all’export o al turismo. Ha poi preso la parola il deputato del Pd Fabio Porta, eletto nella ripartizione America Meridionale, che ha criticato la nuova legge sulla cittadinanza sottolineando come l’inserimento nella norma della conoscenza della lingua italiana avrebbe sicuramente aiutato a sviluppare risorse straordinarie. Il deputato ha poi elogiato quanto fatto dalla Dante in alcuni Paesi del Sudamerica o in Australia. Porta ha inoltre spiegato come molto spesso la domanda di italiano nel mondo provenga dai discendenti dei nostri connazionali all’estero storici e debba essere anche supportata da politiche pubbliche. Il deputato ha poi segnalato l’importanza di formare linguisticamente e professionalmente i flussi di manodopera verso l’Italia a partire dalle nostre comunità di italo discendenti.  Il deputato del Pd Christian Di Sanzo, eletto America Settentrionale e Centrale), ha chiesto quanto sia l’ammontare di finanziamenti attuali per la Dante, anche in previsione dell’avvicinarsi della legge di bilancio. In sede di replica Riccardi ha rilevato che si sta lavorando ad una proposta volta a creare un Albo dei docenti di lingua italiana. Sulle questione dell’acquisto della cittadinanza e per l’inserimento in Italia dei lavoratori provenienti dalle nostre comunità all’estero e da altri Paesi il Presidente ha auspicato un modello basato sull’apprendimento dell’italiano con il supporto, ove necessario,  di un mediatore culturale. Riccardi ha anche parlato di un insegnamento basico dell’italiano per coloro che vengono dall’africa. Il Presidente si è infine soffermato sulle risorse a disposizione della Dante: vi sono finanziamenti pubblici, con l’ammontare di 11 milioni nel 2024 e uno stanziamento che risulterebbe confermato nella proiezione per il 2025; i proventi delle tasse pagate per ottenere il PLIDA (il certificato di competenza della lingua italiana); e poi gli incassi delle diverse scuole. (Inform/dip 5.10)

 

 

 

 

 

 

“Voci d’Italofonia” alla XXV Settimana della lingua italiana nel mondo

 

Nell'ambito della XXV Settimana della Lingua Italiana nel Mondo, principale evento istituzionale dedicato alla promozione della lingua, il Consiglio Generale degli Italiani all'Estero (CGIE), in collaborazione con la Società Dante Alighieri del Venezuela e l'Istituto Italiano di Cultura di Caracas, presenta il progetto audiovisivo “Voci d'Italofonia”: Una celebrazione giovanile della lingua italiana in Venezuela, un'iniziativa volta a coglierne lo spirito globale, in collaborazione con il COM.it.ES di Caracas, Oriente e Occidente.

La venticinquesima edizione, organizzata dalla rete culturale e diplomatica del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI), si terrà dal 13 al 19 ottobre 2025, con il tema “Italofonia: lingua oltre i confini”. La Settimana della Lingua Italiana nel Mondo, che riunisce istituzioni e società civile, costituisce uno spazio privilegiato per riflettere sul ruolo della cultura italiana all'estero. Si configura inoltre come una piattaforma strategica in vista della Prima Conferenza Internazionale delle Lingue Italiane, che si terrà a Roma il 19 novembre 2025.

L'italiano: un ponte globale e uno strumento di crescita

Il tema di quest'anno si concentra sulla diffusione globale dell'italiano, cercando di evidenziare la sua capacità di superare i confini geografici e affermarsi come lingua della cultura, dell'arte, della scienza e del pensiero. Questo concetto, ispirato all'eredità di Dante Alighieri, parte da una realtà: l'italiano ha smesso di essere solo una lingua di tradizione orale per affermarsi come lingua contemporanea e dinamica.

In questo contesto, l'italofonia definisce l'insieme dei paesi, delle comunità e delle persone che parlano italiano o lo mantengono come parte della loro identità culturale, sia per eredità, migrazione o affinità. Non si limita a un territorio, ma costituisce una rete globale in cui la lingua funge da ponte tra generazioni e culture. L'italofonia esprime l'espansione dell'italiano oltre i confini nazionali e la sua capacità di adattarsi a nuovi contesti, riflettendo una lingua che evolve senza perdere la sua essenza.

Come ha affermato il consigliere del CGIE per il Venezuela, Antonio Iachini: "L'italiano è il ponte più solido tra la nostra eredità e il prossimo obiettivo globale. Dando voce a questa nuova generazione attraverso questa proposta, il CGIE celebra il fatto che la nostra identità non è un ricordo, ma una risorsa per conquistare il futuro.

Come ha affermato Andrea Riccardi, presidente della Società Dante Alighieri: «Esiste una comunità più grande della penisola che ama e parla italiano». Questa consapevolezza globale dimostra che l'italofonia è un potente strumento strategico per la diplomazia della crescita, obiettivo chiave del MAECI.

A questo proposito, Mariano Palazzo, presidente della Società Dante Alighieri del Venezuela, ha sottolineato il ruolo dei giovani in questo fenomeno globale: «Italsimpatia si è evoluta da un affetto latente a un'espressione attiva. I nostri giovani, attraverso questa proposta, stanno utilizzando l'italiano non solo per preservare un'eredità, ma anche per creare arte, umorismo e connessione, dimostrando che la rete della Dante Alighieri è un motore della cultura globale contemporanea».

“Voci d’Italofonia”: la sfida delle nuove generazioni

Il bando, lanciato dal CGIE e dalla Dante Venezuela, è un progetto audiovisivo ideato per celebrare la lingua italiana dando voce ai giovani studenti delle scuole italiane e dei centri di insegnamento della lingua in Venezuela. L'obiettivo principale è quello di consentire ai partecipanti di esprimere, attraverso micro video, la ricchezza dell'italofonia come identità dinamica, patrimonio culturale e strumento di proiezione verso il futuro. La partecipazione è rigorosamente regolamentata: ogni video deve avere una durata massima di 60 secondi, essere registrato esclusivamente in italiano e in formato verticale (9:16) per i social network, con una qualità minima di 1080 x 1920px e un audio chiaro. Tutte le regole sono disponibili su www.cgievenezuela.com www.iiccaracas.esteri.it/es/

Per quanto riguarda il contenuto, ogni studente deve selezionare una delle diverse categorie proposte per garantire la varietà e cogliere la ricchezza multidimensionale del legame con la lingua e la cultura italiana. Questa diversità assicura che ogni studente possa trovare un punto di vista unico e personale per esprimersi, il che si traduce in una raccolta di video variegata e vivace, con messaggi che devono essere personali, originali e spontanei, evitando la lettura di testi lunghi. La struttura consigliata include una breve presentazione, il messaggio centrale della categoria scelta e una conclusione positiva.

Le categorie esplorano l'italofonia da una vasta gamma di prospettive. Per gli studenti più riflessivi o linguisticamente curiosi, ci sono opzioni come “Una parola, un mondo”, dove approfondiscono il significato emotivo di una parola, o “La mia eredità”, che permette loro di immergersi nella loro storia familiare attraverso proverbi ed espressioni ereditate. Coloro che preferiscono l'espressione corporea e la comunicazione non verbale possono optare per “Un gesto italiano”, che spiega il linguaggio silenzioso ma eloquente della cultura italiana, o per “Italiano in azione”, per drammatizzare una situazione quotidiana.

La creatività artistica trova spazio in categorie come “Cinema in un minuto”, che invita a rendere omaggio al cinema italiano con una breve rielaborazione, “Una canzone nel cuore”, per condividere un frammento musicale ricco di significato personale, e “Creatività libera”, un contenitore eterogeneo per rap, poesia, umorismo o disegno. Il legame emotivo e sensoriale è rappresentato anche attraverso il palato in “Un sapore, un ricordo”, dove un semplice piatto può evocare un universo di ricordi familiari.

Il legame con il contesto locale e la vita quotidiana si manifesta in “L'italiano nella mia città”, che incoraggia i partecipanti a cercare e mostrare le tracce dell'Italia nella loro città venezuelana. Guardando al futuro, categorie come “Futuro in italiano” e “Il futuro è...” sfidano gli studenti a immaginare come la lingua plasmerà i loro studi, le loro carriere e i loro sogni. Infine, per incoraggiare l'originalità e il gioco linguistico, “La mia parola inventata” invita a creare neologismi con spirito italiano, mentre “Emoji d'italiano” e “Italiano in viaggio” offrono formati moderni e concisi per esprimere concetti complessi. Nel complesso, questa struttura attentamente pianificata assicura che l'“italofonia” non sia presentata come un concetto unico, ma come un mosaico ricco di colori, sapori, gesti, parole e sogni personali.

La partecipazione avviene tramite gli istituti scolastici, che devono inviare almeno 20 microvideo selezionati tra quelli realizzati dai propri studenti. Gli insegnanti di italiano sono responsabili della supervisione della correttezza linguistica, della conformità al tema e del formato tecnico. I video finali devono essere inviati in formato digitale tramite piattaforme come Google Drive o WeTransfer entro la scadenza del 15 ottobre 2025 all'indirizzo e-mail: eventi@cgievenezuela.com.Clicchi su questo link per scaricare il regolamento di partecipazione: https://bit.ly/48WIN4x

Conferenza online: Dante Alighieri: il ribelle creatore dell'italiano globale

Lunedì 13 ottobre 2025, alle ore 18:00, la comunità è invitata alla conferenza online “Dante Alighieri: il ribelle creatore dell'italiano globale”, tenuta da Mariano Palazzo, presidente della Società Dante Alighieri del Venezuela, e accessibile tramite il seguente link https://forms.gle/EGNWgsfXfV2oScFz9

Questa conferenza esplorerà il genio di Dante, la cui decisione di utilizzare il dialetto fiorentino nella Divina Commedia fu un atto radicale che forgiò una lingua con una proiezione universale. Palazzo collegherà questa eredità storica al concetto contemporaneo di italofonia, dimostrando che l'italiano è stato concepito fin dalle sue origini per essere una lingua senza confini, un motore culturale vibrante ed essenziale per le nuove generazioni.

“Voci d’Italofonia” ci invita a scoprire che parlare italiano oggi è più che imparare una lingua: è aprire una finestra sulla cultura, sull'innovazione e sulla memoria viva delle nostre radici. Immergersi in questa esperienza significa riconoscersi in una rete culturale condivisa che unisce generazioni e territori e che continua a proiettare l'italiano come lingua del futuro.

La Sua voce è la prova più evidente che la simpatia per l'Italia è un fenomeno globale. Il futuro è italiano. La invitiamo a seguirci sui nostri social network per ulteriori informazioni: @cgievenezuela @dantevenezuela @dante.global @societadantealighieri @iiccaracas @comitescaracas @comites_oriente_po @comites_mcbo @italymfa. Patricia Aloy, dip 9

 

 

 

 

Al Cgie il duro attacco di Merlo (Maie) al Governo: Legge Tajani inutile e ingrata

 

Roma - Ricardo Merlo attacca con forza il governo Meloni, colpevole – a suo dire – di aver fatto una pessima riforma della legge sulla cittadinanza ius sanguinis, rischiando in questo modo di uccidere l’italianità oltre confine.

In occasione della riunione del Comitato di Presidenza del Consiglio Generale degli Italiani all’Estero, alla presenza del governo, rappresentato dal Sottosegretario agli Esteri con delega agli italiani nel mondo Giorgio Silli, il presidente del MAIE e membro del Cdp ha definito la legge Tajani “sbagliata, inutile e ingrata”.

Merlo – riporta il Maie in una nota – è entrato anche nel merito della riforma, sottolineando come l’errore di Tajani sia stato talmente evidente e grave da produrre l’effetto opposto rispetto all’obiettivo dichiarato dal ministro. Invece di ridurre i ricorsi giudiziari per la cittadinanza che già intasavano i tribunali, la misura rischia infatti di moltiplicarli in maniera esponenziale.

Merlo si è anche detto “confortato” dalle voci raccolte in Parlamento, secondo cui il periodo per richiedere l’iscrizione dei figli minori nati prima dell’entrata in vigore della riforma potrebbe essere prolungato in sede di approvazione del decreto cosiddetto “Milleproroghe”; al riguardo ha espresso l’auspicio che sia prevista una proroga di almeno due anni, essendosi il Legislatore reso conto che un anno è un periodo troppo breve, anche a causa della scarsa informazione.

In molti Paesi latinoamericani gli- ha riferito il consigliere – avvocati prosperano anche grazie alla confusione che si è creata in merito alle carte d’identità elettroniche, dal momento che è stato fatto credere ai connazionali che per recarsi in Italia fosse necessaria la CIE.

“Occorre che l’Esecutivo o l’Amministrazione degli Esteri chiariscano che è possibile recarsi in tutti i Paesi europei con il passaporto italiano”, ha sottolineato Merlo. “A causa della mancanza di informazione, infatti, si corre il rischio che molti cittadini italiani che hanno richiesto il passaporto, ma non lo hanno ancora ottenuto, sovraccarichino di lavoro i Consolati richiedendo anche la carta d’identità elettronica”.

Secondo l’ex Sottosegretario agli Esteri, la riforma della cittadinanza voluta dal ministro Tajani ha comportato l’effetto di beneficiare considerevolmente gli avvocati: “una riforma che sembra essere fatta a misura degli avvocati. Attraverso i mezzi di comunicazione della maggior parte dei Paesi latinoamericani, essi stanno offrendo la possibilità di intentare cause grazie al principio di non retroattività delle leggi. Tutti i nati precedentemente al 27 marzo del corrente anno, dunque, soprattutto gli appartenenti a quella classe media che possono permettersi di pagare gli avvocati, stanno rivolgendosi ai Tribunali per ottenere il riconoscimento della cittadinanza italiana sulla base della non retroattività della norma. Dunque, oltre alle numerose ingiustizie introdotte da questa riforma, si è generato un vero e proprio sistema di tipo plutocratico, che finisce per subordinare il diritto alla cittadinanza italiana alla disponibilità economica”.

Sulla stessa linea, sono intervenuti il Consigliere Walter Petruzziello e il Vicesegretario Mariano Gazzola, entrambi esponenti del MAIE nel CDP del CGIE.

“Tutto quello che sta accadendo – ha commentato Gazzola - dimostra una volta di più come la riforma sia completamente sbagliata e che attraverso strade diverse si sarebbero conseguiti risultati migliori”. Per esempio, ha sostenuto, “seguendo quanto fatto proprio quando Merlo era Sottosegretario alla Farnesina, ovvero quando è stata richiesta la certificazione di conoscenza dell’italiano B1 per il riconoscimento della cittadinanza per matrimonio e le richieste sono scese tantissimo: senza tagliare, senza togliere, senza violentare la nostra storia. Solo aggiungendo un requisito".

Concludendo, Merlo si è detto “convinto che la Corte Costituzionale farà giustizia eliminando la retroattività della norma; in tal caso, il ministro Tajani si renderà conto dell’assoluto errore strategico e politico commesso, poiché si verificherà una enorme corsa amministrativa e legale alla richiesta di cittadinanza”.

(aise/dip 1.10.) 

 

 

 

 

 

La coerenza

 

Fare una considerazione sull’attuale politica italiana, pure se inserita a livello UE, sarebbe ostinarsi su un ingannevole problema. Quindi, ci sembra più opportuno tralasciare i suoi molteplici seguiti. Intanto, vedremo quali nuovi accorgimenti saprà propinarci questo Esecutivo di Centro/Destra. Non a caso, ma con nostro stupore, già ci si riferisce di un “terzo polo” di centro che dovrebbe compattare gli incerti e delusi dell’area mediana del nostro Parlamento. Se si volesse realmente voltare pagina, la “Vecchia Guardia” non dovrebbe essere mobilitata. Basta con le garanzie per affrontare una nuova via. La nostra politica sa di vecchio. Anche per gli aspiranti Parlamentari ci dovrebbe essere un limite d’età per partecipare, come candidati, alle elezioni.

 

Sotto questo profilo, gli ultimi anni della Repubblica, non sono stati dissimili da quelli che potrebbero ripresentarsi. L’onestà politica è l’unico parametro che realmente dovrebbe contare; anche per il futuro. Se si troverà un “accordo”, serio, il Parlamento dovrebbe assumersi il compito di concretare quelle premesse che dovrebbero traghettare l’Italia dal “passato” al “futuro”. Con più logicità e meno parole e compromessi. Il tutto senza compromessi.

 

Pur con questi presupposti, non siamo però nelle condizioni d’assicurare atteggiamenti che incoraggino le nostre tesi. L’arcano da sbrogliare è, e rimane, quello della tenuta politica non solo di “facciata”. Non siamo nuovi a queste considerazioni, ma i risultati, nostro malgrado, ci hanno dato, purtroppo, sempre ragione. Anche se, per coerenza, avremmo voluto non averla.

Giorgio Brignola, de.it.press

 

 

 

 

 

Accoltellata Iris Stalzer, la neosindaca dell'Spd è in fin di vita

 

Era stata eletta al ballottaggio del 28 settembre. Secondo Spiegel, questa estate la figlia adottiva di 17 anni aveva aggredito la donna con un coltello. La polizia: «Non può essere escluso un movente familiare»

Tredici coltellate all'addome e alla schiena hanno colpito la neo-sindaca socialdemocratica Iris Stalzer di fronte alla porta di casa sua, nel paesino Herdecke-Herrentisch nella zona della Ruhr. Prima di perdere i sensi ed essere ricoverata in ospedale, dove i medici combattono per salvarle la vita, è riuscita a dire a suo figlio che erano stati in tanti ad aggredirla. Secondo il quotidiano tedesco Bild, i due figli adottivi avrebbero chiamato le forze dell’ordine. I due figli della sindaca sono stati presi in custodia dalla polizia per essere interrogati e raccogliere prove. «Non può essere escluso un movente familiare» afferma la polizia e la procura di Hagen in un comunicato congiunto. Secondo Welt, al momento non ci sono altri testimoni che abbiano visto un gruppo di uomini sulla scena del crimine, così come comunicato inizialmente dai due adolescenti - un ragazzo di 15 anni e una ragazza di 17 anni - quando hanno allertato i servizi di emergenza. Secondo quanto riportato da Spiegel, questa estate la figlia maggiore adottiva aveva aggredito la donna con un coltello.

Iris Staltzer di professione avvocatessa aveva vinto le elezioni da poco più di una settimana, dopo il ballottaggio del 28 settembre scorso. Sarebbe entrata in carica a partire dal prossimo 4 novembre. Ha vinto le elezioni con il 52,2% di voti favorevoli contro il candidato della Cdu Fabian Conrad Haas, che ha avuto il 47,8%. L'Afd è arrivata al quinto posto al primo turno elettorale, con il 13,5% (+9%), non un ottimo risultato nel paese che conta diciannovemila aventi diritto al voto. La squadra omicidi ha già preso in carica il caso e sta indagando.

Secondo Frankfurter Allgemeine Zeitung (Faz), l'aggressione potrebbe essere legata a motivi personali, ma l’indagine resta aperta. Iris Stalzer era stata appena eletta sindaco della città della Ruhr al ballottaggio del 28 settembre. «Ci giunge notizia di un atto efferato compiuto a Herdecke. È necessario fare rapidamente chiarezza su quanto accaduto». È quello che ha scritto il cancelliere tedesco Friedrich Merz, reagendo su X alle prime notizie trapelate sull'accoltellamento della sindaca socialdemocratica. «Temiamo per la vita della sindaca designata Iris Stalzer e speriamo in una sua completa guarigione. Il mio pensiero va alla sua famiglia e ai suoi cari», conclude Merz. LS 7

 

 

 

 

Le strategie di promozione dell’italiano all’estero

 

Roma. Nel corso dell’evento di presentazione della XXV Settimana della Lingua Italiana nel Mondo si è svolto un panel dedicato alle strategie di promozione dell’italiano all’estero. La tavola rotonda, moderata dal giornalista Zouhir Louassini, ha visto alternarsi interventi di esperti e intellettuali stranieri e italiani: Nabila Abid (giornalista della Radio Nationale Tunisienne), Giuseppe Antonelli (professore di Storia della lingua italiana all’Università di Pavia), Innocenzo Cipolletta (Presidente dell’Associazione Italiana Editori), Paolo D’Achille (presidente dell’Accademia della Crusca), Cristina Di Giorgio (direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura di Santiago). Nel suo intervento introduttivo il moderatore Louassini ha evidenziato la musicalità della lingua italiana che colpisce sicuramente anche chi parla altri idiomi. Nabila Abid ha parlato della lingua italiana come di una storia d’amore e una questione legata alla sua vita fin da bambina, perché nel suo Paese d’origine era possibile guardare le trasmissioni della Rai. “Mi considero una cittadina del mondo”, ha sostenuto Abid che vede nella lingua italiana un ponte per connettere culture differenti. “Sono orgogliosa di essere italo-tunisina”, ha aggiunto Abid precisando che l’italiano è una lingua d’arte, di musica e di cinema: “la più bella lingua al mondo”. Dal canto suo Giuseppe Antonelli ha evidenziato come la diffusione o il prestigio di una lingua normalmente segua ragioni geopolitiche; tuttavia per l’italiano può valere una sorta di “eccezione storica” per via di “un prestigio culturale che va oltre i confini”, ha precisato Antonelli invitando a difendere l’italiano che pure ha saputo resistere nel corso della storia allo spagnolismo, al francesismo e infine all’influenza anglofona, per quanto obiettivamente ci siano ormai molti termini inglesi nella nostra lingua. “La comunità italofona oggi potrebbe essere definita come il luogo dove il ‘ciao’ suona”, ha rilevato in una battuta Antonelli volendo dire con questo che il ‘ciao’ italiano, nato da un termine dialettale veneziano, si è ormai diffuso a diverse latitudini. Per Innocenzo Cipolletta l’italiano è alla base dei libri che rappresentano un modo per esportare la nostra lingua, anche se spesso i testi vengono tradotti in altri idiomi. “Noi esportiamo cultura”, ha ribadito Cipolletta precisando che la cultura italiana non si è fermata al passato ma ha saputo modernizzarsi. “La nostra è una cultura che non ha paura di usare parole straniere: tutti i Paesi lo fanno”, ha aggiunto Cipolletta ricordando il supporto che l’AIE riceve dalla rete diplomatica e consolare per la diffusione dell’italiano nel mondo. Secondo Cipolletta, tuttavia, è importante anche l’importazione di libri e di autori dall’estero. Cipolletta ha infine rimarcato come l’Italia sia stata recentemente ospite d’onore nelle principali fiere letterarie del mondo, sottolineando l’importanza della collaborazione tra pubblico e privato per ottenere questi risultati. Paolo D’Achille ha definito la cultura italiana come un’eccellenza del Paese, soprattutto in certi settori e con un pensiero particolare alla lunga tradizione letteraria anche legata alle esplorazioni marittime. D’Achille ha poi precisato che la grandezza dell’italiano è stata sostanzialmente quella di non essersi quasi mai diffuso in modo aggressivo. A sua volta D’Achille ha rimarcato come alla diffusione della nostra lingua nel mondo contribuisca in maniera importante la rete all’estero della Farnesina. Sul termine ‘italofonia’, D’Achille ha poi ricordato che si tratta di una parola inventata dal noto linguista Tullio De Mauro. Cristina Di Giorgio ha invece parlato dell’importanza dell’influenza dell’immigrazione italiana in America Latina a livello linguistico: una parte del mondo dove le due lingue predominanti sono naturalmente lo spagnolo e il portoghese e dove in sostanza gli italiani, che giunsero nel secolo scorso, parlavano per lo più i dialetti regionali e non tanto l’italiano. Tuttavia gli italiani hanno superato questa barriera, unendosi a livello sovra regionale e riuscendo a fondare le prime scuole d’italiano. “Dovremmo guardare l’Italia con gli occhi dei latinoamericani per renderci conto fino in fondo del prestigio che abbiamo e dell’amore che c’è nei nostri confronti”, ha aggiunto Di Giorgio evidenziando che gli Istituto Italiani di Cultura contribuiscono a portare cultura e innovazione. (Inform/dip 6)

 

 

 

 

In Germania dal prossimo anno la “Aktivrente”

 

Fino a 2.000 euro al mese esentasse per chi lavora anche dopo la pensione

Un nuovo incentivo per rafforzare il mercato del lavoro e sostenere le casse sociali, ma non mancano le critiche.

Chi, una volta raggiunta l’età pensionabile, sceglierà di continuare a lavorare, potrà presto guadagnare fino a 2.000 euro al mese senza pagare tasse. Lo prevede la nuova proposta di legge sulla cosiddetta “Aktivrente” (pensione attiva), approvata mercoledì dal Consiglio dei Ministri tedesco. L’obiettivo dichiarato del governo è duplice: affrontare il problema del finanziamento del sistema pensionistico e contrastare la carenza di manodopera qualificata.

Il disegno di legge passerà ora all’esame del Bundestag, con l’introduzione prevista all’inizio del nuovo anno.

Ma vediamo come funziona la “Aktivrente”

Il provvedimento stabilisce che chi lavora dopo aver raggiunto l’età della pensione possa guadagnare fino a 24.000 euro all’anno (2.000 euro al mese) da lavoro dipendente senza pagare imposte. Restano però dovuti i contributi previdenziali: sia lavoratori sia datori di lavoro continueranno a versare quelli per assicurazione sanitaria e assistenza, mentre solo il datore di lavoro dovrà contribuire anche a pensione e disoccupazione.

Importante è anche l’esclusione dal “Progressionsvorbehalt”, il meccanismo che avrebbe potuto aumentare l’aliquota fiscale complessiva in base al reddito totale. In pratica, il guadagno extra non farà salire l’imposta sulla pensione.

L’iniziativa riguarda solo i lavoratori dipendenti: sono esclusi autonomi, agricoltori e funzionari pubblici.

«Vogliamo dare nuovi impulsi alla crescita economica in Germania. L’economia ha bisogno anche delle competenze e dell’esperienza dei lavoratori più anziani», ha dichiarato il ministro delle Finanze Lars Klingbeil (SPD).

Secondo il Ministero, la misura non solo incoraggia gli anziani a restare attivi, ma rafforza anche le casse sociali, grazie ai contributi previdenziali che continueranno a essere versati. «Alla fine ne beneficeranno tutti – si legge nella nota –: i sistemi sociali saranno alleggeriti, il mercato del lavoro rafforzato e la competitività della Germania aumenterà».

Ma chi potrà avvalersi di questa „Aktivrente“

Il Ministero delle Finanze prevede che circa 168.000 persone – ovvero un quarto degli aventi diritto – approfitteranno dell’opportunità già nel primo anno. Le mancate entrate fiscali sono stimate in circa 890 milioni di euro l’anno, da ripartire tra Stato federale, Länder e Comuni.

Nonostante questo costo, il governo punta su un effetto positivo sul PIL: più lavoratori attivi, anche se pensionati, potrebbero generare nuova crescita e quindi maggiori entrate fiscali nel medio periodo.

Il mondo politico ed economico però si divide sull’efficacia del provvedimento

I sostenitori vedono nella “Aktivrente” un incentivo concreto per chi vuole o deve continuare a lavorare, oltre a un aiuto immediato per i settori in crisi di personale, come sanità, istruzione, artigianato e ristorazione.

Ma non mancano le critiche. Molti osservano che proprio in questi comparti le condizioni fisiche e mentali di lavoro sono troppo gravose perché la maggior parte dei dipendenti possa prolungare l’attività oltre l’età pensionabile.

Altri sottolineano una disparità tra dipendenti e autonomi: artigiani e lavoratori indipendenti, spesso colpiti da un forte fabbisogno di reddito supplementare, non potranno usufruire della misura. Anche agricoltori e funzionari pubblici restano esclusi.

La “Aktivrente” rappresenta un tentativo pragmatico di rendere più flessibile il sistema pensionistico tedesco, premiando chi desidera rimanere attivo e contribuire ancora all’economia. Tuttavia, resta il dubbio se questo basterà davvero a compensare la carenza strutturale di lavoratori qualificati o se, al contrario, si tratti solo di un sollievo temporaneo per un mercato del lavoro sotto pressione.

In sintesi dal prossimo anno, chi in Germania vorrà continuare a lavorare dopo la pensione potrà farlo con un importante vantaggio fiscale. Ma la “pensione attiva” rischia di restare un’opportunità per pochi, se non si affronteranno anche le cause più profonde della carenza di personale e della fatica del lavoro in età avanzata.  L.L.D, CdI on. 16

 

 

 

 

 

La nuova legge sulle comunità abruzzesi nel mondo

 

Pescara - Il Consiglio regionale dell’Abruzzo, nella seduta di martedì pomeriggio, ha approvato la legge che riforma la disciplina delle relazioni tra la Regione Abruzzo e le Comunità di Abruzzesi nel Mondo. Il voto favorevole è stato assicurato dai consiglieri di centrodestra, mentre le opposizioni si sono astenute. La proposta di riscrittura della precedente normativa, voluta dalla Giunta regionale, è nata con l’obiettivo di prendere atto, come descritto nella relazione dei proponenti, che “le comunità abruzzesi all’estero sono soggette – come le altre comunità regionali – ad una profonda trasformazione che interessa sia gli aspetti strutturali di carattere socio-economico sia gli aspetti linguistico-culturali”.

La nuova norma semplifica la struttura e alcuni aspetti burocratici prevedendo una programmazione periodica delle attività e iniziative, da proporre alla Giunta regionale, che le valuta e ne dispone annualmente l’approvazione definendo criteri, modalità e linee di intervento sulla base delle disponibilità di bilancio.

Sono destinatari degli interventi i cittadini di origine abruzzese, per nascita o residenza da almeno due anni; le associazioni degli abruzzesi nel mondo e le associazioni degli abruzzesi in Italia fuori Regione; gli enti locali della Regione, le associazioni di promozione sociale e le organizzazioni di volontariato che hanno una sede permanente nel territorio regionale e che operano da almeno tre anni nel settore dell’emigrazione, iscritti al Registro unico nazionale del Terzo settore, organizzazioni e associazioni culturali, sindacali e di categoria, camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, consorzi, fondazioni a partecipazione pubblica, centri di formazione, università, istituti scolastici che hanno sede in Abruzzo e che, in collaborazione con i soggetti suddetti, attuano iniziative per la valorizzazione del ruolo delle comunità abruzzesi all’estero o fuori regione.

La nuova legge prevede poi che la Regione, per coordinare una politica complessiva per gli abruzzesi nel mondo, si avvale del Consiglio regionale degli Abruzzesi nel Mondo (CRAM), del Consiglio direttivo del CRAM e dell’Osservatorio per l’Emigrazione. È istituito, inoltre, presso il Servizio competente, l’Albo regionale CRAM delle associazioni, federazioni e confederazioni degli abruzzesi nel mondo e in Italia fuori Regione.

La Giunta regionale, infine, in occasione della “Giornata degli Abruzzesi nel mondo” prevista dalla legge regionale 21 febbraio 2011, n. 4, (Istituzione della Giornata degli Abruzzesi nel Mondo), promuove su proposta del CRAM, per il tramite del Servizio competente per materia e in raccordo con il Consiglio Regionale dell’Abruzzo, l’organizzazione di eventi e cerimonie commemorative per ricordare il fenomeno dell’emigrazione abruzzese, per celebrare gli abruzzesi emigrati e per mantenere saldi i rapporti fra le comunità di origine abruzzese esistenti fuori dai confini regionali e la terra d’origine. (aise/dip 2.10.) 

 

 

 

 

Legge sull’obesità, la prima al mondo, su prevenzione e cura

 

La legge sull'obesità, attesa da tempo, "rappresenta un passo storico e un deciso passo avanti per la salute pubblica, considerata l'allarmante crescita dei numeri e delle complicanze dell'obesità in Italia e nel mondo". Così la Società italiana dell'obesità (Sio) in una nota, commentando l'approvazione della prima normativa al mondo sulla prevenzione e la cura di questa patrologia. L'assemblea del Senato, questa mattina, ha infatti votato il Ddl contenuto nell'atto della Camera dei deputati n.741 della XIX Legislatura del 28 dicembre 2022, riguardante 'Disposizioni per la prevenzione e la cura dell'obesità', in precedenza approvata dalla Camera, che ha come promotore e primo firmatario l'onorevole Roberto Pella, capogruppo di Forza Italia in Commissione Bilancio e presidente dell'Intergruppo parlamentare Obesità, diabete e malattie croniche non trasmissibili. L'atto legislativo prevede un approccio integrato nella lotta all'obesità che include prevenzione, cura e sensibilizzazione sociale.

Il World Obesity Atlas prevede che l’impatto economico globale del sovrappeso e dell'obesità raggiungerà 4,32 trilioni di dollari all'anno entro il 2035, se le misura di prevenzione e cura non miglioreranno, ricorda la società scientifica. L'approvazione della prima legge al mondo volta a contrastare l'obesità è arrivata in coincidenza con l'apertura, a Trieste, del XII Congresso nazionale Sio, che vede riuniti i maggiori esperti italiani e internazionali.

"La Società italiana dell'obesità è molto felice per l'approvazione della legge Pella", commenta Rocco Barazzoni, presidente Sio. Si tratta di "un passaggio storico che conferma in maniera definitiva, per la prima volta al mondo, una legislazione specifica e sistematica dell'obesità come malattia, un punto di non ritorno e motivo di orgoglio per l'Italia. Siamo soddisfatti anche perché la nostra società scientifica ha contribuito alla realizzazione di questo importante passo avanti", evidenzia. Nel ringraziare l'onorevole Pella e tutti i parlamentari, Barazzoni osserva che "ci attende ancora molto lavoro per portare nella pratica clinica quotidiana e tra i pazienti la possibilità di accedere alla prevenzione e alle cure che sono centrali nella legge, ma ancora non sono disponibili per tutti i cittadini".

Zani (pazienti), 'non un traguardo ma l'inizio di un percorso'

Anche le associazioni dei pazienti hanno giocato un ruolo importante, insieme al mondo scientifico e accademico, nel raggiungimento di questo traguardo. "Siamo molto soddisfatti di vedere finalmente approvata la legge che riconosce l'obesità come patologia - afferma Iris Zani, presidente associazione Amici obesi - Abbiamo aspettato a lungo questo momento, è un passo importante verso il superamento dello stigma e della piena tutela dei diritti dei pazienti italiani con obesità. Pur trattandosi di un momento storico, la prima legge sull'obesità a livello mondiale per noi non rappresenta un traguardo, ma l'inizio di un percorso", precisa. "E' ora necessario che le istituzioni competenti si attivino con urgenza per garantire ai pazienti tutele reali e percorsi di cura adeguati. In particolare, attendiamo l'approvazione e l'attuazione del Piano nazionale cronicità, per vederne l'efficacia sulla presa in carico delle persone con obesità e, ancor di più, attendiamo l'aggiornamento dei Lea", livelli essenziali di assistenza, "con l'inclusione di prestazioni per la diagnosi, la presa in carico e il trattamento dei pazienti con obesità. Ogni giorno senza interventi concreti è un giorno in cui migliaia di cittadini restano privi di risposte, cure e dignità. La salute delle persone con obesità non può più aspettare".

I 6 articoli di cui si compone la legge Pella - ricorda la nota - tracciano i punti cardine della lotta contro l'obesità: la definizione ufficiale dell'obesità come malattia cronica progressiva e recidivante; l'inserimento delle prestazioni nei Lea erogati dal Ssn; il finanziamento di programmi nazionali per la prevenzione, l'educazione, la formazione e la cura; la costituzione di un Osservatorio presso il ministero della Salute per lo studio dell'obesità e il suo monitoraggio. Infine, il valore delle campagne di sensibilizzazione. Adnkronos 1

 

 

 

 

Non sono ragazzi “dispersi”

 

L’Italia conduce da tempo una battaglia contro la dispersione scolastica e la povertà educativa lungo una strada sulla quale, più di recente, s’è registrato un lieve miglioramento. I minori che abbandonano precocemente l’istruzione o la formazione sono all’incirca il 10,5% del totale. Nel confronto con gli altri paesi dell’Unione europea il nostro è ai primi posti per il numero di ragazzi che lasciano l’istruzione troppo presto. Il fenomeno è alto in particolare al Sud, nelle grandi città, ma non solo; specialmente tra i maschi e soprattutto tra quelli d’origine straniera rischiando di vanificare la spinta all’integrazione. Per quanto ridimensionato, il fenomeno resta molto grave, perché la mancanza di un titolo di studio condannerà chi ha lasciato la scuola ad avere meno opportunità, perpetuando le disuguaglianze. Si tratta di una vera e propria spada di Damocle sospesa su una parte cospicua di intere generazioni, un danno alla crescita civile, culturale, economica del Paese, un ostacolo al raggiungimento di quella pienezza formativa necessaria al futuro dei nostri giovani. Sono vari i fattori che contribuiscono alla dispersione e ne fanno un fenomeno decisamente complesso, che non si può pensare di contrastare solo con l’abnegazione dei docenti.

I bambini e i ragazzi che lasciano la scuola non sono da considerare “dispersi”. La definizione è fuorviante. In realtà, sono persone comunque iscritte alle nostre scuole, che dopo numerose assenze non ci sono andate più o ci vanno male o imparano pochissimo. Hanno un nome, un cognome, una paternità, una maternità, un indirizzo... Si tratta, allora, – ed è bene cominciare a chiamarlo col proprio nome – di un vero e proprio fallimento formativo. Lessicalmente, anche psicologicamente, chiamarli “dispersi” significa quasi dire che “se ne sono voluti andare”. Dire che è un fallimento formativo chiama invece in causa tutti noi, non solo la scuola. È la società nella sua interezza, che deve sentire il bruciore di un’opportunità sottratta ai nostri figli, di un futuro rubato.

Ciò di cui c’è bisogno, allora, è un’azione sinergica che non lasci sola l’istituzione scolastica. Un’azione fatta di investimenti, ma anche di idee, di implementazione delle migliori pratiche già avviate per andare a cercare quanti si sono allontanati. Una di queste, iniziata nel gennaio 2022 dalla Comunità di Sant’Egidio, è il Programma “W la Scuola”, per combattere la dispersione esplicita e implicita, particolarmente – ma non solo – nelle periferie delle grandi città.

Gli operatori del Programma, che abbiamo chiamato i “facilitatori scolastici”, sono la chiave di volta dell’azione. Si tratta di una figura innovativa, incarnazione della prossimità, da sempre cifra peculiare di Sant’Egidio nella sua presenza solidale in situazioni difficili o marginali. In contatto con alcune scuole di Roma, Napoli e Genova, i “facilitatori” instaurano un rapporto di collaborazione con gli istituti, i dirigenti e i docenti offrendo supporto a quei bambini e ragazzi che avevano smesso di frequentare o la cui frequenza a singhiozzo fa temere l’abbandono. L’intervento mira a ritessere il rapporto tra il minore, la sua famiglia, l’istituzione scolastica e ad affrontare i problemi nuovi, insorti dopo la pandemia, nonché quelli legati alla dipendenza dai social e dai device di ultima generazione, puntando a prevenire l’abbandono.

I “facilitatori scolastici” di “W la Scuola” si concentrano sulla storia di ciascun bambino o ragazzo segnalato dagli istituti scolastici, dalla famiglia o dai servizi sociali. L’intervento è supportato – se necessario – anche dalla presenza di un “mediatore linguistico” che, nei primi tempi, affianca in classe il bambino o il ragazzo straniero appena arrivato in Italia. Questo, spesso, fa la differenza tra la percezione di un fallimento e il sogno di un futuro promettente. Il “facilitatore scolastico”, inoltre, ricerca risorse sul territorio che possano essere di aiuto, ascolta la famiglia, dialoga con gli insegnanti e si attiva per rispondere alle diverse esigenze del minore che ha di fronte. 

Il Programma offre anche ai ragazzi più fragili, gratuitamente, un sostegno psicologico con un servizio di consulenze di professionisti volontari. Cerca, però, anche di costruire attorno a ogni ragazzo la possibilità di vincere quell’isolamento che, a volte, sigilla in una bolla di impossibilità, favorendo l’inserimento dei giovani in attività di volontariato o convocandoli in momenti di socializzazione. 

Tutto questo fa emergere, gradualmente, nuove prospettive. Ognuno di questi ragazzi, se ha un’altra opportunità, ritrova le motivazioni per riprendere a studiare. Mettere insieme una serie di figure educative con una forte alleanza, come accade nel Programma “W la Scuola”, tra famiglia, società civile e istituti scolastici, vuol dire creare comunità educanti. E quando c’è attorno a un bambino o a un ragazzo in difficoltà una comunità educante possono succedere dei miracoli: la frequenza già alle elementari aumenta, il rendimento migliora, i genitori sono fieri dei propri figli e si “attivano” per far continuare gli studi. Ha scritto Massimo Recalcati: «Non possiamo sganciare l’istruzione dal processo educativo, cioè dell’umanizzazione della vita. La parola è la via di umanizzazione della vita». 

L’obiettivo dell’educazione è l’umanizzazione della vita ed il Programma “W la Scuola” vuole contribuire a questo processo al cui centro c’è la necessità di ascoltare e di parlare con i bambini e i ragazzi per comprenderne le difficoltà e aiutarli a superarle. Marco Impagliazzo, Vita Pastorale ottobre

 

 

 

 

 

“Lingua oltre i confini”: il 19 novembre la Prima Conferenza Internazionale dell’Italofonia

 

ROMA - Una delle arie più toccanti dell’Ave Maria eseguita dai giovanissimi allievi dell’Accademia del Teatro alla Scala ha introdotto la presentazione della Settimana della Lingua Italiana nel Mondo 2025. A ospitare l’evento, come già l’ultima edizione degli Stati Generali della Lingua italiana nel mondo, la prestigiosa sede del MAXXI di Roma con la presidente Emanuela Bruni a dare il benvenuto ai presenti.

Giunta alla XXV edizione, la Settimana della Lingua Italiana nel Mondo, principale appuntamento istituzionale sulla promozione della lingua italiana all’estero, si terrà dal 13 al 19 ottobre e sarà dedicata quest’anno al tema “Italofonia: lingua oltre i confini”. Una scelta, questa, come ha tenuto a sottolineare il ministro degli Affari Esteri Antonio Tajani aprendo l’incontro, in qualche modo anticipatrice della Prima Conferenza Internazionale dell’Italofonia, in programma prossimo il 19 novembre.

La conferenza, organizzata, come la SLIM, in collaborazione con la Società Dante Alighieri e il governo elvetico, sarà un “momento di incontro” e di “sviluppo dei rapporti” tra Paesi che hanno l’italiano come lingua ufficiale, ma anche in cui vi è una forte presenza di comunità italiane. L’obiettivo è rendere la lingua italiana “ponte” tra questi Paese, confermando la volontà della Farnesina di usare sempre più la promozione di lingua e cultura come strumento strategico di “diplomazia della crescita”. Prima, però, ha osservato il ministro Tajani, occorre fare un passo indietro e iniziare a sposare una “scelta culturale”: quella di apprezzare, conoscere e promuovere la nostra lingua e cultura in Italia prima ancora che all’estero. Non si tratta di “malcelato nazionalismo”, ha voluto precisare Tajani, bensì di “affermazione della propria identità”, senza peccare di “provincialismo” e nella consapevolezza che “la nostra lingua è elemento di pace, dialogo e confronto”, non si è mai imposta e anche per questo è “amata e apprezzata nel mondo”. La lingua italiana e la cultura che rappresenta, ha proseguito il ministro, “non è soltanto specchio del nostro passato”, ma “guarda al futuro” accompagnando le nostre eccellenze nel mondo e accogliendo quelle straniere, come nel caso degli studenti e dei ricercatori palestinesi giunti ieri a Roma, ha ricordato Tajani. Ringraziando infine la rete diplomatico-consolare e degli Istituti Italiani di Cultura che organizzeranno numerosi eventi nel corso della SLIM, il ministro Tajani ha concluso augurandosi che “la lingua possa essere la bandiera della nostra presenza nel mondo”.

Che l’italiano e l’italianità che rappresenta vengano “da lontano”, ma non abbiano “paura di confrontarsi con la contemporaneità” lo ha sottolineato anche Andrea Riccardi, presidente della Società Dante Alighieri che da sempre affianca il Ministero degli Affari Esteri e l’Accademia della Crusca nella realizzazione della Settimana della Lingua Italiana nel Mondo. Riccardi ha espresso il proprio “convinto sostegno all’idea di una comunità globale dell’italofonia”, perché, ha ribadito, “esiste una comunità più grande della penisola che ama l’italiano e parla italiano”, grazie anche alla nostra storia migratoria all’estero. “L’italiano non è una lingua imperiale”, ma neanche “provinciale”, ha continuato il presidente della Dante, d’accordo con Tajani, “ha una sua forza non politica, ma intrinseca alla lingua stessa, storica, connessa a tanti patrimoni” come quello culturale e quello manifatturiero, ed è oggi “viva e creatrice”, “proiettata verso il futuro”. Andrea Riccardi si è detto lieto che sia stato oggi superato quel “timore di essere considerati nazionalisti” che per decenni ha penalizzato la nostra lingua. Oggi si assiste alla “volontà di recupero dell’identità e della lingua italiana” da parte dei discendenti degli italiani emigrati all’estero e, allo stesso tempo, ad un “aumento della domanda di apprendimento anche in ambienti non italiani”, interessati al modo di vivere e di essere italiano. “Il mondo è percorso da correnti di italsimpatia”, come dimostrano i 700 scrittori non italiani che hanno scelto la nostra lingua per esprimersi: tra loro il premio Pulitzer Juhmpa Lahiri e il premio Campiello Edith Bruck. A ciò si aggiunga la realtà degli immigrati in Italia, dove si assiste alla sempre maggiore “diffusione della lingua in famiglie binazionali”. Per Riccardi c’è ormai “consapevolezza” che “l’italiano non è solo una lingua domestica, ma vive fuori dai confini nazionali”: è tempo che la comunità globale dell’italofonia raccolga “questa sfida”.

È cresciuto vicino alla frontiera, che per lui però “non è mai stata tale”, è straniero, ma parla italiano come il suo ministro degli Affari Esteri Cassis. È l’ambasciatore della Svizzera in Italia, Roberto Balzaretti, per il quale la lingua italiana è un “pilastro essenziale” della ricchezza elvetica e della “convivenza tra diverse tradizioni”. Nonostante sia lingua ufficiale del Ticino e nonostante si parli anche in altri Grigioni grazie alla presenza di immigrati italiani, però, l’italiano è oggi “sotto pressione”: a parlarlo è circa l’8% della popolazione, parti a 1 milione di persone su 9, contro il 70% circa di tedesco e il 22% di francese. Anche per questa ragione, “la Settimana della Lingua Italiana nel Mondo è per noi un momento prezioso e utilissimo per rimettere al centro della politica l’importanza dell’italiano per il nostro essere svizzeri”, ha affermato Balzaretti, assicurando: “saremo sempre al fianco dell’Italia quando si tratterà di difendere la nostra lingua”.

Agli interventi istituzionali sono seguiti la proiezione del video promozionale della SLIM e due tavole rotonde di approfondimento.

La prima, dedicata alla promozione della cultura italiana all’estero, è stata moderata dalla giornalista Laura Pizzino, per la quale “la lingua è un essere vivo che riflette storia e identità di un Paese” e “un veicolo con cui esperire la cultura”. Ecco dunque alcuni dei protagonisti della vita culturale italiana portare il loro contributo al dibattito: lo scrittore e poeta Andrea Bajani, il direttore generale di Treccani Massimo Bray e l’artista visivo Pietro Ruffo.

Vincitore del Premio Strega 2005 con “L’anniversario”, i suoi romanzi tradotti in 17 Paesi del mondo, Andrea Bajani è attualmente insegnante di scrittura creativa presso l’università di Houston, in Texas, quindi è egli stesso “parte di una comunità linguistica”. Quando è negli Stati Uniti per Bajani “la lingua è casa”, quindi identità, quella stessa che lo scrittore cerca di trasmettere ai suoi studenti, trasmettendo loro registri linguistici e vocabolario, ma anche una “visione del mondo” che deve essere priva di “stereotipi”. Compito degli scrittori oggi, per Bajani, è proprio quello di “forzare gli stereotipi, essere un po’ insubordinati, mettere in discussione, creando anche qualche piccolo disagio”, ma “ampliando la capacità polmonare” di chi legge e dai libri apprende la nostra cultura.

Se si parla di cultura, “Treccani è la cultura italiana”. A 100 anni dalla sua fondazione, Treccani è l’ultimo “grande presidio della cultura” sopravvissuto ai tempi e questo perché, ha rivendicato Massimo Bray “l’Enciclopedia è stato uno strumento capace di raccontare il passato e il presente, ma anche di proiettarsi verso il futuro”. Non a caso è stata la prima a sbarcare on line nel 1995, dimostrando la propria “capacità di interpretare una cultura che cambia”. Come ha sottolineato Bray, “virtuose” sono ormai da tempo le collaborazione con la Farnesina, ma la cultura in Italia e all’estero ha bisogno oggi di fare ancor più “sistema”.

Con la Farnesina collabora da lungo tempo anche Pietro Ruffo, artista visivo le cui architetture di carta fanno oggi parte della Collezione Farnesina, oltre che di altre istituzioni museali italiane ed estere. Premio Cairo 2009, Premio New York 2010, Ruffo ha al suo attivo diversi progetti di ricerca, mostre e partecipazioni a Biennali d’arte nel mondo. “Spesso l’arte accompagna la politica” raccontando la storia, gli scambi, le migrazioni, le grandi questioni di attualità come quella ambientale, le guerre; i lavori di Ruffo però non esprimono giudizi. “I miei lavori”, ha spiegato l’artista, “vogliono essere un punto di domanda”, voglio “accendere delle scintille, dei momenti di discussione”. In questo senso l’arte può essere d’aiuto per aprire un confronto, capire come interpretare la contemporaneità e agire nel futuro. “Avamposti eccezionali” dell’arte italiana all’estero sono gli Istituti Italiani di Cultura, le Ambasciate e i Consolati, ha riconosciuto Ruffo, dicendosi grato per la “nuova formula” adottata dagli IIC che invitano sempre più spesso gli artisti a esporre fuori dalle sale dell’Istituto e dentro le istituzioni dei Paesi ospitanti. Resta da lavorare sulla “stratificazione”, ha chiosato Ruffo: “ogni artista del passato è stato un contemporaneo del suo tempo”, con le stesse paure, difficoltà e soddisfazioni che hanno gli artisti oggi. Sono questi ultimi i “nuovi custodi del passato” e, insieme, i “nuovi costruttori di cultura”, cui però è ancora riservata “poca attenzione”. La “scelta è anche politica”, ha concluso.

Un intermezzo della poetessa italo-somala Rahma Nur e si è aperta la seconda tavola rotonda, moderata dal giornalista Rai di origini marocchine Zouir Louassini. Vi hanno preso parte: la giornalista della Radio Nazionale Tunisina Nabila Abid, per la quale “la lingua italiana è storia di vita e di amore, che dura ben oltre una settimana”; Giuseppe Antonelli, docente di Storia della lingua italiana all’Università di Pavia; il presidente dell’AIE, Innocenzo Cipolletta; il presidente dell’Accademia della Crusca, Paolo D’Achille; e Cristina Di Giorgio, direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura di Santiago del Cile.

Se Nabila Abid ha sottolineato il “ruolo importantissimo” dei media nella diffusione della lingua italiana all’estero, Giuseppe Antonelli si è soffermato sulla forza dell’italiano: “la diffusione di una lingua segue motivi geopolitici”, ha detto, “ma la lingua italiana ha sempre avuto un prestigio culturale che non ha avuto confini”. Oggi come ieri, “l’italiano non è da proteggere, ma da diffondere”, avendo noi stessi “fiducia” nella nostra lingua. Antonelli ha ricordato infatti che già Manzoni lamentava nel 1600 il diffondersi di “spagnolismi”, seguiti nel 1700 dai “francesismi”; oggi si fa la guerra agli inglesismi, senza contare i linguaggi di internet e dei social: “la lingua italiana ha sempre superato queste prove, grazie a una tradizione culturale che dobbiamo rinnovare”, ha detto Antonelli, suggerendo anche l’uso di quegli strumenti dal “grande potenziale” che abbiamo a disposizione. Come è stato fatto con il MuLTI, il museo multimediale della lingua italiana, realizzato dalle tre Università italiane di Pavia, della Tuscia e L’Orientale di Napoli per “incuriosire e avvicinare la gente alla lingua italiana” in modo semplice e interattivo.

“La nostra è una cultura moderna, che cambia, che non ha paura di usare lingue straniere”, ha confermato, prendendo la parola, il presidente dell’AIE Cipolletta. “La lingua è fatta per comunicare, evolve e noi, come esportatori di libri, stiamo facendo un buon lavoro“, ha aggiunto ringraziando tutte le istituzioni che sostengono il libro italiano nel mondo: la Farnesina, con gli IIC e la rete diplomatico-consolare, il MiC con il Cepell e l’Agenzia Ice. Grazie alle risorse erogate in favore della traduzioni dei libri, in 25 anni i titoli italiani esportati all’estero sono passati da 1800 a 5.300 l’anno. La traduzione consente di conoscere una cultura e la alimenta: Cipolletta ha dunque invitato a coltivare le “infrastrutture culturali in Italia e all’estero” e a puntare sui nuovi autori contemporanei a cui è sempre riservata una “accoglienza calorosa”. Non a caso l’Italia è stata invitata come Ospite d’Onore nelle più prestigiose fiere del libro del mondo: da Parigi a Francoforte, da Taipei a Lima, aspettando il prossimo anno di approdare a Guadalajara.

L’Italia è un Paese piccolo, ma ha sempre avuto una grande influenza nel mondo: per Paolo D’Achille, a capo dell’Accademia che 25 anni fa ideò la SLIM, “il segreto è nella cultura italiana”. La nostra lingua “non si è mai diffusa in modo aggressivo, ma ha acquistato prestigio anche all’estero per la sua grande tradizione culturale” e perché si è dimostrata ideale “luogo di incontro”. Nonostante ciò “quello che manca in Italia è un po’ di fiducia”, ha lamentato D’Achille. “Pensiamo di avere una lingua di nicchia, ma ci vorrebbe un po’ più di convinzione e difesa dell’italiano all’interno del Paese”.

Intanto fuori dall’Italia a darsi da fare sono gli Istituti Italiani di Cultura, che, sfruttando tanto i fondi delle istituzioni pubbliche italiane quanto i contributi provenienti dalle realtà locali, “portano nei Paesi in cui operano la cultura italiana in tutti i suoi aspetti”: dalla “modernità” alla ricerca delle “proprie radici”. A rivendicare l’importantissimo ruolo degli IIC oggi in sala Cristina Di Giorgio, direttrice a Santiago del Cile la quale ha sottolineato la particolarità dell’America Latina, caratterizzata da una forte presenza migratoria per la quale l’italiano fu strumento di aggregazione identitaria. In America Latina, poi, come in tutto il mondo, è innegabile “il prestigio di cui gode l’Italia, giudicata nazione di cultura, bellezza e innovazione”. (r.aronica, aise/dip 3)

 

 

 

 

Rapporto Immigrazione Caritas-Migrantes 2025. Giovani di origine straniera: si trasforma con loro l’Italia che spera

 

I giovani di origine straniera, nati o cresciuti in Italia, sono di fatto i protagonisti silenziosi della trasformazione del Paese. Non solo destinatari di interventi, ma generatori di speranza, portatori di identità plurali e di un futuro da costruire insieme. È il messaggio al centro della XXXIV edizione del “Rapporto Immigrazione”, realizzato da Caritas Italiana e Fondazione Migrantes, intitolato in quest’anno giubilare «Giovani, testimoni di speranza».

Il Rapporto

Il volume – 392 pagine, con la firma di 48 tra curatori e collaboratori – dopo la consueta premessa sul contesto internazionale, offre una rappresentazione della situazione degli immigrati residenti in Italia secondo 8 ambiti di vita quotidiana: cittadinanza, economia, scuola, sanità, disagio sociale, sport, comunicazione e appartenenza religiosa. La sfida raccolta dal Rapporto è quella di provare a fare dei tanti volti della mobilità il volto composito di un Paese.

I numeri dell’immigrazione in Italia e nel mondo.

In Italia, gli stranieri regolarmente residenti sono oltre 5,4 milioni, pari al 9,2% della popolazione. Nel 2024, più del 21% dei nuovi nati ha almeno un genitore straniero. I principali Paesi di origine dei cittadini stranieri in Italia restano i medesimi, ma negli ultimi anni si osserva una crescita significativa di nuovi arrivi dal Perù e Bangladesh. Tutto questo si registra in un contesto globale in cui, nel 2025, nel mondo si contano 304 milioni di migranti internazionali, il doppio rispetto al 1990, e oltre 123 milioni di profughi e sfollati.

Giovani di origine straniera: potenziali protagonisti della trasformazione del Paese

Il Rapporto 2025 pone al centro i giovani con background migratorio, che rappresentano una risorsa vitale per la società italiana. Molti di loro affrontano difficoltà nel riconoscimento e nella partecipazione, ma la loro esperienza è una narrazione vivente di speranza e cambiamento. «Dare loro spazio – sottolineano Caritas Italiana e Fondazione Migrantes nell’introduzione al volume – non è un favore, ma un investimento per il futuro dell’Italia, che si costruisce anche – e soprattutto – con chi ha il coraggio di sognarlo, da dentro e da fuori».

Lavoro, casa e povertà: le sfide dell’inclusione

Nel 2024 gli occupati in Italia sono 24 milioni, di cui oltre 2,5 milioni stranieri (10,5%). Crescono i rapporti di lavoro attivati con cittadini stranieri (+5,8% in un anno), ma persistono disuguaglianze e sfruttamento, soprattutto nel settore agricolo e in quello dei servizi.

Le difficoltà abitative restano un nodo cruciale: l’indagine Caritas-Migrantes evidenzia forti discriminazioni e barriere di accesso alla casa per le famiglie straniere. Sul fronte economico, mentre l’incidenza della povertà tra i cittadini italiani si attesta al 7,4%, tra gli stranieri raggiunge il 35,1% (sono 1.727.000 i cittadini stranieri in condizione di povertà assoluta).

«Investire in strategie di inclusione e in percorsi legali – ha detto nel suo intervento S.E. mons. Carlo Maria Redaelli, arcivescovo metropolita di Gorizia e presidente di Caritas Italiana – non è un favore, ma un atto di responsabilità verso il futuro delle nostre comunità e di quelle che arrivano: si può e si deve fare meglio di quanto fatto finora».

Scuola, sport e religione: spazi di cittadinanza e futuro

Nell’anno scolastico 2023/2024 si registra la presenza di oltre 900 mila alunni con cittadinanza non italiana, con un’incidenza pari all’11,5%, segno di una società sempre più multiculturale. Lo sport si conferma terreno fertile di inclusione e cittadinanza attiva: tuttavia, solo il 35% delle ragazze straniere pratica attività sportiva, contro il 62% delle coetanee italiane, e merita attenzione il fenomeno dello sport trafficking. Sul piano della appartenenza religiosa, tassello fondamentale nella comprensione del senso di partecipazione alla comunità, si stima che all’inizio del 2025 il totale dei cristiani superi ancora la maggioranza assoluta degli stranieri residenti in Italia, raggiungendo il 51,7%, seppure in netto calo rispetto al 53,0% stimato per il 2024. «Il Rapporto conferma – ha detto il direttore generale della Fondazione Migrantes, mons. Pierpaolo Felicolo – che dopo la prima accoglienza è fondamentale l’accompagnamento costante a una esistenza dignitosa e alla partecipazione diretta alla vita del Paese. Diamo meno spazio a ciò che facciamo e diciamo noi per loro, e più alla voce, alla testimonianza e allo sguardo sul Paese dei cittadini immigrati».

Baturi (CEI): «Una trasformazione silenziosa, ma radicale»

L’Italia vive una trasformazione – afferma il segretario generale della Conferenza episcopale italiana, S.E. mons. Giuseppe Baturi, nella sua Prefazione al volume –, che passa attraverso i volti, le storie e i sogni di giovani ragazze e ragazzi che «frequentano le stesse scuole dei loro coetanei italiani, parlano i dialetti locali, tifano per le squadre del cuore, ma spesso continuano a sentirsi – e a essere percepiti – come “ospiti permanenti”, non pienamente parte della comunità». In questo senso «le comunità cristiane in Italia hanno oggi la possibilità di essere laboratori privilegiati di convivenza, luoghi in cui si sperimenta in piccolo ciò che il Paese intero fatica a realizzare». Nella situazione fotografata dal Rapporto, scrive mons. Baturi, la cittadinanza si conferma uno dei «passaggi sempre più indispensabili». Migr.on. 14

 

 

 

 

Al Senato l’audizione del Comitato di Presidenza del Cgie

 

ROMA – Si svolta presso la Commissione Esteri – Difesa del Senato l’audizione del Comitato di Presidenza del Cgie. L’incontro è stato moderato dalla Presidente della III Commissione Stefania Craxi. Ha in primo luogo preso la parola la Segretaria Generale del Cgie Maria Chiara Prodi. “I punti fermi su cui abbiamo basato i nostri dibattiti nel primo semestre del 2025 erano: la legge di cittadinanza, la messa in sicurezza del voto all’estero e gli incentivi di rientro. Su questi 3 temi noi abbiamo lavorato chiedendo anche il supporto dei Comites e dei territori”, ha esordito Prodi che ha poi approfondito il tema della cittadinanza. “In particolare – ha spiegato la Segretaria Generale – ci preme ragionare sulla temporalità dei limiti della trasmissione della cittadinanza italiana per i residenti all’estero, perché chi è cittadino italiano deve rimanerlo. E anche l’approccio alla doppia cittadinanza che è stato voluto da questa legge per noi va modificato. Chiaramente abbiamo evidenziato anche la positività del riacquisto della cittadinanza, per coloro che la avevano perduta in passato… Per noi – ha aggiunto _ è anche importante sottolineare la centralità della lingua italiana all’estero nella trasmissione e l’acquisizione della cittadinanza italiana”.

Sempre per quanto riguarda la cittadinanza Prodi, oltre a ricordare alcune aperture da parte delle istituzioni, ha poi segnalato la questione della tempistica per la registrazione dei minori e l’attesa per il pronunciamento della Corte Costituzionale sulla materia. “Sul tema della messa in sicurezza del voto degli italiani all’estero, – ha poi ha rilevato la Segretaria Generale – abbiamo cercato anche qui di dare consigli attuali su vari temi: trasparenza nella stampa delle schede, invio dei plichi elettorali, condizione dei plichi elettorali, tracciabilità e il corretto indirizzo dell’elettore, spedizione delle schede votate e scrutinio. Su questo siamo arrivati ad una constatazione, e cioè che i miglioramenti sono possibili al sistema vigente, con una messa in sicurezza che garantisca la partecipazione e possa essere qualcosa su cui lavorare in sinergia tra rappresentanze degli italiani all’estero e legislatore”.

La Segretaria Generale ha poi evidenziato come per la promozione della lingua e della cultura italiana, che rappresentano per gli italiani all’estero il primo legame effettivo con la nostra comunità nazionale, sia necessario sviluppare delle proposte di accompagnamento che tengano conto delle esigenze che provengano dai vari territori. “Per noi è fondamentale – ha continuato Prodi – affrontando la questione dell’insegnamento nelle scuole della storia della nostra diaspora – riconnettere l’Italia alla storia dell’emigrazione, perché più il cittadino è consapevole della comunità nazionale dentro e fuori i confini, più è un cittadino consapevole e capace di accompagnare decisioni collettive e significative”.

“Il tema della riforma del Cgie ci è caro- Ha continuato la Segretaria Generale-  Crediamo che il 2026,  l’anno in cui i nostri Comites festeggeranno i 40 anni del loro insediamento, possa essere davvero fondamentale per parlare di partecipazione per far appello ai nostri numerosi connazionali al di fuori dell’Italia, per parte in maniera attiva ad un dialogo tra l’associazionismo e le realtà diversificate delle comunità italiane all’estero, ma che trovano nelle nostre rappresentanze una filiera di dialogo con il Paese”. Prodi ha infine sollecitato il rispetto della legge istitutiva del Cgie e quindi lo stanziamento in sede di bilancio di risorse adeguate che consentano al Consiglio Generale di svolgere il proprio lavoro e potare avanti la necessaria programmazione della Conferenza Stato -Regioni – Province Autonome e Cgie.

E’ poi intervenuta la senatrice del Pd Francesca La Marca, eletta nella Ripartizione America settentrionale e centrale, che ha sottolineato la necessità di lavorare per cambiare la nuova legge sulla cittadinanza, ad esempio per quanto riguarda un aspetto della riapertura dei termini per il riacquisto della cittadinanza. Infatti, secondo la nuova norma, ch riacquisisce la nazionalità di origine, non può trasmettere la cittadinanza ai figli. Una questione che per la senatrice va risolta. La Marca ha anche segnalato problematiche sia per quanto riguarda l’uso del portale Prenotami, un sito che va migliorato, sia per quanto concerne l’attivazione della Carta d’Identità elettronica nei Paese extra UE. Sollecitata dalla senatrice anche l’adozione, tra i vari consolati, di procedure uniformi per gli appuntamenti sulla cittadinanza. Rilevate infine da La Marca anche le difficoltà burocratiche incontrate dagli enti gestori, promotori della lingua italiana, che intendono accedere ai fondi pubblici.  Dal canto suo il senatore del Pd Francesco Giacobbe, eletto nella ripartizione Africa, Asia, Oceania e Antartide, ha sottolineato l’importanza di insegnare la storia della nostra emigrazione nelle scuole italiane, anche per far conoscere al nostro Paese, che oggi accoglie molti immigrati, i percorsi d’integrazione che si sono sviluppati all’estero.

Anche Giacobbe ha evidenziato l’esigenza di migliorare il servizio offerto da Prenotami, anche per il fatto che con questo sistema si devono confrontare molte persone ormai avanti con gli anni. Il senatore, dopo aver auspicato procedure uniformi fra i vari consolati per la riacquisizione della cittadinanza, ha auspicato una capillare campagna informativa che faccia conoscere alle comunità all’estero la necessità di registrare coloro che erano minorenni, alla data dell’entrata in vigore della nuova legge sulla cittadinanza, entro il 31 maggio 2026.

E poi intervenuta la vice Segretaria Generale per i Paesi Anglofoni extraeuropei Silvana Mangione che ha rilevato come ormai gli italiani all’estero si attestino a quota 7milioni e trecentomila. Anche alla luce di questi numeri crescenti Mangione ha auspicato l’impegno di maggiori risorse in sede di bilancio, ad esempio per l’insegnamento dell’italiano nei Paesi di lingua inglese, dove vi è il rischio che i figli delle nuove generazioni abbandonino l’italiano non appena arrivati all’asilo.

La Vice Segretaria Generale ha anche parlato della possibilità che vengano ridisegnate totalmente le circoscrizione elettorali con il rischio che, con una legge basata solo sui numeri e non sulla reale importanza anche economiche delle comunità, rimangano esclusi dalla rappresentanza aree importanti del mondo, come ad esempio il nord e centro America o l’Australia. Dopo aver segnalato che il Consiglio Generale sta continuando a lavorare a una proposta per una riforma della legge istitutiva del Cgie, Magione ha rilevato come il mandato di cinque anni dei Comites, eletti nel 2021, si avvii a conclusione e quindi, visto che il Cgie è stato nominato in ritardo, vi sia il rischio di non poter rispettare le naturali scadenze della leggi istitutive dei Comites e del Cgie. “Il Cgie – ha spiegato la Vice Segretaria – si è insediato una anno e mezzo dopo, quindi se si mantiene la scadenza normale dei Comites noi ci troveremmo ad avere una consigliatura del Consiglio Generale che non consentirebbe di completare le programma su cui stiamo lavorando, e prima di tutto di convocare la Conferenza – Stato – Regioni- Provincie autonome – Cgie  che dovrebbe svolgersi entro la fine del 2026”.

A seguire ha preso la parola il senatore del Pd Andrea Crisanti, eletto nella ripartizione Europa, che ha evidenziato l’esigenza, in vista delle prossime elezioni, di modificare la legge sui Comites, superando ad esempio l’opzione inversa del voto che, insieme ad altri fattori, limita la rappresentatività degli italiani all’estero.  Il senatore ha anche auspicato lo stanziamento di adeguati fondi per lo svolgimento della tornata elettorale dei Comites.  Fra gli altri interventi segnaliamo quello del membro del Comitato di Presidenza Walter Pretruzziello (America Latina) che ha ribadito la necessità di migliorare la prenotazione dei posti sul portale Prenotami e ha chiesto di prorogare oltre al termine del 31 maggio 2026 la registrazione dei minori all’estero.    “Il mondo – ha esordito il Vice Segretario Generale per l’Europa e l’Africa del Nord Giuseppe Stabile – è in mano alla matematica. I numeri reggono la logica dell’universo, ordinano il caos e danno misura a ciò che altrimenti resterebbe incomprensibile. Parto da questo presupposto della Matematica per enfatizzare il numero 7milioni e 300.000 residenti all’estero. Questo significa che ogni giorno in più l’Italia perde connazionali. Questo significa in termini matematici che l’economia dello Stato soffre”. Per cercare di contrastare questa situazione, secondo Stabile, occorre concentrare le forze su una politica economica e fiscale che permetta il ripopolamento. In tal senso dal sottocomitato del CdP, che si occupa di questa tematica, sono state avanzate varie iniziative . In proposito Stabile segnala la proposta della creazione di un portale dedicato, che coinvolga tutti i ministeri interessati, l’Anci e l’intero sistema Paese, e che fornisca una capillare informazione su tutte le misure di incentivo in atto volte a favorire chi intenda tornare in Italia dall’estero.

Dal componente del Comitato di Presidenza Tommaso Conte (Europa e Africa del Nord) è stato rilevata la necessità di mettere mano alla nuova legge sulla cittadinanza per superare i limiti imposti ai possessori della doppia cittadinanza. Conte ha inoltre segnalato come, nel capo dell’attività scolastico culturale, i piccoli enti gestori stiano incontrando difficoltà nel proseguire la loro attività, con il rischio che non si riesca a mantenere la propria identità culturale. E’ infine intervenuto il Vice Segretario Generale di Nomina governativa Gianluca Lodetti che ha sottolineato come, a fronte di una comunità all’estero in costante crescita, vi sia la necessità di rafforzare il sistema informativo all’estero, per far conoscere la legislazione di rientro, accompagnare le persone verso l’estero e di rientro in Italia e spiegare le nuove norme sulla cittadinanza. Una esigenza che potrebbe essere affrontata sviluppando strumenti si sussidiarietà, utilizzando le reti associative e i patronati. Lodetti ha anche segnalato l’esigenza di migliorare il reclutamento degli insegnanti per le scuole italiane nel mondo, anche attraverso sistemi incentivanti che invoglino gli inseganti a recarsi all’estero.

Lorenzo Morgia, Inform/dip 30.9.

 

 

 

 

Patenti europee, la svolta digitale e le nuove regole: cosa cambia

 

Validità di 15 anni, patente digitale su smartphone e sanzioni estese oltre confine: l’Ue ridisegna le regole per centrare l’obiettivo “zero vittime” entro il 2050

A quasi vent’anni dall’ultima revisione, Bruxelles riscrive le regole sulle patenti di guida con l’obiettivo più ambizioso e più difficile: ridurre drasticamente i 20mila morti che ogni anno si registrano sulle strade europee e avvicinarsi all’obiettivo “zero vittime” entro il 2050.

Il Parlamento europeo ha approvato in via definitiva la nuova direttiva sulle patenti di guida e quella parallela sulle decisioni di ritiro e sospensione transfrontaliera. Due testi che, insieme, ridisegnano il modo in cui si ottiene, si conserva e, nei casi più gravi, si perde il diritto di guidare in tutta l’Unione.

La revisione nasce da una constatazione semplice ma impietosa: nonostante decenni di politiche di sicurezza, l’andamento delle vittime da incidente si è fermato. Dopo il crollo registrato negli anni 2000, negli ultimi dieci anni la curva è piatta. Secondo la Commissione, “ogni giorno più di cinquanta persone perdono la vita sulle strade europee”, con costi economici stimati in 120 miliardi di euro l’anno. Troppo per restare fermi.

Da qui un pacchetto che interviene su formazione, controlli, digitalizzazione e coordinamento giudiziario tra Stati membri. “L’introduzione di criteri più chiari e tempestivi per la sospensione della patente in caso di gravi infrazioni contribuisce a proteggere non solo i conducenti responsabili, ma l’intera collettività”, ha dichiarato Matteo Ricci (S&D, Italia), relatore del Parlamento per la direttiva sulle decisioni di ritiro.

L’idea è quella di un sistema armonizzato, più severo con chi sbaglia ma anche più equo per chi si sposta tra un Paese e l’altro. Perché finora, come ammettono gli stessi eurodeputati, troppe sanzioni si perdevano nei confini.

La nuova direttiva entra in vigore venti giorni dopo la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale e gli Stati membri avranno tre anni per recepirla, più un altro anno per adeguare le procedure. Un tempo breve per una riforma che tocca milioni di cittadini europei, ma necessario per centrare il traguardo di metà secolo: “zero vittime nel trasporto stradale dell’Ue entro il 2050”.

1.     Patente digitale e nuovi controlli

È il cambiamento più visibile e, allo stesso tempo, il più simbolico: nasce la patente di guida digitale europea.

Un documento unico, valido in tutti gli Stati membri, che potrà essere archiviato e mostrato direttamente dal telefono. Nel linguaggio di Bruxelles, un “driving licence in digital format”, accessibile tramite app e interoperabile con i sistemi nazionali.

La versione digitale sarà progressivamente affiancata a quella fisica, che i cittadini avranno comunque diritto a richiedere. L’obiettivo è semplificare i controlli e ridurre la burocrazia. La direttiva prevede che il rilascio della patente — anche cartacea — avvenga “senza indebiti ritardi e, in genere, entro tre settimane”.

La digitalizzazione non è solo una questione di praticità. Significa poter verificare in tempo reale la validità del documento, la categoria di veicolo, eventuali limitazioni o sospensioni. Significa anche poter trasferire in modo automatico i dati tra Stati, condizione fondamentale per far funzionare le nuove regole sul riconoscimento reciproco delle sanzioni.

La patente digitale potrà includere un codice QR o elementi di autenticazione elettronica integrati nel sistema EU Login, gli stessi utilizzati per accedere ai portali istituzionali europei. Sarà inoltre compatibile con l’app EU Digital Wallet, che la Commissione sta sviluppando come contenitore unico per documenti d’identità e titoli professionali.

La sicurezza informatica resta un punto sensibile: i dati personali saranno conservati nei database nazionali, ma sincronizzati attraverso un’interfaccia comune. Ogni Stato dovrà adottare standard di cifratura e protezione equivalenti a quelli previsti per il sistema d’identità elettronica europeo (eIDAS 2.0).

Una trasformazione che, nei piani dell’Unione, deve rendere più difficile la falsificazione e più rapido il recupero della patente in caso di smarrimento o rinnovo.

Accanto alla dimensione digitale, arrivano anche nuovi obblighi medici.

Chi richiede la patente — o un rinnovo — dovrà sottoporsi a una visita che includa esami della vista e delle condizioni cardiovascolari. Gli Stati potranno decidere se sostituire la visita con moduli di autovalutazione, ma Bruxelles suggerisce prudenza: la valutazione medica, scrive la direttiva, “contribuisce a prevenire incidenti legati a malori o deficit sensoriali non diagnosticati”.

Infine, la validità: 15 anni per auto e moto, 5 per autobus e autocarri. Gli Stati potranno ridurre la durata a 10 anni se la patente vale anche come documento d’identità nazionale. Sopra i 65 anni, gli Stati membri potranno introdurre controlli medici più frequenti o corsi di aggiornamento obbligatori.

Una misura che, secondo i legislatori, non mira a discriminare per età ma a garantire che l’idoneità alla guida resti proporzionata ai rischi.

2.     Neopatentati e guida accompagnata

La riforma tocca da vicino milioni di giovani europei: per la prima volta, l’Unione introduce un periodo di prova obbligatorio di almeno due anni per i neopatentati.

Un vincolo uniforme che ogni Paese potrà rendere più lungo, ma non più breve. Durante questo periodo, chi sarà sorpreso a guidare in stato di ebbrezza, senza cintura o utilizzando lo smartphone potrà incorrere in sanzioni più severe, fino alla sospensione immediata della patente.

L’esame stesso cambia volto. Le nuove linee guida prevedono che i test includano domande sugli angoli ciechi, sui sistemi di assistenza alla guida (ADAS), sull’apertura sicura delle porte e sull’uso corretto del cellulare.

“L’addestramento alla guida includerà più elementi dedicati alla sicurezza di pedoni e ciclisti”, ha spiegato Jutta Paulus (Verdi/ALE, Germania), relatrice della direttiva sulle patenti. L’obiettivo è sviluppare consapevolezza dei rischi per gli utenti più vulnerabili, un tema cruciale nei contesti urbani.

La novità forse più attesa riguarda l’età minima: sarà possibile ottenere la patente B già a 17 anni, ma solo se si guida accompagnati da un conducente esperto fino al compimento dei 18.

Un modello già diffuso in Germania e nei Paesi Bassi, che punta a migliorare l’esperienza pratica senza abbassare i livelli di sicurezza.

Sul fronte dei professionisti, invece, si cerca di contrastare la carenza di autisti in settori chiave. I diciottenni potranno guidare autocarri (categoria C) e i ventunenni autobus (categoria D), purché abbiano ottenuto il certificato di abilitazione professionale (CQC). Senza tale qualifica, l’età minima resta rispettivamente 21 e 24 anni. Una misura che, secondo Bruxelles, mira a rendere le professioni del trasporto più accessibili e attrattive, mantenendo standard di formazione elevati.

In parallelo, si rafforza la cooperazione per il riconoscimento reciproco dei titoli di guida professionale: un conducente formato in un Paese UE potrà vedersi riconosciuta la propria qualifica in un altro senza dover ripetere l’intero percorso. Un passo importante in un mercato del lavoro che si muove sempre di più oltre i confini nazionali.

3.     Sospensioni e sanzioni oltrefrontiera

Fino a oggi, un autista sorpreso a guidare in stato di ebbrezza in Francia o in Spagna poteva tornare in Italia e continuare a guidare come se nulla fosse. Con la nuova direttiva sulle decisioni di ritiro della patente, questo non sarà più possibile. Le autorità del Paese in cui è avvenuta l’infrazione dovranno notificare la sanzione a quelle dello Stato che ha emesso la patente, che sarà obbligato a riconoscerla e ad applicarla.

Si tratta di una delle innovazioni più incisive del pacchetto: la fine delle “zone franche” di impunità transfrontaliera. Le decisioni di sospensione, ritiro o limitazione della patente verranno comunicate attraverso una piattaforma europea, con tempi stringenti e procedure uniformi.

Ogni Stato dovrà informare gli altri “senza indebiti ritardi” in caso di infrazioni gravi: guida in stato di ebbrezza o sotto effetto di droghe, eccesso di velocità superiore di 50 km/h rispetto al limite, incidenti mortali o fughe dal luogo del sinistro.

Il sistema dovrà essere operativo entro quattro anni. In pratica, un cittadino europeo sanzionato in un Paese non potrà evitare la sospensione semplicemente tornando nel proprio. È un passaggio cruciale verso una vera “giustizia stradale europea”, che fino a oggi restava frammentata.

La riforma prevede inoltre un rafforzamento della cooperazione tra autorità giudiziarie e amministrative, con l’obiettivo di evitare duplicazioni o vuoti. Sarà compito della Commissione creare un registro elettronico comune dove confluiranno i dati relativi alle sospensioni, consultabile dalle forze di polizia e dalle amministrazioni nazionali.

Per i cittadini, questo significa regole più uniformi e meno arbitrarie. Per chi viaggia per lavoro — dai camionisti ai lavoratori transfrontalieri — significa anche poter contare su un sistema chiaro, con procedure di ricorso allineate.

Matteo Ricci lo ha definito “un passo importante verso una maggiore sicurezza stradale e una tutela uniforme per tutti gli utenti”. L’idea è che la responsabilità non si fermi al confine: chi guida in Europa, guida sotto un’unica legge.

Verso un nuovo patto europeo sulla mobilità

La riforma delle patenti è un tassello di una strategia più ampia: quella della mobilità sostenibile e sicura.

Bruxelles punta a integrare i nuovi standard di formazione con la transizione tecnologica — veicoli elettrici, guida assistita, intelligenza artificiale nei sistemi di sicurezza. La futura patente digitale potrà dialogare con i veicoli connessi, aggiornarsi in tempo reale sulle scadenze, segnalare il superamento di limiti o l’attivazione di dispositivi di assistenza.

Un cambio di paradigma: dalla patente come documento, alla patente come interfaccia.

E nel frattempo, l’Europa prova a costruire un linguaggio comune della sicurezza: più formazione, più trasparenza, meno scorciatoie. La strada verso lo “zero vittime” è lunga, ma da oggi ha regole più chiare. Adnkronos 23

 

 

 

 

Vecchiaia: la saggezza del tempo

 

Attualmente ho settantatré anni e sento di camminare su una strada fatta solo per andare avanti — un sentiero che ha soltanto un’uscita e nessuna inversione di marcia. Eppure, questo cammino è pieno di profondità, di contemplazione e di percezione. La vita non mi consuma più; il ritmo si è rallentato, e con esso è svanito anche il bisogno disperato di dimostrare qualcosa o di essere visto.

 

È rimasta soltanto una felicità tranquilla, una semplicità interiore, una consapevolezza conquistata a caro prezzo nel vedere la vita così com’è — nella sua bellezza, transitorietà e complessità. Ho capito, col tempo, che ciò che conta non è quanto realizziamo o guadagniamo, ma come viviamo ogni istante. Ogni secondo può essere speso con saggezza — per restare presenti, dare e ricevere amore, coltivare relazioni, e camminare dolcemente verso i propri obiettivi. Quelle piccole cose — una parola gentile, un sorriso condiviso, un orecchio che ascolta — sono i veri gioielli della vita, più preziosi di qualsiasi guadagno materiale.

 

Per molti, la vecchiaia è paura, ansia o perdita; per me, invece, è una profonda liberazione. Ogni giorno ci offre il privilegio di rivolgerci all’interno, di osservare i sentimenti, di contemplare i pensieri, e di vivere con la saggezza che nasce dall’esperienza. Il corpo invecchia, ma il cuore e la mente respirano una nuova aria — una seconda giovinezza che cerca piaceri più sottili. L’ambizione e la vittoria della gioventù, la ricerca di approvazione e di successo, perdono piano piano ogni significato. Resta soltanto la serenità di una vita vissuta con sincerità, comprensione e autenticità. È qui che impariamo l’arte di essere pienamente umani.

 

La vecchiaia insegna a donare senza aspettative, ad amare senza ricompense. Impara a valorizzare le piccole cose: la prima luce del mattino, il fruscio delle foglie, la risata dei nipoti, la dolcezza della mano di un amico. Pazienza, bontà e compassione — queste sono le vere ricchezze che si accumulano anno dopo anno. Essere qui non richiede prestazioni o apparenze, ma presenza: una presenza consapevole, che guarisce e che è reale. La vecchiaia, in verità, non è un morire lento, ma un approfondirsi dell’essere — il momento in cui il vero sé diventa più importante, più sensibile, più sintonizzato con le sfumature della vita.

 

Arriva poi un momento in cui il rumore del mondo si attenua, quando la corsa, la competizione, l’affanno, iniziano a dissolversi. Si comincia a guardare dentro, non più fuori. Questa svolta interiore è il segreto dell’età: non la perdita della vita, ma la sua maturazione. Tutte le cose cercate con tanta frenesia — successo, approvazione, riconoscimento — diventano nulla, o quasi. La pace, si scopre, non era mai altrove; era sempre dentro di noi, nascosta sotto il rumore dell’ambizione e della mancanza. Arriva un balsamo, una pace che nessun trionfo giovanile può dare. È la comprensione che la vita ci ha dato ciò di cui avevamo bisogno, che ogni perdita, ogni esperienza, ogni vittoria ha temprato l’anima.

 

Guarda il volto di un anziano. Ogni ruga racconta una storia: di una risata vissuta, di un dolore sopportato, di una speranza inseguita. Non sono segni di decadenza, ma medaglie di coraggio. I loro silenzi sono più forti delle parole, perché gli anziani non devono più dimostrare né competere. Hanno capito che la vita non deve nulla alla certezza, e che la verità ama nascondersi nei momenti di osservazione silenziosa. I giovani vivono di domande; gli anziani, di significato. Durante la gioventù, pensiamo di plasmare la vita; nella vecchiaia, comprendiamo che è stata la vita a plasmare noi. Ogni dolore, ogni vittoria, ogni perdita è stato uno scalpello gentile del carattere, un’opera invisibile del tempo.

 

La società moderna ignora gli anziani. La vita moderna corre troppo in fretta, ossessionata dalla novità e dall’urgenza. Eppure, negli occhi degli anziani si trova tutta la storia dell’umanità. Sono biblioteche viventi, non piene di libri, ma di sentimenti e ricordi. Raccontano d’amore, di lotta, di vittoria, di fede e di resistenza — storie che attraversano le generazioni. La loro conoscenza non è teorica, ma vissuta, esperienziale, profondamente umana. Stare accanto a un anziano è come leggere un intero volume sulla vita. Ascoltandoli, comprendiamo ancora una volta le lezioni eterne: perdonare, perseverare, amare anche nella perdita, e trovare bellezza anche nella fragilità.

 

La tristezza della vecchiaia non è nel sopravvivere, ma nel saper cedere; non nella debolezza, ma nella tenerezza che nasce dalla consapevolezza di ciò che davvero conta. Gli anziani non corrono più contro il tempo; camminano al suo fianco, sapendo che la vita non si misura in anni, ma in esperienze vissute. Non interrogano più la vita; la accolgono, nella sua misteriosa interezza. Le rughe non sono segni della brutalità del tempo, ma della sua grazia. I capelli grigi non sono sconfitta, ma una corona di esperienza. Il corpo cede, ma l’anima si espande, come il cielo della sera che si apre al tramonto. È una bellezza dolce, delicata, una grazia nata dall’accettazione e dalla saggezza.

 

L’età non è una fine, è un ritorno a casa — il cerchio che si chiude dolcemente. Il bambino che guardava il mondo con meraviglia ora incontra lo sguardo dell’uomo saggio che lo contempla con serenità. Tra i due si distende l’intera vita: meraviglia, scoperta, errore, apprendimento, felicità, dolore, e infine saggezza. Quando il cerchio si completa, non resta tristezza, ma gratitudine — per la vita ricevuta, vissuta, e compresa. Chi sa invecchiare insegna la più grande delle lezioni: per vivere meravigliosamente, bisogna imparare a lasciar andare con grazia. L’invecchiare è l’arte dell’accettazione — accogliere la vita con dolcezza e lasciarla andare senza paura.

 

Forse la saggezza della vecchiaia è proprio questa: spogliare l’inutile per toccare l’eterno. E negli occhi quieti degli anziani, forse, ritroviamo quella luce tenue, quella verità silenziosa, quell’armonia ultima tra essere e divenire. La vita, alla fine, non si indebolisce con l’età. Matura. Si radica. Si fa essenza. E in quella profondità, in quella quiete della mente, la vecchiaia ci offre il suo dono più prezioso: una vita osservata, amata e compresa.

Krishan Chand Sethi, dip 20

 

 

 

 

 

Il CGIE verso una nuova centralità nelle istituzioni

 

Il Comitato di Presidenza, riunito a Roma, rafforza il dialogo con Parlamento e Governo invitandoli a investire sugli italiani all’estero. Siglato l’accordo con il CNEL per gli incentivi al rientro e la valorizzazione del contributo dei connazionali nel mondo al sistema Paese. Attese risposte alle richieste di modifica della legge sulla cittadinanza

ROMA – Il Comitato di Presidenza del Consiglio Generale degli Italiani all’Estero, riunito alla Farnesina dal 29 settembre al 3 ottobre, ha segnato un ulteriore progresso nello sforzo sistematico di riportare l’organismo al centro delle istituzioni e di far sì che il tema della diaspora nazionale non sia considerato marginale, dal momento che i connazionali nel mondo sono ormai 7,3 milioni, ma si radichi nell’opinione pubblica la convinzione che rappresenta una miniera d’oro per lo sviluppo del Paese. Durante la proficua settimana di lavori il CdP-  informa la nota del Cgie – ha incontrato le Commissioni Esteri di Camera e Senato e la Commissione Bilancio di Palazzo Madama – dalla quale prenderà avvio l’esame della manovra finanziaria – oltre a esponenti dell’intero arco parlamentare, per assicurarsi che gli ordini del giorno sulla cittadinanza e sulla messa in sicurezza del voto all’estero approvati dall’Assemblea plenaria dello scorso giugno vengano recepiti e abbiano un seguito, e che siano garantite alla rappresentanza degli italiani all’estero le risorse necessarie a svolgere le attività assegnate dalla legge. Temi su cui il CdP tornerà a confrontare la politica a Roma il 18 e 19 novembre prossimi. È stata inoltre sollecitata ancora una volta la convocazione della V Assemblea plenaria della Conferenza permanente Stato-Regioni-PA-CGIE.

In particolare sulla riforma della cittadinanza, in Parlamento e durante l’incontro con il sottosegretario Giorgio Silli (con il quale, fra l’altro si è dibattuto della riforma del MAECI),  è stata segnalata l’esigenza di prorogare il termine di un anno per la registrazione dei figli minori, tema sul quale sembra registrarsi un’apertura, e la necessità di abbandonare il limite della doppia cittadinanza. Si guarda inoltre con attenzione al prossimo pronunciamento della Corte costituzionale sulla retroattività prevista dalla riforma. Con la DGDP del MAECI si è affrontato il delicatissimo tema della diffusione della lingua e della cultura che, insieme alla riforma del Consiglio Generale e alla promozione dell’insegnamento della storia dell’emigrazione, fa parte dell’agenda dei lavori del secondo semestre dell’anno. Nel corso dell’incontro si è fatto presente che molti enti gestori nel mondo versano in gravi difficoltà per quanto riguarda la circolare ministeriale che regola l’erogazione dei contributi per i corsi all’estero. È stata anche rivendicata la necessità di confrontarsi sulle trasformazioni del settore coinvolgendo il CGIE nei tavoli di lavoro in materia, analogamente a quanto è avvenuto in preparazione della Conferenza internazionale dell’italofonia, in programma il 19 novembre prossimo; evento dal quale dovrebbe scaturire il segretariato dell’italofonia, cui il Consiglio Generale ha chiesto di partecipare. Imprescindibile, poi, l’insegnamento della storia della diaspora italiana nelle scuole, obiettivo da raggiungere nel 2026, anno in cui ricorrono i quarant’anni dall’istituzione della rappresentanza di base delle comunità italiane all’estero e i settant’anni dalla tragedia mineraria di Marcinelle.

Unanime soddisfazione ha suscitato la firma dell’accordo interistituzionale con il CNEL, che costituisce un salto di qualità rispetto al previsto protocollo d’intesa e rappresenta un passaggio emblematico dell’impegno del Consiglio Generale in materia di nuova mobilità, di incentivi al rientro e per il riconoscimento e la valorizzazione del contributo al sistema Paese delle collettività di connazionali nel mondo. L’accordo fornisce inoltre al CGIE l’opportunità di compiere un ulteriore passo in avanti nel suo percorso di incardinamento nei corpi intermedi, fornendogli nuovi strumenti di azione. Il Consiglio Generale si associa inoltre con convinzione all’iniziativa dell’Italia in accordo con il Parlamento europeo, promossa dal presidente Renato Brunetta, di istituire una giornata europea in ricordo delle vittime di Marcinelle, che costituisce un passaggio importante per la valorizzazione della storia dell’emigrazione. Sempre in materia di incentivi al rientro, si segnala che, in conseguenza del protocollo d’intesa con il Commissario straordinario per la ricostruzione delle zone colpite dal sisma del 2016 siglato lo scorso aprile, è stato istituito un sottocomitato ad hoc all’interno del CdP. La settimana di lavori ha fornito anche l’occasione per organizzare l’attività interna del Consiglio Generale: si è stabilito di elaborare una proposta di riforma della legge istitutiva del CGIE, da sottoporre all’approvazione della prossima Assemblea plenaria, per adeguarlo alle mutate esigenze dell’attuale diaspora, non senza aver definito le fondamentali questioni relative alla natura giuridica dell’organismo e alla durata del mandato rispetto a quello del Com.It.Es. Non meno importanti, la programmazione delle prossime assemblee continentali sui territori e il coordinamento con i Presidenti delle Commissioni tematiche, con i quali si è delineata l’operatività futura, che tra le altre cose vedrà la realizzazione di webinar specifici sulle materie di competenza, con il coinvolgimento della rappresentanza di base. (Inform/dip 8)

 

 

 

 

 

Incontro online dello CSER “Migrazioni a fumetti”

 

 ROMA – Si è svolto online l’incontro del Centro Studi Emigrazione (CSER) “Migrazioni a fumetti, esperienze editoriali e progetti culturali sulla mobilità umana”. Tra i vari ospiti intervenuti durante l’incontro, ha preso parola anche il Consigliere del Maeci Giovanni Maria De Vita, coordinatore del Progetto Turismo delle Radici.  “Attraverso il fumetto – ha esordito De Vita – noi abbiamo pensato di stimolare l’attenzione del pubblico sull’emigrazione italiana attraverso un linguaggio nuovo, che è vicino ai giovani, e che richiede un’attenzione minore rispetto a leggere i meravigliosi volumi della storia dell’emigrazione italiana”. In proposito il Consigliere ha ricordato il lavoro realizzato anni fa sulla storia degli italiani in Belgio: “una iniziativa che ci è pervenuta dal Comites di Bruxelles, che ci ha chiesto un finanziamento per questo progetto, progetto che è stato poi condiviso finanziariamente dalle amministrazioni delle Fiandre e dalla Wallonia. Così nasce la storia degli italiani in Belgio, una storia importante, che parla di questa odissea dei nostri italiani, tra l’altro, con un’attenzione a quello che gli italiani hanno dovuto patire e con riferimento anche ai molti gruppi etnici che stanno arrivando oggi in Italia. Devo dire – ha aggiunto De Vita – che la bellezza di questo fumetto è quella di raccontare una storia davvero significativa, cioè quella degli italiani in Belgio, che ha portato ed una accettazione della comunità e all’ottenimento di successi attraverso l’impegno ed il sacrificio”. “Vi è stata poi – ha proseguito De Vita – l’iniziativa del Comites di Parigi, con un libro a fumetti dedicato alla storia degli italiani famosi sepolti nel cimitero Père-Lachaise.  Dopo di che abbiamo avuto il Comites di Zurigo, che ha realizzato una storia su un fenomeno molto drammatico dell’emigrazione italiana, che è quella dei bambini nascosti. Nel libro si parla di questa bambina immaginaria ma nel contesto di una storia vera. Dopo di che hanno abbiamo avuto le esperienze di Buenos Aires e Belo Horizonte, ed ora siamo in attesa di New York”. Ha poi preso la parola la illustratrice e fumettista Simona Binni che collabora con il Maeci nell’Ambito del Progetto del Turismo delle Radici. “Io penso – ha rilevato Binni – che il fumetto sia importantissimo come strumento di divulgazione, ed è un modo per sensibilizzare in particolar modo le nuove generazioni e avvicinarle a temi come quello dell’emigrazione. Di sicuro il fumetto si serve della potenza dell’immagine, io da disegnatrice passo molto tempo a cercare di immedesimarmi nei personaggi che poi vado a raccontare, quindi spesso e volentieri entro nelle espressioni di dolore, di gioia delle loro vite attraverso la mia matita. Ma io credo che – ha proseguito la fumettista – che la cosa straordinaria del fumetto sia quella di riuscire a mettere insieme la potenza dell’immagine, con quella della parola. Allo stesso tempo il fumetto consente di soffermarsi su ciò che si legge dando anche la possibilità di poter tornare indietro. In una epoca in cui è tutto tanto veloce, poter tornare a riflettere sulle cose, poter voltare nuovamente la pagina, io credo che sia un recupero del nostro tempo estremamente importante”. Binni si è poi soffermata sulla sua storia a fumetti intitolata “Sotto lo stesso cielo”, in cui si parla della storia di una ragazza argentina di nome Cynthia, con dei nonni italiani, che si sono trasferiti in Argentina. Nel fumetto la protagonista della storia parte per l’Italia alla ricerca delle proprie origini e dei luoghi da dove proviene la sua famiglia. Ma quando è giunto il momento di ritornare in Argentina la protagonista capisce – spiega Binni – che “il nostro posto è dove resta il nostro cuore”. (Lorenzo Morgia- Inform/dip 12)

 

 

 

 

Incentivi al rientro, la proposta del CGIE: “Un portale unico nazionale” 

 

ROMA – Garantire la diffusione sistematica di tutti i provvedimenti riguardanti il rientro e l’attrattività dei territori, rafforzando e sviluppando il lavoro già impostato dalle Commissioni tematiche del Consiglio Generale degli Italiani all’Estero: è questo l’impegno assunto dal sottocomitato per gli incentivi al rientro, interno al Comitato di Presidenza, promosso e coordinato dal vicesegretario generale per l’Europa e l’Africa del Nord Giuseppe Stabile, che è stato costituito a seguito della recente firma del protocollo d’intesa con il Commissario straordinario della Presidenza del Consiglio dei Ministri per la ricostruzione delle aree colpite dal sisma del 2016.  Tra gli obiettivi principali figurano, spiega il Cgie : la diffusione coordinata e capillare delle informazioni sugli incentivi al rientro; la creazione di un meccanismo organico di monitoraggio e aggiornamento; il rafforzamento della capacità del sistema Italia di attrarre capitale umano e investimenti. Il sottocomitato intende coinvolgere all’estero le autorità diplomatico-consolari, le Camere di Commercio, l’ICE e le associazioni affinché veicolino attraverso i propri canali istituzionali e con eventi dedicati le misure statali, regionali e locali in essere, anche attraverso un bollettino informativo digitale dedicato, redatto con un linguaggio semplice e mirato alle diverse categorie interessate (pensionati, giovani, ricercatori, professionisti, imprese).

Allo scopo si propone, precisa il Cgie,  l’istituzione di un osservatorio permanente che si avvalga del contributo dei Ministeri competenti (MAECI, Turismo, MIMIT, Affari Europei/PNRR, MEF), delle Regioni e dell’ANCI, cui sono state indirizzate missive in merito, nonché delle Associazioni e dei Com.It.Es. con il compito di mappare e aggiornare periodicamente le misure disponibili, rilevare il numero di italiani che hanno beneficiato degli incentivi, elaborare proposte di miglioramento e nuove misure in base ai dati raccolti, che dovranno essere convogliati in un Portale unico nazionale multilingue sugli incentivi (aggiornato e facilmente navigabile, con schede sintetiche per ogni misura e guide pratiche per l’accesso), collegato ai siti istituzionali competenti, che raccolga in maniera organica tutte le misure esistenti. Tali iniziative, attuabili senza oneri per lo Stato, rafforzano, sottolinea il Cgie, politiche economiche e fiscali di attrattività e favoriscono il rientro di competenze, imprese e famiglie, contribuendo al ripopolamento delle aree interne e al potenziamento dei servizi consolari e territoriali. (Inform/dip 13)

 

 

 

 

 

Was Migranten über Merz‘ „Stadtbild“ sagen

 

Wie kommt die „Stadtbild“-Debatte bei Migranten an? Viele sind nicht wirklich überrascht, denn sie kennen solche Aussagen aus dem Alltag. Und haben interessante Techniken entwickelt, damit umzugehen. Von Christoph Driessen

Cossu (36) ist eigentlich so deutsch, wie man sein kann. Er ist geboren und aufgewachsen im Schwarzwald, in Haslach im Kinzigtal. Dennoch wurde er ziemlich oft gefragt: „Wem gheastn?“ Das ist Badisch und bedeutet: „Wem gehörst du?“ – „Woher kommst du?“ Die Frage nach der Zugehörigkeit also. Seine Antwort war immer: „Ussem Schwarzwald.“ Das meinten die Leute aber nicht. Sie meinten, wo er ursprünglich herkommt. Denn Cossu ist Schwarz.

Die „Stadtbild“-Äußerung von Bundeskanzler Friedrich Merz (CDU) hat Cossu deshalb nicht wirklich überrascht. „Dadurch dass ich schon mein ganzes Leben lang mit solchen Sprüchen konfrontiert bin, war ich jetzt nicht irgendwie empört oder schockiert.“ Wobei es „schon nochmal ’ne andere Nummer“ sei, dass das jetzt ein Bundeskanzler so raushaue. Merz hatte unter anderem gesagt, die Bundesregierung korrigiere frühere Versäumnisse in der Migrationspolitik. „Aber wir haben natürlich immer im Stadtbild noch dieses Problem, und deswegen ist der Bundesinnenminister ja auch dabei, jetzt in sehr großem Umfang auch Rückführungen zu ermöglichen und durchzuführen.“

Am Montag war er bei seiner Haltung geblieben und hatte nachgelegt: „Fragen Sie mal Ihre Töchter, was ich damit gemeint haben könnte.“ Am Mittwoch konkretisierte er, Probleme würden diejenigen Migranten machen, die keinen dauerhaften Aufenthaltsstatus hätten, die nicht arbeiteten und die sich nicht an die in Deutschland geltenden Regeln hielten.

Die Debatte, die Merz’ Äußerungen auslösten, ist so groß wie schon lange keine mehr. In vielen deutschen Städten gab es Demonstrationen, im Netz wird heftig diskutiert. Der Rapper Eko Fresh hat sogar einen Song dazu rausgebracht, Titel „Friedrich“. Darin singt er: „Lieber Friedrich, du hast echt bezaubernde Töchter. Wir auch – aber unsere hausen in Löchern. Junkies im Flur, Hochhaus mit Verbrechern, aber nicht, dass du denkst, dass wir Ausländer meckern.“

Was ist es, was die Äußerung von Merz so brisant macht? Haci-Halil Uslucan, Professor für Türkeistudien an der Universität Duisburg-Essen, sieht die Ursache in dem Wort „Stadtbild“. „Stadtbild“ zielt auf etwas Unveränderliches ab. „Wenn man sagt ‚Die Migranten müssen besser Deutsch lernen‘, dann ist das etwas, was man ändern, kann. Beim Stadtbild aber geht es darum, wie jemand aussieht. Und das kann man nicht ändern.“

Badischer Dialekt als Brücke zur Mehrheitsgesellschaft

Cossu – mit bürgerlichem Namen Lukas Staier – hat seinen aus dem Kongo stammenden Vater nie kennengelernt. Seine Mutter ist Deutsche. „Ich bin quasi weiß sozialisiert“, erzählt er der Deutschen Presse-Agentur. Und doch merkte er schon als kleiner Junge, dass er anders wahrgenommen wurde. Nicht voll dazugehörte. „Für Familie und Freunde gilt das nicht, aber wenn ich Leute getroffen habe, die mich nicht kannten, dann kamen da erstmal fragende Blicke – eben wegen der Optik.“

Er hat sich dann schon früh etwas ausgedacht, um dem zu begegnen: Er sprach bewusst badisch. „Da habe ich richtig so mein Steckenpferd draus gemacht, weil ich Wege gesucht habe, Zugang zu anderen zu bekommen, ihnen ihre Ängste zu nehmen.“ Visuell mochte er vielleicht nicht als typischer Deutscher wahrgenommen werden, aber dieser Eindruck wurde durch die Akustik gleichsam korrigiert. Im Laufe der Zeit entwickelte Cossu ein richtiges Faible für deutsche Dialekte. Irgendwann postete er auf Social Media erste Dialekt-Videos, die solche Renner wurden, dass er mittlerweile hauptberuflicher Comedian ist.

In seinem neuesten Video setzt er sich mit der „Stadtbild“-Äußerung von Merz auseinander: „Was kann ich denn noch machen?“, fragt er schulterzuckend – ein Gefühl, das er derzeit mit vielen Menschen mit Migrationsgeschichte teilt. „Es irritiert Zuwanderer enorm, dass sie sich einerseits integrieren sollen, aber doch nie voll als Teil der Gesellschaft anerkannt werden“, erläutert Uslucan. „‘Integrier dich – aber dazu gehörst du nicht‘ – das ist eine widersinnige Botschaft.“

Türkischstämmiger Berliner gibt Friedrich Merz recht

CDU-Politiker verteidigen Merz damit, dass er gerade auch vielen Migranten aus der Seele spreche. Auch die seien nämlich mit dem Verhalten vieler Neuankömmlinge und besonders krimineller Ausländer ohne Bleiberecht nicht einverstanden.

Einer, der tatsächlich so denkt und das auch offen ausspricht, ist Burak I??kda?l?o?lu (38), Urberliner, Sohn türkischer Einwanderer und zweiter Vorsitzender des Fußballclubs BAK. Er macht dort die Jugendarbeit, hat ein Flüchtlingsprojekt für Afghanen und Syrer betreut. Die Entwicklung der vergangenen Jahre sieht er aber negativ: „Wir zum Beispiel als Sportvereine sagen: Wenn in einer Fußballmannschaft 100 Prozent der Spieler mit Migrationshintergrund sind, kann da keine Integration funktionieren. Wir brauchen eine gesunde Mischung.“

Die sei aber auch nicht mehr gegeben, wenn in manchen Straßen nur noch Läden aus einer Kultur zu finden seien. „Vielfalt bedeutet für mich den türkischen Imbiss, aber auch den Griechen und den deutschen Bäcker und Metzger.“ I??kda?l?o?lu bemerkt ein Unsicherheitsgefühl sowohl bei alteingesessenen Deutschen als auch bei Migranten, die in Deutschland geboren seien: „Die fragen sich: Was passiert eigentlich mit unserem Land?“

Tatsache ist, dass Zuwanderer ähnlich wählen wie der Durchschnitt. „Wir haben ein bisschen weniger Grün, ein bisschen weniger CDU/CSU und dafür mehr SPD“, sagt der Politikwissenschaftler Andreas Wüst von der Hochschule München. Auch die AfD werde gewählt, besonders von Russlanddeutschen. Auch bei den Einstellungen ergäben sich keine großen Unterschiede, so sei ein ähnlich hoher Anteil der Wahlberechtigten mit Migrationshintergrund für eine Begrenzung von Migration und halte sowohl das Beherrschen der deutschen Sprache als auch den Erhalt von Traditionen in Deutschland für wichtig.

„Für diese Leute sind und bleiben wir die Ausländer“

Integrationsforscher Uslucan weist noch auf einen anderen Aspekt hin: „Die Erfahrung der Zuwanderer, die schon lange hier leben – zweite, dritte, vierte Generation -, ist, dass die Mehrheitsgesellschaft zwischen ihnen und den neu dazugekommenen Geflüchteten etwa aus Syrien nicht unterscheidet. Es wird eben nicht gesagt: ;Du bist schon seit 30 Jahren hier, du gehörst dazu – und du nicht;, sondern es werden alle über einen Kamm geschert. Und das löst ein Bedürfnis nach Abgrenzung aus.“

Cossu unterstellt Merz keinen Rassismus. „Aber er befördert Rassismus. Denn viele Leute hören das, denken sich ihren Teil – und das kriegen Menschen wie ich dann auf der Straße zu spüren. Denn für diese Leute sind und bleiben wir ‚die Ausländer‘.“ Cossu weiß deshalb schon genau, was er Merz sagen würde, wenn er ihn mal treffen würde. Das wäre: „Schwätz mir kei‘ Roscht ans Mofa.“

(dpa/mig 29)

 

 

 

 

 

Studie offenbart tiefe Vorurteile. Jeder Zweite glaubt an „Islamisierung“ Deutschlands

 

Fast die Hälfte der Deutschen meint, der Islam unterwandere die Gesellschaft. Noch mehr sind überzeugt, man dürfe „nichts Schlechtes über Ausländer sagen“. Eine neue Studie zeigt, wie weit rechtspopulistische Denkmuster in der Mitte der Gesellschaft verankert sind.

Der Anteil der Deutschen mit einem rechtspopulistischen Weltbild ist laut einer Studie der Universität Hohenheim konstant. Er liege bei 17 Prozent, in der AfD-Anhängerschaft bei 84 Prozent, teilte die Universität in Stuttgart mit. Für die jährliche Erhebung befragte das Meinungsforschungsinstitut Forsa im Auftrag der Forscher im August und September 4.057 Bundesbürger ab 16 Jahren. Den Befragten wurden 18 Aussagen vorgelegt. Sie sollten angeben, wie stark sie diesen Aussagen zustimmen oder wie stark sie diese ablehnen.

„Rechtspopulisten verwenden immer wieder die gleichen Erzähl-Elemente“, beobachtet der Kommunikations- und Politikwissenschaftler Prof. Dr. Frank Brettschneider und zählt auf: „1. Es gibt einen einheitlichen ‚Volkswillen‘. 2. Dieser wird von inneren und äußeren Mächten unterdrückt. 3. Zu den inneren Mächten zählen die politischen Eliten und die Massenmedien. 4. Zu den äußeren Mächten zählen die EU, die Globalisierung und der Islam.“

Islam und Ausländer – tiefe Vorurteile

Zur Einstellung gegenüber dem Islam gibt die Studie weitere Einblicke. Danach stimmt knapp jeder Zweite (49 Prozent) der Aussage ganz oder teilweise zu, die deutsche Gesellschaft werde durch den Islam unterwandert. In Ostdeutschland (57 Prozent) erntet diese Aussage deutlich mehr Zustimmung als in Westdeutschland (48 Prozent).

Deutlicher fällt das Meinungsbild der Befragten zu folgender Aussage aus: „In Deutschland darf man nichts Schlechtes über Ausländer sagen, ohne gleich als Rassist zu gelten.“ Hier stimmten 64 Prozent der Befragten der Aussage voll oder eingeschränkt zu. Ähnliches Bild auch im Ost-West-Vergleich: 72 bzw. 63 Prozent.

Geheime Organisationen, Medienlügen, Volksbetrug

Wie aus der Studie weiter hervorgeht, glaubt gut ein Viertel der Befragten, dass geheime Organisationen großen Einfluss auf politische Entscheidungen haben. Ein Fünftel sei davon überzeugt, Massenmedien würden die Bevölkerung „systematisch belügen“. Knapp ein Viertel meine, die Regierenden „betrügen das Volk“. In Ostdeutschland stimmten sogar 35 Prozent dieser Aussage zu. 25 Prozent der Befragten meinten: „Die Regierung verschweigt der Bevölkerung die Wahrheit.“ In Ostdeutschland lieg der Anteil bei 37 Prozent.

Im Osten Deutschlands sei der Anteil der Befragten mit einem solchen Weltbild höher (28 Prozent) als im Westen (15 Prozent). Je höher die formale Bildung der Befragten, desto geringer sei der Anteil derjenigen, die über ein populistisches Weltbild verfügen. Am höchsten sei der Anteil bei den 45- bis 59-jährigen Männern (23 Prozent), am niedrigsten bei den über 60-jährigen Frauen (9 Prozent).

Größte Unterschiede zwischen Grüne- und AfD-Wählern

„Der größte Unterschied besteht zwischen der Anhängerschaft der Grünen und der Anhängerschaft der AfD: 84 Prozent der AfD-Anhängerschaft haben ein populistisches Weltbild. Bei der Anhängerschaft der Grünen ist es noch nicht einmal ein Prozent“, so Prof. Brettschneider. Es sei gerechtfertigt, überwiegend von „Rechtspopulismus“ zu sprechen. Denn unter den Befragten, die sich politisch selbst als stark rechts einstufen, beträgt der Populismus-Anteil 68 Prozent. Unter den Befragten, die sich politisch selbst als stark links einstufen, liegt der Anteil bei sechs Prozent.

Bemerkenswert findet der Politikwissenschaftler ein weiteres Ergebnis: „Menschen mit einem populistischen Weltbild beurteilen die Lebensqualität in ihrem Bundesland deutlich schlechter als in allen anderen. Sie blicken auch weniger optimistisch in ihre persönliche Zukunft. Und sie glauben überdurchschnittlich oft, dass früher alles viel besser war.“ Es läge nahe, hier auch eine Verbindung zur häufigen Nutzung von Social-Media-Plattformen zu ziehen. „Auf einigen Social-Media-Kanälen überwiegen negative Meldungen. Sie verbreiten Weltuntergangs-Stimmung. Und wer sich dann – durch Algorithmen gesteuert – dem Doomscrolling hingibt, glaubt irgendwann, die Welt sei dem Untergang geweiht“, so der Experte. (epd/mig 28)

 

 

 

 

 

Das neue nukleare Zeitalter

 

Atomwaffen erleben ein gefährliches Comeback. Ohne neue Rüstungskontrolle droht der Welt ein atomares Armageddon. Von Rolf Mützenich

Der kürzlich in den Kinos und auf Netflix erschienene Thriller A House of Dynamite greift auf eindringliche Weise ein Thema auf, das nach dem Ende des Kalten Kriegs lange Zeit als überwunden galt: die Gefahr eines atomaren Armageddons. In dem Film von Kathryn Bigelow entdeckt das US-Militär plötzlich eine Interkontinentalrakete über dem Pazifik, die innerhalb weniger Minuten das US-Festland erreichen könnte. Aus unterschiedlichen Perspektiven erzählt der Film, wie politische und militärische Entscheidungsträger versuchen, auf die Krise zu reagieren. Dabei wird deutlich, wie verwundbar wir trotz hoch entwickelter Abwehrsysteme und strategischer Planspiele sind und wie rasch ein einzelner Angriff mit Atomwaffen binnen Minuten in eine globale Katastrophe eskalieren könnte.

Der Film ist kein fernes Gedankenspiel, sondern spiegelt ein zunehmend realistisches Szenario unserer Gegenwart wider. Die Zeiten, in denen der damalige US-Präsident Barack Obama 2009 in Prag die Vision einer atomwaffenfreien Welt vorantrieb, wirken heute wie aus einer längst vergangenen Epoche. Stattdessen erleben wir, wie atomare Drohungen wieder offen ausgesprochen werden, wie taktische Nuklearschläge in den strategischen Überlegungen der Großmächte als ernsthafte militärische Option diskutiert werden, wie Abrüstungs- und Rüstungskontrollverträge auslaufen oder aufgekündigt werden, wie nukleare Arsenale modernisiert und neue Trägersysteme entwickelt werden. Die bittere Wahrheit ist: Die Gefahr eines atomaren Konflikts ist heute wohl so groß wie noch nie zuvor. Wir stehen an der Schwelle eines neuen nuklearen Zeitalters, das noch komplexer, unberechenbarer und unsicherer ist als das sogenannte „Gleichgewicht des Schreckens“ während des Kalten Kriegs.

Der geopolitische Kontext hat sich in den vergangenen Jahren dramatisch verändert. Seit dem russischen Angriff auf die Ukraine hat Moskau seine Nukleardoktrin verschärft und wiederholt mit einem Einsatz atomarer Waffen gedroht. Gleichzeitig baut China sein Atomwaffenarsenal massiv aus.  Bei einer Militärparade zur Feier des 80. Jahrestags des Siegs im Zweiten Weltkrieg präsentierte Peking im September erstmals seine vollständige nukleare Triade. Nach Angaben des Stockholmer Friedensinstituts SIPRI verfügt die Volksrepublik inzwischen über mindestens 600 Atomwaffensprengköpfe. Experten gehen davon aus, dass diese Zahl bis 2035 auf 1 500 Sprengköpfe ansteigen und damit das Niveau des amerikanischen und des russischen Nukleararsenals erreichen könnte.

Die Welt bewegt sich derzeit auf ein neues tri- oder gar multipolares nukleares Zeitalter zu. Gegenwärtig verfügen neun Staaten über Atomwaffen, darunter die fünf ständigen Mitglieder des UN-Sicherheitsrats sowie Israel, Indien, Pakistan und Nordkorea. Doch angesichts wachsender globaler Unsicherheiten und geopolitischer Spannungen erwägen immer mehr Länder, eigene nukleare Fähigkeiten zu entwickeln. Erst am 17. September 2025 unterzeichneten Saudi-Arabien und die Atommacht Pakistan ein neues Verteidigungsabkommen, das eine gegenseitige Beistandsklausel enthält. Der Pakt ist nicht nur ein Signal an potenzielle regionale Rivalen, sondern verdeutlicht auch die sich wandelnde Machtordnung im Nahen Osten, in der die USA nicht mehr als zuverlässiger Sicherheitsgarant wahrgenommen werden.

Diese regionalen Verschiebungen sind zugleich Teil einer weitreichenderen globalen Entwicklung: Die Pax Americana weicht allmählich einer multipolaren Weltordnung, in der die USA nicht länger willens oder in der Lage sind, die internationale Stabilität allein zu gewährleisten. Das schwindende Vertrauen in die amerikanischen Sicherheitsgarantien führt dazu, dass inzwischen nicht mehr nur Gegner des Westens, sondern selbst enge Verbündete der USA wie Japan und Südkorea im Indopazifik und auch europäische Staaten offen über eigene nukleare Kapazitäten nachdenken. Vor dem Hintergrund dieser Entwicklungen warnte jüngst der Generaldirektor der Internationalen Atomenergie-Organisation (IAEO), Rafael Grossi, in einem Interview mit Repubblica vor einer Welt mit 20 bis 25 Nuklearwaffenstaaten.

Es ist allerdings höchst fraglich, ob eine multipolare Welt mit über 20 Atomwaffenstaaten tatsächlich zu größerer Sicherheit beitragen würde. Das Konzept der Abschreckung setzt eine gewisse Rationalität und Berechenbarkeit der handelnden Akteure voraus. Doch je mehr Akteure über Atomwaffen verfügen, desto größer wird das Risiko von irrationalem Verhalten, von Fehleinschätzungen, Missverständnissen, technischen Unfällen und Eskalationsdynamiken. Zugleich erschwert eine wachsende Zahl nuklearer Akteure die Schaffung verbindlicher Regeln für Abrüstung und Rüstungskontrolle erheblich.

Das bestehende System der Abrüstung und der Rüstungskontrolle steht ohnehin am Rand des Zusammenbruchs. Sowohl Russland als auch die USA haben in den vergangenen Jahren den Mittelstrecken-Nuklearstreitkräfte-Vertrag INF wie auch den Vertrag über den offenen Himmel aufgekündigt. Mit dem Auslaufen des New START-Vertrags im Februar 2026 droht schließlich der Verlust des letzten verbliebenen Rüstungskontrollabkommens zwischen den beiden größten Nuklearmächten. Zwar hat Putin kürzlich eine einjährige Verlängerung des Vertrags vorgeschlagen, doch ist weiterhin ungewiss, ob diese oder gar ein Nachfolgeabkommen tatsächlich zustande kommen.

Sollten Putin und Trump jedoch zu einer Verständigung über New START kommen, wären auch Deutschland und Europa gefragt, konkrete Vorschläge für den Erhalt der multilateralen Rüstungskontrolle und einer künftigen europäischen Sicherheitsordnung zu machen. So könnte man etwa die in Deutschland geplante Stationierung amerikanischer Mittelstreckenraketen im kommenden Jahr in ein Angebot zur Rüstungskontrolle einbetten, falls Moskau im Gegenzug seine landgestützten Atomraketen zurückzieht.

Gleichzeitig ist jedoch klar, dass substanzielle Fortschritte im Bereich der Abrüstung und der Rüstungskontrolle bis zum Ende des Kriegs in der Ukraine nicht zu erwarten sind. Hinzu kommt, dass sich China bislang weigert, an Gesprächen über nukleare Rüstungskontrolle und Risikominimierung teilzunehmen. Peking betont, dass sein nukleares Arsenal nach wie vor wesentlich kleiner als das der USA und Russlands sei. Für Washington ist Chinas atomare Aufrüstung allerdings längst zu einer strategischen Priorität geworden. Damit wächst die Gefahr, dass die Welt in eine Phase eintritt, in der mehr als 20 Staaten über Atomwaffen verfügen, ohne dass verbindliche Rüstungskontrollverträge oder Abkommen zur Risikominimierung existieren.

Es ist daher höchste Zeit, die zum Stillstand gekommenen Bemühungen zur Abrüstung und Rüstungskontrolle mit neuem Leben zu füllen. Im Fokus sollten dabei die Begrenzung der strategischen Nuklearwaffenarsenale und der Erhalt der noch existierenden Verträge stehen. Ebenso notwendig ist es, auch Peking und andere aufstrebende Nuklearmächte in eine neu zu schaffende internationale Rüstungskontrollarchitektur einzubinden und die weitere Proliferation von Kernwaffen zu verhindern. Der Atomwaffensperrvertrag ist hierfür unentbehrlich. Die Überprüfungskonferenz im kommenden Jahr muss dazu beitragen, die Nichtverbreitung wieder zu stärken. Ein gemeinsames Schlussdokument wäre in der gegenwärtigen internationalen Lage ein wichtiges Signal. Zugleich bleibt die UN unverzichtbar für eine Nichtverbreitungspolitik und muss endlich finanziell, personell und strukturell so ausgestattet werden, dass sie ihre Aufgaben wirksam erfüllen kann. Dabei können wir auf Partner aus dem Globalen Süden zählen, die sich bereits lange für Abrüstung einsetzen und zukünftig die internationale Ordnung stärker mitgestalten wollen. Brasilien, Indonesien und Südafrika sind beispielsweise Mitglieder regionaler Verträge über kernwaffenfreie Zonen. Hier gilt es Rückhalt zu schaffen.

Darüber hinaus benötigen wir Maßnahmen zur Risikoreduzierung und Transparenz. Dazu gehören direkte militärische Kontakte, die Ankündigung und Beobachtung von Manövern sowie gemeinsame Kommunikationskanäle zur Krisenprävention. Künftige Rüstungskontrollabkommen müssen zudem auch neue Risiken, die durch künstliche Intelligenz oder Hyperschallwaffen und im Cyber- und Weltraum entstehen, berücksichtigen.

In den vergangenen Jahrzehnten ist es der internationalen Gemeinschaft gelungen, die Gefahr eines nuklearen Armageddons durch Kooperation und Vertrauensbildung bei der Abrüstung und Rüstungskontrolle zu mindern. Dies ist auch weiterhin möglich und notwendig. Voraussetzung dafür ist und bleibt allerdings der politische Wille der relevanten Akteure, an dem es in den vergangenen Jahren ganz offensichtlich gemangelt hat. IPG 28

 

 

 

 

 

Deutlich mehr Abschiebungen im laufenden Jahr

 

Im laufenden Jahr wurden bisher deutlich mehr Menschen abgeschoben als im Vorjahr. Die meisten von ihnen wurden in die Türkei und nach Georgien geflogen. Zugleich sinkt die Zahl neuer Asylanträge. Die Linke kritisiert die Entwicklung.

Die Zahl der Abschiebungen aus Deutschland ist in den ersten drei Quartalen 2025 gegenüber dem Vorjahreszeitraum gestiegen. Von Januar bis einschließlich September dieses Jahres gab es 17.651 Abschiebungen im Vergleich zu 14.706 Abschiebungen 2024, wie aus der Antwort des Bundesinnenministeriums auf eine Anfrage der Linksfraktion hervorgeht, die dem MiGAZIN vorliegt. Zuerst hatte die „Neue Osnabrücker Zeitung“ berichtet.

Die meisten Betroffenen wurden der Statistik zufolge in die Türkei (1.614) und nach Georgien (1.379) abgeschoben. Zu den zwölf häufigsten Zielländern gehören außerdem europäische Staaten sowie Marokko. Bei fast jeder fünften Person (3.095) handelte es sich um ein Kind oder Jugendlichen. 275 Personen waren zwischen 60 und 70 Jahre alt, 54 Menschen älter als 70 Jahre.

Weniger Asylanträge

Unterdessen beantragten im laufenden Jahr bisher 87.787 Menschen erstmals Asyl, wie aus Zahlen des Bundesamts für Migration und Flüchtlinge hervorgeht. 2024 wurden 229.751 Erstanträge registriert. Ebenfalls im Gesamtjahr 2024 wurden laut Bundesregierung mehr als 20.000 Menschen abgeschoben. Die Zahl der Rückführungen näherte sich damit erstmals wieder dem Niveau von 2015 bis 2019. Im Jahr 2020 war sie auf 10.800 gefallen.

Die innenpolitische Sprecherin der Linksfraktion im Bundestag, Clara Bünger, kritisierte die Entwicklung scharf. „Wenn es darum geht, die Zahl der Abschiebungen in die Höhe zu treiben, kennen die Behörden kaum noch Tabus“, sagte sie der Zeitung. Auch vor Abschiebungen von Kindern oder alter und kranker Menschen schreckten die Verantwortlichen nicht zurück. „Diese Politik verletzt die Menschenwürde der Betroffenen, sorgt für Angst und Schrecken unter Personen mit unsicherem Aufenthaltsrecht, und sie macht das Leben der Menschen in Deutschland kein Stück besser oder sicherer“, betonte Bünger. (epd/dpa/mig 27)

 

 

 

 

 

Vatikan-Vertreter bei der UNO: Aufrüstung ist eine Illusion

 

Der Ständige Beobachter des Heiligen Stuhls bei den Vereinten Nationen, Erzbischof Gabriele Caccia, hat die internationale Gemeinschaft dringend dazu aufgerufen, von der „Illusion der Sicherheit durch Waffen“ abzulassen. In einer thematischen Diskussion zu konventionellen Waffen vor dem Ersten Ausschuss der 80. Sitzung der UN-Generalversammlung am Freitag kritisierte der Nuntius die unkontrollierte Verbreitung von Rüstungsgütern scharf. Von Mario Galgano

Der Erzbischof bezeichnete die anhaltende Proliferation und den Missbrauch konventioneller Waffen als ein erhebliches Hindernis für die Erreichung von Frieden und Vertrauen in den internationalen Beziehungen.

„Anstatt Stabilität zu fördern, nährt ihre ungezügelte Verbreitung Misstrauen, befeuert Gewalt und untergräbt den Dialog zwischen Staaten.“

Militärausgaben als „zutiefst beunruhigend“

Besonders besorgniserregend sei der dramatische Anstieg der weltweiten Militärausgaben, die im vergangenen Jahr die „schwindelerregende“ Summe von 2,7 Billionen US-Dollar erreicht hätten. Solch eine enorme Zuteilung von Ressourcen widerspreche dem Streben nach dem Gemeinwohl. Erzbischof Caccia zitierte Papst Leo XIV. dazu mit deutlichen Worten:

„Wie können wir weiterhin den Wunsch der Völker der Welt nach Frieden mit der Propaganda der Aufrüstung verraten, als ob militärische Überlegenheit Probleme lösen würde, anstatt noch größeren Hass und Rachegelüste zu schüren?“

Anstatt essenzielle humanitäre Bedürfnisse und die ganzheitliche menschliche Entwicklung zu unterstützen, verewigten diese Ressourcen Muster der Angst und Spaltung.

Forderung nach Verbot autonomer Waffensysteme

Der Heilige Stuhl äußerte tiefe Besorgnis über die jüngsten Rückzüge von der Ottawa-Konvention über Antipersonenminen. Diese Waffen fügten Einzelpersonen, Gemeinschaften und der Umwelt wahllosen und dauerhaften Schaden zu.

Caccia forderte die gleichen Bedenken für alle Waffensysteme, die ohne sinnvolle menschliche Kontrolle und Aufsicht operieren. Er betonte, dass Entscheidungen über Leben und Tod nicht an Maschinen abgetreten werden dürften. Daher unterstütze der Heilige Stuhl nachdrücklich den Aufruf des UN-Generalsekretärs zur Aushandlung eines rechtsverbindlichen Instruments zum Verbot tödlicher autonomer Waffensysteme bis zum nächsten Jahr. Bis dahin müssten alle Staaten auf deren Entwicklung und Einsatz verzichten.

Zudem forderte der Vatikan ein dringendes Ende des Einsatzes von explosiven Waffen in besiedelten Gebieten, wozu auch Streumunition gehöre. Solche Einsätze hätten unterschiedslose Auswirkungen, indem sie Schulen, Krankenhäuser und Gotteshäuser zerstören.

Illegale Verbreitung von Kleinwaffen

Ebenso dringlich sei das Problem des illegalen Handels mit Kleinwaffen und leichten Waffen (SALW). Die unrechtmäßige Verbreitung dieser Waffen fordere einen hohen Tribut von den Schwächsten der Gesellschaft, insbesondere von Kindern. Diese würden allzu oft in kriminelle oder terroristische Gruppen rekrutiert, ihrer Unschuld und Bildung beraubt und ihnen werde eine Zukunft verwehrt.

Die vatikanische Delegation rief die internationale Gemeinschaft dazu auf, die bestehenden Rahmenwerke vollständig umzusetzen, und äußerte die Hoffnung auf konkrete Fortschritte bei der Neunten Zweijährlichen Tagung der Staaten zu Kleinwaffen und leichten Waffen im Juni.

Zum Abschluss appellierte Erzbischof Caccia an die UN, unaufhörlich einen Frieden anzustreben, der auf Dialog, Gerechtigkeit und der Würde jedes menschlichen Lebens gründe. (vn 25)

 

 

 

 

 

80 Jahre UN-Charta. Die regelbasierte Weltordnung zerbröselt

 

Die aggressive Politik der Großmächte drängt die Vereinten Nationen 80 Jahre nach ihrer Gründung ins politische Abseits. Bei der Lösung von Konflikten spielt die Weltorganisation kaum noch eine Rolle – es gilt immer mehr das Recht des Stärkeren. Von Jan Dirk Herbermann

Die Vereinten Nationen sind in die Jahre gekommen: Die Weltorganisation feiert 2025 ihren 80. Geburtstag. Und der Jubilar befindet sich in keinem guten Zustand. Vor allem die USA drängen die UN politisch ins Abseits und lassen sie finanziell ausbluten. US-Präsident Donald Trump hält nichts von gleichberechtigter Kooperation der 193 Staaten und macht aus seiner Verachtung für die internationale Organisation keinen Hehl. Die UN liefere nur „leere Worte“, höhnte Trump im September in der Vollversammlung. Die Organisation schaffe sogar „allzu oft neue Probleme, die wir lösen müssen“.

In seiner Rede verwies Trump auch auf eine Rolltreppe und einen Teleprompter, für deren Versagen er die UN verantwortlich machte. Trump ist ausgerechnet Präsident des Landes, das 80 Jahren entscheidend auf die Gründung der UN pochte und noch immer das wichtigste Mitglied ist. Richard Gowan, UN-Direktor der International Crisis Group, betont: „Insgesamt betrachtet die Trump-Regierung die UN als links und israelfeindlich, sie wird der UN auch in den kommenden Jahren großen finanziellen und politischen Schaden zufügen.“

Andere Großmächte wie Russland scheren sich ebenso nicht um die Prinzipien der UN, deren Kerngeschäft die Schaffung und Sicherung des Friedens ist. Die Präsidentin der UN-Vollversammlung und ehemalige deutsche Außenministerin, Annalena Baerbock (Grüne), sagte: „In ihrem achtzigsten Jahr gehen die UN durch eine Zeit existenzieller Herausforderungen.“

Acht Dekaden später

Als die Staatenvertreter im Frühjahr 1945 in San Francisco zur UN-Gründung eintrafen, war der Zweite Weltkrieg noch nicht zu Ende. Nach mehreren Wochen einigte sich die Delegationen auf ein UN-Modell, das neben den USA, auch die Sowjetunion und Großbritannien entworfen hatten. Am 26. Juni 1945 unterzeichneten die Gesandten aus 50 Ländern die Charta der Vereinten Nationen. Am 24. Oktober desselben Jahres trat sie in Kraft – am Freitag vor 80 Jahren. Im Artikel 1 der Charta gelobten die Gründungsmitglieder, „Bedrohungen des Friedens zu verhüten und zu beseitigen, Angriffshandlungen und andere Friedensbrüche zu unterdrücken“. Den Begriff des Friedens schrieben die Verfasser an 52 Stellen in die Charta.

Doch acht Dekaden später zerbröselt die regelbasierte Weltordnung mit den UN im Mittelpunkt – die hehren Versprechen der UN-Charta sind gebrochen. Es sind auch die USA, die ein neues Zeitalter durchdrücken: In dieser Ära gilt das Recht des Stärkeren. „Was Trump will, ist eine Welt, die von mächtigen Männern gemanagt wird“, schreibt die Politikwissenschaftlerin Stacie E. Goddard. Die Folge: die UN haben bei der Lösung der bewaffneten Konflikte und Krisen kaum noch etwas zu sagen – weder als Vermittler noch durch Entscheide des UN-Sicherheitsrats. „Die UNO zeichnet sich durch ihre Abwesenheit als Friedensstifter aus“, erläutert Experte Gowan.

Kaum Einfluss, weniger Geld

Beispiel Krieg Israel gegen den Iran im Juni 2024: Die UN standen im Abseits. Es war der US-Präsident, der einen Waffenstillstand verkündete. Beispiel Gaza-Krieg: Schon vor dem gewaltsamen Terrorüberfall der Hamas auf Israel am 7. Oktober 2023 und dem Zurückschlagen des jüdischen Staates hatten die Vereinten Nationen im Nahost-Konflikt kaum etwas zu melden. Die USA setzten die Waffenruhe durch. Israel erklärte UN-Generalsekretär António Guterres zur „Persona non grata“ und verbot das Palästinenserhilfswerk der UNRWA auf seinem Staatsgebiet. Beispiel Russlands Angriffskrieg gegen die Ukraine: Die Gesandten des russischen Präsidenten Wladimir Putin blockieren alle Versuche im Sicherheitsrat, den imperialistischen Raubzug zu beenden.

Ausgerechnet in einer Zeit, in der Gewalt und Krieg immer mehr Menschen ins Elend stürzen, muss die gesamte Organisation mit deutlich weniger Geld auskommen und sich reformieren. Bis Mitte Oktober hatten erst 141 der 193 Mitgliedsländer ihre vollen Beiträge für das reguläre UN-Budget 2025 entrichtet. Unter den säumigen Staaten befanden sich auch die USA, der traditionell größte Beitragszahler. Darüber hinaus strich das Trump-Team einen Großteil der Milliarden-Überweisungen an humanitäre Hilfsorganisationen der UN. Die Folge: Die UN müssen in diesem Jahr die Versorgung für mehr als 60 Millionen bedürftige Menschen einstellen. Die meisten von ihnen sind Opfer der Kriege und Konflikte, die nicht enden wollen. (epd/mig 24)

 

 

 

 

 

 

Merz rudert zurück. Können auf Menschen mit Migrationserfahrung nicht verzichten

 

Wegen seiner „Stadtbild“-Äußerung steht Bundeskanzler Merz seit Tagen in der Kritik. Nach anfänglicher Verweigerung hat er seine Aussage nun doch konkretisiert – und betont, dass es auch in Zukunft Einwanderung brauche. Sprachwissenschaftler sehen bei Merz ein Muster, Experten warnen vor verbaler Zuspitzung. Davon profitiere nur die AfD.

Nach der teils scharfen Kritik an der „Stadtbild-Äußerung“ hat Bundeskanzler Friedrich Merz (CDU) seine Aussage konkretisiert. Es brauche auch in Zukunft Einwanderung, sagte Merz am Mittwochabend bei einem Besuch in London: „Das gilt ebenso für Deutschland wie für alle Länder der Europäischen Union.“

Bereits heute seien viele Menschen mit Migrationshintergrund „unverzichtbarer Bestandteil unseres Arbeitsmarktes“, sagte der Kanzler und betonte: „Wir können auf sie gar nicht mehr verzichten, ganz gleich, woher sie kommen, welcher Hautfarbe sie sind und ob sie erst in erster oder schon in zweiter, dritter oder vierter Generation in Deutschland leben und arbeiten.“ „Die meisten von ihnen sind auch schon Staatsbürger unserer Länder“, unterstrich Merz: „Das gilt auch für Deutschland.“

Merz konkretisiert „Problem“

Zugleich sagte Merz, Probleme machten diejenigen, „die keinen dauerhaften Aufenthaltsstatus haben, nicht arbeiten und sich auch nicht an unsere Regeln halten“. Viele von ihnen bestimmten das öffentliche Bild in den Städten. „Deshalb haben mittlerweile so viele Menschen in Deutschland und in anderen Ländern der Europäischen Union – das gilt nicht nur für Deutschland – einfach Angst, sich im öffentlichen Raum zu bewegen.“

Der CDU-Politiker hatte vergangene Woche im Zusammenhang mit Migration von einem „Problem im Stadtbild“ gesprochen und als Lösung auf Rückführungen „im großen Umfang“ verwiesen. Die Aussage wurde sowohl in den sozialen Medien als auch von Vertreterinnen und Vertretern aus Politik und Wirtschaft als diskriminierend und teilweise als rassistisch kritisiert. Rückendeckung bekam Merz hingegen unter anderem vom bayerischen Ministerpräsidenten Markus Söder (CSU).

Sprachwissenschaftlerin kritisiert scharf

Auch die Sprachwissenschaftlerin Constanze Spieß kritisierte „Stadtbild“-Äußerung von Merz scharf. „Mit der Äußerung macht sich Merz sprachliche Muster der extremen Rechten zu eigen“, sagte die Sprecherin der Jury für das „Unwort des Jahres“ dem Evangelischen Pressedienst. Merz stärke mit solchen Äußerungen die AfD, statt Wählerinnen und Wähler zurückzugewinnen.

Besonders problematisch sei, dass Merz Migration pauschal mit Rückführungen verknüpfe, kritisierte Spieß. Damit stelle er Migration in einen bestimmten Rahmen, nämlich als nicht rechtmäßig. „Das ist ein Muster, das Merz auch schon im Wahlkampf bedient hat, indem er oft Illegalität und Kriminalität verknüpft hat“, sagte Spieß. Die „Stadtbild“-Äußerung reihe sich in eine ganze Serie problematischer Aussagen von Merz ein. So habe der Bundeskanzler 2023 von „kleinen Paschas“ gesprochen oder behauptet, abgelehnte Asylbewerber würden deutschen Bürgern die Zahnarzttermine wegnehmen.

Demokratieforscher: Merz bedient Ressentiments

Der Leipziger Demokratieforscher Oliver Decker vermutet hinter der umstrittenen Äußerung von Merz keinen verbalen Ausrutscher, sondern ein bewusstes Manöver. „Herr Merz bewegt sich mit Absicht an eine Grenzlinie“, sagte Decker der Deutschen Presse-Agentur. Der Kanzler spreche bestimmte Ressentiments selbst nicht offen aus, „aber er weiß, dass die Hinweise verstanden werden und er damit gleichzeitig die Ressentiments bedient, ohne den Teil der CDU vor den Kopf zu stoßen, die sie nicht teilen“.

Hintergrund sei, dass sich die CDU derzeit in einer Zwickmühle befinde, sagte Decker, der das an der Universität Leipzig angesiedelte Else-Frenkel-Brunswik-Institut leitet. „Es gibt Kräfte in ihr, die es zur AfD hinzieht, und ebensolche, für die die AfD-Programmatik mit den CDU-Werten nicht vereinbar ist.“ Zwischen diesen Polen versuche Merz mit seinen „eher geraunten als ausgesprochenen Ressentiments zu manövrieren“.

Politologe: So gewinnt die AfD

Demokratieforscher Hans Vorländer warnt hat vor einem Bedeutungsverlust konservativer Parteien durch die Übernahme rechtspopulistischer Positionen. Wer beim Thema Migration explizit zuspitze, „kann damit nicht gewinnen“, sagte der Direktor des Zentrums für Verfassungs- und Demokratieforschung an der Technischen Universität Dresden der in Berlin erscheinenden „tageszeitung“: „Das gilt gerade für Mitte-rechts-Parteien, die glauben, sie müssten die AfD rechts überholen. Das geht nicht gut.“

Erfahrungen aus anderen Ländern zeigten, „dass dann konservative Parteien zerrieben werden zwischen einer demokratischen Mitte und den Rechtspopulisten und Rechtsextremen“. Trotz eines harten Kurses in der Migrationsfrage wachse die Zustimmung für die AfD weiter. Konservative Parteien sollten vielmehr zeigen, „dass sie die politischen Probleme besser lösen können“. Sie müssten klarmachen, „dass die Rechtsradikalen keine Lösungen anbieten, nur Stimmungen erzeugen und Ressentiments mobilisieren“, sagte Vorländer.

Klingbeil: „Nicht Menschen verlieren, die dazugehören“

Merz hatte in den vergangenen Tagen viel Kritik vor allem aus der Opposition, aber auch vom Koalitionspartner SPD und selbst aus der eigenen Partei einstecken müssen. Vor seinem Statement in London schaltet sich sein Vizekanzler Lars Klingbeil ein. „Ich möchte in einem Land leben, in dem Politik Brücken baut und Gesellschaft zusammenführt, statt mit Sprache zu spalten“, hielt der SPD-Chef dem CDU-Vorsitzenden auf einem Gewerkschaftskongress in Hannover entgegen. „Und ich sage euch auch: Ich möchte in einem Land leben, bei dem nicht das Aussehen darüber entscheidet, ob man ins Stadtbild passt oder nicht.“

Man müsse in der Politik „höllisch aufpassen, welche Diskussion wir anstoßen, wenn wir auf einmal wieder in ‚wir‘ und ‚die‘ unterteilen, in Menschen mit Migrationsgeschichte und ohne“. Bei einem Bürgergespräch in Potsdam ergänzte er: „Wir müssen aufpassen, dass wir an dieser Stelle nicht Menschen verlieren, die dazugehören.“ Der SPD-Chef sagte: „Ich würde dem Kanzler nie was Schlechtes unterstellen, weil ich ihn kenne. (…) Aber trotzdem sage ich als SPD-Vorsitzender meine Meinung.“

Demonstrationen gehen weiter: 1.500 Teilnehmer in Kiel

Die Demonstrationen als Reaktion auf die Äußerungen des Kanzlers gingen unterdessen weiter. Nach einer Kundgebung in Berlin am Dienstag unter dem Motto „Wir sind die Töchter!“ mit mehreren Tausend Teilnehmerinnen und Teilnehmern demonstrierten am Mittwoch in Kiel 1.500 Menschen. In Köln ist am Donnerstag eine weitere Demonstration geplant. Das Bündnis „Solidarisches Magdeburg“ rief ebenfalls zu einer Demo auf. Die Organisatoren wollen ein Zeichen für Vielfalt und Offenheit setzen.

Außerdem stieß die Initiative „Radikale Töchter“ eine Online-Petition an, die nach Angaben der Plattform innn.it innerhalb von 24 Stunden von etwa 100.000 Menschen unterzeichnet wurde. In dem Aufruf heißt es: „Wir sind die Töchter, die keine Angst vor Vielfalt haben – aber vor Ihrer Politik. Wir sind die Töchter, die sich für Ihren Rassismus nicht einspannen lassen. (epd/dpa/mig 24)

 

 

 

 

 

Papst: Migranten werden wie Müll behandelt und Völker ausgeraubt

 

Mit ungewohnt scharfen Worten hat Papst Leo XIV. soziale Ungerechtigkeiten angeprangert und zu einem Wandel aufgerufen. Es brauche mehr Gerechtigkeit und Solidarität, so das Kirchenoberhaupt bei einer Begegnung mit Vertretern Sozialer Bewegungen im Vatikan. Im Fokus hat er auch die „Kollateralschäden“ durch neue Technologien, die unmenschliche Behandlung von Migranten und die Ausbreitung neuer synthetischer Drogen wie Fentanyl, das besonders in den USA verheerend wirkt. Von Salvatore Cernuzio und Christine Seuss

Ausgeraubte, bestohlene, geplünderte Völker, in Armut gezwungen; verletzliche Migranten, Opfer von Missbrauch und behandelt wie „Müll“. Dann alte und neue Drogen (wie Fentanyl), die sich ungehindert ausbreiten; Überschwemmungen, Tsunamis, Erdbeben, die die Klimakrise sichtbar machen; der Profit, der immer mehr zur Götzenverehrung wird, ebenso wie der Kult des Körpers und des körperlichen Wohlbefindens. 

Die Gerechtigkeit scheine zu versagen, machtlos angesichts neuer Technologien, die den Fortschritt ebenso fördern wie die Ungleichheit; Arbeitslosigkeit, Ausgrenzung, Ausbeutung; eine allgemeine „entmenschlichende“ Tendenz sozialer Ungerechtigkeiten und die exponentielle Vergrößerung der Kluft zwischen einer „kleinen Minderheit“ – dem berühmten einen Prozent der Weltbevölkerung – also den Reichen und der überwältigenden Mehrheit der Armen.

Verweise auf Franziskus und Leo XIII.

Diese und andere scharfe Anklagen sind in der Ansprache von Papst Leo enthalten, die er an die Vertreter von Volksbewegungen gerichtet hat, die sich zu ihrem 5. Welttreffen im Vatikan versammelt haben. Vielleicht hart wie nie zuvor in seinem Pontifikat zeichnet Papst Leo XIV. ein düsteres Bild der heutigen Epoche, in einer langen – knapp 19 Seiten umfassenden – Rede, die mit Verweisen auf das Lehramt seines Vorgängers Papst Franziskus durchsetzt ist. Dieser hatte die Treffen der Sozialen Bewegungen ins Leben gerufen. Ähnlich bedeutsame Verweise finden sich auch auf den Papst, der die erste Sozialenzyklika verfasste und Leo XIV. eigener Aussage nach zu seiner Namenswahl inspirierte, nämlich Leo XIII. und seine Rerum Novarum.

Doch über Anklagen und Appelle hinaus ermutigt Papst Leo auch zur Tat, zur Prophetie, zur „Poesie“ und vor allem zur Hoffnung: auf Veränderung, auf einen erneuerten Weg der „Gerechtigkeit, der Liebe und des Friedens“, auf „neue Dinge“ – Rerum novarum eben, wie der Titel der berühmten Enzyklika seines Vorgängers von der Schwelle zwischen dem 19. und dem 20. Jahrhundert. Und auf seinen direkten Vorgänger Franziskus gehen die „neuen“ Welttreffen der Menschen zurück, die sich an der Basis für eine soziale Veränderung einsetzen, unter der Überschrift „Tierra, techo, trabajo“ – „Erde, Haus und Arbeit“:

„Im Einklang mit den Forderungen von Franziskus sage ich heute: Erde, Haus und Arbeit sind heilige Rechte. Es lohnt sich, für sie zu kämpfen, und ich will, dass ihr mich sagen hört: ‚Ich bin dabei! Ich bin mit euch!‘“, so das Versprechen von Leo XIV..

Prophetische Bedeutung

Etwa zweitausend Menschen hatten sich in der Aula Paolo VI. versammelt, um den Papst zu treffen und seinen ermutigenden Worten zu lauschen. Vertreten waren Aktionisten aus den „Peripherien“ aller Kontinente: Arme, Migranten, Landarbeiter, Müllsammler. Sie sind in einer „Prozession“ gekommen – aus dem ,Spin Time Lab', dem Gebäude im römischen Stadtteil Esquilino, das von etwa 400 Menschen in Not zu Wohn- und Sozialzwecken besetzt und zum Hauptquartier der Sozialen Bewegungen in Rom geworden ist.

Am Freitag werden sie ihre Jubiläumsfeier in Rom durchführen, begleitet von Bischöfen oder anderen Vertretern ihrer Diözesen, mitten im Herzen der Weltkirche, wie von Franziskus erträumt. Diesen Weg, so erklärt Papst Leo in seiner Ansprache, wolle er nun fortsetzen; den Weg eines Papstes, der „in diesen Jahren oft mit eurer Realität im Dialog stand und ihre prophetische Bedeutung in einer von vielfältigen Problemen gezeichneten Welt hervorgehoben hat“.

Misshandlungen und Unmenschlichkeit gegenüber Migranten

Dabei sieht man sich allerdings dramatischen Problemen gegenüber – angefangen mit dem der Migranten: „Die Staaten haben das Recht und die Pflicht, ihre Grenzen zu schützen, doch dies sollte im Gleichgewicht stehen mit der moralischen Verpflichtung, Zuflucht zu gewähren“, erklärt Leo XIV. in diesem Zusammenhang.

Er verurteilt den „Missbrauch der verletzlichen Migranten“, vor dem „wir nicht den legitimen Gebrauch nationaler Souveränität erleben, sondern vielmehr schwere Verbrechen, die vom Staat begangen oder geduldet werden“: „Es werden zunehmend unmenschliche Maßnahmen ergriffen – sogar politisch gefeiert – um diese ‚Unerwünschten‘ zu behandeln, als wären sie Müll und keine Menschen.“

Ungestillte Grundbedürfnisse

Mit gleicher Schärfe richtet Leo XIV. den Finger auf die negativen Auswirkungen der technologischen Entwicklung auf Gesundheit, Bildung, Arbeit, Verkehr, Urbanisierung, Kommunikation, Sicherheit und Verteidigung.

Dabei weist er zunächst auf das „Paradox“ hin, dass Millionen Menschen keinen Zugang zu Land, Nahrung, Wohnung und Arbeit haben, während „Mobiltelefone, soziale Netzwerke und sogar künstliche Intelligenz Millionen von Menschen zugänglich sind“ – auch den Armen.

„Sorgen wir dafür, dass, wenn raffiniertere Bedürfnisse befriedigt werden, die grundlegenden nicht vernachlässigt werden“, so der eindringliche Appell des Kirchenoberhauptes.

Klimakrise und „virtuelle“ Krise

Kurzum, der Papst spricht von einer „schlechten Verwaltung“, die „unter dem Vorwand des Fortschritts Ungleichheiten erzeugt und vergrößert. Und weil sie nicht die Menschenwürde ins Zentrum stellt, versagt das System auch in der Gerechtigkeit.“

Einen nach dem anderen zählt der Papst die „Kollateralschäden“ auf; an erster Stelle die Klimakrise, vielleicht das deutlichste Beispiel, mit ihren extremen Wetterereignissen. „Wer leidet am meisten darunter? Immer die Ärmsten“, so die Antwort des Papstes auf eine auch von seinem Vorgänger oft aufgeworfene – rhetorische – Frage.

Sowohl diejenigen, deren spärliches Hab und Gut vom Wasser weggeschwemmt wird, als auch „Bauern, Landwirte und indigene Bevölkerungen“, die ihre Ländereien, Identität und lokale Produktion durch die fortschreitende Verwüstung verlieren.

Soziale Netzwerke befeuern Unsicherheiten

Dann folgt der Gedankensprung hin zur Krise, die von den sozialen Netzwerken genährt wird:

„Wie kann ein armer junger Mensch hoffnungsvoll und ohne Angst leben, wenn die sozialen Medien ständig hemmungslosen Konsum und wirtschaftlichen Erfolg verherrlichen, die völlig unerreichbar sind?“

Und wie könnte man die Abhängigkeit vom digitalen Glücksspiel vergessen, mit Plattformen, die darauf ausgelegt sind, „Zwangsabhängigkeit“ und „Gewöhnung“ zu erzeugen, gibt Leo in seinem Rundumschlag gegen die Auswüchse der modernen Zivilisation zu bedenken.

Die Verwüstung durch alte und neue Drogen

Der Bischof von Rom schweigt auch nicht über die „Neuheit“ oder besser gesagt „Mehrdeutigkeit“ der Pharmaindustrie:

„In der heutigen Kultur, nicht ohne die Hilfe bestimmter Werbekampagnen, wird eine Art Kult des körperlichen Wohlbefindens propagiert, fast eine Vergötzung des Körpers. Und in dieser Sichtweise wird das Geheimnis des Leidens verkürzt interpretiert; das kann auch zur Abhängigkeit von Schmerzmitteln führen, deren Verkauf natürlich die Gewinne derselben Hersteller steigert.“

Insbesondere richtet der Papst den Blick auf seine Heimat, die Vereinigten Staaten, die von der Opioidabhängigkeit verwüstet werden:

„Man denke zum Beispiel an Fentanyl, die Droge des Todes, die dort die zweithäufigste Todesursache unter den Armen ist.“

„Die Ausbreitung neuer synthetischer Drogen, immer tödlicher, ist nicht nur ein Verbrechen der Drogenhändler, sondern eine Realität, die mit der Medikamentenproduktion und ihrem gewinnorientierten System zu tun hat – ohne globale Ethik“, betont Leo XIV.

Die Ausbeutung von Bodenschätzen in armen Ländern

Er kritisiert weiter die Entwicklung der neuen Informations- und Kommunikationstechnologien, die auf der Förderung von Mineralien aus den Minen armer Länder basiert. Das Coltan in der Demokratischen Republik Kongo zum Beispiel, dessen Abbau „von paramilitärischer Gewalt, Kinderarbeit und der Vertreibung von Bevölkerungen abhängt“. Oder Lithium, das „weiße Gold“, das den Wettbewerb zwischen Großmächten und Unternehmen anheizt und „eine ernste Bedrohung für die Souveränität und Stabilität armer Staaten“ darstellt – mit Unternehmern und Politikern, die „sich rühmen, Staatsstreiche und andere Formen politischer Destabilisierung zu fördern“, um sich dieser Ressourcen zu bemächtigen.

Soziale Dichter

Das aktuelle Panorama ist also schon verheerend, ohne dabei überhaupt die aktuellen bewaffneten Konflikte angesprochen zu haben – und doch zeigt sich Papst Leo nicht hoffnungslos: Ermutigt durch den Anblick der Sozialen Bewegungen, der Zivilgesellschaft und der Kirche, die diese neuen Formen der Entmenschlichung frontal angehen und unablässig bezeugen, dass der Bedürftige unser Nächster, unser Bruder und unsere Schwester ist.

„Das macht euch zu Champions der Menschlichkeit, zu Zeugen der Gerechtigkeit, zu Dichtern der Solidarität“, zu „Baumeistern der Solidarität in der Vielfalt“, unterstreicht Leo:

„Die Kirche muss mit euch sein: eine arme Kirche für die Armen, eine Kirche, die sich beugt, eine Kirche, die Risiken eingeht, eine mutige, prophetische und freudige Kirche!“

Keine Ideologie, sondern Evangelium

Wichtig sei jedoch, dass der Dienst stets von der Liebe beseelt sei, „der größten aller Tugenden“.

Denn, so sagt der Papst, auch aus seiner missionarischen Erfahrung in Peru schöpfend:

„Wenn Genossenschaften und Arbeitsgruppen gebildet werden, um die Hungrigen zu speisen, Obdachlosen Schutz zu bieten, Schiffbrüchige zu retten, sich um Kinder zu kümmern, Arbeitsplätze zu schaffen, Zugang zu Land zu ermöglichen und Häuser zu bauen, dann dürfen wir nicht vergessen: das ist keine Ideologie – das ist das gelebte Evangelium.“

Im Zentrum des Evangeliums stehe nämlich „das Gebot der Liebe“:

„Und so müssen die Sozialen Bewegungen, noch vor dem Streben nach Gerechtigkeit, vom Verlangen nach Liebe bewegt sein – gegen jeden Individualismus und jedes Vorurteil.“

Die „Globalisierung der Ohnmacht“ bekämpfen

All das, betont der Papst, „ist ein Gegengift gegen eine strukturelle Gleichgültigkeit, die sich immer weiter ausbreitet“. Wo Franziskus von der „Globalisierung der Gleichgültigkeit“ sprach, erkennt Leo nun eine – vielleicht auch schlimmere - „Globalisierung der Ohnmacht“. Diese müsse mit einer „Kultur der Versöhnung und des Engagements“ bekämpft werden.

„Die Volksbewegungen füllen diese Leere, die aus Mangel an Liebe entstanden ist, mit dem großen Wunder der Solidarität – gegründet auf die Fürsorge für den Nächsten und auf die Versöhnung.“

Blick von den Peripherien her

Leo XIV. ermutigt angesichts dieses Panoramas zur Arbeit und zum Handeln: „Heute möchte ich mit euch auf die ‚neuen Dinge‘ blicken – ausgehend von der Peripherie.“ Denn von den Peripherien aus „erscheinen die Dinge anders“, während „vom Zentrum aus wenig Bewusstsein für die Probleme der Ausgeschlossenen besteht; und wenn darüber in politischen oder wirtschaftlichen Diskussionen gesprochen wird, hat man den Eindruck, es handle sich um eine Nebensache.“

Die Peripherien riefen „oft nach Gerechtigkeit, und ihr schreit nicht aus Verzweiflung, sondern aus Sehnsucht“, fügt der Papst hinzu. „Euer Schrei sucht Lösungen in einer Gesellschaft, die von ungerechten Systemen beherrscht wird. Und ihr tut das nicht mit Mikroprozessoren oder Biotechnologien, sondern auf der elementarsten Ebene – mit der Schönheit des Handwerks.“: „Und das ist Poesie …“, so Leo XIV. eindringlich.

Ethische Leere

Darüber hinaus, so der Papst, stehe man „einer ethischen Leere gegenüber“, hervorgerufen durch die Krise der Gewerkschaften des 20. Jahrhunderts, die immer weniger werden, und durch den Zusammenbruch der sozialen Sicherungssysteme, die die Armen noch „verwundbarer und weniger geschützt“ gemacht haben.

„Die sozialen Institutionen der Vergangenheit waren nicht perfekt, aber indem man den Großteil von ihnen zerstört und das, was bleibt, mit unwirksamen Gesetzen und nicht umgesetzten Abkommen schmückt, macht das System die Menschen verwundbarer als zuvor“, merkt der Papst an.

Deshalb, so Leone XIV, seien die Volksbewegungen, zusammen mit Gläubigen und Regierungen, „dringend aufgerufen, diese Leere zu füllen, Prozesse der Gerechtigkeit und Solidarität einzuleiten, die sich in der gesamten Gesellschaft ausbreiten“.

Die Kirche an der Seite

„So wie die Kirche in der Vergangenheit die Entstehung der Gewerkschaften begleitet hat, müssen wir heute die Sozialen Bewegungen begleiten!“, versichert der Nachfolger Petri.

„Die Kirche unterstützt euren gerechten Kampf für Erde, Haus und Arbeit. Wie mein Vorgänger Franziskus glaube auch ich, dass die richtigen Wege von unten und von der Peripherie zum Zentrum führen. Eure zahlreichen und kreativen Initiativen können sich in neue öffentliche Politiken und soziale Rechte verwandeln.“ (vn 23)

 

 

 

 

 

 

Kapitalismus auf Steroiden

 

Wie Künstliche Intelligenz und Automatisierung die Schere zwischen Arm und Reich vergrößert – und was wir dagegen tun können. Von Branko Milanovic

Wie jeder technologische Fortschritt seit der industriellen Revolution zielen die neuen Technologien darauf ab, menschliche Arbeit durch Maschinen zu ersetzen. Auch die Künstliche Intelligenz steht in dieser Tradition. So gesehen unterscheidet sie sich nicht von der selbsttätigen Spinnmaschine, die in den 1820er Jahren die Baumwollindustrie veränderte: Sie ersetzt menschliche Arbeitskraft, wobei dies heute auf einem deutlich höheren Niveau menschlicher Fähigkeiten geschieht. Diese Entwicklung war in vielerlei Hinsicht vorhersehbar. Denn historisch betrachtet, stieg das Qualifikationsniveau der Arbeitskräfte, die durch Maschinen verdrängt wurden, kontinuierlich an – beginnend mit einfachen, monotonen Tätigkeiten, wie sie einst von Sklaven verrichtet wurden, bis hin zu immer anspruchsvolleren Formen menschlicher Arbeit.

Aus Verteilungssicht ergibt sich das Problem, dass mit der Substitution von Arbeit durch Kapital auch ein immer größerer Anteil des Nationaleinkommens dem Kapital zufließt. Übertragen auf die realen Personen, die diese Einkünfte erhalten, bedeutet das: Diejenigen, die neue Maschinen entwickeln, sie zum Einsatz bringen oder die in neue Technologien investieren, profitieren überproportional. Investoren sind per definitionem Menschen, die Kapital besitzen und die damit zur obersten Schicht der Einkommensverteilung zählen. Wenn der Anteil des Kapitals zunimmt, nimmt nahezu zwangsläufig auch die Einkommensungleichheit insgesamt zu.

Das wirft natürlich die Frage auf, mit welchen politischen Instrumenten den wachsenden Einkommensunterschieden Einhalt geboten werden könnte – oder wie sie zumindest abgeschwächt werden könnten. Im Wesentlichen gibt es drei Möglichkeiten: Erstens könnte das Kapitaleigentum breiter verteilt werden, damit der wachsende Kapitalanteil sich nicht nur an der Spitze der Gesellschaft bemerkbar macht. Zweitens ließen sich besonders hohe Kapitaleinkünfte stärker besteuern als bisher. Und drittens könnte man bestimmte neue Finanzaktivitäten verbieten, die Gewinne für die Beteiligten abwerfen, aber keinen direkten wirtschaftlichen Nutzen bringen. Mit diesen drei Möglichkeiten befasse ich mich im Folgenden.

Erstens: Kapitaleigentum breiter verteilen. Die Kapitalkonzentration ist außerordentlich hoch. In Volkswirtschaften mit hohen und mittleren Einkommen beziehen durchschnittlich 77 Prozent der Haushalte keine oder fast keine zahlungswirksamen Erträge aus Kapital – wobei mit „fast keine“ definitionsgemäß Erträge bis 100 Dollar pro Person und Jahr gemeint sind. Kapital umfasst in diesem Zusammenhang nur – und das sollte mitgedacht werden – Finanz- oder Produktionskapital, das seinem Eigentümer zahlungswirksame Erträge einbringt. Es ist nicht gleichzusetzen mit dem Vermögen von Haushalten, zu dem etwa selbst genutztes Wohneigentum, Schmuck, Gemälde und Möbel gehören. Die Länder mit der breitesten Streuung von Kapitaleinkünften – also mit dem geringsten Anteil an „Haushalten ohne Kapital“ – sind Norwegen, Südkorea und interessanterweise China. Doch selbst dort bezieht rund die Hälfte der Haushalte keine Kapitaleinkünfte. In den Vereinigten Staaten liegt dieser Prozentsatz bei fast 60 Prozent, in anderen Ländern mit hohem Einkommensniveau sogar bei über 70 Prozent.

Wie schon erwähnt, gibt es mit Blick auf die Künstliche Intelligenz folgendes Problem: Wenn nur wenige Menschen über Finanz- und Produktionskapital verfügen, werden von dessen wachsender wirtschaftlicher Bedeutung am Ende nur diejenigen profitieren, die bereits Kapitalvermögen besitzen. Dadurch werden die Reichen noch mächtiger und die Vermögensungleichheit wird noch größer. Dies ist nicht erst dann der Fall, wenn die Zahl der Haushalte mit „Nullvermögen“ steigt, sondern es genügt bereits, wenn diejenigen an der Spitze der Vermögensverteilung noch reicher werden.

Wie lässt sich das Eigentum an Kapital breiter verteilen? Diese Frage wurde schon früher aufgeworfen – bislang jedoch mit bescheidenen Ergebnissen. Margaret Thatcher sprach einst vom „Volkskapitalismus“. In der Praxis führte das vor allem zur Privatisierung von Sozialwohnungen. Eine andere Möglichkeit, die dazu beitragen sollte, das Eigentum auf die Arbeitnehmer zu verteilen, waren die Mitarbeiterbeteiligungsprogramme (Employee Stock Ownership Plans, ESOP) in den Vereinigten Staaten. Auch sie waren nur mäßig erfolgreich – was, wie Isabel Sawhill betonte, vor allem daran lag, dass es für die Ausgabe von Aktien an Arbeitnehmerinnen und Arbeitnehmer keine steuerlichen Anreize gab. Würden Unternehmen steuerliche Vorteile erhalten, wenn sie Anteile an ihre Beschäftigten ausgäben, würden vermutlich deutlich mehr ESOPs aufgelegt. Tatsächlich gibt es keinen plausiblen Grund, warum CEOs Vergütungen in Form von Unternehmensaktien erhalten sollten und Beschäftigte nicht. In einigen Ländern wurden private Pensionsfonds genutzt, um zum einen leistungsbezogene Rentensysteme abzuschaffen, die finanziell potenziell nicht tragbar waren, und zum anderen um die Kapitaleinkünfte breiter zu verteilen.

Wenn Einkünfte aus privaten Renten mitgerechnet werden, sinkt der Anteil der Haushalte ohne Kapitaleinkünfte in Großbritannien von 84 auf 79 Prozent. Alle genannten Ansätze könnten gezielt eingesetzt werden, um Kapitaleigentum auf mehr Menschen zu verteilen und so die wachsende Einkommensungleichheit abzumildern, die mit der zunehmenden Anwendung neuer Technologien wie der Künstlichen Intelligenz nahezu zwangsläufig einhergeht.

Zweitens: Besteuerung besonders hoher Kapitaleinkünfte. Ein weiteres Instrument, mit dem die wegen Kapitaleinkünften wachsende Ungleichheit eingedämmt werden könnte, ist die Besteuerung von Kapital. Sie gilt oft als einzige Lösung – doch die Besteuerung sollte, wie bereits angedeutet, nur eine von mehreren Maßnahmen sein. Nicht jedes Problem lässt sich durch höhere Abgaben beheben. In den Vereinigten Staaten werden Kapitaleinkünfte paradoxerweise niedriger besteuert als vergleichbare Arbeitseinkommen: Der Grenzsteuersatz beträgt für Arbeitseinkommen unter 100 000 Dollar pro Jahr 24 Prozent und für Kapital 15 Prozent. Bei Einkommen über 400 000 Dollar ist die Differenz sogar noch größer: 35 gegenüber 15 Prozent (siehe auch Ray D. Madoff in seiner exzellenten Publikation The Second Estate: How the Tax Code Made an American Aristocracy, die demnächst erscheint). Für eine höhere Besteuerung von Kapital gäbe es also reichlich Spielraum.

Eine weitere Möglichkeit, die in vielerlei Hinsicht einer Besteuerung gleichkommt, besteht darin, dass der Staat explizit Eigentümer derjenigen neuen Technologien und Innovationen wird, deren Entwicklung wesentlich durch öffentliche Mittel gefördert wurde – bei denen der Staat möglicherweise als Angel Investor fungiert hat. Solche staatlichen Beiträge werden oft übersehen. Mariana Mazzucato hat dieses Phänomen anhand vieler Unternehmen im US-amerikanischenSilicon Valley überzeugend dokumentiert. Ähnliches dürfte auch heute zu beobachten sein, und Staaten sollten sich nicht scheuen, ihr Anrecht auf Beteiligung an den Kapitalerträgen geltend zu machen. Die Entscheidung der US-Regierung, sich in erheblichem Umfang an Intel zu beteiligen, ist in diesem Zusammenhang zu sehen. In Ländern wie China lässt sich eine solche Eigentümerrolle des Staates noch leichter rechtfertigen, weil die Regierung dort – direkt wie indirekt – eine noch größere Rolle bei der Förderung von Innovationen spielt.

Drittens: Verbot schädlicher neuer Technologien. Eine letzte Möglichkeit, zu verhindern, dass durch neue Technologien die Ungleichheit verschärft wird, ist das Verbot einiger spekulativer Aktivitäten, die eindeutig „unproduktiv“ sind. Das ist zweifellos der schwierigste und radikalste Ansatz. Er sollte mit äußerster Vorsicht eingesetzt, gleichwohl aber nicht gänzlich ausgeschlossen werden. Was in der Ökonomie als „unproduktive“ Tätigkeit gilt, lässt sich nur schwer bestimmen. Theoretisch ist jede Form wirtschaftlicher Aktivität – und damit auch das daraus erzielte Einkommen – legitim, solange sie auf freiwilligen Transaktionen zwischen Wirtschaftsakteuren basiert. In der Praxis gibt es jedoch Grenzen. Das Handeln mit Drogen oder Waffen ist in vielen Ländern verboten, obwohl beides auf freiwilligem Austausch zwischen wirtschaftlichen Akteuren beruhen kann. Im Bereich der neuen Technologien gibt es ebenfalls Aktivitäten – vor allem im Zusammenhang mit Kryptowährungen und Finanzspekulationen –, die allem Anschein nach einzig und allein der Spekulation dienen. Durch sie wird weder die Menge an Gütern oder Dienstleistungen gesteigert, noch die Verteilung von Ressourcen verbessert. Viele dieser Aktivitäten haben eher Lotteriecharakter: Einige wenige gewinnen, viele verlieren. Adam Smith bemerkte bereits vor mehr als 250 Jahren in einer kaum beachteten Textpassage, dass es umso mehr Verlierer gibt, je größer eine Lotterie ist. Die Möglichkeit eines Verbots sollte daher nicht grundsätzlich verworfen werden – wohl aber mit Bedacht und nur in Ausnahmefällen zum Einsatz kommen, etwa dann, wenn eine Besteuerung schwer zu realisieren ist, oder eine Aktivität so „schädlich“ oder für die Allgemeinheit so nachteilig wirkt, dass ein Verbot gerechtfertigt erscheint.

Nur wenn der Staat diese drei Maßnahmen zugleich umsetzt – in wechselnder Gewichtung und zu unterschiedlichen Zeiten –, darf er darauf hoffen, dass er die zunehmende Ungleichheit in vertretbaren Grenzen halten kann, ohne Innovation und die Einführung neuer Technologien zu bremsen. Aipg 23

 

 

 

 

 

 

Statistisches Bundesamt. Einwanderer in vielen Mangelberufen stark vertreten

 

Köche, Gerüstbauer, Straßenbahnfahrer: In vielen Berufen, in denen Fachkräftemangel herrscht, sind viele Menschen mit Einwanderungsgeschichte beschäftigt. In der öffentlichen Verwaltung sind sie allerdings unterrepräsentiert. Experten sehen Aufholbedarf, um die Arbeitsmarktzugänge für diese Gruppe zu verbessern.

In vielen Engpassberufen sind Beschäftigte mit Einwanderungsgeschichte überdurchschnittlich stark vertreten. So hatten 60 Prozent der Beschäftigten in der Schweiß- und Verbindungstechnik im Jahr 2024 eine Einwanderungsgeschichte, wie das Statistische Bundesamt am Mittwoch in Wiesbaden mitteilte. Sie selbst oder beide Elternteile waren also seit dem Jahr 1950 nach Deutschland eingewandert. In sogenannten Engpassberufen herrscht oder droht laut Analyse der Bundesagentur für Arbeit ein Fachkräftemangel. Der Arbeitgeberverband Pflege rief dazu auf, die Fachkräfterekrutierung zu stärken.

Die Referatsleiterin für Aus- und Weiterbildungsforschung am Wirtschafts- und Sozialwissenschaftlichen Institut der gewerkschaftsnahen Hans-Böckler-Stiftung, Magdalena Polloczek, sagte, dass die Zahlen zeigten, wie wichtig Einwanderung und Integration für unsere Gesellschaft seien. Personen mit Einwanderungsgeschichte hielten unsere Wirtschaft am Laufen: „Sie arbeiten oft in Berufen, die der grundlegend notwendigen Daseinsvorsorge zuzuordnen sind und damit große gesellschaftliche Relevanz besitzen.“

In der Lebensmittelherstellung sowie bei Köchinnen und Köchen traf dies laut Statistischem Bundesamt auf mehr als die Hälfte der Beschäftigten zu (je 54 Prozent). Überdurchschnittlich hoch war der Anteil laut Behörde auch im Gerüstbau (48 Prozent), unter den Fahrerinnen und Fahrern von Bussen und Straßenbahnen (47 Prozent), in der Fleischverarbeitung (46 Prozent) sowie unter Servicekräften in der Gastronomie (45 Prozent). In der Gesamtwirtschaft hatte gut ein Viertel (26 Prozent) aller abhängig Beschäftigten eine Einwanderungsgeschichte.

Deutlich unterrepräsentiert in der öffentlichen Verwaltung

Deutlich unterrepräsentiert waren Menschen mit Einwanderungsgeschichte im Jahr 2024 dagegen im Bereich öffentliche Verwaltung, Verteidigung und Sozialversicherung (12 Prozent), in der Versicherungsbranche (14 Prozent), in der Energieversorgung und in der Landwirtschaft (je 15 Prozent). Im Bereich Erziehung und Unterricht mit 2,8 Millionen Beschäftigten waren Menschen mit Einwanderungsgeschichte ebenfalls deutlich unterrepräsentiert (17 Prozent).

Das Wirtschafts- und Sozialwissenschaftliche Institut der Hans-Böckler-Stiftung betonte, dass es hier großen Aufholbedarf gebe, die Bildungs- und Arbeitsmarktzugänge für Menschen mit Einwanderungsgeschichte zu verbessern.

Appell: Fachkräfterekrutierung vereinfachen

Der Arbeitgeberverband Pflege rief die Bundesregierung auf, die Fachkräfterekrutierung zu erleichtern. Sie bleibe „deutlich hinter dem zurück, was nötig wäre, um Fachkräfteeinwanderung in der Pflege zu sichern. Andere Länder sind unbürokratischer und schneller“, hieß es in einer Mitteilung.

Man brauche dringend mehr Pflegepersonal, um eine steigende Zahl Pflegebedürftiger zu versorgen. Schon heute hätten 33 Prozent der Altenpflegerinnen und Altenpfleger eine Migrationsgeschichte. „Dass die Beschäftigtenzahl in der Pflege weiterhin steigt, ist seit 2022 ausschließlich durch Pflegepersonal aus dem Ausland möglich.“ (epd/mig 23)

 

 

 

 

 

 

UN: Erzbischof Caccia - Frieden nicht durch Drohung möglich

 

Erzbischof Gabriele Caccia, Apostolischer Nuntius und Ständiger Beobachter des Heiligen Stuhls bei den Vereinten Nationen, hat vor der 80. UN-Generalversammlung die aktuellen Bestrebungen zur nuklearen Aufrüstung scharf kritisiert. In seiner Ansprache bezeichnete er die Abkehr von Atomwaffen als dringende moralische Verpflichtung und warnte vor den wachsenden Gefahren durch den Einsatz künstlicher Intelligenz in Waffensystemen.

„Heute erlebt die Welt eine beunruhigende Wiederkehr von Rhetorik, die mit dem Einsatz von Atomwaffen droht, begleitet von erneuten Bestrebungen, die Arsenale auszubauen“, erklärt Erzbischof Gabriele Caccia, Apostolischer Nuntius und Ständiger Beobachter des Heiligen Stuhls. In seiner Rede am 21. Oktober im ersten Ausschuss der 80. Tagung der Generalversammlung der Vereinten Nationen formulierte er eine klare Absage gegenüber derartiger Aufrüstungsbestrebungen.

Das Thema Atomwaffen bleibe eine der größten Bedrohungen für den internationalen Frieden und die Sicherheit, betont Caccia und schlägt mahnend den Bogen zu den bisherigen Einsätzen nuklearer Waffensysteme. „Achtzig Jahre sind vergangen seit dem ersten Atomtest in New Mexico und der Verwüstung durch die Angriffe auf Hiroshima und Nagasaki. Das Leid und die Zerstörung, die durch diese Ereignisse verursacht wurden, sind eine ernüchternde und bleibende Mahnung an das katastrophale Potenzial dieser Waffen – und an die gemeinsame Verantwortung, solche Tragödien künftig zu verhindern.“

„Frieden kann nicht auf der Drohung totaler Zerstörung oder der Illusion aufgebaut werden, Stabilität könne aus gegenseitiger potenzieller Vernichtung entstehen“

Abschreckung kein Mittel zum Frieden

Es sei ein Trugschluss, dass Abschreckung ein valides Mittel sei, die internationale Sicherheit zu garantieren. „Frieden kann nicht auf der Drohung totaler Zerstörung oder der Illusion aufgebaut werden, Stabilität könne aus gegenseitiger potenzieller Vernichtung entstehen. Das ist sowohl moralisch unhaltbar als auch strategisch untragbar.“

Gefahr durch KI

Besonders bereite dem Nuntius der Einsatz künstlicher Intelligenz, um autonome Systeme zu entwickeln, große Sorge. Laut ihm bergen solche Innovationen die Gefahr, Entscheidungszeiträume zu verkürzen, die menschliche Kontrolle zu verringern und damit das Risiko von Fehleinschätzungen und Irrtümern zu erhöhen. Er warnte davor, dass ein solcher Einsatz ein „beispielloses Maß an Unsicherheit“ schüre und die anhaltende Aufmerksamkeit der internationalen Gemeinschaft erfordere.

„Die Bemühungen zur Kontrolle, Begrenzung, Reduzierung und letztlichen Abschaffung von Atomwaffen sind kein unrealistisches Ziel, sondern eine reale Möglichkeit und eine dringende moralische Verpflichtung“

Abrüstung statt neuer Resourchen

Er forderte als Vertreter des Heiligen Stuhls alle Atomwaffenstaaten nachdrücklich auf, „ihren Verpflichtungen gemäß Artikel VI des Vertrags über die Nichtverbreitung von Kernwaffen (NVV) nachzukommen und in gutem Glauben zu verhandeln, mit dem Ziel, ihre Bestände zu verringern und schließlich zu beseitigen“, sagte Caccia. Der Heilige Stuhl bekräftige seine feste Überzeugung, „dass die Bemühungen zur Kontrolle, Begrenzung, Reduzierung und letztlichen Abschaffung von Atomwaffen kein unrealistisches Ziel, sondern eine reale Möglichkeit und eine dringende moralische Verpflichtung sind.“

Die „gewaltigen Ressourcen“, die in Rüstung investiert werden, stünden im Widerspruch zu „wahrer Sicherheit, dem Schutz des Lebens, der Förderung von Gerechtigkeit und dem Aufbau von Frieden“, so der Nuntius, der zu einer menschengerechten Sicherheitsvision aufrief, „die auf Dialog, Brüderlichkeit und der Achtung der jedem Menschen von Gott verliehenen Würde gründet.“ (vn 22)

 

 

 

 

 

Experte kritisiert Aus der beschleunigten Einbürgerung

 

Forscher Herbert Brücker vom Institut für Arbeitsmarkt- und Berufsforschung (IAB) kritisiert das Aus der schnelleren Einbürgerung. Dadurch werde die Einwanderung von Fachkräften beeinträchtigt, sagt er im Gespräch. Er sieht eine Verschlechterung des politischen und gesellschaftlichen Klimas für Migranten. Von Dirk Baas

Kritiker sehen in der jetzigen Reform des Staatsangehörigkeitsgesetzes, die Verlängerung der Einbürgerungsfrist wieder auf fünf Jahre, ein fatales integrationspolitisches Signal ausgesendet. Halten Sie diese Sicht für schlüssig?

Herbert Brücker: Grundsätzlich hilft die Einbürgerung der Integration. Eingebürgerte Menschen erreichen nicht nur genauso hohe oder höhere Erwerbstätigenquoten wie die deutsche Bevölkerung. Sie beziehen auch geringere Sozialleistungen. Eine Behinderung der Einbürgerungschancen wirkt deshalb negativ.

Wie relevant für das Einbürgerungsgeschehen ist die jetzige Reform?

Die Abschaffung der Einbürgerungsmöglichkeit nach drei Jahren trifft nur einen sehr kleinen Kreis, in der Regel hochqualifizierte Personen mit exzellenten Deutschsprachkenntnissen, die ökonomisch gut gestellt sind und die sich zudem im Bildungssystem oder durch ehrenamtliches Engagement ausgezeichnet haben. Es geht, nach den vorliegenden Informationen, wohl nur um einige hundert Personen pro Jahr. Insofern sind die materiellen Auswirkungen auf die lebende Migrationsbevölkerung gering, es geht eher um eine symbolische Maßnahme.

Die Befürworter der Reform sagen dagegen, nachhaltige Integration und gesellschaftliche Teilhabe brauche Zeit und sollte nicht zu früh mit der Vergabe der Staatsbürgerschaft „belohnt“ werden. Ist das nachvollziehbar?

Es stimmt, dass Integration in der Regel Zeit braucht. Deshalb kommt es auf die Kriterien für die Einbürgerung an. Die meisten Menschen brauchen länger, bis sie die deutsche Sprache gut oder sehr gut sprechen, erfolgreich im Arbeitsmarkt sind und auch sozial teilhaben. Darum macht im Regelfall eine spätere Einbürgerung Sinn. Aber warum soll jemand, der eine deutsche Schule im Ausland besucht hat, perfekt Deutsch spricht, überdurchschnittlich verdient und sich sozial engagiert nicht schon früher eingebürgert werden? Das ist das, was andere Einwanderungsländer, mit denen wir im Wettbewerb stehen, machen. Es kommt deshalb auf den erreichten Integrationsstand an, nicht auf die Aufenthaltsdauer.

Deutschland braucht aus demografischen Gründen wie viele andere EU-Länder auch in Zukunft Hunderttausende hochqualifizierte Zuwanderer pro Jahr. Wäre da die beschleunigte Einbürgerung nicht der richtige Weg gewesen, Hürden zu senken?

Wir brauchen eine Nettozuwanderung von 400.000 Personen pro Jahr, das entspricht etwa 1,6 Millionen Zuzügen, um das Erwerbspersonenpotenzial zu stabilisieren. Inzwischen haben wir einen negativen Wanderungssaldo mit der EU, sodass diese Menschen aus Drittstaaten kommen müssen. Dafür müssen wir Anreize schaffen. Neben wirtschaftlichen Faktoren spielt die Frage einer gesicherten Bleibeperspektive auch eine zentrale Rolle. Die Option einer schnelleren Einbürgerung kann dabei helfen, ist aber nicht entscheidend. Nur wenn die Bundesregierung und der Gesetzgeber mit deren Abschaffung das Signal senden wollen, dass eigentlich weniger Migration gewollt ist, wird es problematisch.

Geht man davon aus, dass auch die Nachbarländer um Zuwanderer werben, dann ist diese Reform nur schwer zu vermitteln. Nehmen potenzielle Migranten in aller Welt diese neuen Restriktionen überhaupt zur Kenntnis?

Die Menschen im Ausland kennen sicher nicht jedes Detail des deutschen Aufenthaltsrechts. Sie nehmen aber die Stimmung und die zentralen Regelungen sehr sensibel war. So ist Deutschland als Zielland der ersten Wahl in der weltweiten Gallup-Befragung, die die Migrationsabsichten erhebt, 2024 deutlich zurück gefallen. Ich glaube zwar nicht, dass eine einzelne Maßnahme große Auswirkungen hat, aber es kommt auf das Gesamtkonzert an.

Innenminister Alexander Dobrindt (CSU) sagte in der Debatte im Bundestag: „Der deutsche Pass muss als Anerkennung für gelungene Integration zur Verfügung stehen und nicht als Anreiz für illegale Migration.“ Ist es nicht eher so, dass eine schnelle Einbürgerung ein starker Anreiz für Integration ist?

Die These des Ministers ist sachlich schwer haltbar. Herr Dobrindt meint wahrscheinlich Asylbewerberinnen und Asylbewerber. Sie müssen zunächst die Asylverfahren durchlaufen, dann kommen alle anderen Hürden wie exzellente Deutschsprachkenntnisse, gute Verdienste und besondere Leistungen im Bildungs- und Ausbildungssystem und Ehrenamt noch hinzu. Das ist in drei Jahren nicht zu schaffen. Die Regelung richtet sich an einen anderen Personenkreis. Schließlich gibt es keinerlei empirische Evidenz für die Behauptung, dass durch die beschleunigte Einbürgerungsoption die Zahl von Asylanträgen steigt.

Wird die Reform merklichen Einfluss auf die Zahlen der Einbürgerungen haben?

Ich vermute nicht, in aller Regel erfolgt die Einbürgerung nicht vor Ablauf der Fünfjahresfrist. Viel wichtiger ist, dass die zuständigen Behörden die Anträge schneller bearbeiten, so dass die gesetzlich vorgesehenen Fristen auch praktisch wirksam werden. Ich mache mir größere Sorgen, dass die Einwanderung von Fach- und Arbeitskräften, die wir dringend brauchen, beeinträchtigt wird. Die Reform ist nur ein kleiner Mosaikstein. Aber wir müssen zur Kenntnis nehmen, dass die Verschlechterung des politischen und gesellschaftlichen Klimas für Migrantinnen und Migranten Auswirkungen hat, auch auf die Einwanderung von Fachkräften. (epd/mig 22)

 

 

 

 

 

Interviews. „Migration wird politisch instrumentalisiert“

 

Carolina Gottardo über die Arbeit mit inhaftierten Migranten, politische Strategien und aktuelle Herausforderungen. Die Fragen stellte David Müller.

Die International Detention Coalition (IDC) wurde mit dem Menschenrechtspreis der Friedrich-Ebert-Stiftung ausgezeichnet. Was bedeutet die Auszeichnung für Sie, und welche Auswirkungen hat sie auf Ihre Arbeit?

Wenn man zu einem politisch so aufgeladenen Thema wie Migration arbeitet, speziell zur Inhaftierung von Migranten und Geflüchteten, erwartet man keine Anerkennung. In einer Zeit, in der populistische Bewegungen weltweit erstarken und sich viele Parteien der Mitte nach rechts bewegen, ist der Preis ein starkes Signal der Unterstützung und der Solidarität mit einigen der am meisten stigmatisierten Menschen. Das bedeutet uns sehr viel – symbolisch und ganz konkret für unsere Arbeit gegen die Inhaftierung von Migranten.

Die Auszeichnung hilft, das Thema stärker in die öffentliche Debatte zu bringen und als zentrales Menschenrechtsthema sichtbar zu machen. Sie stärkt unsere Advocacy-Arbeit und eröffnet neue Netzwerke und Partnerschaften. Auch im Hinblick auf die Finanzierung ist sie enorm wichtig, vor allem angesichts der aktuellen Kürzungen im Bereich Menschenrechte und Migration. Jede Form von Aufmerksamkeit und Unterstützung zählt.

Insgesamt ist der Preis ein großer Ansporn, unsere Arbeit fortzusetzen. Unser Ziel bleibt: weg von Kriminalisierung und Haft, hin zu menschenwürdigen, gemeindebasierten Lösungen. Kein Kind sollte jemals in Abschiebehaft kommen, das ist nie in seinem besten Interesse. Wir sind davon noch weit entfernt, aber diese Auszeichnung ist ein wichtiger Meilenstein auf dem Weg dorthin.

Sie arbeiten mit Regierungen zusammen, die selbst für die Inhaftierung von Migranten verantwortlich sind. Wie gelingt der Spagat zwischen Zusammenarbeit und Komplizenschaft?

Wenn man Politik und Systeme verändern will, muss man mit Regierungen zusammenarbeiten, auch mit denen, die derzeit Menschen inhaftieren. Nur sie können Gesetze ändern. Dabei ist es wichtig, zu verstehen: „Die Regierung“ ist kein monolithischer Block. Es gibt unterschiedliche Ebenen, Ministerien und Personen. Wir suchen gezielt nach Ansprechpartnern, die offen sind für Veränderung. Wir haben viele engagierte Menschen in Verwaltungen getroffen, mit denen sich konstruktiv arbeiten lässt.

Ein Beispiel: In Thailand konnten wir zunächst nicht mit dem Innenministerium sprechen. Also begannen wir mit dem Ministerium für Kinder und Jugend, und heute arbeiten wir mit sieben Ministerien zusammen, darunter ist auch das Innenministerium. Manchmal muss man Umwege gehen, um ans Ziel zu kommen.

Wir wählen sehr sorgfältig aus, mit welchen Regierungen wir zusammenarbeiten. Es geht nicht darum, überall präsent zu sein, sondern dort, wo Veränderung möglich ist. Mit Regierungen, bei denen das nicht der Fall ist, arbeiten wir nicht, etwa mit der Trump-Regierung. Uns ist wichtig, nicht nur Kritik zu üben, sondern auch Lösungen anzubieten. Wenn man nur sagt: „Das ist falsch“, dann endet das Gespräch schnell. Wir sagen: „Das funktioniert nicht – aber wie wäre es mit diesem Ansatz?“

So bleiben wir unabhängig, benennen Missstände offen und zeigen zugleich Wege auf. Unsere Stärke liegt in der Breite unseres Netzwerks: Einige Mitglieder machen Kampagnenarbeit, andere Forschung, Rechtsstreitigkeiten oder politische Arbeit. Diese Ansätze ergänzen sich. Unser Ziel ist es, Regierungen mit Fakten, Dialog und praktischen Lösungen zu Veränderungen zu bewegen, und zwar gemeinsam mit Zivilgesellschaft, UN-Organisationen und Betroffenen.

IDC arbeitet weltweit mit vielen Partnern. Gab es ein Projekt, das nicht wie erwartet verlief? Und was haben Sie daraus gelernt?

Wir verstehen unsere Arbeit nicht als einzelne Projekte, sondern als langfristiges Engagement für strukturellen Wandel, wie Gesetzesänderungen, politische Reformen oder die Freilassung von Menschen aus Abschiebehaft. Solche Veränderungen brauchen Zeit und verlaufen in Phasen. Angesichts der aktuellen politischen Lage haben wir zwei Aufgaben: Fortschritte sichern oder das Erreichte verteidigen. Die Stimmung ist vielerorts feindselig, Migration wird politisch instrumentalisiert. Inhaftierung ist dabei nur ein Symptom neben Abschiebungen und der Kriminalisierung von Solidarität.

Wenn Dinge nicht laufen wie geplant, liegt das oft an äußeren Faktoren wie einem Regierungswechsel. Wir haben mehrfach erlebt, dass wir kurz vor einer Reform standen und dann wieder von vorn beginnen mussten. Das gehört zur Realität von Advocacy-Arbeit. Unsere Arbeit unterscheidet sich von Organisationen, die Dienstleistungen oder Rechtsberatung anbieten – wir konzentrieren uns auf systemischen Wandel. Es geht nicht darum, Haftbedingungen zu verbessern, sondern Haft zu beenden und Alternativen zu schaffen.

Ein gutes Beispiel ist Kolumbien: Dort werden Migranten nicht wegen ihres Aufenthaltsstatus inhaftiert. Über zwei Millionen Menschen erhielten vorübergehenden Schutz. Das zeigt, dass Migration auch ohne Haft steuerbar ist. Wir nutzen solche Beispiele, um anderen Ländern Alternativen aufzuzeigen und Peer Learning-Plattformen zu fördern. Beispielsweise in Asien, wo wir seit 2019 mit Regierungen in Australien, Thailand, Malaysia und Indonesien zusammenarbeiten. Natürlich gibt es Rückschläge. Wir sind eine lernende Organisation und reflektieren gemeinsam mit unseren Partnern, wenn etwas nicht funktioniert. Politische Bedingungen sind komplex und man muss flexibel bleiben und Strategien anpassen.

Gibt es Momente, in denen Sie an die Grenzen der Menschenrechtsarbeit stoßen? Und wie gehen Sie damit um?

Ja, es gibt viele solche Momente. Unsere Arbeit basiert vollständig auf Menschenrechten – das sagen wir jeder Regierung, auch wenn sie es nicht hören will. Wir argumentieren immer auf drei Ebenen: Rechte, Wirksamkeit und Kosten.

Erstens: Aus menschenrechtlicher Sicht ist Abschiebehaft verheerend. Für die Betroffenen, ihre Familien und ihre Gemeinschaften. Ein ehemaliger Inhaftierter sagte einmal: „Ich habe die Haft verlassen, aber die Haft hat mich nie verlassen.“ Das beschreibt die psychischen Folgen sehr treffend. Besonders bei Kindern ist Haft niemals vertretbar.

Zweitens: Alternativen sind wirksamer. Wenn Menschen Zugang zu Informationen, Rechtsberatung und Unterstützung haben, entstehen bessere Lösungen. Für sie selbst und für Regierungen. Sie verstehen ihre Optionen, treffen fundierte Entscheidungen und kooperieren bei den Verfahren. Studien zeigen, dass sich bei solchen Alternativen etwa 86 Prozent der Menschen am Verfahren beteiligen und nur rund zwei Prozent verschwinden.

Drittens: Alternativen sind kostengünstiger – bis zu 90 Prozent billiger als Haft. Inhaftierung ist teuer und oft privatisiert. Warum also öffentliche Mittel in ein System stecken, das weder funktioniert noch abschreckt? Wir wissen: Menschenrechtsarbeit hat Grenzen, weil Regierungen diese Argumente nicht immer hören wollen. Aber wir werden sie immer wieder vorbringen. Unsere Arbeit basiert auf Rechten – und daran werden wir nie rütteln, auch wenn es politisch bequemer wäre. IPG 21

 

 

 

 

 

Merz will AfD mit „Stadtbild“ besiegen

 

Kanzler Merz streicht die Brandmauer aus dem Sprachgebrauch der CDU. Der AfD sagt er erneut den Kampf an – mit einem positiven „Deutschlandbild“. An seiner „Stadtbild“-Aussage hält er aber fest – trotz anhaltender Kritik.

Die CDU geht mit einer deutlichen Kampfansage an die AfD in die fünf Landtagswahlen im nächsten Jahr. „Wir werden uns von diesen Leuten nicht zerstören lassen. Den Beweis werden wir in den nächsten Monaten erbringen“, sagte der Parteivorsitzende und Bundeskanzler Friedrich Merz nach einer zweitägigen Strategietagung des CDU-Präsidiums in Berlin. Er kündigte erneut einen klaren Abgrenzungskurs gegenüber der AfD an, distanzierte sich aber vom Begriff der Brandmauer.

Seine umstrittene Äußerung zu Problemen im Stadtbild in Deutschland verteidigte Merz in einer Pressekonferenz mit CDU-Generalsekretär Carsten Linnemann vehement. „Ich habe gar nichts zurückzunehmen“, sagte er. „Im Gegenteil, ich unterstreiche es noch einmal: Wir müssen daran etwas ändern und der Bundesinnenminister ist dabei, daran etwas zu ändern und wir werden diese Politik fortsetzen.“ Wer seine Töchter frage, werde auf die Frage, was er mit seinen Äußerungen gemeint habe, vermutlich „eine ziemlich klare und deutliche Antwort“ bekommen.

Der Kanzler war am Dienstag bei einem Termin in Potsdam von einem Reporter auf das Erstarken der AfD angesprochen worden. Er sagte daraufhin unter anderem, dass man frühere Versäumnisse in der Migrationspolitik korrigiere und Fortschritte mache. „Aber wir haben natürlich immer im Stadtbild noch dieses Problem, und deswegen ist der Bundesinnenminister ja auch dabei, jetzt in sehr großem Umfang auch Rückführungen zu ermöglichen und durchzuführen.“ Die Äußerung war von der Opposition, aber auch aus der SPD kritisiert worden.

Demonstranten fordern Vielfalt

Zu einer Demonstration gegen seine Äußerung am Sonntag sagte Merz: „Wer dann meint, dagegen demonstrieren zu müssen, der soll es tun. Der setzt sich dann allerdings auch der Frage aus, ob er ein Interesse daran hat, ein Problem zu lösen oder ob er eher ein Interesse daran hat, möglicherweise den Keil in unsere Gesellschaft zu treiben.“

Am Sonntag hatten nach Merz‘ „Stadtbild“-Aussage Hunderte am Brandenburger Tor in Berlin für Vielfalt und gegen Rassismus demonstriert. Mit Feuerzeugen und Handy-Taschenlampen bildeten die Demo-Teilnehmer am Abend ein Lichtermeer und skandierten „Wir, wir, wir sind das Stadtbild!“ Redner auf einer Bühne direkt vor dem Wahrzeichen warfen dem CDU-Chef und Bundeskanzler eine mangelnde Abgrenzung zur AfD vor.

Auf zum Teil selbstgemalten Plakaten und Transparenten war zu lesen „AfD-Verbot jetzt!“, „Lieber Menschenrechte als rechte Menschen“, „Wir freuen uns über alle Menschen“ oder „Friedrich Merz – ist das ein Scherz?“ Andere betonten kurz und knapp: „Berlin ist bunt!“ Ein Redner sagte: „Ich stehe hier als jemand, dessen Vater Kurde ist. Ist mein Vater ein Problem im Stadtbild – oder bin ich es?“ Im Grundgesetz heiße es: „Die Würde des Menschen ist unantastbar – nicht des Deutschen.“ Wer die Sprache der extremen Rechten übernehme, stärke sie, kritisierte der Redner.

Brantner: Millionen unter Generalverdacht

Auch aus der Politik ebbt die Kritik an Merz nicht ab. Grünen-Chefin Franziska Brantner hat mit Unverständnis auf die wiederholten Aussagen von Merz reagiert. Es sei nicht akzeptabel und unverantwortlich für einen Kanzler, „einfach mal pauschal Millionen Deutsche unter Generalverdacht zu stellen“, sagte Brantner in Berlin.

„Ich will nicht meine Tochter fragen müssen, was Herr Merz meint. Herr Merz muss beantworten, was er mit diesen Aussagen denn wirklich meint“, sagte Brantner. „Wir brauchen einen Kanzler, der verbindet und nicht einen Kanzler, der in rätselhaften Sätzen spricht, die alle unter Verdacht stellen und dann auf irgendwelche Töchter verweist.“

Reichinnek: Merz kippt Benzin ins Feuer

Heidi Reichinnek, Vorsitzende der Linksfraktion im Bundestag, erklärte: „Dieser Auftritt von Friedrich Merz war ein Offenbarungseid. Erst redet er über eine Abgrenzung von der AfD, nur um wenige Minuten später nicht nur seine rassistischen Stadtbild-Äußerungen zu verteidigen, sondern noch mehr Benzin ins Feuer zu kippen. Den Schutz von Frauen vor Gewalt als Argument gegen Migration ins Feld zu führen, kennen wir von Rechtsaußen nur zu gut“.

Merz behaupte zwar, sich von der AfD abgrenzen zu wollen, er übernehme aber immer deutlicher deren Rhetorik und Inhalte. „Ein Kanzler mit diesem Denken und Handeln wird die AfD nicht schwächen, er wird sie stärken. Die Regierung und damit auch die Union haben die Verantwortung, der AfD ihren Nährboden zu entziehen“, sagte Reichinnek.

CDU will AfD mit positivem „Deutschlandbild“ besiegen

Schwerpunktthema der Klausur war die Strategie der CDU für die fünf Landtagswahlen im kommenden Jahr. Die Ausgangslage ist düster. In bundesweiten Umfragen kommt die AfD inzwischen auf 25 bis 27 Prozent und hat mit der Union gleichgezogen. In Sachsen-Anhalt und Mecklenburg-Vorpommern, wo nächstes Jahr neue Landesparlamente gewählt werden, ist die AfD mit Werten an die 40 Prozent in den Umfragen bereits mit Abstand stärkste Partei. Alle bisherigen Versuche, den Aufstieg der Partei durch Übernahme seiner Inhalte und Forderungen zu stoppen, sind gescheitert.

Die CDU will trotzdem keinen Kurswechsel. „Wir haben mit dieser Partei keinerlei Übereinstimmung – weder in den Grundüberzeugungen noch in den tagespolitischen Fragen, die es zu beantworten gilt“, sagte Merz. Mehrfach warf er der AfD vor, die CDU erklärtermaßen zerstören zu wollen. Der „Miesmacherrhetorik“ der AfD wolle er nun ein „anderes Deutschlandbild“ entgegensetzen, sagte Merz und kündigte ein positives „Deutschlandbild“ an.

Den Begriff der Brandmauer legte Merz ad acta. „Das ist nicht unser Sprachgebrauch. Das war er nicht und das ist er nicht“, sagte er. Der CDU-Chef hatte diesen Begriff in der Vergangenheit allerdings auch schon verwendet. So sagte er im Dezember 2021 dem „Spiegel“. „Mit mir wird es eine Brandmauer zur AfD geben.“

Merz will CDU bei fünf Wahlen zur stärksten Kraft machen

Unabhängig vom Sprachgebrauch erklärte Merz die AfD erneut zum „Hauptgegner“ für die Wahl. „Und ich kann jedem nur raten, es ernst zu nehmen, wenn wir jemanden als Hauptgegner bezeichnen. Dann bekämpfen wir ihn wirklich.“ Das hätten die Grünen bei der jüngsten Bundestagswahl erfahren.

Die CDU wolle und könne bei allen fünf Wahlen die stärkste politische Kraft werden, sagte Merz. Sie werde sich künftig noch klarer von der AfD abgrenzen. „Wichtig ist vor allem, dass wir dem eine erfolgreiche Regierungsarbeit entgegensetzen.“ Das sei nicht nur eine Aufgabe der Union, sondern auch des Koalitionspartners SPD. „Wenn wir gemeinsam erfolgreich regieren, dann wird es keine sogenannte Alternative für Deutschland mehr brauchen.“ (dpa/mig 21)

 

 

 

 

 

Kirchen dringen auf konkrete Beschlüsse bei Weltklimakonferenz COP30

Kirchen und kirchliche Organisationen drängen die Weltgemeinschaft zu mehr Klimaschutz und zum Ausstieg aus fossilen Energien. Bei der Weltklimakonferenz COP30 im November in Brasilien müssten die Staaten konkrete Schritte vereinbaren, forderte die anglikanische Erzbischöfin der Gastgeberstadt Belém, Marinez Bassotto, am Montag bei einer Online-Pressekonferenz in Rom.

„Statt unverbindlicher Gespräche brauchen wir konkretes Handeln und verbindliche Finanzzusagen, um die Folgen des Klimawandels für die Ärmsten und Verletzlichsten abzumildern", so die Erzbischöfin. Sie sagte zu, dass die Kirche in Brasilien an der Seite der Menschen stehe, die sich gegen Abholzung und Raubbau an der Natur wehrten.

Kirchen und kirchliche Organisationen, die sich an der COP30 in Brasilien beteiligen wollen, riefen Christen dazu auf, Druck auf ihre jeweiligen Regierungen auszuüben, um zu mehr Klima- und Umweltschutz zu kommen.

Die indigene Vertreterin Panamas bei der COP30, Jocabed Solano-Panama, sagte, der Austragungsort in Belém im Amazonas sei eine große Chance. Anders als vorausgegangene Gastgeberstaaten könne Brasilien konkreten Klimaschutz voranbringen und für eine Beteiligung von Indigenen eintreten.

„Es reicht aber nicht, Vertreter der indigenen Völker des Amazonas für hübsche Bilder zu holen, sondern wir Indigene müssen zurück an den Verhandlungstisch", forderte Solano-Panama. Von den indigenen Gemeinschaften könne die Welt lernen, die Erde als heilig zu achten. „Wenn die Erde weiterhin misshandelt und ausgebeutet wird, wird unsere Welt nicht überleben."

Der frühere Ratsvorsitzende der Evangelischen Kirche in Deutschland, Heinrich Bedford-Strohm, betonte, die Zeit dränge. Es blieben nur noch wenige Jahre für ein Umsteuern zu mehr Klimaschutz und Klimagerechtigkeit. „Wir stehen gerade vor den entscheidenden Kipppunkten." Die Kirchen verstünden sich aus ihrer christlichen Überzeugung heraus als Anwälte für die, die unverschuldet am stärksten unter Umweltzerstörung und Klimawandel litten.

Musamba Mubanga vom weltweiten katholischen Dachverband Caritas internationalis beschrieb den Kampf für Klimagerechtigkeit als Ausdruck des christlichen Glaubens und der Pflicht zur Solidarität. Die Welt müsse weg von einem wirtschaftlichen Fortschrittsglauben, von dem nur eine Minderheit profitiere. Echter Fortschritt sei, wenn das Wohlergehen aller und des Planeten im Zentrum stehe.

COP30 beginnt am 10. November

Die Weltklimakonferenz COP30 tagt vom 10. bis voraussichtlich 21. November in der nordbrasilianischen Amazonas-Stadt Belém. Erwartet werden rund 50.000 Teilnehmende aus fast 200 Staaten. Aus Deutschland kommen zahlreiche Umweltorganisationen sowie Bundesumweltminister Carsten Schneider (SPD). Nach dem ab 2026 wirksam werdenden Austritt aus dem Pariser Klimaabkommen werden die USA nicht teilnehmen.

Umweltaktivisten dringen auf verbindliche Finanzzusagen im Kampf gegen den Klimawandel. Besonders die reichen Industriestaaten stünden in der Pflicht. Im Vorfeld der COP30 sind alle Staaten aufgerufen, ihre aktuellen Klimaschutzprogramme vorzulegen. Ziel der Weltgemeinschaft ist es weiterhin, den globalen, menschengemachten Temperaturanstieg möglichst schnell und möglichst stark zu begrenzen. (kna 20)

 

 

 

 

 

Medienberichte über ausländische Tatverdächtige „drastisch verzerrt“

 

Wenn Medien die Herkunft von Tatverdächtigen nennen, sind das zu über 90 Prozent ausländische Menschen. Mit der Realität, wie sie in Polizeistatistiken erfasst wird, habe das nichts zu tun, kritisiert eine Studie. Polizeianordnungen zur Herkunftsnennung in der Kritik.

Die deutschen Leitmedien berichten viel häufiger über Gewaltdelikte von Ausländern, als es mit Blick auf Polizeistatistiken angemessen wäre. Zu diesem Ergebnis kommt eine Expertise des Journalismusprofessors Thomas Hestermann von der Hamburger Hochschule Macromedia, die der Berliner Mediendienst Integration am Freitag bei einem Pressegespräch vorgestellt hat. Noch 2014 habe die Herkunft von Tatverdächtigen in den Medien „fast keine Rolle“ gespielt, sagte Hestermann, der die Studie seit 2007 betreut. Die aktuelle Auswertung aus dem ersten Quartal 2025 zeige mit Blick auf die tatsächlichen Zahlen eine „so drastische Verzerrung wie noch nie“.

Laut Untersuchung nennt ein Viertel der Fernsehbeiträge, die über Gewalttaten berichten, die Herkunft der Tatverdächtigen. In 94,6 Prozent dieser Beiträge handle es sich dabei um ausländische Personen. Das Bundeskriminalamt weise jedoch in seiner Statistik für 2024 bei Gewaltverbrechen nur 34,4 Prozent der Tatverdächtigen als nichtdeutsch aus. „Ausländische Tatverdächtige sind damit in den Medien etwa dreifach überrepräsentiert“, so die Schlussfolgerung der Studie. Ein ähnliches Bild zeige sich bei den Printmedien: Ein Drittel der Beiträge lege die Herkunft der Tatverdächtigen offen, in 90,8 Prozent seien diese nichtdeutscher Herkunft.

Die Professorin für Kriminologie an der Hochschule für Polizei und öffentliche Verwaltung in Nordrhein-Westfalen, Gina Wollinger, verwies auf die absoluten Zahlen: Von rund 12 Millionen in Deutschland lebenden Ausländern erfasse die Kriminalstatistik für 2024 etwa 700.000 Tatverdächtige ohne deutschen Pass. „Das bewegt sich im einstelligen Prozentbereich“, betonte die Soziologin. Über 94 Prozent der Ausländer in Deutschland werde nicht straffällig. Der Forderung, durch die Begrenzung von Zuwanderung auch die Kriminalitätsrate zu senken, fehle somit die Grundlage. Sie sei außerdem abwegig: „Niemand käme auf die Idee, Geburtenraten senken zu wollen, weil die Jugendkriminalität so hoch ist“, sagte Wollinger.

Presserat kritisiert Polizeianordnung zur Herkunftsnennung

Die seit 1. Oktober geltende Anordnung des Bayerischen Innenministeriums, in Pressemitteilungen der bayerischen Polizei grundsätzlich die Herkunft der Tatverdächtigen zu nennen, betrachtete der Journalist und Sprecher des Deutschen Presserats, Manfred Protze, kritisch. Neben den Qualitätsmedien, die sich per Pressekodex auf ethische Grundlagen verpflichteten, würden Polizeimeldungen von verschiedensten Gruppen auch auf den „ethikfreien“ Sozialen Medien genutzt, „die kein Problem mit Sippenhaft haben“. Das setze die klassische Presse unter Druck, die sich dann gegen den Vorwurf wehren müsse, Fakten zu verschweigen.

Außer in Bayern sind auch die Polizeibehörden in Mecklenburg-Vorpommern und Schleswig-Holstein verpflichtet, die Herkunft von Tatverdächtigen in ihrer Pressearbeit zu nennen. Damit wolle man für Transparenz sorgen, heißt es aus den jeweiligen Innenministerien auf Anfrage des Evangelischen Pressediensts. In Nordrhein-Westfalen hat Innenminister Herbert Reul (CDU) laut Sprecherauskunft „die grundsätzliche Nennung der Staatsangehörigkeit“ im November 2024 begrüßt. Wie sich das im seit 2011 geltenden Medienerlass widerspiegeln soll, werde derzeit noch geprüft. (dpa/mig 20)

 

 

 

 

 

Wenn die Blätter fallen – wer muss fegen?

 

Reinigungspflicht kann übertragen werden. Haftung bei Unfällen

Viele genießen den goldenen Herbst, wenn das Laub sich langsam verfärbt. Mit sinkenden Temperaturen verlieren Bäume aber auch ihre Blätter, Niederschläge nehmen zu. Beides zusammen verwandelt Bürgersteige in Rutschbahnen. Ohne Räumen ist ein Unfall schnell passiert.

Wer zum Besen greifen muss, regeln die meisten Kommunen in ihren Satzungen. Hier schreiben sie fest, ob und in welchem Umfang sich Hauseigentümer um die Reinigung der Bürgersteige kümmern müssen. Wer sich der Reinigungspflicht dauerhaft entzieht, begeht eine Ordnungswidrigkeit. Den Eigentümern eines Mietshauses steht es offen, die Reinigungspflicht über den Mietvertrag an die Mieter weiterzugeben.

Ereignet sich ein Unfall, hat der nicht nur eine strafrechtliche Seite. Hier geht es, wie die HUK-COBURG mitteilt, auch um persönliche Haftung. Bricht sich ein Passant beispielsweise das Bein, weil vergessen wurde, die Blätter wegzufegen, muss der Verantwortliche für den Schaden aufkommen. Ohne Haftpflichtversicherung kann das teuer werden: Im geschilderten Fall können dem Geschädigten Schmerzensgeld und falls er arbeitet auch eine Entschädigung für seinen Verdienstausfall zustehen. Bleiben nach einem Unfall dauerhafte Schäden zurück, können sogar lebenslange Rentenzahlungen fällig werden.

Ob und in welchem Umfang ein säumiger Laubräumer haftet, hängt allen Regeln zum Trotz oft von den speziellen Umständen des Einzelfalls ab. Sollte der Geschädigte den Rechtsweg beschreiten, steht die Haftpflichtversicherung ihrem Kunden zur Seite. Huk-C. 20

 

 

 

 

Merz will „Problem“ mit „Stadtbild“ durch Rückführung lösen

 

Sind Menschen mit Migrationsgeschichte ein „Problem im Stadtbild“? Diese Worte wählte Kanzler Merz – und will das „Problem“ mit Abschiebungen lösen. SPD, Grüne und Linke haben dazu eine klare Haltung. Auch Berlins Regierender Bürgermeister äußert sich.

Der SPD-Politiker Steffen Krach wirft Bundeskanzler Friedrich Merz (CDU) vor, mit seinen jüngsten Äußerungen über Migration im Stadtbild rechte Ressentiments zu bedienen. „Dass nach Markus Söder nun auch Bundeskanzler Friedrich Merz eine solche Aussage trifft, macht mich fassungslos“, erklärte der designierte SPD-Spitzenkandidat für die Berlin-Wahl 2026.

„Zwei führende Christdemokraten haben innerhalb weniger Tage bewusst Menschen mit Migrationsgeschichte als Problem im Stadtbild bezeichnet und in diesem Zusammenhang auch noch von Rückführungen gesprochen.“ Beide sorgten dafür, dass Menschen mit Migrationsgeschichte sich hierzulande unerwünscht fühlten.

Brandenburgs Grünen-Vorsitzender Clemens Rostock warf Merz Rassismus vor. „Problematisch ist nicht nur, dass Friedrich Merz Migration zum Problem erklärt – sondern vor allem, dass er offenbar Menschen allein nach ihrem Aussehen als nicht dazugehörig markiert.“ Und weiter: „Das ist rassistisch, und das ist ein echtes Problem für unser Land. Wer Integration will, darf Menschen nicht wegen ihrer Hautfarbe, Herkunft oder Religion zum Sündenbock machen.“

Merz: „Haben im Stadtbild noch dieses Problem.“

Merz war bei einem Termin in Potsdam am Dienstag von einem Reporter auf das Erstarken der AfD angesprochen worden. Er sagte daraufhin unter anderem, dass man nun frühere Versäumnisse in der Migrationspolitik korrigiere und das man Fortschritte mache. Merz fügte an: „Aber wir haben natürlich immer im Stadtbild noch dieses Problem, und deswegen ist der Bundesinnenminister ja auch dabei, jetzt in sehr großem Umfang auch Rückführungen zu ermöglichen und durchzuführen.“

Bayerns Ministerpräsident Markus Söder (CSU) hatte sich Ende September im „Münchner Merkur“ für mehr Abschiebungen nach Afghanistan und Syrien starkgemacht – und gefordert, dass sich das Stadtbild wieder verändern müsse.

Wegner: „Berlin ist vielfältig“

Berlins Regierender Bürgermeister Kai Wegner (CDU) ist derzeit auf Dienstreise in Namibias Hauptstadt Windhoek. Angesprochen auf Äußerungen von Merz sagte er der „Berliner Morgenpost“: „Berlin ist eine vielfältige und weltoffene Metropole, und diese Vielfalt wird sich auch im Stadtbild zeigen. Ich glaube auch nicht, dass das die Berlinerinnen und Berliner ärgert.“

Zugleich machte Wegner deutlich: „Bei der Integrationsfähigkeit stoßen wir aber an unsere Grenzen.“ Ein Problem sei in Städten wie Berlin zudem eine zu hohe Kriminalität. „Das müssen wir benennen und konsequent dagegen vorgehen“, sagte er der Zeitung. Auch die Täterkreise müsse man benennen.

Krach: „Welches Stadtbild schwebt der Union vor?“

Berlin habe die Zahl der Abschiebungen während seiner Amtszeit deutlich erhöht. „Trotzdem geht da noch mehr in allen Bundesländern“, so Wegner. „Dazu braucht es bessere Rückführungsabkommen, da ist die Bundesregierung gefragt. Danach müssen die Länder noch besser liefern, das werden wir tun.“

„Ich frage mich, welches Stadtbild der Union genau vorschwebt?“, ergänzte Krach zu den Äußerungen von Merz und Söder. „Meines ist ganz klar: In Berlin leben Menschen aus der ganzen Welt, wir alle sind das Gesicht der deutschen Hauptstadt – und das ist gut so. Dass der deutsche Bundeskanzler ihnen so in den Rücken fällt, um Stimmen am rechten Rand zu bekommen, ist menschlich enttäuschend.“

Kritik erntete Merz auch von der Linkspartei. Der Sprecher für Antirassismus der Linksfraktion im Bundestag, Ferat Koçak, erklärte am Donnerstag: „Merz behauptet, er wolle der AfD das Wasser abgraben – tatsächlich leitet er es mit seiner Rhetorik auch noch auf ihre Mühlen um. Das ist brandgefährlich.“ Menschen anhand ihres Aussehens als Problem im Stadtbild zu bezeichnen und ihnen damit die Zugehörigkeit abzusprechen, sei blanker Rassismus. Merz zeige, wie weit sich der gesellschaftliche Diskurs nach rechts verschoben habe.

Regierungssprecher: Nicht zu viel reininterpretieren

Angesprochen auf den von Merz hergestellten Zusammenhang zwischen Rückführungen und dem Stadtbild versuchte Regierungssprecher Stefan Kornelius am Mittwoch, die Wogen zu glätten. „Ich glaube, da interpretieren Sie zu viel hinein. Der Bundeskanzler hat sich zu dem geänderten Kurs in der Migrationspolitik der neuen Bundesregierung geäußert – übrigens in seiner Funktion als Parteivorsitzender, was er auch explizit so kenntlich gemacht hat.“ Merz habe immer klargemacht, dass es sich bei der Migrationspolitik in seinen Augen nicht um Ausgrenzung handeln dürfe, sondern um eine einheitlich geregelte Zuwanderung.

Das überzeugt den Landesintegrationsrat in Nordrhein-Westfalen nicht. Die Aussage von Merz sei „erschütternd“. Der Integrationsratsvorsitzende, Tayfun Keltek, erklärte am Donnerstag in Düsseldorf: „Zugehörigkeit und soziale Probleme an phänotypische Merkmale zu knüpfen, offenbart ein rassistisches Denkmuster. Solche Worte öffnen Diskursräume für rechtsextreme Ideologien. Sie implizieren, dass Zugehörigkeit zu Deutschland für den Bundeskanzler auf unwissenschaftlichen biologischen Kriterien basiert. Wer diese Unterscheidung trifft, reproduziert – bewusst oder unbewusst – ein Denken in rassifizierten Kategorien.“ (dpa/mig 16)

 

 

 

 

 

 

Trügerischer Erfolg

 

Sollten die US-Demokraten die kommenden Zwischenwahlen gewinnen, könnten sie die Lehren aus ihrer Niederlage gegen Trump schnell vergessen. Von Patrick Ruffini

Wenn eine Partei eine Wahl verliert, folgt meist eine Phase der Selbstreflexion: Man diskutiert, was schiefgelaufen ist, und setzt sich mit jenen Schwächen auseinander, die im Wahlkampf unter den Teppich gekehrt wurden. So war es auch bei den US-Demokraten nach ihrer Niederlage bei den Präsidentschaftswahlen 2024. Doch nur wenige Monate später ist die Bereitschaft, über neue Wege für die Partei nachzudenken, bereits wieder verblasst. Stattdessen steht nun der Widerstand gegen Trumps zweite Amtszeit im Vordergrund.

Im US-Wahlsystem folgen auf die Präsidentschaftswahlen zeitlich versetzt die sogenannten Zwischenwahlen zum Kongress. Das Problem: Diese Midterms blenden abweichende Meinungen aus und zwingen die Parteien faktisch dazu, an ihren bestehenden Positionen festzuhalten. Kaum ist eine Wahl vorbei, beginnt wenige Monate später bereits wieder der Wahlkampf. Für die unterlegene Partei bedeutet das, ihre Spendeneinnahmen so schnell wie möglich zu maximieren und die oppositionelle Stimmung in der eigenen Basis auszuschöpfen – eine Stimmung, die in den ersten Monaten einer neuen Amtszeit erfahrungsgemäß am stärksten ist.

Da die jeweilige Oppositionspartei bei den Midterms meist im Vorteil ist und diese Wahlen häufig gewinnt, werden unangenehme Fragen, die sich aus der letzten Niederlage ergeben, oft verdrängt. Dieser trügerische Optimismus hält in der Regel bis zur nächsten Präsidentschaftswahl an.

Sollten die Demokraten bei den Halbzeitwahlen im November 2026 gut abschneiden, dürfte etwa die Frage, wie sie die hispanische Wählerschaft oder junge Männer besser erreichen könnten, erneut in den Hintergrund treten. Befürworter der bisherigen Strategie werden dann argumentieren, der aktuelle Kurs gehe durchaus auf.

Dabei lohnt sich ein Blick zurück auf das Jahr 2022: Nach einem respektablen Ergebnis bei den Zwischenwahlen redeten sich die Demokraten ein, Joe Biden sei weiterhin ein aussichtsreicher Kandidat für die Wiederwahl. Schließlich war er der Einzige, der Trump bereits besiegt hatte – also müsse er es auch ein zweites Mal schaffen. Doch die Präsidentschaftswahl 2024 fand auf einem völlig anderen politischen Terrain statt als die Midterms 2022. Bidens Gesundheitszustand spielte diesmal eine zentrale Rolle, während 2022 noch die Vielzahl an Kandidatinnen und Kandidaten der Partei für Senat und Repräsentantenhaus im Mittelpunkt gestanden hatte.

Ein Blick auf die Midterms 2018 zeigt ein ähnliches Muster: Damals feierten die Demokraten einen klaren Erfolg. Die Lehre daraus lautete, die Partei müsse lediglich ihre „Widerstandshaltung“ gegen Trump fortsetzen und für die Präsidentschaftswahlen 2020 noch verschärfen. Im Aufwind wähnte man sich bereits auf dem Weg zu einer breiten gesellschaftlichen Bewegung – einer Stimmung, die über die bloße Ablehnung Trumps hinausgehe. Das führte zu einem gewissen Wettlauf nach links. Unterschiedliche Interessengruppen sollten zufriedengestellt werden; so erhielten etwa Forderungen nach der Entkriminalisierung von Grenzübertritten oder nach staatlicher Finanzierung von Geschlechtsangleichungen für inhaftierte, undokumentierte Migranten öffentliche Aufmerksamkeit.

Inzwischen ist klar, dass diese Entwicklung erhebliche Probleme im Verhältnis zur traditionellen Wählerschaft der Demokraten mit sich brachte. Probleme, die in der Euphorie nach 2018 kaum wahrgenommen wurden, nach den Wahlen 2020 und vor allem 2024 jedoch unübersehbar waren.

Die erwartbaren guten Ergebnisse bei den Zwischenwahlen 2018 wie auch die überraschend ordentlichen Resultate 2022 haben den demokratischen Präsidentschaftskandidaten 2020 und 2024 genau die falschen Signale gesendet. Zwar gelang es den Demokraten 2020, das Weiße Haus von Donald Trump zurückzuerobern, doch die Fehlinterpretation allzu optimistischer Umfragen ließ sie glauben, es sei nun ein historischer Moment für progressive Politik gekommen. Das trieb die Partei zu teils extremen Positionen – und ebnete damit den späteren Verlusten, etwa unter hispanischen Wählern, den Weg. Die Ergebnisse der Zwischenwahlen 2022 wiederum führten dazu, dass Sorgen um Bidens Gesundheit verdrängt und lange ignoriert wurden – ein noch schwerwiegenderer Fehler.

Um es klar zu sagen: Zwischenwahlen sind in der Regel kein verlässlicher Indikator dafür, wie die nächste Präsidentschaftswahl ausgehen wird. So schnitten die Republikaner sowohl 2020 als auch 2024 deutlich besser ab, als es die jeweils vorangegangenen Midterms hätten vermuten lassen. Und größere Umbrüche bei Halbzeitwahlen sind keineswegs ein besserer Stimmungsmesser für die nächste Präsidentschaftswahl als „normale“ kleinere Verschiebungen in der öffentlichen Meinung. Nach ihrem Midterm-Sieg 2010 etwa verfielen die Republikaner in Euphorie und Übermut – und verloren 2012 dennoch die Präsidentschaftswahl. Umgekehrt hatte Bill Clinton nach der „Republikanischen Revolution“ bei den Midterms 1994 keinerlei Probleme, 1996 wiedergewählt zu werden.

Mitunter schließen sich an erfolgreiche Zwischenwahlen tatsächlich Siege bei der folgenden Präsidentschaftswahl an – so etwa bei den Republikanern 2014/2016 oder den Demokraten 2006/2008. Doch auch diese Beispiele fügen sich in ein bekanntes Muster: Zwischenwahlen laufen für die jeweils regierende Partei meist schlechter, und nach zwei Amtszeiten verliert die amtierende Partei in der Regel das Weiße Haus.

Zwischen- und Präsidentschaftswahlen folgen jeweils ihrem eigenen Rhythmus. Ein Sieg in der einen Wahl lässt keinerlei Rückschlüsse auf die andere zu. Ein Erfolg bei den Midterms mag erfreulich sein, doch er ist oft nur eine zyklische Reaktion auf die amtierende Regierungspartei – und löst nicht die tieferliegenden Probleme, die sich im Präsidentschaftswahljahr offenbaren, wenn die Mehrheit der Wählerinnen und Wähler tatsächlich an die Urnen geht.

Die beiden Wahlarten sind nicht nur weitgehend unabhängig voneinander. In der gegenwärtigen politischen Konstellation kann der Erfolg bei der einen sogar aktiv zum Scheitern bei der anderen beitragen – man denke nur an 2020 oder an die Illusionen des Biden-Teams 2024.

Die Spaltungslinien bei den Wahlen 2024 zeigten sich nicht nur in sich wandelnden kulturellen und „tribalen“ Zugehörigkeiten, sondern auch in der Wahlbeteiligung. Gelegenheitswähler ticken anders als Menschen, die regelmäßig an die Urnen gehen. Erstere sind weniger ideologisch gefestigt und stärker von aktuellen Stimmungen beeinflusst. Die Analyse Political Tribes verdeutlicht die erheblichen Unterschiede in den politischen Überzeugungsstrukturen zwischen Menschen, die regelmäßig wählen, und Menschen, die selten wählen.

Stellen wir uns die gesamte potenzielle Wählerschaft als eine Schlange vor, in der die Menschen nach ihrer Wahrscheinlichkeit zu wählen geordnet sind. Ganz vorne steht die Person, die garantiert zur Wahl geht; ganz hinten die, bei der es keinerlei Chance gibt. Bei Zwischenwahlen schließt der Einlass zum „Wahlclub“ früher am Abend: Die „VIPs“, die immer abstimmen, stellen dann einen größeren Anteil der Anwesenden. Anders gesagt: Motivierte Wähler kommen hinein, unmotivierte bleiben draußen. Für den Clubbetreiber bedeutet das: Bei einer Zwischenwahl hat er es mit einem stabileren und deutlich berechenbareren Publikum zu tun.

In Präsidentschaftswahljahren kommen aber viel mehr Menschen in den Club beziehungsweise an die Urnen, die sich nicht besonders für Politik interessieren. Für genau diese Wählergruppen ist Trump besonders attraktiv. Seine Wirkung reicht über Politik im engeren Sinne hinaus; er mobilisiert vormals Gleichgültige – 2016 waren es Stahlarbeiter, 2024 die „Krypto-Bros“. Er spaltet die Menschen nicht nur ideologisch, sondern auch in ihrer Haltung zu Normen und Verfahren. Die „VIPs“ im Wahlclub, die mit allen politischen Regeln vertraut sind, wenden sich meist angewidert ab; jene hingegen, die sonst außen vor bleiben, fühlen sich von ihm angezogen. Das stellt eine grundlegende Umkehr früherer Annahmen darüber dar, wem in den USA eine hohe Wahlbeteiligung nützt. 2024 zeigte sich deutlich: „Kleinere“ Wahlen zu spezifischen Themen taugen nicht als Stimmungstest für die Präsidentschaftswahl im Herbst. Bei den Wählern mit hoher Wahlneigung schnitten die Demokraten klar besser ab als in der Gesamtwählerschaft.

Die entscheidenden Verschiebungen im Herbst 2024 zeigten sich vor allem bei Wählerinnen und Wählern, die sonst selten zur Urne gehen – darunter Hispanics und andere Minderheiten, aber auch junge Menschen, Personen ohne Hochschulabschluss, Unverheiratete und Wähler mit geringem Einkommen. Wenn mehrere dieser Merkmale zusammenkamen – was häufig der Fall war –, stieg die Wahrscheinlichkeit, dass sie Trump ihre Stimme gaben. Man könnte von einer Art MAGA-Version von Intersektionalität sprechen. Doch das bedeutet nicht, dass diese Gruppen verlässlich oder vorhersehbar wählen. Ihre Loyalitäten können flüchtig sein – und selbst wenn sie zur Wahl gehen, ist unklar, welcher Seite dies am Ende zugutekommt.

Das verändert nicht nur die Demografie der Wählerschaft, die in einem Zwischen- oder Präsidentschaftswahlzyklus erreicht wird, sondern auch die Themen, die im Mittelpunkt stehen. So dominierten 2022 etwa Demokratie und Schwangerschaftsabbruch die Debatten, 2024 jedoch nicht mehr. Das lag nicht allein daran, dass prägende Ereignisse wie der 6. Januar oder die Aufhebung von Roe v. Wade damals noch frisch im Gedächtnis waren, sondern auch daran, dass gezielt Wählerinnen und Wähler mit hoher oder mittlerer Wahlneigung mobilisiert wurden.

Auf der rechten Seite des politischen Spektrums erfüllt das Thema Einwanderung eine ähnliche Funktion: Die ideologisch überzeugtesten und zugleich wahlfreudigsten Trump-Anhänger beschäftigen sich weitaus stärker damit als jene, die nur unregelmäßig oder nicht zuverlässig für ihn stimmen. Noch deutlicher zeigt sich das beim Thema Lebenshaltungskosten – dem dominierenden Punkt in den Umfragen. Paradoxerweise wirkt er fast wie ein negativer Indikator für die Wahlbeteiligung: Statistisch gesehen nehmen Menschen, die stark unter hohen Lebenshaltungskosten leiden, seltener an Zwischen- oder kleineren Wahlen teil. Da diese Betroffenen politisch weniger präsent sind, finden konkrete Lösungsansätze für dieses Problem bei Politikerinnen und Politikern beider Parteien kaum Beachtung. Ähnliches gilt für das verwandte Thema Wohnkosten und Mieten.

Eine Mobilisierungsstrategie zu bestimmten Einzelthemen kann bei Zwischenwahlen durchaus funktionieren. In Präsidentschaftswahljahren jedoch wird sie meist durch den Zustrom weniger informierter, leichter beeinflussbarer Wählerinnen und Wähler unterlaufen, deren Beteiligung von völlig anderen Faktoren abhängt. Deshalb konnten wir gerade in jüngster Zeit alle zwei Jahre einen Wechsel beobachten, welche Partei über ihre Stammwählerschaft hinaus Zugewinne erzielte: 2016 die Republikaner, 2018 die Demokraten, 2020 erneut die Republikaner, 2022 die Demokraten – und 2024 wieder die Republikaner. Politiker glauben gern, die Lehren aus einem Wahlzyklus ließen sich auf den nächsten übertragen. Tatsächlich ist eher das Gegenteil der Fall.

Zwar gibt es in der Demokratischen Partei viele, die aufrichtig daran interessiert sind, das Bild der Partei bei Menschen mit niedriger Wahlbeteiligung zu verändern. Doch alle unmittelbaren Anreize rund um die Zwischenwahlen sprechen dagegen. Im Klartext: Je erfolgreicher die Demokraten bei den Midterms abschneiden, desto unpopulärer werden Forderungen nach einem grundlegenden Kurswechsel. TI/IPG 16

 

 

 

Studie. Großteil der Geflüchteten in Deutschland armutsgefährdet

 

Wenn es nach Rechtspopulisten geht, geht es Geflüchteten in Deutschland gut – zu gut. Einer wirtschaftswissenschaftlichen Studie zufolge sind sie in Deutschland jedoch überdurchschnittlich von Armut gefährdet. Ihr Risiko ist deutlich größer geworden.

Fast zwei Drittel der Geflüchteten in Deutschland sind einer Studie zufolge armutsgefährdet oder arm. Die am Mittwoch veröffentlichte Untersuchung des Deutschen Instituts für Wirtschaftsforschung (DIW) Berlin zu Einkommensungleichheit und Armutsrisiko kommt auf Basis des Sozio-oekonomischen Panels (SOEP) für Geflüchtete auf ein Risiko von 63,7 statt 42,0 Prozent zwölf Jahre zuvor. Noch höher ist das Armutsrisiko für Erwerbslose: Es stieg zwischen 2010 und 2022 um 16,5 Prozentpunkte von 54,9 auf 71,4 Prozent.

Als Ursache verwies das DIW auf die hohe Inflation der Jahre 2021 und 2022. Die damalige Teuerung habe die Reallöhne und verfügbaren Einkommen in Deutschland „erstmals seit 2013 wieder sinken lassen“. Zuerst hatte die „Süddeutsche Zeitung“ über die Ergebnisse der Studie berichtet.

Bei den Menschen ohne ausländische Wurzeln habe es in den zurückliegenden Jahren beim Armutsrisiko kaum Veränderungen gegeben, stets hätten knapp 13 Prozent als armutsgefährdet gegolten. Bei den Geflüchteten dagegen habe es einen drastischen Anstieg gegeben, in der Spitze im Jahr 2020 hätten fast 70 Prozent unterhalb der Schwelle zur Armutsgefährdung in Deutschland gelebt. „Die gute Nachricht ist: Seit 2020 sinkt die Armutsrisikoquote bei Geflüchteten wieder etwas, was der zunehmenden Arbeitsmarktintegration zu verdanken sein dürfte“, sagte der DIW-Forscher und Studienautor Markus Grabka.

Armutsrisiko auch bei Einwanderern höher

Auch andere Zuwanderer haben dem Bericht zufolge ein größeres Risiko, mit einem niedrigen Einkommen auskommen zu müssen. Das gelte sowohl für Menschen, die selbst nach Deutschland eingewandert sind, als auch für die nächste Generation, wenn mindestens Vater oder Mutter aus dem Ausland stammen. Bei beiden Gruppen lebe rund ein Viertel im Armutsrisiko.

Ebenfalls stark zugenommen hat die Armutsrisikoquote für Haushalte ohne Erwerbstätige. „Es zeigt sich deutlich, dass Arbeit vor Armut schützt“, erklärte Grabka, der zugleich empfahl: „Um die Einkommensungleichheit und das Armutsrisiko zu senken, sollte die Integration bestimmter Gruppen in den Arbeitsmarkt stärker gefördert werden.“ Auch das Transfersystem müsse reformiert werden, „da sich eine Ausweitung der Arbeitszeit gerade im unteren Einkommensbereich kaum im Geldbeutel bemerkbar macht“.

Ungleichheit bei Stundenlöhnen hat abgenommen

Als Schwelle zum Armutsrisiko wurde der Studie zugrunde gelegt, wenn jemand über weniger als 60 Prozent des sogenannten Medians der Haushaltsnettoeinkommen verfügt. Der Median gibt dabei genau das Einkommen in der Mitte an, die eine Hälfte verdient mehr Geld, die andere weniger. Für eine Einzelperson habe die Schwelle zum Armutsrisiko für das zuletzt untersuchte Jahr 2022 bei 1.419 Euro gelegen.

Die DIW-Studie kommt außerdem zu dem Ergebnis, dass die Ungleichheit bei den Stundenlöhnen deutlich abgenommen hat, „was vor allem der Einführung des allgemeinen Mindestlohns und dessen wiederholten Erhöhungen zu verdanken ist“. Anders verhalte es sich jedoch mit der Ungleichheit der Haushaltsnettoeinkommen, die langfristig zugenommen habe. Am unteren Rand der Verteilung der Nettoeinkommen „zeigt sich ein zunehmendes Armutsrisiko“, stellte das Institut fest. (epd/mig 16)

 

 

 

 

 

Gallagher: Gaza-Abkommen ist gut, erfordert aber Arbeit zur Stabilisierung

 

Der Sekretär für die Beziehungen zu den Staaten des Vatikans, Erzbischof Paul Richard Gallagher, hat das jüngste Abkommen zur ersten Phase des Friedensplans für Gaza begrüßt, zugleich aber vor dessen Fragilität gewarnt und zur weiteren Stabilisierung aufgerufen. Gallagher äußerte sich am Nachmittag im Rahmen des 16. Festivals der Diplomatie in Rom. Von Roberto Paglialonga und Mario Galgano

„Es ist gut, dass das Abkommen für Gaza zustande gekommen ist, und man muss das Engagement des US-Präsidenten Trump in diesem Sinne anerkennen“, sagte Gallagher bei einem Dialog über „Vatikanische Diplomatie und staatliche Diplomatie“ in der italienischen Botschaft beim Heiligen Stuhl. Er fügte jedoch hinzu:

„Wir alle wissen aber, dass es sich noch um ein fragiles Gleichgewicht handelt und dass nun viel Arbeit von allen benötigt wird, insbesondere von den Vermittlern und den beteiligten Akteuren.“

Appelle und Schwachpunkte des Nahost-Abkommens

Gallagher betonte, dass der Heilige Stuhl alles in seiner Macht Stehende getan habe, um den Dialog zu fördern und die Einhaltung des Völkerrechts zu fordern. Er verwies auf die „öffentliche Diplomatie“ durch die Appelle von Papst Franziskus und nun Papst Leo XIV. sowie die Unterstützung der christlichen Gemeinschaften, etwa durch die täglichen Anrufe von Papst Franziskus in der Pfarrei der Heiligen Familie in Gaza-Stadt.

Der italienische Botschafter Giampiero Massolo, Mitdiskutant der Veranstaltung, wies auf die Schwachstellen hin: Es blieben die heiklen Punkte der zweiten Phase des Abkommens zu lösen – die Entwaffnung der Hamas und der Abzug Israels aus dem Gazastreifen. Massolo sieht jedoch in der Perspektive der Abraham-Abkommen eine gemeinsame Interessengrundlage.

Ukraine-Krieg: Die Komplexität des Multilateralismus

Im Vergleich zum Nahen Osten bezeichnete Erzbischof Gallagher die russisch-ukrainische Frage als „komplexer“. Er äußerte die Hoffnung auf Frieden, „der noch nicht nahe scheint“. In diesem Kontext, in dem eine „gewisse Lähmung des multilateralen Sektors“ herrsche, sei es die Aufgabe des Heiligen Stuhls, „weiterhin Kontakte zu erleichtern“. Er hob die Missionen von Kardinal Zuppi zum Gefangenenaustausch und zur Rückführung von Kindern hervor.

Massolo ergänzte, dass es in der Ukraine an der Grundlage für gemeinsame Interessen fehle. Er deutete an, dass die Möglichkeit, „Hebel des Drucks, insbesondere auf Moskau“, einzusetzen, nun in den Händen von Präsident Trump liege.

Irreversibilität von „Nostra Aetate“

Angesprochen auf die Beziehungen zu anderen Religionen nach den Konfliktjahren räumte Gallagher „manchmal einige Missverständnisse“, insbesondere mit dem Judentum, ein und forderte einen Weg der Versöhnung. Die Entscheidungen der Konzilsväter in der Erklärung „Nostra Aetate“ seien „irreversibel“.

„Unsere religiösen Quellen müssen Quellen der Versöhnung sein“, betonte er.

Zum Abschluss äußerte Gallagher große Zufriedenheit über den heutigen Antrittsbesuch von Papst Leo XIV. beim italienischen Präsidenten Sergio Mattarella im Quirinalspalast: „Ein Tag großer Zufriedenheit für den Heiligen Stuhl. Man hat die Einigkeit mit Italien in Sachen Frieden deutlich gesehen.“

(vn 15)

 

 

 

 

 

Studie. Zuwanderung spaltet Menschen in Deutschland am stärksten

 

Immer wieder wird eine Spaltung in der Gesellschaft beklagt. Doch bei welchen Themen prallen die Gegensätze besonders heftig aufeinander? Eine Studie aus Dresden gibt Antworten.

Gut 81 Prozent der Deutschen nehmen ihr Land laut einer Studie als gespalten wahr. Dabei wird dem Thema Zuwanderung das größte Spaltungspotenzial zugeschrieben, teilte das Mercator Forum Migration und Demokratie (MIDEM) an der Technischen Universität Dresden mit. Das stärkste Maß an ideologischer Polarisierung betreffe Klimaschutzmaßnahmen und Hilfe für die Ukraine. Zusammen mit dem Thema Zuwanderung sei hier auch die höchste „affektive Polarisierung“ festzustellen. Ideologische Polarisierung betrifft inhaltliche Meinungsunterschiede, affektive die emotionale Abwertung Andersdenkender.

Die MIDEM-Forscher hatten für ihr „Polarisierungsbarometer“ knapp 34.000 Menschen in acht EU-Ländern befragt, darunter fast 4.400 in Deutschland. „Bei manchen Themen gehen die Meinungen weit auseinander, ohne dass der demokratische Zusammenhalt leiden muss. Bei anderen eskalieren Konflikte, weil aus politischen Gegnern Feinde werden“, lautet ein Befund. Selbst dort, wo inhaltlich weitgehend Konsens herrsche, blockiere eine hohe Emotionalität die konstruktive Auseinandersetzung.

Forscher: Polarisierung differenziert betrachten

„Es vergeht kein Tag, an dem nicht mahnend auf eine wachsende Spaltung hingewiesen wird“, sagte Studienleiter Hans Vorländer. Das verkürze aber die Analyse. „Wir müssen differenzieren: Wann gefährdet Polarisierung die Demokratie wirklich? Und wann ist sie normaler Bestandteil pluralistischer Politik?“

Ideologische Polarisierung sei bis zu einem gewissen Grad in Demokratien notwendig. Affektive Polarisierung hingegen könne den demokratischen Zusammenhalt schwächen, weil sie Verständigung blockiere und aus politischem Wettbewerb Feindschaft mache.

Ältere, Männer und Geringverdiener polarisieren besonders

Nach den Ergebnissen der Studie sind ältere Menschen, Männer und Geringverdiener besonders stark affektiv polarisiert. „Auffällig: Wer sich politisch klar ‚links‘ oder ‚rechts‘ verortet, ist stärker polarisiert – am rechten Rand allerdings deutlich stärker. Besonders ausgeprägt ist die emotionale Ablehnung Andersdenkender bei Anhängern von AfD und Grünen – zwei Lager, die sich in dieser Haltung ähneln“, hieß es. Bei CDU/CSU-, SPD- und FDP-Unterstützern blieben die Werte deutlich niedriger.

„Politik, Medien und Zivilgesellschaft müssen unterschiedlich agieren – je nachdem, ob sie es mit einem Spaltungsthema, einem Konfliktthema oder einem Reizthema zu tun haben“, erklärte Vorländer. Pauschale Warnungen vor einer Spaltung würden nicht weiterhelfen. „Wir brauchen differenzierte Diagnosen für differenzierte Strategien.“

Hohe emotionale Aufladung beim Thema Klimaschutz

Stark entgegengesetzte Meinungslager und eine hohe emotionale Aufladung werden beim Thema Klimaschutz deutlich. 41,6 Prozent der Befragten tendieren zu der Ansicht, die aktuellen politischen Maßnahmen gingen „noch lange nicht weit genug“. Demgegenüber stehen 39,6 Prozent, die die Maßnahmen schon als „viel zu weit“ empfinden.

Beim Thema Zuwanderung allgemein fordern 67 Prozent der Befragten Beschränkungen. In den zum Vergleich herangezogenen EU-Ländern sind es 28 Prozent. 40 Prozent der Befragten in Deutschland fordern eine umfassende kulturelle Anpassung von Migranten, 47 Prozent halten Spracherwerb und Rechtstreue für ausreichend.

Lebendige Demokratie braucht Streit

„Politik steht heute unter Druck unmittelbar artikulierter Interessen. Diskurse werden von emotional aufgeladenen Interventionen in digitalen Medien geprägt“, sagte Vorländer. Deshalb habe sich die Studie auf 15 Sachfragen in den Themenfeldern Zuwanderung, Sicherheit, Klimawandel, Wirtschaft und Soziales sowie Wertvorstellungen fokussiert. Zu jedem Feld wurden die Befragten nicht nur nach ihrer Position, sondern auch nach ihrer emotionalen Haltung gegenüber Andersdenkenden gefragt.

„Eine lebendige Demokratie braucht Streit – aber sie darf nicht an ihm zerbrechen“, sagte Christiane von Websky, Leiterin des Bereichs Teilhabe und Zusammenhalt bei der Stiftung Mercator. „Das Polarisierungsbarometer zeigt eindrücklich, dass wir genauer hinschauen müssen: Nicht jede Differenz ist eine Spaltung, und nicht jeder Konflikt gefährdet den Zusammenhalt. Entscheidend ist, ob wir in der Lage bleiben, miteinander zu sprechen – auch über das, was uns trennt.“ (dpa/mig 15)

 

 

 

 

 

 

Kirche kritisiert geplante EU-Verordnung für mehr Abschiebungen

 

Die geplante EU-Rückführungsverordnung stößt auf scharfe Kritik. Der Gesetzesvorschlag öffne Tür und Tor für Rückführungszentren in Drittstaaten und mache Abschiebehaft praktisch zum Standardinstrument, sagt Katrin Hatzinger, Büroleiterin der Evangelischen Kirche in Brüssel, im Gespräch. Von Marlene Brey

Die EU arbeitet derzeit an einer Verordnung für mehr Abschiebungen. Warum ist dieser Vorschlag aus Sicht vieler europäischer Kirchen und Hilfswerke so problematisch?

Katrin Hatzinger: Der Vorschlag wirkt wie ein Schnellschuss, der eher politische Stimmungen bedient, anstatt eine faire und wirksame Migrationspolitik zu gestalten. Er öffnet die Tür, Rückführungszentren in Drittstaaten einzurichten – etwa in Uganda, wie es die Niederlande derzeit prüfen. Menschen würden dorthin gebracht, obwohl sie keinerlei Bezug zu diesen Ländern haben. Niemand weiß, wie die Haftbedingungen dort sind, wie der Rechtsschutz gewährleistet wird oder ob Nichtregierungsorganisationen Zugang haben. Das ist eine Blackbox und hochproblematisch.

Welche Verschärfungen sehen Sie noch?

„Haft … – auch für Familien und Kinder. Das ist aus kirchlicher Sicht völlig inakzeptabel.“

Man bekommt den Eindruck, dass Abschiebehaft zum Standardinstrument werden könnte. Haft soll bis zu 24 Monate möglich sein – auch für Familien und Kinder. Das ist aus kirchlicher Sicht völlig inakzeptabel. Zwei Jahre Haft sind nicht nur teuer, sondern richten menschlich enormen Schaden an – besonders bei Kindern. Zudem wird die freiwillige Rückkehr, die sich in der Praxis als nachhaltigste und günstigste Lösung erwiesen hat, hintangestellt. Stattdessen setzt man auf Zwangsmaßnahmen mit allen Risiken von Menschenrechtsverletzungen. Der Vorschlag geht davon aus, dass Menschen, die nicht kooperieren, schlicht nicht wollen. Dass sie krank, traumatisiert oder alt sein könnten, wird ausgeblendet.

Die EU-Kommission begründet ihre Reform damit, dass nur etwa 20 Prozent der Rückführungen tatsächlich gelingen. Was entgegnen Sie diesem Argument?

„Die Härte des Vorschlags weckt falsche Erwartungen in der Bevölkerung.“

Zu einer guten Migrationspolitik sollte auch eine glaubwürdige Rückführungspolitik gehören. Für uns Kirchen ist dieser Vorschlag jedoch nicht mehr verhältnismäßig. Oft werden Menschen nicht zurückgeführt, weil es praktische und rechtliche Hürden gibt, die nicht so ohne Weiteres zu überwinden sind: etwa die Sicherheitssituation im Herkunftsland, der Gesundheitszustand der Betroffenen oder dass der Herkunftsstaat die Person nicht annimmt. Die Härte des Vorschlags weckt falsche Erwartungen in der Bevölkerung – und aus der Praxis wissen wir, dass Rückführungen nicht so einfach funktionieren, wie hier versprochen wird.

Sehen Sie auch positive Punkte im Vorschlag der Kommission?

Es gibt kleine Verbesserungen. So sollen EU-Staaten verpflichtet werden, über Möglichkeiten der freiwilligen Rückkehr und über Reintegration im Herkunftsland zu informieren und zu beraten. Außerdem ist ein unabhängiges Monitoring von Abschiebungen vorgesehen. Das wäre für unsere kirchliche Abschiebebeobachtung, die es heute schon an sechs deutschen Flughäfen gibt, ein echter Fortschritt, weil es Rechtssicherheit schaffen würde. (epd/mig 15)

 

 

 

 

 

„Das ist der Preis Norwegens, nicht unserer“

 

Der Friedensnobelpreis für die Oppositionspolitikerin María Corina Machado sorgt in Venezuela für wenig Jubel – und dafür gibt es gute Gründe. Von Anja Dargatz

Der Friedensnobelpreis wird in diesem Jahr überraschend an die Oppositionspolitikerin María Corina Machado verliehen. Laut Begründung des Osloer Komitees ist sie diejenige, die in Venezuela „die Flamme der Demokratie in der wachsenden Dunkelheit“ am Leben erhält. Im Land selbst stößt die Auszeichnung jedoch auf verhaltene Resonanz, denn die Realität in Venezuela ist weitaus komplexer.

Zum einen dämpft die anhaltende Repression jeden offenen Jubel unter ihren Anhängerinnen und Anhängern. Doch es ist nicht nur die Angst vor Hausbesuchen durch Sicherheitskräfte oder vor Verhaftungen, die die Freude trübt. „Das ist der Preis Norwegens, nicht unserer“, sagt eine Venezolanerin, als sie am frühen Morgen von der Nachricht erfährt. „Der Friedensnobelpreis – für jemanden, der eine militärische Invasion befürwortet und damit Menschenleben aufs Spiel setzt?“, fragt ein junger Mann auf dem Weg zur Arbeit. Selbst unter Machados Unterstützerinnen und Unterstützern gibt es Zweifel: „Sie hat sicherlich Preise verdient, aber den Friedensnobelpreis?“, meint eine Biologiestudentin.

Venezuelas Präsident Nicolás Maduro äußerte sich erst am Sonntag – anlässlich des Tages des indigenen Widerstands – und beschimpfte Machado als „teuflische Hexe“, die von 90 Prozent der Bevölkerung abgelehnt werde. Auf die Preisverleihung selbst ging er nicht ein. Die Reaktion der Regierung spricht für sich: Drei Tage nach der Verkündung der Entscheidung des Nobelkomitees schloss Venezuela seine Botschaft in Norwegen – im Zuge einer „Optimierung und Reorganisation der diplomatischen Vertretungen“, wie es im offiziellen Kommuniqué hieß.

Dagegen gratulierten die demokratischen Kräfte in der Region, im Land und im Exil parteiübergreifend und begrüßten vor allem die Aufmerksamkeit, die die Auszeichnung auf Venezuela lenkt. Auch die derzeit prominenteste venezolanische Menschenrechtsorganisation fand anerkennende Worte: Sie sieht die Vergabe des Preises als „Unterstützung im Kampf für Veränderung“. Die diplomatischen Worte, wie sie unter anderem auch Präsident Frank-Walter Steinmeier fand, treffen den Kern: Ausgezeichnet werden laut Steinmeier „persönlicher Einsatz, Mut, Hartnäckigkeit“, allerdings kein wie auch immer geartetes Dialogprojekt oder gar Verhandlungserfolge. Damit reiht sich Machado ein in eine Reihe fragwürdiger Friedensnobelpreisträger der Vergangenheit.  

Anerkannt und unbestritten ist Machados Energie, mit der sie den Sieg bei den Präsidentschaftswahlen am 28. Juli 2024 verteidigt. Gemeinsam mit dem Ex-Diplomaten Edmundo González Urrutia, der antrat, nachdem ihr die Kandidatur aberkannt worden war, errang sie einen klaren Wahlsieg. Das Besondere daran: Dank zuvor geschulter Wahlhelferinnen und Wahlhelfer in den Wahllokalen konnten die Wahlakten dokumentiert und der Sieg mit Zahlen und Prozenten konkret belegt werden – unabhängig von der staatlichen Wahlbehörde. Das war ein bislang einzigartiger Vorgang in der venezolanischen Demokratiegeschichte. Dafür findet Machado im Land breite Anerkennung.

Doch das liegt inzwischen über ein Jahr zurück, und die Menschen im Land blicken nach vorn: Festhalten an etwas, das gestohlen und verloren ist – oder neue Wege suchen? Um heute in Venezuela eine tragende Rolle zu spielen, fehlen Machado zwei entscheidende Dinge: Aktionsspielraum und Dialogbereitschaft. Ihr Handlungsspielraum ist begrenzt, da sie seit über einem Jahr im Untergrund lebt. Das ist durchaus im Sinne des Regimes, das längst Gelegenheit gehabt hätte, sie zu verhaften – dies aber aus gutem Grund nicht getan hat.

Anlässlich der Amtseinführung von Präsident Nicolás Maduro hatte Machado einen ihrer seltenen öffentlichen Auftritte bei einer Kundgebung ihrer Anhängerinnen und Anhänger. Anschließend wurde sie von staatlichen Sicherheitskräften gestellt. Es folgten Stunden der Ungewissheit über ihren Verbleib, ein schwer zu deutendes Video – und schließlich meldete sie sich erneut aus ihrem Versteck. Die Botschaft war eindeutig: Die Regierung ist darauf bedacht, keine Märtyrerin zu schaffen – und im Idealfall einen Exil-Deal zu vereinbaren.

Doch Machado weiß genau, dass ein Exil ihrer politischen Bedeutungslosigkeit gleichkäme – und bleibt daher hartnäckig im Land. Ihr Handlungsspielraum beschränkt sich unter diesen Umständen auf ihre sozialen Kommunikationskanäle und auf internationale Netzwerke. Darüber verbreitet sie ihre Positionen und versucht, die internationale Gemeinschaft zu mobilisieren. Innerhalb Venezuelas jedoch gibt es keine erkennbaren Bemühungen, das Parteienbündnis, das sie bis zu den Präsidentschaftswahlen getragen hatte, zusammenzuhalten oder gemeinsame Strategien zu entwickeln.

Sie ist lediglich eine, nicht die Oppositionsführerin, wie sie international gerne dargestellt wird. Im Gegenteil: Mit ihrem kompromisslosen Aufruf zum Boykott der Parlaments-, Gouverneurs- und Kommunalwahlen 2025 hat sie die wenigen im Land verbliebenen demokratischen Kräfte gespalten – in jene, die ihrem Aufruf aus Loyalität folgten, und jene, die trotz aller Widrigkeiten das politische Feld nicht kampflos verlassen wollten.

Auch mit den Menschenrechtsorganisationen im Land besteht kein strategisches Bündnis – obwohl angesichts der politischen Gefangenen auf allen Seiten ein starkes gemeinsames Interesse bestünde. Wer in Venezuela Menschen sucht, die „die Flamme der Demokratie“ am Leben erhalten, findet sie dort.

Bündnisse mit den regionalen Nachbarn zu schmieden – etwa mit Venezuelas wirtschaftlich wichtigstem Partner Kolumbien oder der Regionalmacht Brasilien? Fehlanzeige. Machados internationale Verbündete sitzen weiter im Norden. Ihre direkte Verbindung zum US-amerikanischen Außenminister Marco Rubio ist kein Geheimnis: Beide trafen sich Anfang des Jahres digital anlässlich seiner Amtseinführung und unterstützen sich seither rege in den sozialen Medien. Selbst US-Präsident Trump äußerte sich – trotz eigener Ambitionen – anerkennend über die Preisträgerin. Machado wiederum widmete den Preis dem US-Präsidenten. Diese Verbindungen zu rechtspopulistischen internationalen Kreisen sind nicht neu – und sie sind ideologisch gefestigt. Das zeigte sich unter anderem im Februar bei Machados Auftritt vor der rechtspopulistischen Fraktion Patrioten für Europa im EU-Parlament in Brüssel.

Angesichts dieser Lage ist es kaum vorstellbar, dass Machado einen wie auch immer gearteten Übergang gestalten könnte. Sie führt weder ein geeintes demokratisches Bündnis an, das Regierungsverantwortung übernehmen könnte, noch käme sie als Dialogpartnerin für das Regime infrage. Wer einen friedlichen Übergang gestalten will, muss den Machthabern Angebote machen, Brücken bauen. Für Machado bleibt jedoch die militärische Invasion das Mittel der Wahl. Ob es dazu kommt – und in welcher Form – ist offen. Die USA verstärken jedenfalls ihre militärische Präsenz im Karibischen Meer. Gut also, wenn auch die internationale Gemeinschaft darauf ein wachsames Auge wirft. IPG 14

 

 

 

 

 

 

Made by Migration. Zuwanderer prägen Deutschlands Innovationskraft

 

Jedes siebte Patent in Deutschland stammt inzwischen von Menschen mit ausländischen Wurzeln – Tendenz steigend. Besonders stark wächst der Beitrag von Erfindern aus Indien, der Türkei und arabischen Ländern.

Jede siebte Erfindung in Deutschland geht nach einer neuen Studie des Deutschen Instituts für Wirtschaftsforschung (IW) auf Zuwanderer zurück. Im Jahr 2022 stammten demnach 14 Prozent der hierzulande angemeldeten Patente von Menschen mit ausländischen Wurzeln, wie das arbeitgebernahe Institut am Montag in Köln auf der Grundlage eigener Berechnungen mitteilte. Im Jahr 2000 habe der Anteil von Migrantinnen und Migranten erst bei 4,9 Prozent gelegen.

Mit jeweils knapp drei Prozent leisten der Untersuchung zufolge Erfinderinnen und Erfinder aus Ost- und Südosteuropa sowie dem südeuropäischen und lateinamerikanischen Sprachraum den größten Beitrag bei den Patentanmeldungen in Deutschland. Auf Platz drei folgten der arabische und der türkische Sprachraum mit rund zwei Prozent. Der Anteil aus dieser Region habe sich in den zurückliegenden 25 Jahren vervierfacht, erklärte das IW. Besonders stark sei das Wachstum bei den Patenten unter den Menschen mit indischer Herkunft: Ihre Anmeldungen seien mit 1,2 Prozent zwölfmal so hoch wie zur Jahrtausendwende.

IW: Unbürokratische Verfahren zur Einreise hilft Deutschland

Wie die IW mitteilt, altert Deutschland und ist wie andere Industrieländer auf die Zuwanderung gut ausgebildeter Menschen angewiesen. „Um im Wettbewerb um die klügsten Köpfe mithalten zu können, sind schnelle und unbürokratische Verfahren zur Einreise und Anerkennung von Qualifikationen notwendig“, erklärt Alexandra Köbler, Forscherin am IW. Ein weltoffenes Klima sei ebenfalls entscheidend, Expertinnen und Experten mit ihrem Know-how zu gewinnen und attraktiv für Talente im Ausland zu bleiben.

Für ihre Untersuchung werteten die Forscher die Patent-Datenbank des Instituts der deutschen Wirtschaft aus. Für den Vergleich wurden die dort enthaltenen Vornamen sämtlicher Erfinderinnen und Erfinder seit 2000 einem von 24 Sprachräumen zugeordnet. So lasse sich „mit hoher Wahrscheinlichkeit“ die Herkunftsregion der betreffenden Personen bestimmen, erklärte das Institut. (epd/mig 14)

 

 

 

 

 

 

Hoffnung auf allen Seiten. Waffenruhe in Gaza – Kehrt Frieden ein in Nahost?

 

Nach zwei Jahren Krieg keimt im Nahen Osten Hoffnung auf Frieden – doch die Skepsis bleibt. Während US-Präsident Trump den „ewigen Frieden“ beschwört, atmen in Deutschland und Europa viele Menschen auf. Auch für sie bedeutet das Ende der Kämpfe viel.

Der Nahe Osten steht nach Jahrzehnten der Feindseligkeiten vor einer möglichen historischen Wende. Der zwischen Israel und der Hamas vereinbarte Austausch von Geiseln und Gefangenen samt einem Teilrückzug der israelischen Truppen bietet eine schmale, aber ernsthafte Chance auf ein neues Kapitel – in Gaza, aber auch in der gesamten Region. Es könnte die Phase eines längerfristigen Friedens bevorstehen, auf die auch sehr viele Menschen in Deutschland warten. Doch in den kommenden Wochen und Monaten drohen viele Fallstricke.

Die Einigung der vergangenen Woche in Scharm el Scheich will US-Präsident Donald Trump mit weiteren Staats- und Regierungschefs besiegeln und hat „ewigen Frieden“ beschworen. Der Gaza-Krieg begann vor zwei Jahren mit dem beispiellosen Terrorangriff der Hamas vom 7. Oktober 2023 und führte zu einem Konflikt mit über 60.000 Toten im Gaza-Streifen, darunter viele Zivilisten, Frauen und Kinder. Die katastrophale Kette von Ereignissen könnte nun abreißen, denn die Machtverhältnisse im Nahen Osten haben sich seitdem dramatisch verändert.

Israel hat seine Feinde militärisch zumindest geschwächt: die Hisbollah im Libanon, die Hamas im Gazastreifen, die Huthi im Jemen und den Iran, der sie alle unterstützt. In Syrien schwächte Israel die Regierung von Machthaber Baschar al-Assad, der schließlich gestürzt wurde – womit Irans Landweg zum Mittelmeer gekappt wurde. Auch die Milizen im Irak haben ihre Angriffe auf US-Truppen in der Region weitgehend eingestellt. Ob dies allerdings der nachhaltige Weg ist, bezweifeln Nahostexperten. Militärische Stärke ließe sich schließlich immer wieder aufbauen, solange der Frieden nicht ehrlich gemeint ist. Die Härte, mit der Israel in diesem Krieg vorgegangen sei, habe viel Frust geladen – nicht nur in den Nachbarländern.

Was wird aus dem Gazastreifen?

Dennoch gilt nach Monaten des Krieges seit Freitag erst einmal die Waffenruhe im Gazastreifen. Die Hamas hat nach Worten ihres ranghohen Vertreters Chalil al-Haja Zusagen der USA und anderer Vermittler erhalten, dass der Krieg nun tatsächlich vorbei ist. Wenn Soldaten der USA oder etwa arabischer Länder die Waffenruhe wirklich absichern, werden Verstöße beider Seiten unwahrscheinlicher.

Doch besonders strittige Fragen bleiben wie bei vorigen Feuerpausen trotzdem ungeklärt: Wird die Hamas ihre Waffen abgeben, und wenn ja, an wen und wie? Tut sie es nicht, wird Israel seine Soldaten keineswegs abziehen. Selbst wenn die Hamas die Waffen abgibt, wird sie als politische Kraft – und empfundene Bedrohung für Israel – nicht einfach verschwinden. Parallel hat sich der Konflikt im besetzten Westjordanland mit den Palästinensern deutlich verschärft.

Auch wenn die Kämpfe längerfristig enden, könnte in Gaza neues Chaos ausbrechen. Etwa durch Clans, die die Hamas schwächen wollen – erste Berichte über gezielte Tötungen und Racheakte gibt es bereits. Selbst ein Machtvakuum ist denkbar oder ein Bürgerkrieg. Wenn Warlords die Kontrolle in Gaza übernehmen, drohen Entwicklungen wie in Libyen oder Somalia.

Ob sich die Lage im Gazastreifen auch nachhaltig stabilisiert und weitere Verhandlungen zu Ergebnissen führen, wird vor allem davon abhängen, ob der für Sprunghaftigkeit bekannte Trump den Druck auf Israel und Hamas aufrechterhält. Als Vorsitzender einer angedachten Behörde für den Wiederaufbau Gazas müsste er sich der Zukunft des Gebiets über Jahre verpflichten. Bis heute ist unklar, wer das Küstengebiet künftig regieren und wer den Wiederaufbau zahlen soll. „Die schwierigste Arbeit fängt jetzt an“, schreibt das Magazin „Foreign Affairs“.

Trumps Plan biete keine Vision für das Recht der Palästinenser auf Selbstbestimmung, etwa in Form eines eigenen Staats, schreibt die britische Denkfabrik Chatham House. In der „enthusiastischen Hast, Frieden zu schließen“, habe Trump ein kaum drei Seiten langes Papier vorgelegt, das schlicht zu wenig sei für ein umfassendes Friedensabkommen. Womöglich war es vor allem sein Versuch, wie erhofft den Friedensnobelpreis zu erhalten.

Wie entwickelt sich die Lage in Syrien und im Libanon?

Auch über Gaza hinaus gibt es Anzeichen, dass sich die Sicherheitslage in der Region verändern könnte. Mit Israels Nachbarland Syrien scheint eine zumindest strategische Zusammenarbeit denkbar, um Spannungen an der Grenze abzubauen. Übergangspräsident Ahmed al-Scharaa hat sich offen gezeigt für eine Annäherung an das eigentlich verfeindete Israel im Gegenzug für die Aufhebung der meisten US- und EU-Sanktionen gegen Syrien.

Im Gespräch ist hier ein Abkommen, das einen Waffenstillstand der beiden Länder von 1974 faktisch erneuern würde. Es wäre aber wohl eine begrenzte Einigung aus Sicherheitsinteressen, keine diplomatische Annäherung oder gar Normalisierung der Beziehungen. In Syrien kommt es immer wieder zu Kämpfen und Gewalt, auch neue Angriffe Israels sind dabei weiter möglich. Streitpunkt bleiben außerdem die von Israel besetzten Golanhöhen.

Im Libanon gilt unterdessen seit fast einem Jahr eine Waffenruhe zwischen der Hisbollah und Israel, auch wenn dessen Militär die Iran-treue Miliz weiterhin angreift. Die Regierung im Libanon steht unter Druck der USA und anderer Länder, die Hisbollah zu entwaffnen und die staatliche Souveränität wiederherzustellen. Erst dann kann der Libanon in seiner schweren Wirtschaftskrise dringend benötigte Finanzhilfen bekommen für den Wiederaufbau nach dem jüngsten, schweren Krieg mit Israel.

Die Hisbollah soll ihre Waffen eigentlich bis Ende des Jahres abgeben, lehnt diesen Schritt aber ab, solange Israels Angriffe im Land andauern. Eine neue Eskalation innerhalb des Libanon scheint hier ebenso möglich wie neue, mitunter schwere Konfrontationen mit Israel.

Könnte Saudi-Arabien die Beziehungen mit Israel normalisieren?

Solch ein Schritt würde durch ein echtes Ende der Kämpfe in Gaza zumindest wahrscheinlicher. Trump hatte 2020 während seiner ersten Amtszeit die Abraham-Abkommen auf den Weg gebracht, mit denen mehrere arabische Staaten die Beziehungen zu Israel normalisierten. Auch mit Saudi-Arabien gab es darüber Verhandlungen, die durchkreuzt wurden vom Hamas-Angriff und Israels verheerendem Krieg.

Saudi-Arabien – schon jetzt eine Führungsmacht in der arabischen Welt – verspricht sich von normalisierten Beziehungen zu Israel eine noch stärkere eigene Rolle in der Region. Riad verlangte von den USA zuvor im Gegenzug unter anderem Sicherheitsgarantien. Israels Angriff auf die Hamas-Führung in Katar dürfte aus Sicht Saudi-Arabiens ein Beweis dafür gewesen sein, dass der Golfstaat aus gutem Grund nach solch einer Vereinbarung strebte.

Das Königreich hat aber immer wieder glaubhafte Schritte zu einem Palästinenserstaat zur Bedingung gemacht. Solch ein Staat, den mit Frankreich, Großbritannien und Kanada inzwischen mehr als 150 von 193 UN-Mitgliedstaaten anerkennen, ist zuletzt ein wenig greifbarer geworden. Die israelische Regierung lehnt die Gründung eines palästinensischen Staats im Rahmen einer Zweistaatenlösung aber strikt ab, weil sie darin eine existenzielle Gefahr für Israel sieht.

Ist der Konflikt zwischen Israel und dem Iran beendet?

Zumindest ist der heiße Konflikt vorerst beendet. Nach dem zwölf Tage langem Krieg der beiden Erzfeinde Israel und Iran im Juni trat eine Waffenruhe in Kraft. Der Grundkonflikt bleibt aber bestehen. Israel sieht sich durch das iranische Atomprogramm bedroht und griff daher mit Unterstützung der USA Atomanlagen an. Zum Ausmaß der Zerstörungen gibt es allerdings unterschiedliche Angaben.

Der Krieg, das Atomprogramm und militärische Strategien hätten mehr Fragen als Antworten aufgeworfen, schreibt Expertin Nicole Grajewski. „Doch es scheint wahrscheinlich, dass die Wiederaufnahme der Feindseligkeiten keine Frage des „Ob“, sondern des „Wann“ ist“, erklärt die Analystin der Denkfabrik Carnegie.

Vor dem Krieg hatten Teheran und Washington über das Atomprogramm verhandelt. Eine Fortsetzung der Gespräche ist ungewiss, ein neuer Termin steht noch aus. Das Misstrauen der iranischen Führung dürfte nach den Angriffen von Israel und den USA weiter gewachsen sein. Auch die Zusammenarbeit mit der Internationalen Atomenergiebehörde (IAEA) wurde vorerst ausgesetzt.

Welche Vorteile hätte die Befriedung des Nahen Ostens für die USA?

Ob im Iran, im Libanon oder auch Gaza: Grundlinien von jahrzehntealten Konflikten werden nicht einfach verschwinden. In Teilen der arabischen Welt wird ein Bild bleiben vom Aggressor Israel, der den „Frieden herbeibomben will“, wie die „Washington Post“ nach Israels Angriff in Katar im September schrieb. Und in Israel wird der Schrecken des 7. Oktober bleiben und die Angst, umzingelt zu sein von Feinden. Selbst mit Staaten, die mit Israel Frieden geschlossen haben, gibt es bis heute kaum eine echte Aussöhnung oder gar Freundschaft der Völker.

Aber die USA haben – nicht erst unter Trump – ein Interesse daran, darauf hinzuwirken, die Region zu stabilisieren. Für Trump geht es gleich um mehrere Anliegen. Ein stabilerer Naher Osten würde den USA erlauben, militärische Ressourcen wie Marineverbände und Raketenabwehrsysteme in den Indopazifik umzuschichten, was für Trumps Regierung mit Blick auf die Rivalen China und Russland ein zentrales strategisches Ziel ist.

Friedensverträge zwischen Israel und arabischen Staaten könnten zudem zu regionaler Kooperation bei der Sicherung von Handelswegen oder im Bereich Verteidigung zum Beispiel durch eine gemeinsame Raketenabwehr führen, was langfristig die militärische Last der USA senken würde.

Es gilt für Washington aber auch, verlorenes Vertrauen wiederherzustellen nach Israels Angriff auf die Hamas-Spitze in Katar, den die USA entweder nicht verhindern wollten oder konnten. Die Golfländer sind wichtige Kunden und haben Milliarden investiert in US-Rüstungsgüter, aber auch in die Unternehmen von Trumps Familie. „Solche Arten von Interessen haben US-Regierungen in der Vergangenheit hier nicht vertreten“, hob auch der Nahost-Experte der Stiftung Wissenschaft und Politik, Guido Steinberg, im ZDF hervor.

Und dann ist da noch die eine Hoffnung Trump, die ihn weiter antreiben könnte, sich nicht nur kurzzeitig für eine Befriedung des Nahen Ostens einzusetzen: der Friedensnobelpreis, der schließlich auch 2026 wieder vergeben wird.

Hoffen und Bangen in Deutschland

Während Trump also auf internationale Anerkennung blickt, bedeutet das mögliche Kriegsende für viele Menschen in Deutschland vor allem eines: Erleichterung und Hoffnung. Für zahlreiche Israelis hierzulande ist es ein Aufatmen, weil Geiseln freikommen und die Kämpfe enden. Zugleich hoffen viele, dass die Spannungen und Anfeindungen gegenüber Jüdinnen und Juden in Deutschland nachlassen – seit Beginn des Gaza-Kriegs war die Zahl antisemitischer Vorfälle deutlich gestiegen.

Auch Palästinenserinnen und Palästinenser in Deutschland reagieren erleichtert. Viele von ihnen lebten in den vergangenen Monaten in ständiger Sorge um Freunde und Angehörige im Gazastreifen. Zehntausende Zivilisten kamen dort ums Leben, viele verloren ihr Zuhause. Kaum jemand in der palästinensischen Diaspora blieb von den Folgen des Kriegs unberührt. Das Ende der Kämpfe weckt bei vielen die Hoffnung, dass nun eine Phase der Ruhe und des Wiederaufbaus beginnen könnte.

Auch Europa verbindet Hoffnungen mit dem Ende des Kriegs. Die EU und Deutschland blicken seit Beginn des Konflikts mit Sorge in die Region – aus Angst vor neuen Fluchtbewegungen. Sollte der Wiederaufbau scheitern und den Menschen keine Perspektive bieten, könnten viele versuchen, die Region zu verlassen. Zahlreiche würden wohl nach Europa kommen, insbesondere nach Deutschland, wo bereits eine große palästinensische Gemeinschaft lebt. Studien zeigen, dass Menschen vor allem dorthin migrieren, wo sie auf bestehende Strukturen und vertraute Netzwerke treffen. (dpa/mig 14)

 

 

 

 

 

EU schafft Passstempel ab. Neues Grenzsystem für die europäische Migrations- und Asylpolitik

 

Das Ende der europäischen Stempel im Reisepass ist eingeläutet. Nicht-EU-Bürger sollen sich bei ihrer Ankunft künftig elektronisch registrieren. Das bedeutet nicht nur weniger Farbe im Pass.

Adieu Passstempel: Ab heute (12. Oktober) startet an Grenzübergängen nach Europa ein neues Einreisesystem für Nicht-EU-Bürger. Das neue Verfahren soll schrittweise eingeführt werden, mehr Daten erfassen und dadurch Kriminalität bekämpfen, wie die EU-Kommission in Brüssel mitteilte. In Deutschland führt zunächst der Flughafen Düsseldorf das sogenannte Ein- und Ausreisesystem („Entry-Exit-System – EES“) ein. Ein Überblick:

Was ändert sich?

Für deutsche Staatsangehörige oder Staatsangehörige anderer EU-Länder ändert sich nichts. Nicht-EU-Bürgerinnen und -Bürger können sich künftig elektronisch an speziellen Schaltern registrieren. Ausnahmen gibt es dabei etwa für Menschen, die eine Aufenthaltskarte besitzen und in unmittelbarer Beziehung zu einem EU-Bürger stehen.

Einreisende müssen laut EU neben den üblichen Angaben aus dem Reisepass auch biometrischen Daten, also Fingerabdrücke und Gesichtsbilder, machen und speichern lassen. Außerdem wird das Ein- und Ausreisedatum festgehalten. Um den Prozess an der Grenze zu beschleunigen, lassen sich manche Daten schon vorab per App oder am Selbstbedienungsschalter abgeben.

Wann und wo wird das System eingeführt?

In den kommenden sechs Monaten soll das System nach und nach in allen 29 Ländern des Schengenraums eingeführt werden. Neben 25 EU-Staaten sind das Island, Liechtenstein, Norwegen und die Schweiz. Ab dem 10. April 2026 soll es dann an allen Übergangsstellen europäischer Außengrenzen funktionieren. Dann soll auch der Stempel im Pass Geschichte sein.

In Deutschland folgen dafür nach dem Flughafen Düsseldorf die Flughäfen Frankfurt am Main und München, wie das Bundesinnenministerium mitteilte. Alle weiteren Flughäfen sowie die Häfen an den Seeaußengrenzen sollen demnach allmählich dazukommen. Übrigens: Auch Zugreisende können betroffen sein – etwa bei Reisen mit dem Eurostar von London nach Paris, Brüssel oder Amsterdam.

Welche Auswirkungen hat das neue Einreisesystem?

Für alle EU-Bürgerinnen und Bürger haben die neuen Regeln erst einmal keine direkten Auswirkungen. Zwar könnten die Kontrollen bei der Einreise nach den Plänen der EU langfristig schneller gehen, davon profitieren aber besonders Menschen ohne Staatsangehörigkeit eines EU-Landes.

Warum führt die EU das System ein?

Die EU will durch das neue System vor allem für mehr Sicherheit sorgen und Kriminelle frühzeitig aus dem Verkehr ziehen. So soll etwa mit der Speicherung biometrischer Daten Identitätsdiebstahl bekämpft werden, hieß es von der Brüsseler Behörde. Demnach soll es zudem zuverlässige Informationen zu Menschen liefern, die ihre Aufenthaltsdauer überschreiten.

Der zuständige EU-Kommissar Magnus Brunner bezeichnete das EES als digitales Rückgrat der neuen gemeinsamen europäischen Migrations- und Asylpolitik. „Mit seiner Einführung modernisieren wir die Verwaltung unserer Außengrenzen“, sagte Brunner laut Mitteilung. „Jede Person, die an einer Außengrenze ankommt, wird ausnahmslos einer Identitätsprüfung, einer Sicherheitsüberprüfung und einer Registrierung in den EU-Datenbanken unterzogen“, erklärte der EU-Kommissar weiter.

Ist das alles?

Das EES ist der erste Schritt eines neuen von der EU angestrebten Grenzsystems: Im letzten Quartal 2026 soll laut EU zusätzlich eine kostenpflichtige Einreisegenehmigung für EU-Ausländer verpflichtend werden, die nicht ohnehin ein Visum brauchen.

Davon sind Staatsangehörige aus über 50 Ländern betroffen – etwa den USA, Kanada, dem Vereinigten Königreich, Brasilien, den Vereinigten Arabischen Emiraten, Israel oder Südkorea. Sie müssen dann eine sogenannte ETIAS-Reisegenehmigung beantragen, die etwa wegen Sicherheitsbedenken der Behörden auch abgelehnt werden kann. Ähnliche Systeme existieren bereits in Großbritannien und den USA. (dpa/mig 13)

 

 

 

 

Vatikan/UNO: Weniger Rüstung, Schuldenerlass für arme Länder

 

Während die weltweiten Militärausgaben im Jahr 2024 auf 2,7 Billionen US-Dollar gestiegen sind, bleibt die Finanzierungslücke für die nachhaltigen Entwicklungsziele (SDGs) der Vereinten Nationen bei rund vier Billionen jährlich. „Für jeden Dollar, der in den Frieden investiert wird, werden zwei für den Krieg ausgegeben“, mahnte Erzbischof Gabriele Caccia, Ständiger Beobachter des Heiligen Stuhls bei den Vereinten Nationen in New York. Von Mario Galgano

„Jede Erhöhung der Militärausgaben bedeutet Ressourcen, die man hätte nutzen können, um eine dauerhafte Friedensordnung aufzubauen. Die Vision eines Multilateralismus, der dem Gemeinwohl verpflichtet ist, steht im Widerspruch zu einer Welt, in der die Militärausgaben steigen und die Verpflichtungen zur Entwicklungszusammenarbeit sinken“, sagte Caccia. Das gegenwärtige System, so der Diplomat, sei geprägt von einer gefährlichen Schieflage: „Statt in Gesundheit, Bildung oder Ernährungssysteme zu investieren, werden die Mittel für Waffen verwendet, die Leben und Lebensgrundlagen zerstören.“

Mit einem Zitat aus einer Ansprache von Papst Leo XIV. erinnerte Caccia daran, dass „wahre Sicherheit nicht aus Waffen entsteht, sondern aus Gerechtigkeit, Zusammenarbeit und gegenseitigem Vertrauen“. Der Erzbischof warnte, dieses Paradox untergrabe den Geist der Brüderlichkeit, auf dem der Multilateralismus ruhe, und mache das Ziel nachhaltiger Entwicklung unerreichbar.

Vertrauen in die Vereinten Nationen

Trotz dieser Kritik bekräftigte der Vatikan seine uneingeschränkte Unterstützung für die Vereinten Nationen. „Der Multilateralismus ist der einzig gangbare Weg zum Fortschritt“, betonte Caccia. Die UNO bleibe „ein Leuchtturm der Hoffnung für die internationale Gemeinschaft“. In einer Zeit wachsender Konflikte und Spaltungen sei sie ein Symbol dafür, „dass Dialog und Zusammenarbeit die einzigen dauerhaften Wege zu Frieden und Entwicklung sind“.

„Der Multilateralismus ist der einzig gangbare Weg zum Fortschritt.“

Die internationale Zusammenarbeit, so der Vertreter des Heiligen Stuhls, sei nicht nur eine politische Option, sondern eine moralische Verpflichtung: „Darauf sollte sich die gesamte Weltgemeinschaft verpflichten.“

Das Gewicht der Schulden

Neben den globalen Ungleichgewichten wies Caccia auch auf die erdrückende Schuldenlast vieler Länder hin, insbesondere jener ohne Zugang zum Meer oder kleiner Inselstaaten. Diese seien in eine „strukturelle Abhängigkeit“ gezwungen, die ihnen eine eigenständige Entwicklung erschwere.

In einer weiteren Stellungnahme betonte der Vatikanvertreter: „Es geht sowohl um die Verwirklichung einer ganzheitlichen Entwicklung für alle als auch um das Prinzip, dass jedes Land mit gleichem Respekt und als gleichberechtigter Partner behandelt werden muss.“

Daher forderte Caccia, „die untragbare Schuldenlast zu streichen“. Gerade im Heiligen Jahr sei der Schuldenerlass „kein wirtschaftspolitischer Akt, sondern ein moralischer Imperativ“. „Das globale Finanzsystem“, so Caccia weiter, „muss auf das Gemeinwohl der gesamten Menschheitsfamilie ausgerichtet werden.“

Die internationale Gemeinschaft sei daher zu einem „erneuerten Sinn der Mitverantwortung“ aufgerufen. (vn 11)

 

 

 

 

 

Union, SPD und AfD beschließen Aus für Turbo-Einbürgerung

 

Der Bundestag hat die Möglichkeit zur beschleunigten Einbürgerung nach drei Jahren wieder abgeschafft. Künftig ist eine Einbürgerung frühestens nach fünf Jahren möglich. Kritik kommt aus mehreren Richtungen.

Eine Einbürgerung in Deutschland ist künftig nach frühestens fünf Jahren möglich. Der Bundestag beschloss am Mittwochabend mit den Stimmen der Union, SPD und AfD die Abschaffung der Möglichkeit, bei besonderen Integrationsleistungen schon nach drei Jahren den deutschen Pass bekommen zu können – die sogenannte Turbo-Einbürgerung.

Über die Gesetzesreform wurde namentlich abgestimmt. 450 Abgeordnete votierten dafür, 134 dagegen und zwei enthielten sich. Damit macht die schwarz-rote Koalition einen Teil der Ende Juni 2024 in Kraft getretenen Einbürgerungsreform wieder rückgängig. Die damalige Mehrheit von SPD, Grünen und FDP hatte die Wartezeit bis zur Einbürgerung von früher acht auf fünf Jahre, die für eine Einbürgerung bei besonderen Integrationsleistungen von sechs auf drei Jahre gesenkt.

Bundesinnenminister Alexander Dobrindt (CSU) begründete die Abschaffung damit, dass der „deutsche Pass als Anerkennung für gelungene Integration“ zur Verfügung stehen müsse und nicht als „Anreiz für illegale Migration“. Das Gesetz der Ampel-Regierung sei der „grundfalsche Ansatz“ gewesen. Dieser habe das Land verunsichert, Polarisierung gebracht und nicht geholfen bei der Fachkräfteeinwanderung, betonte Dobrindt. Belege legte Dobrindt für seine Behauptungen keine vor.

Grüne und Linke kritisieren

Die Grünen-Abgeordnete Filiz Polat hingegen kritisierte die Entscheidung als „falsch und kurzsichtig“. Wer die hohen Einbürgerungsvoraussetzungen früher erfülle und sich darüber hinaus in der Gesellschaft engagiere, müsse auch die Chance erhalten, sich früher einbürgern zu lassen. Der Linke-Abgeordnete Ferat Koçak warf den Koalitionsfraktionen vor, mit ihrer Migrationspolitik den „Hass der AfD salonfähig“ zu machen. Er forderte, dass alle, die fünf Jahre in Deutschland leben, auch ohne deutschen Pass wählen dürfen.

Auch die Diakonie Deutschland kritisierte die Abschaffung der beschleunigten Einbürgerung. Bundesvorständin Elke Ronneberger warnte vor negativen Folgen der Entscheidung für den Arbeitsmarkt: „Deutschland braucht Fachkräfte – aber wer sieht, dass Integration hier eher gebremst als belohnt wird, sucht sich ein anderes Land.“ Für Menschen, die bereits einen Einbürgerungsantrag gestellt haben, forderte die Diakonie eine Übergangsregelung. Es dürfe nicht sein, dass Menschen, die alle Voraussetzungen erfüllt hätten, am Ende an der Bürokratie scheiterten.

Höchststand bei Einbürgerungen

Der Wirtschaftsweise Martin Werding kritisierte ebenfalls die Abschaffung der Regelung. Er sagte am Mittwoch im rbb24 Inforadio, dass solche Einbürgerungsmöglichkeiten zu einer guten Zuwanderungspolitik dazu gehörten – vor allem in alternden Gesellschaften.

2024 hatte die Zahl der Einbürgerungen in Deutschland einen Höchststand erreicht. Rund 292.000 Menschen erwarben nach Angaben des Statistischen Bundesamts den deutschen Pass. Voraussetzung für eine Einbürgerung sind gute Deutschkenntnisse und die Sicherung des Lebensunterhalts. Wer Sozialleistungen bezieht, kann nicht eingebürgert werden.

Doppelpass bleibt

Einbürgerungen nach kürzerer Aufenthaltsdauer in Deutschland machten in der Vergangenheit nur einen kleinen Teil aus. Nach Angaben des Statistischen Bundesamts erfolgten 2024 sieben Prozent der Einbürgerungen nach dieser Regelung, die nun gestrichen wird.

An den anderen Teilen der Einbürgerungsreform der Ampel, wie der allgemein kürzeren Frist, will die neue Bundesregierung aber festhalten. Auch an der neuen Regelung, nach der Ausländer bei einer Einbürgerung in Deutschland ihre andere Staatsbürgerschaft nicht mehr aufgeben müssen, ändert sich nichts. (epd/mig 10)

 

 

 

 

 

 

Scharfe Debatte im Bundestag über Umsetzung der EU-Asylreform

 

Bundesinnenminister Dobrindt will die EU-Asylreform schnell und in Teilen verschärft umsetzen. Die Opposition wirft der Regierung vor, Familien und Kinder de facto inhaftieren zu wollen. Auch von Kinderrechtsorganisationen kommt Kritik.

Der Bundestag hat kontrovers über eine geplante Verschärfung der Regeln bei der Umsetzung der EU-Asylreform in deutsches Recht debattiert. Innenminister Alexander Dobrindt (CSU) betonte am Donnerstag im Parlament in Berlin: „Unser Land darf kein Magnet mehr für illegale Migration sein.“ Von den Verschärfungen der deutschen Migrationspolitik profitierten auch die europäischen Nachbarn.

Deutschland ist dem Innenminister zufolge „nicht mehr Bremser, sondern Treiber der Migrationswende in Europa“. Es brauche sowohl nationale als auch europäische Lösungen. Weltoffenheit und europäische Einigung könne man nur erhalten, wenn man Ordnung bei der Migration herstelle, sagte Dobrindt.

Das Gemeinsame Europäische Asylsystem (Geas) soll die Einreise von Flüchtlingen besser ordnen und deren Verteilung zwischen den EU-Staaten fairer gestalten. Über Asylanträge von Menschen mit geringer Bleibeperspektive soll künftig bereits an der EU-Außengrenze entschieden werden. In Deutschland muss das im Wesentlichen für Verfahren an Flughäfen umgesetzt werden.

Kinderhilfswerk sieht „gravierende Defizite“

Die EU-Mitgliedsstaaten müssen die Geas-Reform bis Mitte 2026 umsetzen. Dobrindt strebt an, dass Teile der deutschen Umsetzung bereits früher in Kraft treten. Bei Flüchtlings- und Menschenrechtsorganisationen stößt die Reform auf Kritik, weil auch Minderjährige in den Grenzverfahren festgehalten werden, es sei denn, sie kommen ohne Begleitung Erwachsener an.

Das Deutsche Kinderhilfswerk sieht etwa „gravierende kinderrechtliche Defizite“ in den Gesetzesentwürfen. Insbesondere die Verlängerung der Verweildauer in Erstaufnahmeeinrichtungen und die Möglichkeiten der Bewegungsbeschränkungen in den Unterkünften seien nicht akzeptabel, erklärte die Vizepräsidentin des Hilfswerkes, Anne Lütkes.

Grüne kritisieren „defacto Inhaftierung“

Zusätzlich will Dobrindt mit dem Gesetzentwurf die Voraussetzungen dafür schaffen, dass mehr Flüchtlinge, für die ein anderer EU-Staat zuständig ist, in gesonderten Einrichtungen untergebracht werden. Damit wird das Ziel verfolgt, die Asylbewerber schneller in diese Staaten zurückzuführen. In Brandenburg und Hamburg gibt es bereits sogenannte Dublin-Zentren.

Die Grünen-Innenpolitikerin Irene Mihalic warf der Regierung vor, mit den geplanten sogenannten Sekundärmigrationszentren Menschen de facto zu inhaftieren. „Familien kommen nach Deutschland, um hier Schutz zu suchen, und werden stattdessen eingesperrt“, sagte Mihalic.

Linke zur Reform: „autoritäre Wende“

Noch schärfer äußerte sich die Linken-Abgeordnete Clara Bünger. Sie bezeichnete die Reform als „autoritäre Wende“ und warf der Regierung vor, eine Politik zu übernehmen, „die lange das Markenzeichen der AfD war: Abschottung, Haft, Entrechtung“. Besonders empörte sie sich über Regelungen, nach denen auch Kinder festgehalten werden könnten, sofern es ihrem Wohl diene: „Haft kann nie, wirklich nie dem Wohl eines Kindes dienen.“

Die Integrationsbeauftragte der Bundesregierung, Natalie Pawlik (SPD), hingegen verteidigte den Regierungsentwurf. Dieser vereinte „Humanität und Ordnung“ und setze europäische Vereinbarungen sowie den Koalitionsvertrag um. Die Kritik aus der Zivilgesellschaft, von Verbänden und Kirchen nehme sie ernst und könne einige Punkte auch nachvollziehen. „Denn es wird Regelungen geben, die an die Grenze dessen gehen, was das Grundgesetz, die EU-Grundrechtecharta und die Genfer Flüchtlingskonvention zulassen“, sagte Pawlik. (epd/mig 10)

 

 

 

 

 

Ende des Schreckens?

 

Trumps erzwungener Waffenstillstand im Gaza-Krieg ist ein Wendepunkt. Doch der Weg zum Frieden ist noch weit. Von Marcus Schneider

Ist das nun der Durchbruch, der den Schrecken ohne Ende beendet? Viele Fragezeichen bleiben noch beim von Präsident Donald Trump forcierten Waffenstillstand in Gaza – dennoch ist es der erfolgversprechendste Versuch seit zwei Jahren, diesen militärisch völlig sinnlos gewordenen Krieg zu beenden. Es ist besonders den letzten noch lebenden Geiseln, die ein fast zweijähriges Martyrium hinter sich haben, und der zutiefst geschundenen Zivilbevölkerung von Gaza zu wünschen, dass der Deal gelingt. Dass der Schlüssel zum Kriegsende in Washington liegt, ist seit langem offensichtlich. Ohne amerikanisches Geld, Waffen und diplomatisches Backing hätte Israel diesen Feldzug nicht führen können. Und auch heute ist klar, dass Premier Netanyahu wenig Einsicht hat. Seine rechte Regierung würde diesen Krieg weiterführen, gäbe es grünes Licht aus dem Weißen Haus.

Dort allerdings hat sich das Kalkül verändert. Die geopolitischen Kosten sind für Amerika offensichtlich zu hoch geworden. Die israelische Attacke auf den US-Alliierten Katar war hier der Tropfen, der das Fass zum Überlaufen brachte. Das Abrücken der finanzstarken Verbündeten am Golf musste verhindert werden, der Preis ist jetzt der Israel aufgezwungene Waffenstillstand. Hinzu kommt Trumps Lechzen nach internationaler Anerkennung. Gewohnt bescheiden betituliert ihn die X-Seite des Weißen Hauses als „Peace President“. Ehre, wem Ehre gebührt – wenn der brüchige Frieden denn hält. Dafür, dass er hält allerdings, ist das Ketten des Waffenstillstands an den pathologischen Narzissmus des Staatsoberhaupts nicht die schlechteste Garantie.

Innenpolitisch übersteigen die Kosten des Krieges für die USA längst seinen Nutzen. Der einstige „bipartisan consensus“ zur uneingeschränkten Unterstützung Israels bröckelt; Umfragen zeigen eine schwächere Zustimmung in Teilen der US-Bevölkerung, insbesondere bei Wählerinnen und Wählern der Demokraten. Die Lobbytruppe AIPAC, die unlängst noch davon schwadronierte, 90 Prozent der Kongressmitglieder in ihrer Tasche zu haben, entwickelt sich zum toxischen Label. Für Trump ist zudem die Zerreißprobe innerhalb seiner eigenen MAGA-Bewegung relevant: Bedeutende Meinungsmacher fragen zunehmend, wie massive militärische und finanzielle Unterstützungen mit „America First“ zu vereinbaren sind.

Hinzu kommt: Anders als in der Ukraine, wo seine Versuche vorerst gescheitert sind, kann Trump hier einen Frieden erzwingen. Amerika hält alle Trümpfe in der Hand. Es ist für den US-Präsidenten auch eine Machtfrage. „Wer ist hier die verdammte Supermacht?“, hatte Bill Clinton einst nach seinem ersten Treffen mit dem ehrgeizigen, damals noch jungen Premier Netanyahu ausgerufen. Lange schien es, als wackele in Sachen US-Nahostpolitik der Schwanz mit dem Hund – und nicht umgekehrt. Trump macht nun klar, wer die Weltmacht ist, und wer das, was MAGA-Chefideologe Steve Bannon verächtlich „Protektorat“ nennt.

Wo aber stehen die Konfliktparteien nach zwei Jahren unerbittlichen Kampfes? Im August 2024 hatte Netanyahu in seinem gespenstigen, von Jubelstürmen unterbrochenen Auftritt vor dem US-Kongress noch den „totalen Sieg“ beschworen. Total ist die Niederlage sicherlich für die palästinensische Zivilbevölkerung. Der israelische Feldzug hinterlässt ein Volk an Ausgebombten, Obdachlosen und Kriegsversehrten. Wohl selten zuvor musste ein Volk ohne Fluchtmöglichkeit über Jahre einen solchen Krieg über sich ergehen lassen. Die Bilder aus Gaza sind wie aus einer Horrordystopie über die letzten Tage der Menschheit.

Für Israel ist die Bilanz dieses Krieges enorm widersprüchlich. Das offizielle Kriegsziel war die Vernichtung der Hamas. Daran ist man gescheitert. Auch nach fast zwei Jahren hat es die hochgerüstete Nuklearmacht nicht vermocht, eine primitive Miliz, eingeschlossen in einem Gebiet nicht einmal halb so groß wie die Stadt New York, restlos zu besiegen. Als Guerilla und als politische Macht, mit der zu verhandeln ist, hält sich die Terrortruppe. Eine militärische Gefahr allerdings für das israelische Kernland stellt sie – selbst nach Aussagen ehemaliger israelischer Militärs – schon lange nicht mehr dar. Und darum hätte es ja eigentlich gehen sollen bei der vermeintlich „legitimen Selbstverteidigung“, die Tel-Aviv bis heute für sich reklamiert.

Der militärische Sieg über die Hamas war bereits Anfang 2024 erreicht. Alles, was danach kam, hat diesen Krieg sinnlos verlängert. Sinnlos im Sinne der Selbstverteidigung – die Art des Krieges und die Verlautbarungen aus der israelischen Regierung ließen aber darauf schließen, dass die Kriegsziele viel weitergehender waren. Viele Israelis haben immer lauter kritisiert, dass die Befreiung der Geiseln immer weiter auf der Prioritätenliste nach unten gerutscht ist. Nicht die Hamas war hier der Endgegner, sondern das palästinensische Nationalprojekt sollte nachhaltig zerstört werden. Denn dieses war zum Entsetzen der rechten Kräfte in Israel nach dem 7. Oktober auf der internationalen Agenda wieder ganz nach oben gerückt.

Weit über militärische Notwendigkeit hinaus gingen die Zerstörungen in Gaza. Dies deutet darauf hin, dass es einen Day After nie geben sollte. Eine Terrororganisation, die sich in der Zivilbevölkerung bewegt wie ein Fisch im Wasser, muss vor allem politisch besiegt werden. Die dazu nötige Einbindung alternativer palästinensischer und regionaler Kräfte hat Israel jedoch stets verhindert. Stattdessen Fieberträume von ethnischer Säuberung, die selbst dem US-Präsidenten aufgeschwatzt wurden. Ein immer größerer internationaler Chor an Völkerrechtlern und Genozidexperten stellte völkermordartige Zustände fest.

Zumindest das Schlimmste könnte die Friedensperspektive nun beenden. Die live übertragenen Bilder haben die Reputation Israels in der Welt schwer beschädigt – womöglich nachhaltig. In weiten Teilen des globalen Südens gilt das Land nun als Pariastaat, auch enge Verbündete haben sich entfremdet. Wo Regierungen noch als Partner auftreten, bröckelt der Rückhalt in der Bevölkerung. Und die Aufarbeitung, auch die juristische, steht erst noch aus. Gleichzeitig gibt es einen internationalen Schub für die Zweistaatenlösung – eine zuvor nur noch rhetorisch beschworene Formel, die weitgehend von der Agenda verschwunden war. Der Konflikt ist inzwischen, sehr zum Leidwesen der hegemonialen Kräfte im jüdischen Staat, internationalisiert.

Nicht eingerechnet in all dies sind die psychologisch-politischen Folgen. Eine ganze Generation junger Menschen ist mit den Horrorbildern aus Gaza politisiert worden. Nicht nur in der Region, fast in der ganzen Welt. Die Auswirkungen dessen sind noch kaum einzuschätzen, sie könnten sich auch in Jahrzehnten noch offenbaren. In Ablehnung, aber auch in Terror und Extremismus. Warme Frieden, die Versprechung der sogenannten Abraham Accords, jedenfalls könnte es so bald nicht mehr geben. Die arabischen Herrscher mögen dazu bereit sein, ihre Völker immer weniger.

Die geopolitischen Umwälzungen freilich sind beeindruckend. Der Iran ist aus der Levante hinausgedrängt, die Hisbollah besiegt. Doch wie nachhaltig sind diese Entwicklungen ohne diplomatische Absicherung? Denn dazu ist Israel nicht in der Lage. Seine uneingeschränkte Vorherrschaft steht auf tönernen Füßen. Es ist ein vermeintlicher Hegemon, dessen Überlegenheit größtenteils auf jener unbegrenzten amerikanischen Rückversicherung beruht, die es womöglich nicht mehr ewig geben könnte. Die muslimischen Regionalmächte betreiben längst ein Balancing gegen die vom Ausland so abhängige Regionalmacht. Sie haben nun den Waffenstillstand erzwungen, doch bei der Art des Friedens, der folgen soll, werden sie in dieser zunehmend multipolaren Welt nicht auf ewig ein amerikanisches Diktat akzeptieren.

Denn dies ist die größte Schwäche des Trump-Plans. Mehr als vage bleibt er darüber, was nach Geiselbefreiung und Waffenstillstand folgen soll. So total wie die Niederlage der Hamas militärisch ist, so sehr verkalkuliert sie sich mit dem 07. Oktober hat – als sie ein Israel herausforderte, das sich als gänzlich anders, viel brutaler, rücksichtsloser, vernichtender herausstellte als alles, was sie angenommen hatte. So sehr hat sie es politisch doch vermocht, unter enormen, unmenschlichen Kosten für das geschundene palästinensische Volk allerdings, dessen nationale Aspiration wieder zu beflügeln.

Auf den Krieg folgt jetzt der Kampf für den Frieden. Die Vorstellungen darüber könnten unterschiedlicher nicht sein. Eine Zweistaatlichkeit ist für die hegemonialen rechten Kräfte in Israel völlig inakzeptabel. Das Kriegsziel, diese Lösung endgültig zu verhindern, wurde jedoch verfehlt. Die Palästinenser dagegen, und selbst die waidwunde Hamas wird sich hier aus politischer Einsicht in die Notwendigkeit einreihen, wissen nun die übergroße internationale Mehrheit hinter sich für eine Staatlichkeit in den Grenzen von 1967. Die übergroße Mehrheit der Staaten sind zumindest rhetorisch an Bord, eigentlich eine Besonderheit in dieser auseinanderstrebenden Welt.

Prozedural hat Israel weiter Möglichkeiten, ein solches Ergebnis zu verhindern. Politisch tobt um Palästina längst ein Kulturkampf. Den aufstrebenden rechtspopulistischen Kräften im Westen soll der jüdische Staat als Bollwerk gegen Islam und Barbarei verkauft werden. Im Gegenzug erhofft man sich Support für Besatzung und Unterdrückung bis in alle Ewigkeit. Es ist ein riskantes Kalkül in einer Welt, in der das Gewicht des Westens abnimmt. Riskante Kalküle sind allerdings nichts Ungewöhnliches in der Geschichte des jüdischen Staates.

Politisch ist damit, so der Waffenstillstand sich tatsächlich verstetigen sollte, alles offen. In Gaza ist die regelbasierte Welt verendet, die multipolare jedoch könnte in diesem längst internationalisierten Konflikt Urständ feiern. Die Palästinenser, die dem politischen Untergang in letzter Sekunde entronnen sind, könnten nun diejenigen mit den stärkeren Trümpfen sein. Politisch intelligent spielen müssen sie allerdings noch. IPG 9

 

 

 

 

 

Wehret den Anfängen. Nimm Faschismus ernst!

 

Während in den USA demokratische Strukturen unter Druck geraten, wächst auch in Deutschland die Sorge vor einer schleichenden Faschisierung. Die Demokratie zerfällt nicht plötzlich – sie erodiert im Alltag. Von Jannis Eicker

Mit großer Sorge lese ich täglich die Nachrichten aus den USA. Denn was wir dort sehen, muss meines Erachtens als Faschisierung beschrieben werden, also als ein Prozess, in dem sich immer mehr faschistische Elemente in Staat und Gesellschaft durchsetzen. Am Ende dieses Prozesses könnte die vollständige Etablierung eines neuen faschistischen Regimes stehen. Ob dieses Worst-Case-Szenario tatsächlich eintreten wird oder ob die aktuelle Tendenz gestoppt oder gar umgekehrt werden kann, hängt von vielen Faktoren ab, etwa ob es gelingt, demokratischen Widerstand in Staatsapparaten und der Zivilgesellschaft zu organisieren. Die Hoffnung stirbt bekanntlich zuletzt, allerdings werden die Möglichkeiten für Widerstand innerhalb des Landes im Laufe des Faschisierungsprozesses zunehmend kleiner.

Beim Lesen der Nachrichten aus Deutschland weicht die Sorge über die Entwicklungen in den USA dann immer öfter einem Erschrecken über die Parallelen, die sich hierzulande zunehmend entdecken lassen. Dies wirft die Frage auf, ob auch in Deutschland schon von einer Faschisierung gesprochen werden kann. Die Antwort auf diese Frage hängt natürlich zunächst einmal davon ab, was man unter Faschismus versteht. Die Definition des Faschismusbegriffs ist stark umstritten, wie die andauernde Diskussion zur Faschismustheorie zeigt. Der Einfachheit halber möchte ich mich im Folgenden auf die Definition vom britischen Historiker Roger Griffin beziehen, die als besonders einflussreich gilt.

Sehr grob zusammengefasst versteht Griffin unter Faschismus einen revolutionären Ultranationalismus, also eine absolute Vorrangstellung der (ethnisch homogen und stark hierarchisch verstandenen) Nation, die mittels ‚Reinigung‘ störender Elemente (notfalls gewaltsam) vor Dekadenz und Verfall gerettet werden soll. Dass Donald Trumps ‚Make America Great Again‘-Bewegung diese Kurz-Definition erfüllt, liegt meines Erachtens auf der Hand: ‚MAGA‘ will die amerikanische Nation zu vermeintlich verlorengegangener Größe zurückzuführen, und zwar u. a. indem man Minderheiten ihrer Rechte, Andersdenkenden ihres Einflusses, Migrant*innen ihres Aufenthaltsrechts und queerer Menschen ihrer Identität beraubt.

Um diese fast religiös-fanatische Mission nationaler ‚Wiedergeburt‘ durchsetzen zu können, ist zunehmend jedes Mittel recht, selbst wenn dafür demokratische Grundprinzipien wie etwa die Gewaltenteilung geschleift oder Grund- bzw. Menschenrechte eingeschränkt werden müssen. Dass Trump die Demokratie verachtet, sollte spätestens klar geworden sein, als er trotz klarer Niederlage bei den Präsidentschaftswahlen von 2020 mit rechtswidrigen Mitteln versuchte, im Amt zu bleiben. Seit seinem zweiten Wahlsieg setzen er und seine Gefolgsleute alles daran, eine erneute Wahlniederlage der Bewegung zu verhindern, indem sie große Teile der Staatsapparate unter ihre Kontrolle bringen und in ihrem Sinne instrumentalisieren. Auch bei den Jagden auf vermeintlich ‚illegale‘ Migrant:innen und deren Abschiebungen bleiben rechtsstaatliche Prinzipien längst auf der Strecke. Dasselbe gilt für die oft erfolgreichen Einschüchterungsversuche der Regierung gegenüber ‚liberalen‘ Städten, Unternehmen, Medien und Einzelpersonen. Dass jüngst auch die Führungsriege des US-Militärs von Trump auf einen Krieg im Inneren eingeschworen wurde, lässt eine weitere Eskalation dieser Dynamik befürchten.

„Für den demokratischen Widerstand ist es zentral, den Ernst der Lage möglichst frühzeitig zu erkennen, um Gegenstrategien entwickeln zu können.“

Doch trotz dieser sich fast täglich mehrenden Hinweise auf eine Faschisierung des angeblichen ‚Land of the Free‘ wird hierzulande erstaunlich wenig über diese Entwicklung gesprochen. Dass der Faschismusbegriff dabei vermieden wird, dürfte u. a. damit zusammenhängen, dass er in Deutschland in der Regel als Synonym für den Nationalsozialismus verstanden und genutzt wird. Spricht man in Bezug auf andere Bewegungen oder Regime von Faschismus, gerät dies dementsprechend schnell in den Verdacht der Verharmlosung des Nationalsozialismus. Dabei wird allerdings übersehen, dass der Faschismus in der Wissenschaft in der Regel als ein analytischer Oberbegriff für ein Phänomen gilt, das historisch und geografisch verschiedene Formen angenommen hat (man denke etwa an den Ursprung des Begriffs, den italienischen Faschismus) und das heute selbstverständlich anders aussieht als die historischen Vorläufer.

Zweitens wird übersehen, dass zwischen dem Faschismus in seiner Entstehungs- bzw. Bewegungsphase und dem voll entwickelten Herrschaftssystem unterschieden werden muss. Selbst wenn eine in Teilen faschistische Bewegung in den USA an der Macht ist, sind die faschistischen Elemente meines Erachtens derzeit noch nicht dominant. Die Staatsapparate besitzen aufgrund ihrer Eigenlogiken eine gewisse Trägheit gegenüber radikalen Veränderungen und müssen mühsam auf Linie gebracht werden. In der Zivilgesellschaft ist dies noch einmal deutlich schwerer, da die Regierung keinen direkten Zugriff auf diese hat, sondern ‚nur‘ indirekt wirken kann. Zwar konnte die MAGA-Bewegung sowohl in den Staatsapparaten als auch der Zivilgesellschaft inzwischen einige große Erfolge erzielen (etwa die Etablierung des extremsten Supreme Courts in der Geschichte des Landes und das Einknicken einiger Medienhäuser, Rechtsanwaltskanzleien und Universitäten), doch stoßen ihre Versuche an anderen Stellen auch immer wieder an Grenzen (zuletzt etwa die missglückte Absetzung des berühmten Late-Night-Hosts und MAGA-Kritikers Jimmy Kimmel). Zentrale demokratische Strukturen und Verfahren haben zwar bereits einigen Schaden genommen, bieten derzeit aber noch Spielraum für eine politische Umkehrung der Entwicklungen. Für den demokratischen Widerstand ist es dabei zentral, den Ernst der Lage möglichst frühzeitig zu erkennen, um Gegenstrategien entwickeln zu können.

„Wenn wir tatsächlich aus der Geschichte lernen wollen, sollten wir den Begriff des Faschismus deshalb ernst nehmen.“

Dies gilt natürlich auch für Länder, in denen die Verhältnisse noch lange nicht so weit fortgeschritten sind wie in den USA. Wenn wir tatsächlich aus der Geschichte lernen wollen, sollten wir den Begriff des Faschismus deshalb ernst nehmen und nicht davor zurückschrecken, seine Anwendbarkeit auch heute schon kritisch zu prüfen. Denn auch wenn die deutsche Variante des Faschismus, der Nationalsozialismus, 1945 militärisch besiegt wurde, war er – entgegen des Mythos einer ‚Stunde Null‘ – nie vollkommen verschwunden. Stets gab es faschistische Kräfte, denen es allerdings lange Zeit nicht gelang, allzu großen Einfluss auf Politik und Gesellschaft zu nehmen.

Dies ist spätestens seit den Wahlerfolgen der ‚Alternative für Deutschland‘ (AfD) anders. Die AfD ist zwar nicht in Gänze faschistisch, doch der faschistische Flügel um Björn Höcke ist nun schon einige Jahre in der Partei tonangebend. Dies lässt sich daran erkennen, dass viele Forderungen der AfD und Aussagen aus ihrer Führungsriege letztlich auf eine Vorrangstellung einer völkisch konstruierten Nation gegenüber zentralen demokratischen bzw. rechtsstaatlichen Prinzipien hinauslaufen. So inszeniert die Partei kontinuierlich vermeintliche Interessengegensätze zwischen einer angeblich homogenen deutschen Mehrheitsgesellschaft und Gruppen wie Geflüchteten, Muslim:innen, queeren Menschen, Linken und Grünen, Umwelt-NGOs und anderen mehr. Sie spricht diesen Gruppen bzw. Menschen dabei nicht nur regelmäßig die Zugehörigkeit zur Nation ab oder stellt sie als ihre Feind:innen dar, sondern stellt immer wieder ihre Grund- und Menschenrechte infrage. Zu vielen im Grundgesetz festgelegten Normen (wie der Unantastbarkeit der Menschenwürde, dem Gleichheitsgrundsatz bzw. Diskriminierungsverbot oder der Religionsfreiheit) steht die AfD damit in einem recht klaren Widerspruch.

„Die angeblichen ‚Mitte‘-Parteien erwecken immer mehr den Eindruck, dass zentrale Verfassungsprinzipien für sie nur ein Hindernis sind.“

Zum Glück ist es der AfD bisher nicht gelungen auf Landes- oder gar Bundesebene Regierungsverantwortung zu übernehmen. Und dennoch zeigt sich der Einfluss der Partei bereits gewaltig, besonders in der Asylpolitik. Spätestens seit der großen Fluchtzuwanderung 2015/2016 ist es der AfD gelungen, die anderen Parteien in der Asylpolitik vor sich herzutreiben. Im Glauben, durch eine möglichst harte Asylpolitik Wähler*innen von der AfD zurückgewinnen zu können, rückten die anderen Parteien nicht nur deutlich nach rechts, sondern stellten dabei mitunter auch selbst grundlegende demokratisch-rechtsstaatliche Prinzipien infrage, wie etwa bei Forderungen nach Obergrenzen für Asylgesuche, bei Zurückweisungen von Asylsuchenden oder beim Versuch, bereits getätigte Aufnahmezusagen für afghanische Flüchtlinge wieder rückgängig zu machen. Die angeblichen ‚Mitte‘-Parteien erwecken immer mehr den Eindruck, dass zentrale Verfassungsprinzipien für sie nur ein Hindernis sind, das sie irgendwie umgehen oder überwinden müssten und leisten damit der Delegitimierung der Grundlagen unserer Demokratie selbst Vorschub.

Doch die Erfolge der AfD sind keineswegs auf die Asylpolitik begrenzt. Auch in anderen Politikfeldern (etwa der Sozial- und Klimapolitik) lassen sich viele der anderen Parteien die Richtung von der AfD diktieren. Besonders eindrücklich stellte die extreme Rechte ihren Einfluss auf die Politik jedoch in der erfolgreichen Desinformtionskampagne gegen die Wahl von Frauke Brosius-Gersdorf zur Verfassungsrichterin unter Beweis. Obwohl es an der fachlichen Eignung von Brosius-Gersdorf in Fachkreisen keine begründeten Zweifel gibt, gelang es (extrem) rechten Kräften mittels Falschbehauptungen und Verzerrungen so viel Misstrauen an ihrer Person zu säen, dass die Wahl letztlich platzte. Ziel war ganz offensichtlich die Delegitimierung des Verfassungsgerichts, um zukünftig politisch unliebsame Entscheidungen dieser Institution (z. B. in einem möglichen AfD-Verbotsverfahren) besser angreifen zu können.

Ein zentraler Akteur dieser Kampagne war das vom Milliardär Frank Gotthardt finanzierte Onlinemedium NiUS, als dessen Vorbild der US-amerikanische ‚Nachrichtensender‘ Fox News gilt, das viele Jahre als zentrales Sprachrohr von Trump agierte und für die Verbreitung von Falschinformationen bekannt ist. Dass Teile der Union (wie etwa die Bundestagspräsidentin Julia Klöckner) die Nähe zu Gotthardt und NiUS suchen, ist vor diesem Hintergrund äußerst bedenklich, stellt aber leider nur einen von vielen Hinweisen darauf dar, dass sich die Union zunehmend einem kulturkämpferischen Politikstil zuwendet, in dem Fakten und Sachlichkeit immer weniger zählen.

Besonders deutlich wurde dies etwa, als Friedrich Merz fälschlicherweise behauptete, abgelehnte Geflüchtete würden zu Terminproblemen in Zahnarztpraxen führen. An solchen Beispielen lässt sich zudem erkennen, dass die Union sich eine zentrale Taktik der AfD zu eigen gemacht hat, nämlich Minderheiten für Probleme verantwortlich zu machen, die eigentlich struktureller Natur sind. So begründete die AfD ihre Ablehnung gegenüber der Aufnahme von Geflüchteten schon 2015 auch damit, dass man das Geld für deren Verpflegung, Unterbringung und Integration lieber z. B. in Schulen oder Polizei stecken sollte. Dabei liegt der Grund der Unterfinanzierung öffentlicher Güter natürlich nicht in der Aufnahme von Geflüchteten (und übrigens auch nicht in einem angeblich zu großzügigen Bürgergeld), sondern vor allem in einer neoliberalen Fiskalpolitik, die den Staat durch die gleichzeitige Ablehnung von Staatsschulden und höheren Steuern für Reiche faktisch in die Handlungsunfähigkeit treibt. Im Alltag machen sich die infolge dieser Politik fehlenden öffentlichen Investitionen an allen Ecken und Enden bemerkbar und führen zu Missständen und Konflikten, für die dann Sündenböcke gesucht und in Minderheiten gefunden werden.

„Der beste Schutz gegen die Faschisierung dürfte jene Politik sein, die das Verfallsnarrativ der Rechten Lügen straft.“

Diese Annäherung von Union und anderen Parteien an die AfD ist unter anderem eine Folge der wirkmächtigen Figur des ‚besorgten Bürgers‘, dessen ‚Sorgen‘ von den demokratischen Kräften ernst genommen werden müssten, damit er nicht gezwungen wäre, der extremen Rechten seine Stimme geben zu müssen. Dementsprechend haben fast alle Parteien auf das Erstarken der AfD mit einer partiellen Übernahme von AfD-Positionen und -Rhetorik reagiert, in der Hoffnung, ihr so die Wähler*innen streitig machen oder ihr wenigstens den Wind aus den Segeln nehmen zu können. Das hat zwar zu menschen- und verfassungsrechtlich höchst bedenklichen Politiken geführt, aber dem Erfolg der AfD nicht nur nicht geschadet, sondern diesen sogar ganz offensichtlich noch weiter befördert. So steht die AfD heute dank der kulturkämpferischen Politik und Rhetorik von Friedrich Merz und Co. stärker da als je zuvor.

Dies bedeutet aber natürlich noch lange nicht, dass uns amerikanische Verhältnisse kurz bevorstünden. Und auch in den USA gibt es, wie gesagt, nach wie vor die Möglichkeit, dass der aktuelle Trend wenigstens gestoppt oder sogar umgekehrt wird. All dies zeigt jedoch, dass wir uns nicht in Sicherheit wiegen dürfen, sondern wachsam sein und jeden Angriff auf die Grundlagen unserer Demokratie abwehren müssen. Politiker*innen müssten also wieder Fakten und Rechtsstaatlichkeit zum Ausgangspunkt ihres Handelns und ihrer Rhetorik machen. Ihre Aufgabe besteht schließlich nicht darin, dem Stammtisch hinterherzulaufen, sondern Probleme faktenbasiert zu analysieren, zu erklären und im Interesse der Allgemeinheit unter Beachtung der Grund- und Menschenrechte zu bearbeiten. Der beste Schutz gegen die Faschisierung dürfte dabei jene Politik sein, die das Verfallsnarrativ der Rechten Lügen straft, indem sie klug in öffentliche Güter investiert und eine echte Teilhabe aller am gemeinsam erarbeiteten Wohlstand ermöglicht. (mig/dip 9)

 

 

 

 

 

Neuer Aktionsplan. Drei Schwerpunkte in der Entwicklungspolitik

 

Entwicklungsministerin Alabali Radovan stellt einen neuen Aktionsplan vor. Danach wird die Wirtschaft stärker in die Entwicklungspolitik eingebunden. Wird Hilfe zum Geschäft für deutsche Unternehmer?

Entwicklungsministerin Reem Alabali Radovan (SPD) will die deutsche Wirtschaft künftig stärker in die Entwicklungspolitik einbinden. Der globale Süden sei ein Motor für Wachstum und Zukunftstechnologie, sagte sie am Dienstag in Berlin bei der Vorstellung eines Aktionsplans. Deutschland brauche dort Partner, das mache die Wirtschaft stark für die Zukunft.

Angesichts der Weltlage und unsicherer Partner wie der USA muss sich Deutschland nach Ansicht von Alabali Radovan neu aufstellen. Sie betonte, dass die Bundesregierung zusammen mit der deutschen Wirtschaft an einem Strang ziehen wolle, um gemeinsam die Zusammenarbeit im globalen Süden auszubauen. Der von ihr präsentierte Aktionsplan solle ein Startschuss für die wirtschaftliche Zusammenarbeit sein und „schnell an Tempo gewinnen“.

Entwicklungshilfe vs. China

Bundesfinanzminister Lars Klingbeil (SPD) hob die strategische Bedeutung der Initiative hervor. „Um unsere nationalen und europäischen Interessen wahrnehmen zu können und wirtschaftlich erfolgreich zu sein, benötigen Deutschland und Europa neue strategische Partnerschaften, insbesondere mit dem globalen Süden“, sagte er. Die Welt habe sich auch mit Blick auf die wirtschaftlichen Machtverhältnisse gewandelt. Während Europa und die USA 1990 noch 44 Prozent der globalen Wirtschaftskraft ausmachten, sei dieser Anteil heute auf knapp ein Drittel gesunken. China habe seine Wirtschaftskraft im gleichen Zeitraum von 4 auf 19 Prozent fast verfünffacht.

„Chinesische Investitionen in Infrastruktur und chinesische Kredite erscheinen in manchen Ländern des globalen Südens als attraktives Angebot, das wir mit unserer Entwicklungszusammenarbeit zu lange nicht gemacht haben“, räumte Klingbeil ein. Die Bundesregierung müsse prüfen, wie sie ihre Angebote in der entwicklungspolitischen und wirtschaftlichen Kooperation verbessern könne.

Drei Schwerpunkte

Der dreiseitige Plan „Starke Partnerschaften für eine erfolgreiche Wirtschaft weltweit“ des Entwicklungsministeriums setzt drei Schwerpunkte. So sollen etwa Wirtschaftsvertreter künftig frühzeitig in Regierungsverhandlungen eingebunden werden. Zudem sollen strukturelle Hemmnisse bei Vergaben der Entwicklungszusammenarbeit für deutsche Unternehmen abgebaut werden.

Der dritte Fokus des Plans liegt auf dem deutschen Mittelstand und strategischen Rohstoffen. Das Entwicklungsministerium will unter anderem ein neues Garantieinstrument für kleinere Ex- und Importe einsetzen und gemeinsam mit dem Wirtschaftsministerium Förderangebote für deutsche Unternehmen leichter zugänglich machen. Bei privatwirtschaftlichen Investitionen in Rohstofflieferketten in Afrika, Lateinamerika und Asien soll eine gemeinsame Begleitung der Ministerien geprüft werden, um Risiken zu reduzieren und lokale Wertschöpfung zu fördern.

Kritik an wirtschaftlicher Schlagseite

Hilfsorganisationen warnen seit Langem vor einer zunehmenden Ökonomisierung der Entwicklungspolitik. Wenn staatliche Entwicklungszusammenarbeit vor allem als Türöffner für deutsche Unternehmen diene, verliere sie ihren eigentlichen Zweck: Hilfe zu leisten. Entwicklung dürfe kein wirtschaftliches Instrument sein, um Absatzmärkte zu sichern oder Rohstoffzugänge zu erleichtern. Auf der Strecke blieben so die Menschen im globalen Süden.

Neben Alabali Radovan und Klingbeil waren bei der Konferenz zur Vorstellung des Aktionsplans auch das Auswärtige Amt mit Staatsministerin Serap Güler (CDU) sowie das Bundeswirtschaftsministerium mit dem parlamentarischen Staatssekretär Stefan Rouenhoff (CDU) vertreten. Ebenso nahmen Vertreterinnen und Vertreter der deutschen Wirtschaft an der Konferenz teil, zum Beispiel vom Chemiekonzern BASF oder vom Kupferkonzern Aurubis. (dpa/mig 8)

 

 

 

 

 

Armutsbericht. Migranten arbeiten öfter – und haben weniger

 

Der Entwurf für den neuen Armuts- und Reichtumsbericht der Bundesregierung zeigt: Wer in Deutschland wenig Geld hat, fühlt sich oft ausgeschlossen und schlecht behandelt. Besonders oft und stark betroffen sind Migranten.

Schlechte Chancen auf dem Wohnungsmarkt, Stress mit dem Amt, ein Gefühl des Ausgeschlossenseins: Arme Menschen kämpfen oft mit viel mehr Problemen als nur einem schmalen Geldbeutel. Das ist ein Ergebnis von Befragungen für den Armuts- und Reichtumsbericht der Bundesregierung, dessen Entwurf das Bundessozialministerium am Donnerstag in Berlin veröffentlichte.

Danach sind Menschen mit Migrationserfahrung besonders stark von Armut betroffen. „Aktuelle Daten aus dem Jahr 2023 weisen für Menschen mit (direktem oder indirektem) Migrationshintergrund

eine Armutsrisikoquote von 27,7 Prozent auf, während diese bei Personen ohne Migrationshintergrund bei 11,9 Prozent liegt“, heißt es in der knapp 700-seitigen Vorlage. Danach hatten Personen mit Migrationserfahrung im Jahr 2020 ein jährlich verfügbares Haushaltseinkommen von 21.749 Euro im Vergleich zu 28.200 Euro für Personen ohne Migrationsgeschichte.

Migranten arbeiten öfter

Bemerkenswert ist: Die Einkommen von Migranten stammten zu zwei Dritteln (65,9 Prozent) aus eigener Erwerbstätigkeit. Bei der Bevölkerung ohne Migrationserfahrung liegt dieser Wert bei 60,7 Prozent. Demnach ist der Beitrag aus eigener Erwerbstätigkeit bei Migranten höher als derjenigen ohne Migrationsgeschichte.

Zugleich liegt auch der Anteil der Transferleistungen bei Migranten 2,5-mal höher als bei der Vergleichsgruppe ohne Einwanderungsgeschichte. Ein wesentlicher Grund dafür ist: Migranten nehmen „nur in geringem Umfang Leistungen der gesetzlichen Rentenversicherung in Anspruch, zum Teil wegen ihres Alters, zum Teil wegen fehlender oder nur geringer Rentenanwartschaften“, heißt es in der Vorlage.

Deutsche Staatsbürger haben mehr Geld

Wie aus dem Bericht weiter vorgeht, gibt es auch Unterschiede unter Personen mit Migrationserfahrung: So verfügten deutsche Staatsbürger mit Migrationsgeschichte über ein deutlich höheres Nettoeinkommen (25.770 Euro) als Menschen ohne deutschen Pass (20.019 Euro).

Weitere Unterschiede gibt es auch bei Menschen mit direktem und indirektem Migrationshintergrund. Dieser Auswertung zufolge zeigt sich eine Verbesserung der ökonomischen Lage, je länger Migration zurückliegt. Dem Bericht zufolge hatte im Jahr 2020 rund jede vierte Person Migrationserfahrung. Sie sind im Schnitt etwa acht Jahre jünger als die einheimische Bevölkerung.

Armut ist mehr als Geldmangel

Der Armuts- und Reichtumsbericht wird üblicherweise in jeder Legislaturperiode einmal vorgelegt. Wegen der vorgezogenen Bundestagswahl kam es unter der Ampel-Koalition nicht mehr dazu. Die Vorarbeiten für den nunmehr siebten Bericht dieser Art wurden aber größtenteils in der vorherigen Wahlperiode geleistet. Ein Ziel war, die Perspektive armer Menschen stärker einzubeziehen. Dies geschah unter anderem mit Online-Befragungen und Diskussionsrunden.

Zu den Ergebnissen heißt es im Berichtsentwurf, dass Armut „weit überwiegend als ein über rein materielle Aspekte hinausgehender sozialer Ausschluss erlebt wird“. Auch wenn die Befragungen mit mehreren tausend Beteiligten nicht repräsentativ seien, wiesen sie auf ein „vergleichsweise gering ausgeprägtes gesellschaftliches Zugehörigkeitsempfinden“ hin. 40 Prozent der Befragten „mit aktueller Armutserfahrung“ fühlen sich demnach der Gesellschaft eher nicht zugehörig, weitere 40 Prozent tun dies nur „teils teils“.

Schwierigkeiten mit Ämtern und Behörden

Viele Befragte berichteten dem Entwurf zufolge außerdem von gesundheitlichen Problemen. Auch Diskriminierung wurde von 83 Prozent der Menschen mit Armutserfahrung beklagt – vor allem beim Thema Wohnen. Oft genannt wurden hier zudem Schwierigkeiten mit Ämtern und Behörden.

Als großes Problem werden in dem Berichtsentwurf die Wohnkosten identifiziert. Dort sei die Belastung in den vergangenen Jahren gestiegen. Im Mittel würden 18,7 Prozent des verfügbaren Nettoeinkommens für Wohnkosten ausgegeben. „Knapp jeder achte Haushalt gilt als überlastet, da er mehr als 40 Prozent des Einkommens für das Wohnen aufwenden musste“, heißt es weiter. Unter den armen Haushalten seien 37,5 Prozent betroffen, also deutlich mehr als ein Drittel. Haushalt mit Migrationsgeschichte trifft die Wohnkostenbelastung überdurchschnittlich. Sie sind mehrfach von Diskriminierung betroffen: neben der ökonomischen Situation treten oft rassistische Ausgrenzungsmechanismen auf.

15,5 Prozent armutsgefährdet

Insgesamt gelten nach Daten des Statistischen Bundesamts 15,5 Prozent der Bevölkerung als armutsgefährdet. Dies trifft auf Menschen zu, die weniger als 60 Prozent des mittleren Einkommens zur Verfügung haben. Im Berichtsentwurf wird darauf hingewiesen, dass es hier verschiedene Berechnungsmethoden gebe, die zum Teil zu höheren Quoten führten.

Der Berichtsentwurf soll am 13. Oktober bei einem Symposium diskutiert werden. „Hinweise und Anregungen werden anschließend im Ressortkreis geprüft“, teilte das Sozialministerium mit. Der „abgestimmte Endbericht“ werde voraussichtlich im Dezember vom Kabinett verabschiedet. (epd/mig 6)

 

 

 

 

Pompöse Farce

 

Der Trump-Plan für den Nahen Osten wird von vielen gefeiert. Doch anstatt Frieden zu bringen, droht er neue Gewalt zu entfachen. Von René Wildangel

Wie werden Kriege beendet? Eine recht banale, aber empirisch belegbare Erkenntnis aus der Friedens- und Konfliktforschung lautet, dass Friedensverträge bessere Chancen auf einen Erhalt haben, wenn sie möglichst konkret und sorgfältig ausverhandelt wurden. Gemessen daran ist der pompös angekündigte „Trump-Plan“ für einen „ewigen Frieden“ eine Farce: Er wurde nach Gutdünken des Präsidenten und seiner Vertrauten weitgehend ohne die Konfliktparteien erarbeitet. Zumindest eine Partei, die Hamas, wurde vorher noch nicht einmal konsultiert, sondern im Nachhinein per Ultimatum aufgefordert, zuzustimmen.

Immerhin enthält der Plan die Möglichkeit einer „Amnestie“ für jene Hamas-Anführer, welche die Waffen niederlegen. Dieser Ansatz hätte schon vor Monaten verfolgt werden können, doch stattdessen sprachen Netanjahu und seine Verbündeten stets von der völligen „Vernichtung“ der Hamas – ein von Beginn an unrealistisches und unsinniges Ziel, denn es handelt sich nicht nur um eine Miliz, sondern auch um eine breit verankerte politische und gesellschaftliche Bewegung. Schlimmer noch: Verhandlungsansätze wurden in den letzten Monaten aktiv von Israel zunichtegemacht, eine in Doha befindliche Verhandlungsdelegation der Hamas gar von Israel bombardiert. Das war möglicherweise der Punkt, an dem Trump sich bemüßigt fühlte, einzugreifen, nachdem er Israels verheerende Offensive über Monate tolerierte und unterstützte.

Nach der Veröffentlichung des „Trump-Plans“ ging Israels verheerender Militäreinsatz in Gaza-Stadt jedoch weiter: Massive Angriffe, ausgeführt vermehrt durch automatisierte Waffensysteme, zerstören die wenigen verbliebenen medizinischen und humanitären Einrichtungen und die zivile Infrastruktur; die katastrophale Versorgungslage machen das Überleben für die verbliebenen Zivilisten praktisch unmöglich – eine Gemengelage, die zuletzt nach allen großen Menschenrechtsorganisationen auch eine UN-Untersuchungskommission als Genozid bezeichnete.

Die dystopische Lage in Gaza und die Monstrosität der dort von der israelischen Armee verübten Verbrechen sind wohl der Grund dafür, dass Trumps in Teilen bizarrer Plan sogleich zum letzten Hoffnungsschimmer wurde, den Gazakrieg endlich zu beenden: Ein sofortiger Waffenstillstand, eine vollständige humanitäre Versorgung, eine sofortige Rückkehr aller israelischen Geiseln – das sind überfällige und richtige Forderungen dieses Plans, die bedingungslos zu unterstützen sind.

Doch die zahlreichen anderen Passagen des „20-Punkte-Plans“ sind entweder äußerst vage gehalten oder enthalten hochproblematische Vorschläge, die nicht in Richtung einer Entspannung oder gar einer Konfliktregelung weisen. Dass unter anderem auch der deutsche Außenminister den Plan als „einmalige Chance“ lobte und dem US-Präsidenten überschwänglich dankte, ist daher nicht nur verwunderlich, sondern auch gefährlich.

Denn mit den von der EU vertretenen Parameter für eine Konfliktregulierung hat der Plan nichts zu tun. Wadephul und seine EU-Kolleginnen und Kollegen wären gut beraten, wenn sie hier klar differenzieren: Unterstützung der Initiative zu einem Waffenstillstand, humanitärer Versorgung und Freilassung der Geiseln; deutliche Abgrenzung vom Rest des Plans und stattdessen klare Kommunikation der Parameter für den weiteren politischen Prozess.

Erinnert sei an dieser Stelle auch an Donald Trumps letzten „bahnbrechenden“ Nahostplan, den gewohnt bescheiden titulierten „Deal of the century“ aus seiner ersten Amtszeit von 2020. Der maßgeblich von seinem Schwiegersohn Jared Kushner konzipierte Plan war ein ähnlich einseitiges Werk wie die jüngste Initiative. Trumps damaliges Agieren, das unter anderem die Anerkennung von Israels Hoheit über das palästinensische Ost-Jerusalem umfasste und die klassische US-Kritik an der Siedlungsbewegung kassierte, wirkte massiv konfliktverschärfend. So kam es in der Folge unter anderem zu ausufernder Gewalt in Ost-Jerusalem. Dass Trump sich jetzt erneut als ehrlicher Makler im Nahostkonflikt anbieten will, ist an Chuzpe eigentlich kaum zu überbieten – schließlich wäre auch der israelische Militäreinsatz in Gaza ohne weitreichende US-Militär- und Finanzhilfe kaum möglich gewesen.

Abgestimmt wurde der Plan mutmaßlich mit den engen US-Verbündeten am Golf, die mit weiteren arabischen Staaten zu einer „internationalen Stabilisierungstruppe“ beitragen sollen (Punkt 15). Die Arabische Liga hatte bereits im März ihren eigenen Plan beschlossen, der ebenfalls einen Waffenstillstand und Wiederaufbau vorsah. Wohl durch ihre Einwirkung sind zumindest einige Forderungen enthalten, ohne die sie den Plan nicht hätten gutheißen können: Vor allem die Tatsache, dass die israelische Armee den Gazastreifen nicht dauerhaft besetzen oder annektieren (Punkt 16) und Palästinenserinnen und Palästinenser nicht dauerhaft vertrieben werden sollen (Punkt 12). Selbstverständlich ist das nicht, hatte doch Trump noch im Februar 2025 über eine Vertreibung und die Schaffung einer „Riviera des Nahen Ostens“ fantasiert.

Die damals im selben Atemzug geäußerte Aussicht, die USA könnten Gaza in Besitz nehmen („we will own it“) findet sich dagegen in modifizierter Form im Plan wieder: Da ist die Rede von einem „Friedensrat“ (Board of Peace), der Gaza verwalten solle (Punkt 9). Oberster Friedensfürst: Donald J. Trump. Ebenfalls mitwirken soll Tony Blair – der ehemalige britische Premierminister, der nicht nur wegen seiner maßgeblichen Rolle im Irakkrieg, sondern auch der wenig überzeugenden Arbeit als Sonderbeauftragter des „Nahostquartetts“ in der Region wenig Ansehen genießt.

Auch ohne die Vertreibung der Palästinenser sieht Trump den Küstenstreifen offensichtlich als lukratives Experimentierfeld für seine Immobiliengeschäfte. Unter seiner Aufsicht soll ein Entwicklungsplan von Experten entwickelt werden, die „einige der modernen Wunderstädte des Nahen Ostens“ geschaffen hätten; unter Hinzuziehung von „gutmeinenden internationalen Firmen“, die bereits „durchdachte Investment-Vorschläge“ gemacht hätten (Punkt 10). Wer diese Akteure nach Vorstellung von Trump sind, dürfte klar sein: Seine Geschäftspartner zu Hause und am Golf.

Die Palästinenser spielen im Plan ebenso wenig eine Rolle wie ihre verbrieften Rechte auf Selbstbestimmung. Durch welche ideologische Brille die Trump-Administration auf den Konflikt blickt, wird gleich im ersten Punkt eindrücklich dargelegt: Gaza solle eine „de-radikalisierte Terror-freie Zone“ werden. Dass Trump – selbst Anführer einer in vielerlei Hinsicht radikalen Bewegung in den USA – die von zwei Jahren unter Bomben und Hungerblockade tief traumatisierte Zivilbevölkerung, die in der Mehrheit aus Kindern und jungen Erwachsenen besteht, in Gaza einem „Deradikalisierungsprogramm“ unterziehen will, lässt tief blicken.

Ein „technokratisches, unpolitisches Komitee“ soll die Tagesgeschäfte in Gaza erledigen (Punkt 9); die Palästinensische Autonomiebehörde keine Rolle spielen bis ihre „Reform gewissenhaft umgesetzt“ wurde (Punkt 19) – eine schwammige Formulierung, mit der ohne weiteres ihr dauerhafter Ausschluss und die permanente Teilung des palästinensischen Gebietes begründet werden kann.

In weiten Teilen erinnern die vagen Formulierungen des Trump-Plans an jene der 1993 geschlossenen Oslo-Verträge. Die nannte Edward Said bereits 1993 ein „palästinensisches Versailles“, da in seiner Analyse palästinensische Fremdbestimmung unter dem Anschein eines Friedensprozesses fortgeschrieben und sogar legitimiert worden sei. Wie in Oslo wird auch der Abzug der israelischen Armee in Trumps Plan unter Punkt 18 ohne konkrete Bedingungen oder einen verbindlichen Zeitplan formuliert. Die Kopie vergangener Verfehlungen scheint hier Methode zu haben.

Dass Trump den Gazastreifen somit de facto unter eine Art US-Mandat stellen will, ist bedenklich und darf von der internationalen Gemeinschaft nicht hingenommen werden. Wenn überhaupt, wäre es Aufgabe der Vereinten Nationen, über einen Übergangsprozess zu wachen; doch das Gremium, das die USA und Israel gemeinsam zu delegitimieren suchen, taucht im Plan ebenso wenig auf wie das Völkerrecht und die Menschenrechte als Basis jeglicher Konfliktregelungen. Lediglich bei der Verteilung von Hilfsgütern wird den Vereinten Nationen eine Rolle zugestanden – neben weiteren „internationalen Institutionen“, mit denen die berüchtigte „Gaza Humanitarian Foundation“, die für die Tötung Hunderter Hilfe suchender Palästinenser mitverantwortlich ist, gemeint sein dürfte.

Dass dann auch der zentrale Punkt einer Rechenschaft und juristischen Aufarbeitung der Kriegsverbrechen der israelischen Armee ebenso wie jener der Hamas nirgendwo in dem Dokument auftaucht, überrascht wenig – denn auch die Arbeit internationaler Gerichtshöfe werden ja von Trump und Netanjahu sabotiert.

Kein Wort verliert der Plan auch über die israelische Besatzung im Westjordanland, über die Siedlungstätigkeit, über die ausufernde Siedlergewalt. Es war bei israelisch-palästinensischen Verhandlungen stets Usus, dass die Siedlungspolitik eingefroren wurde; dazu ist Netanyahu schon seit Jahrzehnten nicht mehr bereit. Was er von einem palästinensischen Staat hält, machte er zuletzt vor der Generalversammlung der Vereinten Nationen klar, als er ihn mit einem „Al-Qaida-Staat“ verglich. Der Plan von Trump kann sich lediglich dazu durchringen, palästinensische Selbstbestimmung und Staatlichkeit als „das Bestreben“ des palästinensischen Volkes anzuerkennen – eine Formulierung, die um Jahrzehnte hinter die internationale Anerkennung palästinensischer Ansprüche zurückfällt.

Nie war die Asymmetrie zwischen Israelis und Palästinensern größer als aktuell. Trumps abschließender Punkt, bald einen „Dialog zwischen Israelis und Palästinensern, um einen politischen Horizont für eine Zukunft in Frieden und Wohlstand“ zu schaffen ist ebenso entkoppelt von der Realität wie die Vorstellung, dass ausgerechnet die USA als „ehrlicher Vermittler“ auftreten können.

Auch die EU hat durch ihre Tatenlosigkeit schon viel von ihrer Glaubwürdigkeit verloren – sie darf jetzt nicht tatenlos am Spielfeldrand stehen. Sie muss international Verbündete suchen, um die anerkannten völkerrechtlichen Grundprinzipien für eine Konfliktregelung zum Rahmen für einen weiteren politischen Prozess machen. Der Ansatz, Israels extremistischer Regierung endlich mit echtem Druck und Sanktionen zu begegnen, ist ein wichtiges Gegengewicht zur Trumps Plan. Sollte dieser in der vorliegenden Form zur Blaupause werden, wird er sich nicht nur einreihen in die lange Liste gescheiterter Initiativen, sondern noch mehr Gewalt und Konflikte produzieren. IPG 2

 

 

 

 

 

 

Europa: Unsere Idee kennt keine Grenzen! 68. Bundeskongress der Europa-Union in Chemnitz

 

Am 11./12. Oktober tagt der 68. Bundeskongress der überparteilichen Europa-Union Deutschland e.V. auf dem Garagen-Campus in Chemnitz. Rund 160 Delegierte und Gäste kommen in die Europäische Kulturhauptstadt, um eine neue Verbandsspitze zu wählen und das 10-jährige Bestehen der Europa-Union Sachsen zu feiern. Schirmherr der Veranstaltung ist Ministerpräsident Michael Kretschmer.

Unter dem Kongressmotto „Europa: Unsere Idee kennt keine Grenzen!“ werden sich die Delegierten mit dem Schutz des Schengenraums und einer zukunftsfesten Ausgestaltung des EU-Haushalts befassen. Auch zu weiteren Europathemen wird sich der Verband politisch positionieren.

Inspiriert durch den Tagungsort stehen am Samstag drei Talkrunden zu den Themen Europäische Industriekultur, Mobilität in Sachsen und Europa sowie Europa und Europapolitik in Ostdeutschland auf dem Programm. Unter den prominenten Rednern und Podiumsgästen sind Dr. Gunther Krichbaum MdB, Staatsminister für Europa im Auswärtigen Amt, Ines Saborowski, erste Vizepräsidentin des sächsischen Landtags, und die sächsischen Europaabgeordneten Anna Cavazzini, Matthias Ecke und Oliver Schenk. Für die Diskussionsrunden konnten zudem Expertinnen und Experten aus Wirtschaft, Wissenschaft und Verwaltung gewonnen werden.

„Sachsen liegt im Herzen Europas und hat über Jahrhunderte die europäische Industriekultur geprägt“, sagt Katharina Wolf, Vorsitzende der Europa-Union Sachsen. „Wir freuen uns daher besonders, dass wir den diesjährigen Bundeskongress in die Kulturhauptstadt Chemnitz geholt haben, wo diese Tradition immer noch erlebbar ist. Seit Gründung unseres Landesverbandes im Jahr 2015 haben wir als überparteilicher Verein Europa in Sachsen eine Stimme gegeben und den positiven Einfluss der EU in unserem Bundesland sichtbar gemacht. Jetzt sind wir stolz, unseren Freunden aus anderen Teilen Deutschlands zu zeigen, wie viel Europa in Sachsen und Chemnitz steckt und wie stark unser Freistaat europäische Geschichte und Kultur geprägt hat.“

Bei der Feier zum 10. Jubiläum der Europa-Union Sachsen am Samstagabend wird Bürgermeister Ralph Burghart ein Grußwort halten.

Aus Anlass des Kongresses organisieren die Jungen Europäischen Föderalist:innen (JEF), der Jugendverband der Europa-Union, am Freitag, 10. Oktober, um 18 Uhr auf dem Markt vor dem Alten Rathaus die Kundgebung „Unser Europa: vereint, demokratisch, zukunftsfähig. Aus Chemnitz. Für Sachsen. Für Europa.“

Die überparteiliche Europa-Union Deutschland e.V. ist die größte demokratisch organisierte und lokal verwurzelte Bürgerinitiative für Europa in Deutschland. Mit ihren rund 16.000 Mitgliedern und 250 Kreisverbänden setzt sie sich seit 1946 für die europäische Einigung und ein demokratisches, rechtsstaatliches und föderales Europa ein. Wie auch ihre Jugendorganisation, die Jungen Europäischen Föderalist:innen (JEF), ist die Europa-Union mit ihren Partnerverbänden unter dem Dach der Union Europäischer Föderalisten (UEF) europaweit vernetzt.

EUD 2

 

 

 

 

35 Jahre Einheit. Die Mauer fiel uns auf den Kopf

 

Deutschland feiert 35 Jahre Einheit. Viele Menschen mit Migrationserfahrung knüpfen etwas anderes daran: Brandsätze, Evakuierungen, „No-go-Areas“, später der NSU – und heute hohe AfD-Werte im Osten. Die Geschichte der Einheit hat einen blinden Fleck. Von Birol Kocaman

Die Einheitsraketen leuchten bis heute. Für viele von uns war das Licht jedoch das von brennenden Häusern. Der Jubel der Nation – und die Sirenen der Feuerwehr. Das ist keine Pointe, das ist Erinnerung.

Hoyerswerda, September 1991: tagelange Angriffe auf Vertragsarbeiter und Asylsuchende; am Ende werden die Betroffenen aus der Stadt herausgefahren, Rechtsextreme feiern „ausländerfrei“. Das war eine Zäsur – und ein Fanal.

Rostock-Lichtenhagen, August 1992: das Pogrom vor laufenden Kameras. Molotowcocktails gegen das Sonnenblumenhaus, Tausende klatschen, der Staat schaut zu spät hin. Danach folgten Mölln und Solingen. Und im politischen Berlin folgte der sogenannte Asylkompromiss – die Einschränkung von Grundrechten als Antwort auf Pogrome.

Die nackten Zahlen jener Jahre sprechen eine deutliche Sprache: 1992 registrierte das BKA 6.336 „fremdenfeindliche“ Straftaten, 1993 sogar 6.721. Zeitgenössische Analysen dokumentieren den sprunghaften Anstieg schon 1991. Das war keine Randnotiz; das war Alltag.

„Rechtsextreme propagierten ’national befreite Zonen‘ – de facto ‚No-Go-Areas‘ für Migrant:innen und People of Color. Der Begriff ‚Baseballschlägerjahre‘ steht bis heute.“

Dazu kam die Drohkulisse im Raum: Rechtsextreme propagierten „national befreite Zonen“ – de facto „No-Go-Areas“ für Migrant:innen und People of Color. Der Begriff „Baseballschlägerjahre“ steht heute für diese Welle rechter Gewalt nach der Vereinigung.

Wer die 2000er „befriedet“ fand, verwechselte Stille mit Aufklärung. In Thüringen formierte sich der NSU aus einem Milieu, das in der Nachwendezeit gewachsen war; untergetaucht wurde im benachbarten Sachsen (Jena/Chemnitz/Zwickau). Der Rest ist eine blutige Liste von Morden, Bomben, Banküberfällen – und ein Staatsversagen, das Untersuchungsausschüsse bis heute beschäftigt.

„Wer hat verloren? Schauen wir in die Statistik der Toten. Unabhängige Recherchen zählen mindestens 221 – plus Verdachtsfälle.“

Wer hat verloren? Schauen wir in die Statistik der Toten. Die Bundesregierung erkennt heute 117 rechte Mordopfer seit 1990 an; unabhängige Recherchen der Amadeu-Antonio-Stiftung zählen mindestens 221 – plus Verdachtsfälle. Hinter jeder Zahl ein Name, eine Familie, ein leeres Zimmer.

Und heute? In Ostdeutschland erzielt die AfD – von Verfassungsschutzämtern teils als gesichert rechtsextrem eingestuft – seit Jahren ihre stärksten Werte. 2024 wurde sie in Thüringen stärkste Kraft; in Sachsen lag sie knapp hinter der CDU; in Brandenburg knapp hinter der SPD. Das ist kein Osten-Bashing. Das ist eine nüchterne Feststellung über politische Kräfteverhältnisse – mit Konsequenzen für alle, die sichtbar „nicht-deutsch“ gelesen werden.

Zur Wahrheit gehört: Rassismus ist gesamtdeutsch. Aber: Die Nachwendedynamik hat im Osten besonders harte Räume und Rituale geformt – und viele von uns haben gelernt, Landkarten nicht nach Sehenswürdigkeiten, sondern nach Sicherheitszonen zu lesen.

„Ohne die Perspektive derjenigen, die nach 1990 zu Zielscheiben wurden, bleibt die Einheitsgeschichte unvollständig.“

Die Einheit? Für Menschen mit Migrationserfahrung war sie oft ein Stresstest auf offener Bühne: erst Angst, dann Abwertung, dann Aushandlung – und viel zu selten Anerkennung. Der Satz „Wir sind ein Volk“ blieb zu oft eine Einladung mit Sternchen: gültig nur für die, die als „wir“ durchgehen.

35 Jahre danach wäre ein ehrliches Fazit fällig: Ohne die Perspektive derjenigen, die nach 1990 zu Zielscheiben wurden, bleibt die Einheitsgeschichte unvollständig. Wer feiern will, muss auch aufzählen. Wer Zukunft will, muss schützen – Häuser, Menschen, Rechte. MiG 2

 

 

 

 

 

Frankfurt/M. Verso Sud 31. 31. Festival des italienischen Films | 21.11.–3.12.2025

 

Hommage Marco Bellocchio | 21.11.–30.12.2025

Liebe Freundinnen und Freunde des italienischen Kinos,

in knapp vier Wochen beginnt Verso Sud und die Vorbereitungen laufen auf Hochtouren: Ab Freitag, 21. November 2025, präsentiert die 31. Ausgabe des Festivals wieder ein umfangreiches Programm mit vielen aktuellen italienischen Filmen und einer bis 30. Dezember laufenden umfangreichen Hommage an den vielseitigen und noch immer sehr aktiven Regisseur Marco Bellocchio. Zu sehen sind zahlreiche Filme aus allen Phasen seines Schaffens, von den 1960er bis in die 2020er Jahre. Außerdem würdigt ein kleines Special den 10. Todestag von Francesco Rosi mit dem Klassiker LE MANI SULLA CITTÀ (Hände über der Stadt).

Programm und Tickets: Der Vorverkauf für Verso Sud und die Hommage Marco Bellocchio startet am Donnerstag, 6. November, um 15 Uhr online und an der Kasse. Spätestens dann wird auch das vollständige Programm mit allen Terminen und der Festivalkatalog veröffentlicht.

Eröffnung mit Gästen: Als Gäste an den beiden Eröffnungstagen begrüßt das Festival den Schauspieler und Produzenten Pier Giorgio Bellocchio und den Regisseur Gianluca Maria Tavarelli. Pier Giorgio Bellocchio ist zur Eröffnung der Hommage mit FAI BEI SOGNI (Träum was schönes) an seinen wegen Dreharbeiten verhinderten Vater Marco Bellocchio anwesend. Gianluca Maria Tavarelli präsentiert seinen neuen Film INDAGINE DU UNA STORIA D’AMORE (Interviews zu einer Liebesgeschichte).

Schulvorstellungen: Informationen dazu folgen in Kürze im separaten Newsletter für Schulvorstellungen.

Eine Vorschau auf das Programm von Verso Sud mit einem ersten Eindruck der umfangreichen Bellocchio-Hommage sowie einem Überblick aller aktuellen italienischen Filme des Festivals ist unter folgendem Link zu finden (dort auf die grau unterlegten Buttons unter dem Text klicken für die Filmübersichten): 

https://www.dff.film/kino/kinoprogramm/filmreihen-specials-november-2025/verso-sud-31/

Viel Spaß beim ersten Stöbern in der Vorschau und selbstverständlich werden wir die Veröffentlichung des gesamten Programms und den Beginn des Vorverkaufs in einem separaten Newsletter ankündigen. Verso sud/dip 26