Webgiornale 1-15 dicembre 2024
Von der Leyen supera l’esame di Strasburgo. Ma la sua maggioranza si è
ristretta
Il Parlamento
europeo ha dato il via libera al Collegio dei commissari. Emiciclo diviso in
due e probabile cammino a ostacoli dell'Esecutivo. Tre le priorità
programmatiche enunciate a Strasburgo dalla politica tedesca: innovazione,
decarbonizzazione, sicurezza. In secondo piano, almeno apparentemente, armi a
Kiev, migrazioni, Balcani e demografia – di Gianni Borsa
Von der Leyen
ottiene dall’Europarlamento il voto di fiducia alla sua Commissione, che così
entrerà in carica il prossimo 1° dicembre. Ma la “maggioranza Ursula” appare
risicata, indebolita dalle diatribe – e da parecchie defezioni – tra i gruppi
politici che la dovrebbero sostenere (benché la politica tedesca abbia un
solido sostegno da parte dei 27 capi di Stato e di governo che l’avevano
designata a giugno per succedere a se stessa).
Maggioranza di
stretta misura. L’emiciclo di Strasburgo mercoledì 27 novembre si è dunque
espresso a favore del Collegio, dopo aver svolto le audizioni ai singoli
commissari, promuovendoli tutti. Von der Leyen ha ottenuto 370 voti favorevoli
(la maggioranza era di 361), 282 contrari e 36 astenuti. Hanno votato 688
eurodeputati su 720 membri dell’aula. A luglio Von der Leyen aveva avuto dagli
eurodeputati una fiducia più ampia, con 401 voti. Anche rispetto alle
precedenti Commissioni, la maggioranza questa volta è proprio minima e segnale
di malessere. Nelle dichiarazioni di voto è emerso il sì convinto del Ppe; sì,
con alcune defezioni, da Socialdemocratici, Liberali e Conservatori (non
tutti); divisi i Verdi, no dalle destre (Europa delle nazioni sovrane, Patrioti
per l’Europa) e dalla Sinistra. Singoli deputati o delegazioni nazionali hanno
votato diversamente dalle indicazioni del proprio gruppo politico.
“Amo l’Europa
della libertà”. Nel discorso che ha preceduto la votazione, Ursula von der
Leyen ha sostenuto che “innovazione, decarbonizzazione, sicurezza” sono i tre
pilastri attorno ai quali si impegnerà, con gli altri 26 commissari, nei
prossimi cinque anni. La presidente ha fatto riferimento ai valori di fondo
dell’Unione e ha citato le sfide che la attendono, fra cui la guerra in Ucraina
(anche se l’argomento non è stato in primissimo piano, come nelle uscite
pubbliche precedenti, e si è parlato meno di risorse e armi a Kiev), le
instabilità geopolitiche, il cambiamento climatico, la concorrenza economica di
Usa e Cina. Dopo aver fatto alcuni riferimenti alla storia e alle motivazioni
cardine dell’integrazione europea, ha detto che la “libertà non è gratuita”,
bensì richiede “scelte difficili, significa investire massicciamente nella
nostra sicurezza e prosperità. E soprattutto chiederà di rimanere uniti e
fedeli ai nostri valori, trovando il modo di lavorare insieme e superare la
frammentazione”. “Lottare per la libertà ci unisce come europei, per me questa
è la ragion d’essere della nostra Unione. Questa è l’Europa che amo e questa è
l’Europa a cui la mia Commissione si dedicherà sempre”.
“Bussola della
competitività”. Ricollegandosi a queste osservazioni, Von der Leyen ha
sottolineato: “La nostra libertà e sovranità dipendono più che mai dalla nostra
forza economica. La nostra sicurezza dipende dalla nostra capacità di
competere, innovare e produrre. Il nostro modello sociale è in relazione a
un’economia in crescita mentre affronta il cambiamento demografico”. A tale
riguardo la presidente ha annunciato che la “prima grande iniziativa della
nuova Commissione sarà una Bussola della competitività”, realizzata “sui tre
pilastri del rapporto Draghi. Il primo è colmare il divario di innovazione con
gli Stati Uniti e la Cina. Il secondo è un piano congiunto per la
decarbonizzazione e la competitività. Il terzo è aumentare la sicurezza e
ridurre le dipendenze”. Sulla base di questi principi, “questa dovrà essere una
Commissione per gli investimenti per la transizione verde, digitale e sociale”.
Migrazioni:
sovranità e solidarietà. “Vogliamo tutelare la qualità della vita degli
europei, in tutta Europa”. Nel suo discorso all’Europarlamento Ursula von der
Leyen ha toccato diversi punti: dall’economia alla sicurezza, dalle migrazioni
al Green Deal. Non ha mancato di fare alcuni riferimenti alla vita dei
cittadini, ha lasciato intendere che occorre un bilancio adeguato alle sfide in
atto, senza tacere una possibile riforma dei trattati. “Dobbiamo affrontare le
sfide che le regioni si trovano ad affrontare, dai cambiamenti demografici al
cambiamento climatico, fino alla necessità di infrastrutture moderne”, ha
detto. “Questo tocca il cuore della libertà, perché per molte persone libertà
significa scegliere dove vivere, lavorare e studiare. Scegliere se crescere la
propria famiglia in un’altra parte d’Europa o dove sono cresciuti. Come ha
detto Enrico Letta: ‘la libertà di restare’. Voglio che le regioni e le
comunità abbiano il controllo del proprio destino e che possano contribuire a
plasmare le nostre politiche. Questo è il compito della coesione e delle
riforme che ho affidato, come vicepresidente esecutivo, a Raffaele Fitto”. In
un altro punto del suo intervento ha dichiarato: “Sin dall’inizio del mio primo
mandato, ho promesso un approccio alla migrazione che fosse sia equo che
rigoroso. Un approccio che garantisse sovranità e solidarietà. Con regole più
severe ma anche maggiori garanzie per i diritti individuali. Inoltre opereremo
per aprire percorsi legali per le migrazioni”.
L’interesse dei
cittadini. Dopo il voto dell’aula, la presidente del Parlamento, Roberta
Metsola, ha sottolineato che gli eurodeputati hanno svolto, nella procedura di
elezione della Commissione, “il compito di controllo democratico”, aggiungendo
che si tratta ora “di lavorare con fiducia reciproca” nell’interesse dei
cittadini che “si attendono risultati e risposte” in vari ambiti, fra cui il
costo della vita, la sicurezza, l’energia, il lavoro.
Quali prospettive?
Il magro bottino di voti e le divisioni tra gli stessi gruppi politici che
affermano di sostenerla, lasciano intravvedere un percorso a ostacoli per il
bis di Von der Leyen. L’aria che tira in Europa ha un forte accento
nazionalista; la guerra in Ucraina sembra non finire; gli Usa di Trump e la
Cina neocolonialista appaiono sempre più come concorrenti e non certo come
partner economici e geostrategici. Senza contare le altre minacce alla pace – e
quindi alla stabilità e alla cooperazione internazionale – che giungono da
Medio Oriente, Russia, Africa. Von der Leyen afferma di puntare su un “centro”
politico pro europeo, che ruota attorno ai Popolari; ma Socialdemocratici e
Liberali, che pur la sostengono, le imputano di aver allargato la maggioranza
agli anti europeisti Conservatori. Certamente i fronti aperti sono innumerevoli
e Von der Leyen ritiene di essere – al momento – l’unica figura capace di
tenere insieme i governi dei Paesi membri e la parte dell’Eurocamera che ancora
crede nell’Ue. Forse è questa la sua forza. Sir 27
Libano: cessate il fuoco Israele-Hezbollah. Card. Pizzaballa: “La pace è
ben altra cosa”
Entrato in vigore
questa mattina 27 novembre alle ore 4 in Libano (le 3 in Italia) il cessate il
fuoco di 60 giorni tra Israele e Hezbollah. Dopo oltre un anno di combattimenti
decine di migliaia di residenti in Israele e centinaia di migliaia in Libano potrebbero
fare presto ritorno alle loro case. Le parole di Netanyahu e il commento del
card. Pizzaballa e del custode di Terra Santa, Patton. Padre Toufic da Beirut,
"gente in festa e fuochi di artificio" – di Daniele Rocchi
Entrato in vigore
questa mattina alle ore 4 in Libano (le 3 in Italia) il cessate il fuoco di 60
giorni tra Israele e Hezbollah. L’accordo è stato approvato dal Gabinetto di
Sicurezza israeliano, dopo diverse ore di riunione e al termine di una intensa
giornata di raid aerei su Beirut, nel sud del Libano e nella Valle della Bekaa.
I miliziani del partito di Dio, a loro volta, hanno lanciato razzi e droni sul
nord di Israele, su Haifa, Acri e sulla Galilea.
Basi dell’accordo.
L’accordo, annunciato dal presidente Usa, Joe Biden, prevede tre fasi: una
tregua seguita dal ritiro di Hezbollah a nord del fiume Litani; il ritiro
completo delle truppe israeliane dal Libano meridionale entro 60 giorni e,
infine, i negoziati tra Israele e Libano sulla demarcazione del confine, che
attualmente è stabilito dall’Onu dopo la guerra del 2006. Il primo ministro
libanese, Najib Mikati, ha fatto appello alla comunità internazionale perché
“agisca rapidamente” per garantire l’immediata attuazione della tregua che è
entrato in vigore oggi alle 10 ora locale (le 9 in Italia, ndr.). In un
discorso alla nazione, nel quale ha confermato la notizia dell’accordo, il
premier israeliano Benjamin Netanyahu ha sottolineato che “se Hezbollah viola
l’accordo e tenta di armarsi, colpiremo. Se tenta di ricostruire infrastrutture
terroristiche vicino al confine, se lancia razzi, se scava tunnel, colpiremo”.
In altre parole, Israele manterrà la “libertà di azione militare” se Hezbollah
dovesse violare l’impegno. Netanyahu ha chiarito anche le motivazioni
dell’accordo: “Perché fare una tregua adesso? Per tre motivi: bisogna
concentrarsi sulla minaccia iraniana; rinnovare le forze e i rifornimenti di
armi; separare i fronti e isolare Hamas”. Quest’ultimo, ha aggiunto il premier
israeliano, “sin dall’inizio della guerra, scoppiata dopo l’attacco del 7
ottobre 2023, ha fatto affidamento sul fatto che Hezbollah combattesse al suo
fianco. E quando Hezbollah sarà fuori dai giochi, Hamas sarà lasciato solo, la
nostra pressione aumenterà e ciò contribuirà alla sacra missione di liberare
gli ostaggi”. Secondo il ministero della Sanità libanese, sono almeno 3823 le
persone rimaste uccise e oltre 15mila quelle ferite negli attacchi israeliani
in Libano dall’ottobre dello scorso anno. Un milione gli sfollati. In una nota,
il segretario generale dell’Onu, Antònio Guterres, “esorta le parti a
rispettare pienamente e ad attuare rapidamente tutti gli impegni assunti”.
“Cessate il fuoco
non è pace”. “Il Medio Oriente è una regione tormentata da divisioni di ogni
tipo, ora dicono ci sia il cessate il fuoco in Libano ma non significa che ci
sarà la pace, la pace è ben altra cosa, a Gaza le cose sicuramente
continueranno, Dio solo sa come”, ha commentato il patriarca di Gerusalemme dei
Latini, card. Pierbattista Pizzaballa. Interpellato dai giornalisti, a margine
di un incontro svoltosi ieri sera a Roma in memoria del beato Giacomo
Alberione, il patriarca ha ricordato che “la pace si fa con relazioni pacifiche
tra i popoli. Non le vedremo presto, però bisogna prepararle, si devono
ricostruire non solo le strutture fisiche ma le relazioni distrutte da questa
guerra”. “Non bisogna illudersi – ha poi aggiunto – i tempi sono lunghi ma le
persone che si combattono oggi sono le stesse che dovranno convivere domani”.
Soddisfazione è stata espressa al Sir dal Custode di Terra Santa, padre
Francesco Patton: “Speriamo che tutte le parti si impegnino a rispettarlo per
consentire a tutti gli sfollati di rientrare nelle loro case.
Speriamo e
preghiamo che si estenda anche a Gaza e che significhi che la guerra sta
finendo. E speriamo che per i nostri cristiani il prossimo Natale sia veramente
di pace e quindi anche di festa. E che i pellegrini tornino presto”. Da Gaza
arriva la notizia che anche anche Hamas sarebbe “pronto” per una tregua.
L’annuncio del cessate il fuoco in Libano, per Hamas, “è una vittoria e un
grande successo per la resistenza”. Per un membro dell’ufficio politico di
Hamas, riferisce l’Afp, “Hamas è pronto per un accordo di cessate il fuoco e un
accordo serio per lo scambio di prigionieri”.
Da Beirut. “Beirut
questa notte non ha dormito. Fino alle 4 di questa mattina abbiamo udito
bombardamenti, ma subito dopo l’entrata in vigore del cessate il fuoco la gente
ha cominciato a gioire addirittura sparando fuochi di artificio”: queste le
parole rilasciate al Sir, pochi minuti dopo l’entrata in vigore del cessate il
fuoco, da padre Toufic Bou Mehri, della Custodia di Terra Santa, superiore
del convento francescano di Tiro, attualmente nella capitale libanese. “La
strada verso il sud – racconta – adesso è affollata di gente che fa ritorno
alle proprie case. Tutti qui sperano che alla tregua faccia seguito la pace.
Siamo stanchi della guerra, dell’odio, della distruzione e dei massacri.
Speriamo nella pace e preghiamo per la pace”. sir 27
Commissione von der Leyen bis, dall’Europarlamento un via libera tra
contrasti e strategia politica
Fumata bianca,
dopo oltre una settimana di suspense, per i sei vicecommissari – compreso
Raffaele Fitto - e il commissario ungherese ‘rimandato a settembre’. Il secondo
quinquennio guidato dalla tedesca inizierà ufficialmente il primo dicembre
Fumata bianca – al
cardiopalma – per la seconda Commissione von der Leyen. Dopo oltre una
settimana di suspense, ieri sera l’Europarlamento ha dato l’ok ai 6
vicecommissari e al commissario ungherese, dando così il via al nuovo
quinquennio guidato dalla tedesca, che inizierà ufficialmente il primo
dicembre.
Il nodo Fitto
Risolti dunque i
veti incrociati e i giochi politici: gli eurodeputati hanno trovato un accordo.
L’italiano Raffaele Fitto, uno degli scogli più grandi da superare, per il
quale i Socialisti e Democratici (S&D) avevano chiesto un ridimensionamento
a commissario semplice da vicecommissario esecutivo in quanto ‘di estrema
destra’, è stato confermato nel ruolo proposto da von der Leyen.
Il gruppo ha
dovuto cedere, pena veder cadere la propria candidata vicecommissaria e punta
di diamante, Teresa Ribera, sotto la scure dei Popolari (Ppe). Ora Ribera
diventerà la numero 2 dell’esecutivo Ue, con importantissime competenze su
concorrenza e clima.
Il nodo Ribera
il Ppe, dal canto
suo, non ha dovuto rinunciare a molto. La sua prima richiesta, che la spagnola
rispondesse nel Parlamento nazionale della gestione delle inondazioni a
Valencia, è stata accolta, mentre la seconda, quella di impegnarsi a dimettersi
se fosse incriminata da un tribunale sempre per la gestione delle inondazioni,
è stata rifiutata. Ma i Popolari alla fine l’hanno sostenuta.
Per il governo
Sanchez la nomina di Ribera, che ha ottenuto deleghe pesantissime, è un grande
successo, e i Popolari spagnoli lo sanno bene, tanto che hanno tentato in tutti
i modi di azzopparla.
L’accordo per il
via libera alla nomina dei sei vicepresidenti designati infatti è rimasto in
stand-by a Bruxelles, in attesa che a Madrid ieri si concludesse appunto
l’audizione di Ribera alle Cortes, centrata sulle alluvioni che hanno causato
oltre 200 morti nella regione di Valencia alla fine del mese scorso.
Si sarebbe
trattato di un gesto di riguardo di Manfred Weber, presidente e capogruppo del
Ppe, nei confronti del Partido Popular e del suo leader Alberto Nunez Feijòo:
il politico bavarese non poteva annunciare l’accordo sulla nomina di Ribera
prima che i deputati popolari alle Cortes avessero finito di attaccarla, perché
gli avrebbe rotto le uova nel paniere. E gli spagnoli gli sono indispensabili
se vuole essere rieletto presidente del partito nel congresso che si terrà a
Valencia nel prossimo aprile.
Il nodo Várhelyi
Altro nodo era il
commissario ungherese di estrema destra Olivér Várhelyi, la cui audizione aveva
sollevato diversi dubbi tanto che il politico era stato ‘rimandato a
settembre’, con richiesta di offrire alcuni chiarimenti nei giorni successivi.
Alla fine è stato confermato, con un ritocco ad alcune delle sue
responsabilità: un ridimensionamento che si aggiunge a quello, a monte, del
portafoglio che von der Leyen gli ha riservato a questo giro. Várhelyi,
infatti, era già commissario nella precedente commissione, dove aveva la delega
alla politica di allargamento del blocco, ma per questo secondo mandato la
tedesca gli ha assegnato salute e benessere degli animali.
I vicepresidenti e
l’intesa raggiunta
Alla fine dunque i
vicepresidenti sono stati “tutti confermati”:
• Kaja Kallas,
Estonia (il gradimento del Parlamento era una formalità, in questo caso, perché
è stata indicata direttamente dal Consiglio Europeo)
• Stéphane
Séjourné, Francia
• Roxana Minzatu,
Romania
• Henna Virkkunen,
Finlandia
• Teresa Ribera,
Spagna
• Raffaele Fitto,
Italia.
E confermato
anche, come detto, il commissario ungherese alla Salute, Olivér Várhelyi.
È la prima volta
dal 1999 che l’Europarlamento non respinge nessun candidato commissario. Va
ricordato che quello delle audizioni e del voto finale è in sostanza l’unico
momento in cui i Mep possano esercitare un vero controllo e un certo potere sui
commissari.
Quanto all’intesa
sottoscritta, secondo quanto ha riferito il copresidente dei Verdi/Ale Bas
Eickhout al termine della conferenza dei presidenti a Bruxelles, questa si basa
sulla “ripetizione delle linee guida” della Commissione già presentate nello
scorso luglio. Effettivamente nelle due pagine del ‘Final Platform Statement’,
ad una prima lettura, è arduo trovare grosse novità.
Meloni: “Vittoria
di tutti gli italiani”
Weber ha
commentato l’ok dell’Eurocamera: “Per noi come Ppe la cosa più importante è
avere la Commissione in carica il primo dicembre, perché l’Europa ha bisogno di
stabilità”. “Tutti possono dire la loro sul futuro dell’Europa. I socialisti
hanno dossier forti. I liberali hanno dossier forti, il Ppe è in testa e [ha]
molti commissari. E anche l’Italia dovrebbe far parte di tutta la futura
leadership della Commissione“, ha aggiunto.
Il leader dei
Popolari ha anche sottolineato, rispondendo ai timori di chi guarda con
sospetto le intese tattiche del Ppe con i gruppi alla destra, di essere
“orgoglioso” di avere nel suo gruppo il partito di centrodestra ungherese
Tisza, fiero nemico di Viktor Orban.
Grande
soddisfazione è stata espressa dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni:
“Quest’importante incarico attribuito al commissario designato dall’Italia è
una vittoria di tutti gli italiani, non del Governo o di una forza politica.
Abbiamo ottenuto un portafoglio di peso e il coordinamento di deleghe
strategiche per la nostra Nazione e per l’Europa intera, come l’agricoltura, la
pesca, l’economia del mare, i trasporti e il turismo. Questa indicazione è la
conferma di una ritrovata centralità dell’Italia in ambito europeo, all’altezza
del nostro ruolo come Stato fondatore della Ue, seconda manifattura d’Europa e
terza economia del Continente”.
Mercoledì prossimo
il voto all’intera Commissione
A questo punto, la
Commissione von der Leyen bis dovrebbe essere votata nella plenaria a
Strasburgo mercoledì prossimo, per entrare in carica il primo dicembre. Il voto
sull’intero collegio dei commissari, a differenza di quello sul presidente
della Commissione che si è tenuto nel luglio scorso, è a maggioranza semplice e
a scrutinio palese, quindi molto meno insidioso. Ciò non vuol dire che tutto
vada per il meglio: una fonte dei Popolari riconosce che l’accordo lascia
“spaccature un po’ dappertutto”. Particolarmente arrabbiati i Popolari
spagnoli, il cui leader Nunez Feijòo aveva puntato molto sul siluramento di
Ribera.
Anche i Verdi, che
hanno votato Ursula von der Leyen a luglio, decideranno lunedì prossimo se
votare l’intera Commissione, ma “il mood non è positivo”, perché “c’è
pochissima chiarezza e molto malcontento dietro” la dichiarazione politica dei
gruppi della maggioranza. “Non vedo come si possa lavorare stabilmente con
l’Ecr”, ha aggiunto Eickhout.
Anche nel gruppo
S&D non mancano gli scontenti: in particolare, secondo un partecipante alla
riunione di gruppo di ieri mattina, i Socialisti francesi, ai quali non va giù
la nomina di Fitto, considerato di estrema destra in quanto membro di Fratelli
d’Italia e dell’eurogruppo Conservatori e Riformisti (Ecr).
Tuttavia, dicono
le fonti, alla fine darà difficile che non ingoino il rospo. Weber ha ricordato
che l’Ecr ha contribuito alle conferme dei commissari e che Fratelli d’Italia,
votando nella scorsa primavera a favore di parti importanti del patto Ue sulle
migrazioni, ha dimostrato di voler “risolvere i problemi” a livello europeo,
cosa che costituisce un “buon segnale”. Adnkronos 21
Abitiamo il confine. Nuovi spunti per un’esperienza di dialogo
internazionale
Nel leggere la
situazione internazionale e le questioni che essa pone oggi, emergono alcune
parole chiave che necessitano di essere interpretate. Negoziato, coesistenza,
sicurezza, pace, sviluppo sembrano ormai aspirazioni vuote rispetto ad un
indicatore che sembra consolidarsi nei rapporti internazionali: il conflitto
come metodo dell’agire e come mezzo di soluzione. Mediante il conflitto si
agisce nei rapporti politici, economici, commerciali, culturali, per dare
soluzione a questioni annose, a rapporti e relazioni sempre più ancorati
intorno all'interesse del fare e dell’acquisire posizioni. La visione corrente
e le prospettive future dei rapporti internazionali hanno trasformato in
immagini espressioni come servizio, criteri come giustizia, metodologie come
negoziato, ponendo un interrogativo sul loro significato. Ecco perché il
conflitto è visto come “risolutore” - di Vincenzo Buonomo, ordinario di diritto
internazionale alla Pontificia Università Lateranense
Nel leggere la
situazione internazionale e le questioni che essa pone oggi, emergono alcune
parole chiave che necessitano di essere interpretate. Negoziato, coesistenza,
sicurezza, pace, sviluppo sembrano ormai aspirazioni vuote rispetto ad un
indicatore che sembra consolidarsi nei rapporti internazionali: il conflitto
come metodo dell’agire e come mezzo di soluzione. Mediante il conflitto si
agisce nei rapporti politici, economici, commerciali, culturali, per dare
soluzione a questioni annose, a rapporti e relazioni sempre più ancorati
intorno all’interesse del fare e dell’acquisire posizioni. La visione corrente
e le prospettive future dei rapporti internazionali hanno trasformato in
immagini espressioni come servizio, criteri come giustizia, metodologie come
negoziato, ponendo un interrogativo sul loro significato. Ecco perché il
conflitto è visto come “risolutore”.
Inquadriamo la
lettura dei fenomeni che caratterizzano la scena internazionale – insicurezza,
quadro demografico, sottosviluppo, distribuzione ineguale, violazioni di
diritti e libertà, … – ponendoci sul confine; qualcosa di diverso dalle
frontiere perché queste ultime costituiscono varchi, possibilità di passaggio
anche se regolato, controllato, impedito, forzato. Il confine invece delimita,
non pregiudica il passaggio, ma caratterizza e da forza alle identità,
rendendole capaci di coesistere, integrarsi o di contrapporsi e combattersi.
Abitare il confine non è condizione di neutralità, ma capacità (e volontà) di
utilizzare una posizione che guarda l’altro e consente di porre le basi per la
costruzione di un dialogo capace di perdurare nel tempo. L’incontro tra diverse
identità impone di collocarsi sul confine e di là guardare come l’integrazione
è spesso sostituita dall’assimilazione, da nuove schiavitù o dal regresso di
civiltà espresso dai genocidi o dalle guerre evidenti e dimenticate.
A noi è data
possibilità di abitare il confine. E questo significa poter costruire ponti tra
caratteri differenti e diversità, tra ruoli individuali e ruoli comunitari, tra
la volontà di integrazione o l’idea di sostituirla con una convivenza di
facciata, tra l’assimilazione e il rispetto delle diversità culturali, tra la
visione confessionale e la dimensione del credere, tra l’esclusione e la
riconciliazione. Nell’abitare il confine ogni intuizione va intesa come
percorso e non come traguardo.
La frammentazione
che oggi esprime la vita internazionale non è l’effetto dei confini, ma
piuttosto il dilagare di una mentalità che ritiene importante la relazione
privilegiata (ieri era la clausola della Nazione più favorita), quella che si
costruisce tra due o poche identità. Un approccio che può riguardare persone,
comunità, paesi. Si allontana invece l’idea di una concertazione che di fronte
a problemi comuni in grado di dare soluzioni comuni. Sul piano negoziale questo
significa crisi del multilateralismo e dei suoi valori strutturali, o forse la
sua evoluzione/involuzione espressa da nuove forme di attività multilaterale?
Sono forme segnate dal fattore della tempestività, dell’impatto mediatico e da
una buona dose di forza emotiva (Vertici, G7, G 20) che riescono solo a
individuare le situazioni, ma non vogliono, né possono, governare le medesime.
La differenza con l’attività continuativa delle Istituzioni permanenti
multilaterali sta proprio nel rifiutare legami che impongono scelte, obblighi,
risultati da conseguire in modo sistematico e continuativo. E così mentre le
cancellerie degli Stati esultano per il successo mediatico – e solo
limitatamente politico – del nuovo multilateralismo, c’è una umanità alla
ricerca di legami di comunità, che opera per negoziare e superare i limiti
dell’azione politica degli Stati e fa suo lo strumento del dialogo.
Anche per il
fattore religioso, abitare il confine concorre a determinare modalità di
incontro e non di chiusura, luoghi identitari per sfuggire alla
contrapposizione, volontà di pacificazione e non semplicemente di pace. Solo
così l’elemento religioso e non quello confessionale, può porsi come strumento
positivo per la costruzione di una diversa dimensione internazionale.
Il credere, oggi,
è abitare il confine. sir 23
Trump. Una visione sui generis dei rapporti internazionali
“Aiuteremo il
nostro paese a risollevarsi”. È con questo impegno che Donald Trump ha
vinto le elezioni del 5 novembre. La maggioranza dell’elettorato gli ha dato
credito. La promessa, seducente, è di un cambiamento che arresti il declino
dell’America, ne sani le ferite interne e ne ristabilisca il prestigio e
l’influenza sul piano internazionale. Una promessa che riguarda innanzitutto la
politica interna, ma anche, e in misura non trascurabile, quella estera.
Pacifismo
trumpiano
Nel discorso della
vittoria, insolitamente privo di asprezze, Trump si è enfaticamente riproposto
come pacificatore, l’unico in grado di risolvere i conflitti internazionali in
corso, affrancando gli Usa, quanto prima, dal costoso e, al contempo, inconcludente
interventismo dell’amministrazione Biden. Non solo di quest’ultima, ma anche di
tutte le amministrazioni precedenti, ad eccezione, beninteso, della sua del
2017-2021.
Specialmente negli
ultimi giorni di campagna elettorale, Trump ha ripetutamente rispolverato
l’accusa a George W. Bush di essere “andato stupidamente in Medioriente” –
definendo l’invasione dell’Iraq, “il peggior errore mai fatto nella storia
americana” – e di aver, in tal modo, “distrutto” la regione. Ha definito Kamala
Harris una “guerrafondaia”, attribuendole l’intenzione di voler, a sua volta,
“invadere il Medioriente”. A Biden ha imputato, oltre ai fallimenti in
Medioriente, anche un maldestro sostegno all’Ucraina senza un dialogo, a suo
dire indispensabile, con Putin: un attivismo velleitario e senza
strategia.
È probabile che
questi giudizi liquidatori di Trump sulla politica estera dei suoi predecessori
interventisti e il suo impegno, pur vago, a una più accorta proiezione
dell’America all’estero, abbiano trovato un’eco considerevole nell’elettorato,
contribuendo al suo successo. L’amministrazione Biden si è molto dedicata, in
varie regioni, a rinsaldare le alleanze contro i rivali strategici e, specie in
Medioriente, non ha risparmiato gli sforzi diplomatici per scongiurare
l’escalation. A conti fatti, non ha colto però nessun successo visibile, almeno
agli occhi di un elettorato che l’ha vista, invece, sempre più invischiata in
conflitti privi, in apparenza, di sbocco. Trump ha fatto leva sulla diffusa
percezione che molti impegni di politica estera drenino grandi risorse senza
effetti apprezzabili e che, invece, sia necessario concentrarsi su interessi
primari, come il controllo dei flussi migratori.
L’illusione del
disimpegno
Anche altri
presidenti americani – tutti, in realtà, quelli che si sono succeduti dopo la
fine della Guerra Fredda – hanno coltivato la speranza di potersi concentrare
di più sulla politica interna, riducendo gli impegni internazionali anche
grazie a una diversa divisione delle responsabilità con gli alleati. Ma poi le
varie crisi ed emergenze internazionali li hanno costretti tutti, senza
eccezioni, a rivedere i loro piani. Bill Clinton, che aveva fatto la campagna
elettorale sullo slogan “it’s the economy, stupid”, è intervenuto in Bosnia e
nel Kosovo. George W. Bush, all’inizio intenzionato a selezionare gli
interventi, quando si è ritrovato a fronteggiare l’11 settembre, ha risposto,
fra l’altro, dando avvio a massicce campagne militari in Medioriente. Barack
Obama, che aveva promesso di ritirarsi al più presto dalla regione, ha deciso
di rimanere in Afghanistan – aumentando, a un certo punto, la presenza militare
– e ha anche dato il via libera alla guerra contro Gheddafi.
Il punto è che non
è affatto facile per l’America disimpegnarsi dai teatri di conflitto o anche
solo ridurre la sua presenza nelle regioni strategicamente importanti, specie
quando ciò significa lasciare spazio a potenze rivali, come Cina e Russia: un
problema che si è ulteriormente acuito negli ultimi anni a causa del crescente
antagonismo con Mosca e Pechino, e con cui anche Trump dovrà inevitabilmente
fare i conti.
Allergia per il
multilateralismo
Certo, Trump ha
una visione dei rapporti internazionali sui generis, difficilmente assimilabile
a quella di qualsiasi leader precedente. Non è un isolazionista, se con questo
termine s’intende un sistematico rifiuto degli impegni internazionali, ma il suo
esasperato protezionismo commerciale e l’idea che l’America debba dedicare più
risorse alla sicurezza interna lo rendono tutt’altro che propenso ad
accordi o alleanze strutturate, soprattutto se implicano il rispetto di regole
e vincoli che limitano la libertà d’azione del paese. Non crede nella
governance globale e non vede di buon occhio, in particolare, i regimi e le
istituzioni multilaterali, come ha dimostrato durante la sua presidenza, con
decisioni come il ritiro dall’Unesco e dall’Organizzazione mondiale della
sanità, scelte che probabilmente ripeterà molto presto una volta insediato alla
Casa Bianca. Né ha mai fatto mistero della sua spiccata allergia agli accordi
per il controllo degli armamenti, alcuni dei quali sono collassati anche per
sua scelta (oltre che per responsabilità di Putin). Il regime di non
proliferazione nucleare, da tempo sotto pressione, sarà ancora più a rischio
con Trump che già nel 2018, ritirandosi dall’accordo sul programma nucleare
iraniano, lo aveva seriamente danneggiato. Anche l’Organizzazione
mondiale del commercio (OMC), uno dei pilastri dell’architettura multilaterale,
già oggi semiparalizzato, potrebbe non sopravvivere a questa seconda
amministrazione Trump, che sembra fermamente intenzionata a introdurre una
nuova e più massiccia ondata di dazi commerciali in ossequio al principio
”America first”.
Sicuramente Trump
interromperà ogni tentativo di promuovere i diritti umani nel mondo. Biden non
ci aveva del tutto rinunciato, pur incappando ripetutamente nella trappola del
“double standard”, e continuava a coltivare l’idea che la diplomazia americana
dovesse prioritariamente far perno su alleanze con gli altri paesi democratici.
Questo rigetto di ogni visione “idealistica” dei rapporti internazionali è uno
dei tratti distintivi della politica estera di Trump che più piace fuori dal
campo occidentale e potrebbe in effetti aiutarlo a coltivare alcune relazioni
bilaterali.
Le sfide
dell’Ucraina e del Medioriente
Anche l’immagine
di negoziatore abile e pragmatico, capace di farsi valere sulla scena
internazionale, con cui Trump ha amato presentarsi, potrebbe aver fatto presa
su un segmento dell’elettorato. La sua diplomazia personale, incentrata sui
rapporti con i leader più potenti, inclusi dittatori che mirano a indebolire
l’America, lo espone però costantemente al rischio di essere surclassato o
manipolato, come accaduto durante la sua prima presidenza con il nordcoreano
Kim Jung-un. Tanto più quando si tratta di iniziative diplomatiche non
sostenute da una credibile strategia negoziale o di premature aperture di
credito.
Che farà con Putin
a proposito dell’Ucraina? Un accordo territoriale è oltremodo impervio. Kyiv
non vuole cedere sul principio dell’integrità territoriale – per Zelensky, come
per eventuali suoi successori, sarebbe un suicidio politico – e, d’altra parte,
Mosca non controlla pienamente nessuna delle quattro regioni che si è
illegalmente annessa e che vorrebbe le fossero riconosciute. Inoltre,
l’obiettivo dichiarato di Putin non sono solo le conquiste territoriali ma,
come ha detto più volte, un’Ucraina demilitarizzata e neutrale, cioè priva di
garanzie di sicurezza credibili contro future aggressioni: un’Ucraina, quindi,
amputata e alla sua mercé. Difficile raggiungere un accordo su questa base.
Trump potrebbe
tagliare gli aiuti militari all’Ucraina per indurla a più miti consigli, ma, se
vuole davvero ottenere concessioni da Putin, questa sarebbe l’ultima cosa da
fare. Non è certo nel suo interesse mostrarsi troppo debole e accomodante verso
il Cremlino. Altri leader ostili all’America non mancherebbero di prenderne
nota.
In Medioriente ci
si aspetta che sia più accomodante di Biden verso il premier israeliano
Benjamin Netanyahu, suo grande amico e sostenitore. Durante le sua prima
presidenza, tante furono le concessioni di cui lo gratificò, come il
riconoscimento di Gerusalemme come capitale e della sovranità territoriale sul
Golan. Potrebbe dargli mano libera a Gaza, accettando una presenza militare
permanente di Israele nella Striscia e nuovi spostamenti della popolazione
palestinese, ma pagherebbe un prezzo nei rapporti con i paesi arabi, l’Arabia
Saudita in particolare, a cui, come già Biden, vorrebbe estendere gli “Accordi
di Abramo”, suo principale successo durante la prima amministrazione.
Biden ha cercato
di contenere le azioni militari israeliane contro Hezbollah e l’Iran nel
tentativo di evitare un’escalation. Netanyahu ha concordato con la Casa Bianca
gli obiettivi e le modalità di quelle a più ampia portata. Per frenare
Netanyahu, Trump potrà continuare a fare leva sulle capacità di deterrenza
delle forze americane nell’area e sulla protezione che possono offrire contro
gli attacchi di Iran e Hezbollah. In linea generale, anche Trump dovrebbe
essere interessato a una de-escalation in Medioriente, ma rimane incerto, in
particolare, quale atteggiamento assumerà verso l’Iran. Vorrà tornare alla sua
politica di “massima pressione” verso Teheran, ma potrebbe anche essere tentato
di attuare un intervento preventivo contro gli impianti nucleari iraniani.
Ettore Greco, AffInt 19
Urso e Habeck presiedono il primo forum ministeriale del Piano d’Azione
italo-tedesco
Il Ministro delle
Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, e il Vicecancelliere e Ministro
dell’Economia e dell’Azione Climatica tedesco, Robert Habeck, hanno presieduto
nei giorni scorsi a Berlino il primo Forum bilaterale ministeriale previsto dal
Piano d’Azione italo-tedesco, firmato nel novembre 2023 dal Presidente del
Consiglio Giorgia Meloni e dal Cancelliere Olaf Scholz. All’incontro hanno
partecipato rappresentanti di Confindustria, del Bundesverband der Deutschen
Industrie (BDI) e delle Camere di Commercio (AHK, DIHK, ITALCAM, ITKAM),
sottolineando il ruolo cruciale del settore privato nella collaborazione tra i
due Paesi. Il Piano d’Azione italo-tedesco prevede che il Ministero delle
Imprese e del Made in Italy e il Ministero Federale tedesco per l’Economia e la
Protezione del Clima organizzino annualmente un Forum ministeriale bilaterale,
preceduto da un dialogo regolare, finalizzato a delineare un approccio
coordinato sui principali dossier di strategia industriale europea, con
particolare attenzione ai Progetti Importanti di Comune Interesse Europeo
(IPCEI), alle industrie strategiche, alle catene di valore, al quadro normativo
sulla concorrenza e alla standardizzazione, coinvolgendo attivamente anche gli
attori del settore privato. (Inform/dip 27)
La crisi politica della locomotiva tedesca
Il 6 novembre 2024
è iniziato con la rielezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti
d’America e si è concluso con la crisi del governo tedesco.
La coalizione fra
SPD, FDP e Verdi che ha guidato la Germania negli ultimi tre anni ha avuto
lotte intestine e disaccordi fin dalla sua formazione. L’anno scorso, per
esempio, la coalizione voleva destinare i fondi Corona al proprio programma di
azione per il clima, ma una sentenza della Corte costituzionale federale, a
seguito di una causa intentata dal partito conservatore CDU, ha fermato i loro
piani.
Nelle ultime
settimane la coalizione ha cercato di concordare un piano di bilancio, ma alla
fine non ci è riuscita. A quanto pare, questa è stata la goccia che ha fatto
traboccare il vaso della loro collaborazione: il cancelliere Olaf Scholz (SPD)
ha licenziato il ministro delle finanze Christian Lindner (FDP), leader di uno
dei tre partiti della coalizione (di cui fanno parte anche i Verdi).
Di conseguenza,
due dei tre ministri del partito di Lindner si sono ritirati dalle loro
posizioni. L’FDP ha di fatto interrotto la collaborazione con i partner della
coalizione. La coalizione di governo si è sciolta (cf. qui). Di conseguenza, il
Cancelliere Scholz ha annunciato nuove elezioni. Ma qual è la procedura in un
caso come questo?
***
Le opzioni sono
molteplici. In teoria, il Cancelliere potrebbe continuare a governare con un
governo di minoranza – con elezioni per il Parlamento da tenersi nel prossimo
autunno. Tuttavia, senza una legge di bilancio e con una minoranza in
parlamento è quasi impossibile approvare nuove leggi o finanziare nuovi
progetti.
Il Cancelliere
Scholz ha invece già promesso elezioni rapide. Affinché le elezioni abbiano
luogo in tempi ristretti, il Bundestag, il parlamento tedesco, deve essere
sciolto. In primo luogo, il cancelliere deve presentare una Vertrauensfrage
(mozione di fiducia) in Parlamento. Poi, in una votazione palese, i membri del
parlamento mostrano se continuano a sostenere l’attuale governo.
Se il Parlamento
esprime la propria fiducia verso il governo, il Cancelliere e la coalizione
rimangono al loro posto. Se il Parlamento invece non dà la fiducia, allora
l’articolo 68 della Legge fondamentale tedesca stabilisce che il Presidente
federale Frank-Walter Steinmeier ha 21 giorni di tempo per sciogliere il
Parlamento e indire nuove elezioni. In teoria, il Parlamento attuale potrebbe
anche eleggere un nuovo Cancelliere se fosse in grado di trovare una nuova
maggioranza. Tuttavia, tutti i partiti si sono espressi a favore di elezioni
anticipate in tempi brevi.
***
Quando potrebbero
tenersi le elezioni? Dopo approfondite discussioni, è stato raggiunto un
accordo tra i due maggiori partiti tedeschi, quello del Cancelliere Scholz
(SPD) e il principale partito di opposizione (CDU), approvato dal Presidente
Steinmeier. Il Cancelliere presenterà la mozione di fiducia l’11 dicembre e il
voto ufficiale avrà luogo il 16 dicembre. Questa tempistica lascia un ampio
margine di tempo fino alle previste nuove elezioni, che si terranno il 23
febbraio 2025 (cf. qui).
È solo la seconda
volta dalla riunificazione della Germania nel 1989 che viene presentata una
mozione di fiducia. L’ultima volta è stata nel 2005, anno che ha posto fine al
regno del partito socialdemocratico e ha visto Angela Merkel del partito
cristiano-democratico salire allo scranno della cancelleria federale.
La Germania, nota
per un quadro politico stabile istituzionalmente garantito, ha un sistema
rigoroso per lo scioglimento del Parlamento – questo a causa della sua storia.
Infatti, nella Repubblica di Weimar (1918-1933) il presidente poteva sciogliere
il Parlamento quando voleva. Questo ha fatto sì che tutti i parlamenti di
allora venissero sciolti senza giungere al termine del loro mandato. Oggi,
proprio per non ritrovarsi nelle condizioni di continua instabilità di allora,
il processo di scioglimento del Parlamento richiede tempo e l’accordo di tutti
i soggetti governativi e politici coinvolti.
***
Prima della fine
della coalizione, l’opinione pubblica aveva iniziato a esprimere preoccupazione
per la situazione del governo. Tra questi, si è fatta sentire anche la voce
della Chiesa cattolica tedesca: “Le continue lotte intestine della coalizione
non contribuiscono a creare fiducia nel governo e nei suoi piani, anzi fanno il
gioco dei movimenti antidemocratici” (qui). Una fine anticipata della
coalizione porterebbe all’instabilità politica e al rinvio di importanti
riforme.
L’FDK (Unione
cattolica delle famiglie) aveva invitato la coalizione a lavorare insieme per
trovare soluzioni costruttive. Il loro appello è arrivato troppo tardi. Ora,
con l’imminente campagna elettorale durante le vacanze di Natale, il vescovo
luterano di Hannover, Ralf Meister, ha chiesto moderazione dei toni nella
campagna elettorale: “la gente ha bisogno di una puasa che le dia tempo per
riflettere[…] soprattutto in un anno che ci ha portato sull’orlo
dell’esaurimento con le sue crisi e le sue sfide” (qui).
La preoccupazione
per la (in)stabilità politica della Germania è condivisa in Germania e in
Europa. Soprattutto dopo la rielezione di Trump, l’UE ha bisogno di stabilità e
affidabilità da parte di uno dei suoi membri più influenti.
Le voci europee
chiedono un’UE forte e unita – e una Germania forte: “Se l’Europa vuole
mostrare di essere un soggetto forte, è un problema che il suo membro più
influente sia in crisi e si debba concentrare sulla politica interna”
(Göteborgs-Posten, qui).
Preoccupazioni
simili vengono anche dall’Inghilterra: “La Germania – come la Francia, dopo gli
errori di calcolo di Emmanuel Macron a metà estate – attraverserà ora un
periodo di instabilità con un debole governo di minoranza. Non è una situazione
ideale, visto che Trump si impegna a reimpostare la politica occidentale
sull’Ucraina e a fare pressione sull’Unione Europea in materia di commercio. In
un momento cruciale, il favoloso “motore” franco-tedesco dell’integrazione e
dell’unità europea sta stridendo e rantolando” (The Guardian, qui)
“L’incertezza da
Parigi a Berlino ha creato un vuoto di potere continentale che potrebbe
incoraggiare la Russia nella sua guerra in Ucraina – si osserva oltre
Atlantico. Questa situazione rischia di ostacolare la capacità dell’Europa di
rispondere a una guerra commerciale globale, se il prossimo anno il presidente
Trump si muoverà rapidamente per imporre pesanti tasse sulle importazioni negli
Stati Uniti” (New York Times, qui).
Dietro il velo
della crisi
La rottura della
coalizione è stata attivamente provocata dall’FDP. Dopo aver diviso la colpa
della fine della coalizione tra il cancelliere Olaf Scholz (SPD) e l’ex
ministro delle Finanze e capo dell’FDP, Christian Lindner, il quotidiano
tedesco Die Zeit rivela ora alcune informazioni sulle riunioni dell’FDP.
Nel tentativo di
salvare il proprio partito dall’insignificanza di fronte ai pessimi risultati
dei sondaggi, i politici e i ministri dell’FDP si sono incontrati a settembre
per discutere come interagire ulteriormente con la coalizione. Sono state
presentate tre opzioni:
1. Lo scenario
Wolfgang-Gerhardt: lavorare con il governo fino alla fine.
2. Lo scenario
Gerhard-Schröder: far chiedere al Cancelliere la Vertrauensfrage (mozione di
fiducia).
3. “D-Day”:
provocare la rottura della coalizione, spingere il cancelliere, la SPD e i
Verdi a cacciare i ministri della FDP.
(Il D-Day ricorda
il giorno in cui le truppe statunitensi entrarono in Normandia nel 1944. Segna
l’inizio della fine del regime nazista, la liberazione dell’Europa dal
fascismo. Ora, l’FDP vuole liberarsi da Olaf Scholz, dalla coalizione).
Sebbene il
dibattito su quale opzione scegliere sia stato percepito in modo diverso da
ciascun membro che ha partecipato alle riunioni dell’FDP, divenne evidente che
Lindner era favorevole alla fine della coalizione.
Il piano che seguì
prevedeva tre fasi. In sostanza, mettere sotto pressione i partner della
coalizione, metterli l’uno contro l’altro e aumentare la loro frustrazione nei
confronti dell’FDP.
A metà ottobre, vi
è stato un calendario prestabilito per ogni fase. Sembra che sia stata fissata
anche una data per la fine della coalizione. Sebbene siano state sollevate
delle preoccupazioni, la determinazione di Lindner a lasciare la coalizione era
ovvia e incrollabile. La maggioranza della leadership del partito ha seguito il
suo corso.
Tuttavia, il primo
novembre, Wissing – l’unico (ormai ex) ministro dell’FDP rimasto al suo posto
dopo la fine della coalizione la scorsa settimana – rilascia un’intervista,
mettendo in guardia da una rottura della coalizione. Da questo momento in poi,
non sarà più incluso nelle riunioni riguardanti la provocazione della fine
della coalizione.
Mentre alcuni
passaggi non sono andati come previsto, l’FDP è riuscita comunque a innervosire
i suoi partner di coalizione. Lindner e Scholz si incontrano a cena. Il
Cancelliere ha sentito voci su una rottura calcolata della coalizione. Lindner
propone nuove elezioni se non si raggiunge un accordo. Tuttavia, il Cancelliere
scopre i piani dell’FDP. Uscita dalla coalizione. Scholz ordina di scrivere tre
discorsi: uno per la continuazione della coalizione, uno nel caso in cui l’FDP
abbandoni, uno nel caso in cui egli cacci l’FDP.
La sera di
mercoledì 6 novembre si riunisce il comitato di coalizione. Scholz presenta il
proprio piano di bilancio. Entrambi i documenti, ossia le proposte di bilancio
di Linder e di Scholz, sono formulati in modo tale da non consentire un accordo
all’interno della coalizione. Scholz pone un ultimatum. Lindner rifiuta la
sospensione dei freni al debito e Scholz lo licenzia. Il Cancelliere si
presenta davanti alla stampa e pronuncia il discorso che i suoi hanno
preparato.
Pochi istanti
dopo, Lindner rilascia una dichiarazione alla stampa. Lui, che ha calcolato per
mesi la sua uscita dalla coalizione, è ora inorridito dalla “dichiarazione
meticolosamente preparata” del cancelliere e dalla sua “rottura calcolata della
coalizione”. Laura Welle
Laura Welle è una
studentessa dell’Università di Flensburg, attualmente in stage a Bologna presso
SettimanaNews nel quadro curricolare del ciclo di studi magistrali
“Kultur-Sprache-Medien” a cui è immatricolata. Farà parte della nostra
redazione fino a marzo 2025. SettNews 16
Debito comune
europeo, Trump e Cina visti da Wolff (Bruegel). Crescita economica stagnante e
incertezze globali da Pechino a Washington. “Assolutamente possibile” che
Berlino ripensi le posizioni su debito pubblico e ruolo dell’Ue, spiega
l’economista. Ma la campagna elettorale sarà decisiva per definire le priorità
del motore d’Europa - di Otto Lanzavecchia
La data definitiva
per le elezioni in Germania è il 23 febbraio. La conferma è arrivata dopo
l’accordo tra i socialdemocratici (Spd) del cancelliere Olaf Scholz e i
conservatori (Cdu) all’opposizione, guidati da Friedrich Merz, allo scopo di
accelerare i tempi e garantire al Paese un governo stabile. Ma passeranno mesi,
tra campagna elettorale e il tempo necessario per formare il prossimo governo.
Prospettiva tutt’altro che ideale per i tedeschi alle prese con crescita
economica anemica, sfide sul versante cinese e l’ombra della prossima
amministrazione statunitense.
Al momento è
“impossibile fare previsioni”, spiega Guntram Wolff, Senior Fellow
dell’influente think tank Bruegel, professore di economia alla Libera
Università di Bruxelles e già direttore del Consiglio Tedesco sulle Relazioni
Estere. Certamente la coalizione attuale “non ha più la forza per andare
avanti”. Ma non è affatto chiaro che peso avranno i vari partiti dopo le
elezioni, spiega a Eurofocus: molto dipende dalla campagna elettorale e dai
candidati, inclusa la scelta del prossimo leader dell’Spd (che stando alla
stampa tedesca potrebbe essere sempre Scholz nonostante la picchiata del
livello di miconsenso).
Naturalmente, se i
partiti agli estremi dello spettro politico – AfD a destra e Bsw a sinistra –
otterranno risultati eccezionali, cambieranno il paradigma e le priorità del
Paese. Che al momento è concentrato su due aspetti fondamentali: la situazione
di sicurezza in Europa e il futuro del modello economico tedesco, che soffre di
produttività stagnante. Per Wolff sono questi gli elementi che avranno un
“forte impatto” sulle scelte dei cittadini e attorno a cui ruoteranno le
decisioni e i compromessi politici. Le elezioni americane hanno dimostrato il
potere della stagnazione economica, anche solo percepita. Per quanto riguarda
l’Ucraina, basti ricordare che a giugno sia i deputati di AfD che quelli di Bsw
hanno boicottato un discorso del leader ucraino Volodomyr Zelensky al
Bundestag.
Debito: sicurezza,
clima, Europa
Sicurezza e
prosperità “richiedono un chiaro impegno nei confronti dell’Unione europea”,
l’unico contesto dove, secondo l’esperto, si può trovare una soluzione
strutturale ai problemi tedeschi. Le priorità principali del prossimo governo
dovrebbero essere quelle di “ripensare l’approccio di Berlino nei confronti
dell’Ue e trovare un modo per impegnarsi meglio con i partner europei”. Al
punto da ripensare posizioni su cui i tedeschi sono stati finora inamovibili,
come il tetto al debito e i prestiti congiunti a livello europeo? Assolutamente
possibile, rimarca Wolff.
“Certamente vedo
la possibilità che si ripensino le regole nazionali e l’approccio al
finanziamento della spesa per la difesa, in particolare attraverso il debito.
In questa fase non escluderei uno scenario del genere nemmeno con un
cancelliere della Cdu”, storicamente avversi all’aumento della spesa e
all’indebitamento comune europeo. Del resto, la necessità per Germania e Ue di
intensificare i propri sforzi “non potrà che crescere nei prossimi mesi,
soprattutto con l’elezione di Donald Trump”.
Questo non vuol
certo dire che le “differenze filosofiche” in materia di politica economica
scompariranno. Per dirne una, l’utilizzo del debito pubblico delineato nel
rapporto di Mario Draghi come soluzione al problema della crescita “è visto con
scetticismo” praticamente dall’intero arco politico tedesco. “Usarlo per
risolvere alcuni problemi, sì; come panacea, certamente no”, riassume l’esperto
di Bruegel. Per esempio, una voce di spesa pubblica destinata a crescere sarà
quella per la risposta al cambiamento climatico: almeno un quarto del denaro
deve provenire dai governi, e per Wolff quello di Berlino dovrà ricorrere,
almeno in parte, al debito pubblico.
Riattivare il
motore tedesco
Secondo
l’economista il prossimo governo porrebbe molta enfasi sul lato dell’offerta,
di cui c’è “una chiara necessità” per “mobilitare e attivare il potenziale
dell’economia tedesca”. Sul lato della domanda, tra la minaccia russa e il
possibile riassetto della Nato in chiave trumpiana, rimane “fondamentale
raggiungere la capacità di spesa adeguata per la sicurezza”. Cosa difficile da
fare a scapito della spesa sociale perché sarebbe una mossa “politicamente
sgradevole”.
Ci sono però
motivi di cauto ottimismo, continua Wolff. A livello macroeconomico
l’inflazione sta scendendo, e le famiglie hanno risposto all’incertezza degli
ultimi mesi aumentando i risparmi. “Quindi eliminare un po’ di incertezza,
magari anche diventando più credibili sulla deterrenza militare, è già un tipo
di misura che favorisce la domanda”.
Nucleare…
Vale la pena
esaminare le prospettive di un possibile governo Merz, visto che la Cdu (e la
gemella Csu in Bavaria) rimane in testa ai sondaggi ed è uscita vittoriosa
dalle europee di giugno. Soprattutto su due temi chiave. Sul primo, il
caro-energia e il ruolo del nucleare, il partito dice di voler valutare la
riapertura delle centrali – anche se gli operatori del settore spiegano che non
è più così facile da fare. “Sarebbe stato relativamente semplice continuare a
far funzionare le centrali nucleari due anni fa. Ora che sono state spente
richiederanno investimenti considerevoli e probabilmente poco redditizi, visto
quanto sono scesi i prezzi delle rinnovabili”, rimarca Wolff.
… e Cina
L’altro grande
interrogativo riguarda il primo partner commerciale per la Germania, nonché un
mercato fondamentale per le esportazioni di cui vive l’economia tedesca.
Secondo l’economista un governo targato Cdu sarebbe più “falco” di quello
attuale. La sua ricetta per affrontare la questione Cina: ridurre la dipendenza
dalle catene di approvvigionamento e dalle esportazioni cinesi, e diversificare
verso altri mercati. Indicazioni ampiamente discusse e accettate,
“relativamente chiare in teoria ma molto più difficili da mettere in pratica”.
Per implementare questa visione servirebbe applicare misure concrete e
politicamente costose, visto che alcune aziende ci rimetterebbero piuttosto
rapidamente, spiega Wolff. “Il prossimo governo sarà pronto ad affrontare questo
rischio? Dipende dagli esiti politici”. Adnkronos 15
Elezioni, politiche migratorie ed economia. Il dilemma tedesco
Le recenti
elezioni europee hanno spostato il continente su posizioni conservatrici,
soprattutto per quanto riguarda le migrazioni. Ciò è evidente in Germania, dove
si prospettano e approvano restrizioni per quanto riguarda il welfare degli
immigrati, l’asilo dei profughi, le espulsioni e i respingimenti.
L’affermazione dei partiti dell’estrema destra induce il governo alla massima
cautela sulle questioni migratorie. Ma, come la Germania, molti altri paesi
europei vanno nella stessa direzione. di Edith Pichler (da Neodemos)
Il Governo tedesco
(Socialdemocratici, Verdi e Liberali), negli ultimi due anni, ha
approvato due leggi per facilitare l’immigrazione di manodopera verso la
Germania (Neodemos • La Germania vuole diventare attrattiva! La nuova legge
sulla immigrazione e il disegno di legge sulla cittadinanza): una legge sulla
immigrazione e la nuova legge sulla naturalizzazione. Leggi contestate sia
dalla CDU e CSU, – entrambi vogliono cambiarle dovessero vincere le elezioni il
prossimo anno – e dal partito di estrema destra AFD, che da anni ha fatto della
politica contro i cittadini immigrati e l´immigrazione un suo cavallo di
battaglia: contro un welfare generoso con gli immigrati, a favore della
introduzione di controlli alle frontiere e ad una politica di naturalizzazione
severa nell’interesse della Germania. Ma anche Sahra Wagenknecht (figlia
di un Iraniano immigrato nella DDR) fondatrice del nuovo partito populista
di sinistra BWS, già dall´anno scorso ripeteva, in vista delle elezioni
europee, che la Germania non ha “più spazio” per migranti, i quali
causerebbero inoltre un “dumping salariale”, ed aggiungendo che bisogna
tagliare i benefici per i richiedenti asilo.
I risultati delle
elezioni Europee sembrano avere dato ragione a questi partiti, democratici o
meno, critici o avversari nei confronti di una politica migratoria “generosa”.
Infatti il partito CDU/CSU ha guadagnato alcuni punti rispetto alle elezioni
2019 e con il 30% dei voti è il primo partito, seguito dalla AFD con il
15,9% (5 punti percentuali in più), seguito dalla SPD col 13,9% (2 punti in
meno), dai Verdi con l’11,9% ( meno 8,6 punti), e i Liberali (5,2
punti in meno). Si impone come quarto partito alla prima “uscita” il partito
della Wagenknecht BSW, con il 6,2 % superando di alcuni punti il suo ex
partito die Linke.
Elezioni e
restrizioni
Da questo momento,
anche in vista delle elezioni del settembre scorso in tre Bundesländern della
ex Germania Orientale (Brandenburgo, Turingia e Sassonia), anche i partiti
della coalizione hanno incominciato a discutere e proporre politiche
restrittive nei confronti della immigrazione e dei profughi.
Si è iniziato già
in primavera, con la discussione circa la conversione dell´assegno sociale in
contanti per rifugiati in una “carta di pagamento”, una specie di carta di
credito (460 Euro di disponibilità), proposta che i diversi Bundesländer
applicheranno entro l’autunno. Il vantaggio di questa carta di credito secondo
il Governo, appoggiato dalla opposizione, è che l´importo disponibile può
essere “utilizzato” solo in Germania e non permette come in passato di fare
versamenti/trasferimenti nel Paese d’origine. Indiretto scopo del Governo,
“suggerito” dai partiti della opposizione, è quello di bloccare il
finanziamento dell’immigrazione irregolare
Dopo i risultati
delle elezioni del 4 settembre in Sassonia (qui governava una coalizione CDU,
SPD e Verdi) e in Turingia (qui al governo era una coalizione di minoranza tra
Linke, SPD e Verdi), dove l´AFD è diventato il primo partito con più del
30%, si è iniziato da parte del Governo a discutere la politica del controllo
delle frontiere e dei respingimenti.
Già in precedenza,
la CDU/CSU aveva insistito con veemenza sul fatto che la Germania dovesse
respingere i rifugiati alle sue frontiere, e il leader della CDU Friedrich Merz
aveva persino chiesto al Cancelliere di esprimere una “parola di autorità”. Ma
nel governo di coalizione, molti politici, i Verdi in particolare, si erano
espressi contro i respingimenti alle frontiere tedesche. Nonostante ciò, la
Ministra degli Interni Nancy Faeser ha ordinato controlli temporanei, iniziati
il 16 settembre, a tutte le frontiere tedesche per ridurre ulteriormente il
numero di ingressi non autorizzati. Tuttavia. secondo la CDU/CSU l´iniziativa
di Faeser non sta determinando un aumento dei respingimenti. Per gli
osservatori critici di questa politica si tratta di una scelta soprattutto
simbolica. Faeser voleva dimostrare prima delle elezioni nel Brandeburgo che:
“Stiamo facendo qualcosa”. Gli esperti dubitano che il numero di richiedenti
asilo possa diminuire, o rendere la Germania più sicura, dato che non c’è
correlazione tra ingressi illegali e criminalità. Al contrario, c’è la
minaccia che i tempi di attesa alle frontiere si allunghino. causando ingorghi
e ostacolando i pendolari e la circolazione delle merci. Faeser ha promesso in
questo contesto “controlli intelligenti” (che implicherà certamente il ricorso
al “profiling razziale”). Non è un caso de Viktor Orbán si sia subito
congratulato con Olaf Scholz con le parole “Benvenuto nel club”!
Già a fine 2023 il
governo federale aveva proposto una normativa del Ministero federale
dell’Interno che inasprisce la legge sulle espulsioni, prevedendo rimpatri più
rapidi ed espulsioni di persone senza diritto di soggiorno in Germania.
Il disegno di legge corrispondente è entrato in vigore il 27 febbraio
2024. Secondo diverse fonti il governo tedesco nei primi tre mesi
dell’anno, ha operato 4.700 espulsioni in più (+30%) rispetto allo stesso
periodo dell’anno precedente. Il maggior numero di espulsioni è avvenuto
verso la Georgia, la Macedonia del Nord, l’Albania e la Serbia.
Anche in vista
delle elezioni (poi vinte), la AFD ha presentato una mozione alla sessione
plenaria del Bundestag una mozione che richiede di avviare subito un’inversione
di rotta della politica migratoria, “adottando misure per porre immediatamente
fine ai flussi di immigrazione clandestina”. In sostanza si chiedeva al governo
federale di controllare i confini, e di erigere barriere e recinzioni quando
necessario, e di respingere gli ingressi non autorizzati da un Paese di
transito sicuro (ad esempio la Polonia) che non avrebbero potuto, pertanto,
avere diritto all’asilo. In risposta a coloro che sostengono che alla mancanza
di manodopera si può rispondere con l’immigrazione, la AFD propone di avviare
programmi per incentivare la formazione professionale e tecnica dei cittadini
tedeschi e promuovere la natalità attraverso aiuti alle famiglie “tedesche”.
Il caso dei
profughi Turchi
Toccati, in parte,
dalle proposte della AFD sono i tanti cittadini Turchi arrivati in Germania
negli ultimi anni, che non potendo avere un visto o arrivando senza un permesso
di lavoro hanno fatto richiesta d´asilo. Fra loro persone di origine Curda originarie
dalle zone del terremoto, ma anche intellettuali, professori universitari e
giornalisti, come nel caso più noto di Can Dündar, caporedattore del giornale
Cumhuriyet, condannato in Turchia a 27 anni di carcere. Le reti sociali e
parentali qui in Germania hanno favorito questi ingressi formalmente illegali.
Ultimamente però in una intervista di fine agosto, la Ministra Nancy Faeser
(SPD) ha annunciato una politica di espulsione verso la Turchia. “Ora abbiamo
ottenuto che i rimpatri verso la Turchia possano avvenire in modo più rapido ed
efficace e che la Turchia riprenda più rapidamente i cittadini che non sono
autorizzati a rimanere in Germania”. C´è da chiedersi se l’accordo con Erdogan
sui profughi siriani, afghani, e altre provenienza non abbia determinato una
intesa “non dichiarata” del tipo: “Tu, Erdogan, trattieni i profughi che noi
non vogliamo, e noi ti rimandiamo i tuoi”, in gran parte oppositori del
regime.lo” tu tieni quelli e noi ti mandiamo i tuoi”. Poco male se così facendo
si calpestano i diritti umani.
Nei primi 8 mesi
di quest’anno, l’ufficio federale per le migrazioni aveva riconosciuto come
“profugo”, e quindi destinatario di protezione, solo il 9,6% dei 28.492
cittadini turchi richiedenti asilo. Secondo informazioni riportate da diversi
media, fonti governative hanno rivelato che la Turchia si è offerta di
riprendersi fino a 500 cittadini a settimana. Sicuramente una prospettiva assai
inquietante per gli espulsi.
Conclusioni
Il governo della
Germania, data la difficile situazione politica e economica, viene definito
“stabile-instabile”. È di questi giorni la notizia che la Volkswagen, simbolo
della potenza economica della Germania, intende chiudere diversi stabilimenti e
licenziare più di 10.000 persone. Tra questi molti sono italiani, inclusa
Daniela Cavallo, figlia di emigrati italiani e presidente del consiglio di
fabbrica globale. Se più di 10.000 persone – senza includere i lavoratori
dell’indotto – perderanno il loro lavoro, riscoprirà la SPD la sua anima
“politica-sociale” o si apriranno ulteriori spazi per partiti antistranieri,
antimmigrazione, come la AFD e, in parte, la BSW?
FONTE: https://www.neodemos.info/2024/11/08/elezioni-politiche-migratorie-ed-economia-il-dilemma-tedesco/
(Neodemos/dip)
Il Ministro degli Esteri Tajani in missione a Monaco di Baviera
Incontro all’ESO
con gli scienziati italiani e una rappresentanza della comunità italiana
Il Ministro degli
Affari Esteri Antonio Tajani, ha visitato oggi a Garching, nei pressi di Monaco
di Baviera, l’Osservatorio Europeo Australe (European Southern Observatory –
ESO), principale struttura di ricerca astronomica in Europa e osservatorio astronomico
più produttivo al mondo, per incontrare gli scienziati italiani presso
l’organizzazione e una rappresentanza della comunità italiana a Monaco. “Siamo
orgogliosi del peso rivestito dall’Italia all’interno di ESO. Il MAECI
contribuisce con 25 milioni di euro all’anno al budget dell’organizzazione e
tanti nostri connazionali lavorano nella struttura, ricoprendo in molti casi
ruoli di prestigio. E’ un tassello di politica estera di cui siamo tutti
orgogliosi” ha dichiarato il Ministro. “Sono numerose le aziende italiane che
collaborano con ESO alla realizzazione di progetti all’avanguardia
dall’altissimo valore tecnologico e scientifico” ha continuato il Vice
Presidente del Consiglio “l’Italia guarda con grande interesse ad un settore
come quello dell’astrofisica che contribuisce in maniera importante
all’innovazione, alla crescita e alla competitività europea” ha concluso il
titolare della Farnesina. L’ESO, istituito nel 1962, conta ad oggi 16 Stati
membri. Tra le iniziative di punta dell’Osservatorio rientra anche l’European
Extremely Large Telescope (ELT), in costruzione in Cile, in procinto di
diventare il più grande telescopio al mondo e la cui direzione è affidata
all’italiano Roberto Tamai. (Inform/dip 15)
ReteDonne-Germania: sostegno alle donne che subiscono violenza
Gli allarmanti
dati sui femminicidi e sul numero delle donne vittime di diversi tipi di
violenza, diffusi lo scorso 19 novembre dall’Ufficio federale della polizia
criminale tedesca (BKA), ci presentano una tragica e amara realtà di cui in
Germania se ne parla ancora troppo poco.
Un solo dato è
indicativo per tutti gli altri: quasi ogni giorno in Germania muore una donna
vittima di femminicidio.
Purtroppo sappiamo
che anche le donne italiane che vivono in questa nazione sono spesso vittime di
violenze domestiche, fisiche, psicologiche o di altro genere, ma che, per
diverse ragioni, non sanno a chi rivolgersi, con chi parlarne o dove sporgere
denuncia.
La barriera
linguistica è il primo ostacolo contro il quale molte si devono confrontare.
Per questo motivo
ReteDonne vorrebbe creare una mappa interattiva della Germania dove sono
indicati sportelli, uffici, singole associazioni, Patronati o istituzioni, a
cui le donne in difficoltà, o vittime di violenza, si possono rivolgere in
lingua italiana per ottenere un primo aiuto o semplicemente ascolto.
La mappa
interattiva e le informazioni raccolte verranno messe a disposizione di tutte e
tutti sul web e tramite i social, per un’ampia e capillare diffusione.
ReteDonne e.V. si
appella ai Com.It.Es della Germania, alle associazioni, ai Patronati e ai
singoli, perché collaborino alla stesura della mappa, inviando tutte le
informazioni di cui sono a conoscenza al seguente indirizzo: retedonne@gmail.com
ReteDonne e.V. –
coordinamento donne italiane all’estero
Luciana Mella,
presidente https://retedonne.net/it/
(dip)
25 novembre: sedia rossa in consolato a Friburgo/Brsg, scarpe rosse in
Ambasciata
Friburgo - In
occasione del 25 novembre, Giornata Internazionale per l’eliminazione della
violenza contro le donne, il Consolato d'Italia a Friburgo ha inaugurato una
sedia rossa nella sua sala d'attesa, accompagnata dalla targa che recita KEIN
PLATZ FÜR GEWALT GEGEN FRAUEN.
Presenti alla
cerimonia di inaugurazione il Primo commissario Capo della Polizia di Friburgo
e il Commissario Capo, la responsabile delle relazioni internazionali della
città di Friburgo, alcuni rappresentanti delle associazioni locali impegnate al
fianco delle donne vittime di violenza e, in rappresentanza della comunità
italiana, la Vicepresidente e il Segretario del Comites di Friburgo.
Durante la
cerimonia la Console, Francesca Toninato, ha sottolineato che l'impegno del
Consolato non si esaurisce con questo momento simbolico ma continua
quotidianamente: "nel tentativo di tendere la mano a chi non può o non
riesce a chiedere aiuto abbiamo predisposto una cartellina rossa in sala
d'attesa, dello stesso rosso della sedia che attiri l’attenzione dei
connazionali che attendono l’appuntamento e nella quale sono contenuti
documenti informativi, numeri utili, contatti di associazioni, punti di riferimento
istituzionali e di reti di assistenza - spiega il Consolato -. Tutto il
materiale sarà sempre disponibile anche in formato digitale nel sito del
Consolato, nella sezione dedicata dall’assistenza sociale ed è parte di un’idea
condivisa e di un progetto congiunto realizzato insieme al Comites di
Friburgo".
La Console
Toninato ha sottolineato anche che l’assistenza ai connazionali non si ferma a
questa data e, in un’ottica di maggiore sensibilizzazione, il prossimo 8 marzo
2025, in occasione dell’inaugurazione di un importante progetto innovativo
realizzato dal Comites di Friburgo, la giovane attrice italiana Stefania
Benincaso porterà in scena il monologo “Stand-up per il dolore” che mira a far
riflettere sul tema della violenza di genere.
Le attività del
Consolato confermano, anche nei confronti delle autorità cittadine locali,
l’attenzione dell’Italia per questa tematica, inserendosi perfettamente nel
quadro delle iniziative dei “16 Tage gegen Geschlechtsspezifische Gewalt - 16
giorni contro la violenza di genere” realizzate dalla città di Friburgo, con il
sostegno dell’Ufficio sociale del Land Baden-Württemberg, che includono
conferenze, workshop di difesa personale, cineforum e altro sul tema.
A conclusione
della cerimonia odierna è stata letta una breve riflessione elaborata per
l’occasione dalla filosofa italiana Prof. Francesca Brencio, ex consigliera
dell’attuale Comites che ha studiato e lavorato per lungo tempo a Friburgo e
che è stata insignita nel 2021 del Sigillo d’Eccellenza della Commissione
Europea per il suo progetto di ricerca in ambito filosofico.
"Lo spazio e
il corpo vivono in reciproca relazione. Non c'è spazio senza corpo, perché
altrimenti non può essere percepito. E non c'è corpo senza uno spazio che lo
accolga. Una sedia vuota narra entrambi: un corpo che non c'è e uno spazio da
occupare. Ma una sedia vuota narra anche che ad un corpo può essere stata
sottratta la possibilità di esserci. La violenza di genere, in ogni sua forma,
è questo. Sottrazione. Delegittimazione. Di dignità, di parola, di scelta, di
vita”.
Scarpe rosse in
Ambasciata a Berlino
Tante scarpe
dipinte di rosso per testimoniare l’impegno nella lotta alla violenza di genere
in occasione della “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza
contro le donne”. È questa l’iniziativa dell’Ambasciata d’Italia a Berlino, che
già ha voluto ribadire il suo sostegno nella lotta alla violenza di genere lo
scorso aprile con l’installazione nel proprio cortile di una panchina rossa,
simbolo del vuoto lasciato dalle vittime di femminicidio.
Per il 25 novembre
di quest’anno gli spazi dell’Ambasciata hanno accolto un altro emblema della
battaglia contro gli abusi sulle donne: tante paia di scarpe rosse donate
collettivamente dai dipendenti dell’Ambasciata per ricordare tutte le vittime
di maltrattamenti e femminicidi e impegnarsi insieme per fermarli.
Come già ricordato
dal vice presidente del Consiglio e ministro degli Affari Esteri e della
Cooperazione Internazionale, Antonio Tajani, è necessario che l’Italia assuma
un ruolo guida nella promozione dell’uguaglianza di genere e nel contrasto ad
ogni forma di violenza e discriminazione nei confronti delle donne.
Un forte impegno
sottolineato anche dall’ambasciatore Armando Varricchio. “Le uccisioni legate
al genere e altre forme di violenza contro donne e ragazze sono inaccettabili”,
ha detto Varricchio. “È necessario uno sforzo collettivo per prevenirle e rafforzare
il rispetto della libertà dell’altro”, ha aggiunto.
(aise/dip 26)
Le ultime puntate di Cosmo italiano, ex Radio Colonia
21.11.2024.
Rinnovabili contro l'emergenza climatica: a che punto siamo?
Meno emissioni di
anidride carbonica e addio ai combustibili fossili per frenare il riscaldamento
climatico: a che punto siamo? Lo svela il nuovo Climate Change Index, come ci
spiega Giulio Galoppo, con uno sguardo alle rinnovabili in Germania. E in Italia?
Ne parliamo con il giornalista Jacopo Giliberto, con uno sguardo a Baku, dove
il mondo riunito discute di come finanziare la lotta all'emergenza climatica.
Con Enzo Savignano diamo poi uno sguardo al futuro del Green Deal europeo. https://www1.wdr.de/radio/cosmo/programm/sendungen/radio-colonia/il-tema/clima-energie-rinnovabili-green-deal-germania-baku-cop29-100.html
20.11.2024. La
bellezza e il potere della lingua e letteratura italiana
Ma quant'è bella
la lingua italiana? Se ne accorge soprattutto chi vive all'estero, che si sente
sempre un po' più a casa quando la parla o la sente. Ce ne svela tante
curiosità Giuseppe Antonelli, curatore del Museo Multimediale della lingua
italiana MULTI. Ascoltiamo poi come si vive da bilingui, e parliamo del potere
delle parole e della letteratura, soprattutto in tempi di derive
autoritaristiche, con lo scrittore Fabio Stassi, appena premiato con
l’Hermann-Kesten-Preis del PEN club tedesco. https://www1.wdr.de/radio/cosmo/programm/sendungen/radio-colonia/il-tema/lingua-italiana-parola-democrazia-germania-100.html
19.11.2024. La
gestazione per altri in Italia è reato. E in Germania?
Nei giorni scorsi
il presidente Mattarella ha firmato la controversa legge che rende la maternità
surrogata un reato universale. Verrà quindi punito il ricorso alla gestazione
per altri, anche se la pratica viene attuata all'estero in Paesi in cui è legale.
In questo podcast l'avvocata Filomena Gallo spiega cosa cambia con la nuova
legge italiana, Giulio Galoppo fa il punto sulla normativa tedesca, mentre con
Jens Landwehr raccontiamo la storia di una famiglia tedesca che è ricorsa alla
Gpa. https://www1.wdr.de/radio/cosmo/programm/sendungen/radio-colonia/il-tema/gpa-gestazione-per-altri-surrogacy-germania-100.html
18.11.2024. La
campagna elettorale in Germania è già cominciata
Il 23 febbraio si
terranno le elezioni anticipate per il Bundestag e la campagna elettorale,
forse più breve di sempre, è già in pieno svolgimento. I principali partiti
nominano i loro candidati cancellieri e i componenti dell'ex governo semaforo
si rimpallano le responsabilità della crisi di governo. Facciamo il punto con
Giulio Galoppo, mentre Enzo Savignano ci riassume tre anni di liti del governo
semaforo. Con Sara Nanni, parlamentare dei Verdi di origine italiana, proviamo
a guardare oltre il voto per capire che ruolo potrebbe svolgere il suo partito
in futuro.
15.11.2024.
Novembre è il mese del cinema italiano in Germania.
Dal 12 al 17
novembre la capitale tedesca ospita di nuovo l'Italian Film Festival Berlin,
motivo per noi per parlare con i due ospiti principali di questa edizione:
Antonio Albanese e Neri Marcorè, dei loro nuovi lavori e del loro rapporto con
la Germania e col pubblico tedesco. Ma in queste settimane la Germania ospita
anche altre due importanti rassegne di cinema italiano: Cinema! Italia! e Verso
Sud. https://www1.wdr.de/radio/cosmo/programm/sendungen/radio-colonia/il-tema/cinema-italiano-in-germania-102.html
14.11.2024. Cosa
fa la Germania contro la violenza sistemica sulle donne?
Anche in Germania
gli uomini molestano le donne e le uccidono: spesso sono i partner o gli ex. Ma
se ne parla meno che in Italia. Agnese Franceschini ci racconta quali leggi
sono in vigore o in progetto, come la Gewalthilfegesetz promessa dalla
coalizione. Ma questa probabilmente non si farà, vista la crisi di governo.
Gravissimo, ci spiega Suna Tan?? della Frauenhaus di Oberhausen: mancano fondi
e posti. E Alessia De Carlo, psicologa a Stoccarda, offre aiuto alle donne in
uno sportello gratuito.
13.11.2024.
Speciale: Damiano David a Colonia
Perché
intraprendere ora una carriera solista, Damiano David? Il frontman della band
Måneskin ce lo spiega in una lunga intervista, registrata in occasione di un
suo showcase a Colonia per poche decine di fan. Con i suoi nuovi brani
"Born with a broken heart" e "Silverlines" esprime una
parte di sé finora poco svelata al pubblico, ha raccontato Damiano a Luciana
Caglioti - aggiungendo qualcosa su successo, relazioni, passioni artistiche e
sul futuro.
12.11.2024.
Alimentazione e salute tra tradizione e scienza
Dal 16 al 22
novembre si terrà la IX Settimana della cucina italiana del mondo, il tema di
questa edizione è "dieta mediterranea e cucina delle radici: salute e
tradizione". Ma in questo podcast parliamo anche con Agnese Franceschini
di come la cucina italiana cambi in emigrazione, ad esempio in Germania. E di
nutrizione e dei suoi effetti sulla salute si parlerà anche al simposio
organizzato dal Forum accademico italiano a Colonia venerdì 15 novembre. Laura
Surace e Christian Frezza ci anticipano i temi dell'incontro.
11.11.2024. Cosa
ci aspetta dopo la vittoria di Trump
Soddisfatto il
governo italiano, prudente quello tedesco: con Agnese Franceschini vediamo le
reazioni alla vittoria di Donald Trump in Germania, Italia e nell'Unione
Europea. L'elezione di Trump rappresenta una sterzata notevole nelle relazioni
transatlantiche, ne abbiamo parlato con Raffaele Marchetti, professore di
Politiche Internazionali all'Università LUISS a Roma.
Musica italiana
non stop. Il nostro web channel COSMO Italia inoltre ti offre due ore di musica
non stop, che puoi ascoltare 24 ore su 24 sulla nostra pagina internet, sulla
app di COSMO e su Spotify.
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Ascolta COSMO
italiano. Podcast, streaming e radio:
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(Cosmo/dip)
Viviana Vacante nuova Segretaria della Federazione Pd Germania
Francoforte- Si è
svolta domenica 24 novembre, a Francoforte sul Meno, l’assemblea congressuale
del Partito Democratico Germania. Quella di domenica è stata la tappa
conclusiva di un percorso congressuale che ha visto due candidati in corsa alla
segreteria della federazione, Viviana Vacante e Federico Quadrelli, e che ha
registrato la partecipazione attiva di tutte e tutti gli iscritti degli 11
circoli presenti sul territorio tedesco. Al termine delle votazioni,
l’assemblea ha proclamato Viviana Vacante nuova segretaria della Federazione PD
Germania. Contestualmente sono stati eletti Andrea Ferrati alla carica di
Presidente e Sara Sollazzi con la funzione di tesoriera.
Di fronte
all’inverno della democrazia che l’Italia sta attraversando, la neo segretaria
ha sottolineato con forza, nel suo intervento programmatico, la necessità di
costruire una federazione unitaria e sempre più attiva tra la comunità italiana
in Germania, con un richiamo alle parole della segretaria nazionale Elly
Schlein: “Testardamente unitaria”. Viviana Vacante ha inoltre delineato le
priorità operative immediate, tra cui le imminenti elezioni (febbraio 2025) e
sfide legate alla crisi del governo tedesco, e la crisi in corso della
Volkswagen con le sue ripercussioni su tutta l’Europa.
All’assemblea ha
partecipato anche Luciano Vecchi, responsabile del Pd Mondo, che ha evidenziato
l’importanza dell’impegno politico degli italiani residenti all’estero e il
valore della loro partecipazione attiva, così come l’attenzione da parte del
Partito Democratico nei confronti di tutti coloro che vivono fuori dall’Italia.
A conclusione dei
lavori è intervenuto Toni Ricciardi, parlamentare del Pd eletto in Europa, che
ha sottolineato lo storico traguardo raggiunto in Parlamento con l’approvazione
di una legge, il cui testo porta a prima firma il suo nome, e che prevede la creazione
di un fondo di 4 milioni di euro annui dal 2025, da distribuire agli uffici
consolari per ridurre le liste d’attesa per il rilascio dei passaporti.
Ricciardi ha inoltre affrontato i temi caldi della nuova legge di bilancio
presentata dal Governo italiano: l’improvvisa abrogazione del sussidio di
disoccupazione previsto per i lavoratori rimpatriati dalla legge n. 402 del
1975 e l’eliminazione della rivalutazione automatica per il 2025 delle pensioni
dei residenti all’estero superiori al trattamento minimo. Ricciardi ha
assicurato che, insieme al Partito Democratico, è già al lavoro per proporre
emendamenti volti a migliorare il testo della Legge di Bilancio a favore degli
italiani nel mondo.
La Federazione Pd
Germania, sotto la guida della nuova segreteria, si prepara dunque a rafforzare
il proprio impegno a favore della comunità italiana, come riporta la nota
ufficiale della Federazione, affrontando con determinazione le sfide politiche
e sociali che l’attendono. (aise 26)
Scade a metà mese il premio dell’Ambasciata per gli studenti italiani in
Germania
Berlino. Si
avvicina la scadenza per partecipare (in modo totalmente gratuito) al premio
scolastico promosso dall’Ambasciata d’Italia a Berlino per studentesse e
studenti italiani in Germania, che torna quest’anno con la sua 7ma edizione. Il
concorso vuole premiare chi abbia ottenuto i risultati migliori nella scuola
primaria, nella scuola secondaria e alla maturità nell’anno accademico
2023-2024. Scadenza per presentare la propria pagella finale il prossimo 15
dicembre.
Vi possono
partecipare tutti gli studenti di cittadinanza italiana regolarmente residenti
in Germania e frequentanti la scuola tedesca dalla quarta classe alla maturità.
La copia della
pagella dovrà essere spedita per email all’indirizzo scuole.berlino@esteri.it indicando come oggetto “Premio Scolastico”
insieme a cognome e nome dello studente partecipante. L’email dovrà inoltre
contenere obbligatoriamente i recapiti telefonici e l’indirizzo dei
partecipanti.
Gli studenti
saranno suddivisi in cinque gruppi: scuola primaria (dalla quarta classe);
ginnasi fino alla decima classe; altri tipi di scuola secondaria fino alla
decima classe; ginnasi e scuole secondarie dall’undicesima classe; e diploma di
maturità (Allgemeine Hochschulreife).
Le pagelle saranno
valutate da un’apposita commissione dell’Ambasciata che, per ognuno dei cinque
gruppi, selezionerà i vincitori. Il criterio principale di valutazione sarà la
media più alta o, per la Maturità, il punteggio complessivo (Gesamtpunktzahl)
più alto.
Ai vincitori
saranno consegnati i premi in denaro messi a disposizione anche quest’anno da
Ferrero S.p.A. Si tratta di 100 euro per ciascun vincitore delle prime quattro
categorie, mentre al vincitore della quinta categoria il premio salirà a 1500
euro. (dip)
A Darmstadt “Animae”, spettacolo di musica e performance teatrale del Duo
Kham
In questi giorni,
in concomitanza con la ricorrenza della giornata internazionale per
l’eliminazione della violenza contro le donne, mettere in scena uno spettacolo
di musica e danza dal titolo “Animae” , è una sfida ed una proposta di
riflessione che un duo femminile ed un giovane direttore artistico e regista,
tutti italiani, desiderano proporre alla comunità italiana di Darmstadt e
dintorni e agli amici tedeschi. Domani mercoledì 27 novembre, e domenica 1
dicembre, alle ore 20.00, al teatro Hoffart di Darmstadt (Lauteschlägerstr.
28a) andrà in scena lo spettacolo-concerto ANIMAE con la pianista Marta Cametti
e la violinista Flavia Succhiarelli – conosciuto come Duo KHAM – la
direzione artistica, nonchè la regia, di Donato Lospalluto. Lo spettacolo è un
viaggio nella vita, un’esplorazione profonda delle emozioni che definiscono
l’essere umano, lo trasformano, conducendolo talvolta fuori strada. È un
excursus di crescita e di scoperta, narrato attraverso la musica, il movimento
e la rappresentazione teatrale. Diviso in due tempi, lo spettacolo è
caratterizzato dalle varie tappe della vita; dalla nascita alla crescita, dalla
passione alla riflessione fino all’autunno dell’esistenza. La performance si
apre con cinque figure anonime sul palco. Indossano mantelli neri, cappucci e
maschere bianche, sono ancora prive di identità e personalità. La scena è
immersa in un’atmosfera surreale. Al riaccendersi di una luce-spot, due
maschere inizieranno a muoversi, scoprendo gradualmente la loro essenza. Un
risveglio dalla dimensione larvale che prende forma e sostanza nella e con la
musica: i due personaggi infatti inizieranno a suonare un intro distopico al
pianoforte e al violino, un’espressione sonora incerta e dissonante che cresce
fino a trovare armonia. È l’inizio del viaggio, annunciato da una voce fuori
campo: “Animae: next stop, the birth ” in cui le maschere, finalmente vive,
faranno cadere a terra quella bianca ed anonima copertura del viso.
Il primo
movimento, sottolineato da musiche di Beethoven, introdurrà la fase iniziale
della vita. Le due musiciste suoneranno alcuni brani che condurranno le
maschere ad animarsi in una danza semplice e simbolica. A seguire il secondo
movimento rappresenterà un battesimo, mentre il terzo porterà in scena le
dimensioni del gioco, dell’innocenza e della spensieratezza dell’infanzia, per
concludersi col quarto movimento che rappresenterà l’adolescenza, con i suoi
conflitti, cambiamenti e ribellioni. Il tutto in un crescendo emotivo e
musicale.
Il secondo tempo
inizierà con la Tarantella di Sarasate, musica che rappresenta la passione e
l’eros. Accompagnamento musicale sottolineato da un gioco di luci rosse e
costumi particolari realizzati su misura. Seguiranno momenti intensi e
riflessivi, in cui l’amore, la follia e il conflitto verranno esplorati
attraverso le musiche di Rossini e Listz. Il tessuto narrativo musicale si
evolverà poi con la stupenda aria di “E lucevan le stelle” dalla Tosca di
Puccini. Un brano intenso e struggente che unisce pianoforte e violino in
un’esibizione senza tempo, introducendo il tema della mortalità. L’ultimo atto
richiamerà gli elementi degli atti precedenti con le Sei Danze di Bela Bartók.
Una forte e significativa rappresentazione del ciclo della vita e del passaggio
nell’aldilà. La conclusione lascerà nuovamente le musiciste mascherate, di
nuovo nel limbo, dopo che queste avranno vissuto ogni umana emozione possibile.
ANIMAE vuol essere
un concerto-performance – pensato ed ideato da un gruppo tutto al femminile,
come il Duo Kham, e dal giovane direttore artistico Donato Lospalluto, voluto e
sostenuto anche dal Consolato Generale d’Italia a Francoforte – che non mancherà
di trasmettere un grande impatto emotivo. Uno spettacolo nel quale si
intrecceranno musica, narrazione e performance teatrale per offrire uno
spaccato delle emozioni umane. “ANIMAE” si potrà leggere come un’odissea
nelle profondità dell’esperienza umana, capace di regalare una riflessione
profonda sulla crescita personale e sui cicli della vita. Oppure come un
invito a interpretare e sentire liberamente, senza giudizi o pregiudizi, quel
viaggio particolare, personale ma universale che parla e accompagna tutti noi:
la nostra esistenza di donne e uomini, di esseri umani. (Michele
Santoriello/Inform/dip 26)
Brevi di cronaca e di politica tedesca
SPD: il
Cancelliere Scholz vince la lotta per il potereDopo settimane di lotte interne,
i vertici dell’SPD hanno deciso: il partito si presenterà alle elezioni del 23
febbraio con il Cancelliere Olaf Scholz. L’11 gennaio la decisione sarà
confermata in un congresso di partito. Nelle ultime due settimane, il partito
aveva avviato una discussione pubblica sull'eventualità di candidare alla
Cancelleria il ben più popolare ministro della Difesa Boris Pistorius. La
leader dell’SPD Saskia Esken, tuttavia, ha ammesso gli errori nell’affrontare
l’acceso dibattito: “Non abbiamo dato una buona immagine nella nomina del
nostro candidato alla Cancelleria”, ha dichiarato Esken in un incontro con i
giovani del partito, dove ha dovuto affrontare pesanti critiche. Il Co-presidente
Lars Klingbeil ha esortato il partito a guardare in avanti: “Ora tutti insieme
abbiamo il dovere di correre ai blocchi di partenza e avviare la campagna
elettorale”. Solo pochi giorni fa il ministro Pistorius aveva rifiutato
definitivamente una possibile candidatura, aprendo così la strada alla nomina
del Cancelliere Scholz.
Nel frattempo il
Cancelliere ha annunciato che nella campagna elettorale l’SPD si impegnerà per
continuare a sostenere l’Ucraina, per il mantenimento dei posti di lavoro,
l’assicurazione di salari giusti e per prezzi dell’energia accessibili. Anche
il futuro delle pensioni sarà un tema particolarmente importante. Il 16
dicembre prossimo il Cancelliere Scholz intende porre la questione di fiducia
al Bundestag. CDU e CSU avevano già annunciato a settembre il leader della CDU
Friedrich Merz come candidato alla Cancelleria. A metà novembre, i Verdi hanno
candidato alla Cancelleria il ministro dell’Economia Robert Habeck. Il 7
dicembre, la leader del partito di estrema destra AfD Alice Weidel verrà
nominata candidata alla Cancelleria. È una novità: per la prima volta alle
elezioni federali ci sono quattro candidati alla Cancelleria.
CDU-CSU
s'incontrano a Varsavia
La CDU e la CSU
stanno affinando il loro profilo di politica estera in vista delle prossime
elezioni. I vertici dei gruppi parlamentari di CDU e CSU del Bundestag, dei
Länder e del Parlamento europeo si incontrano a Varsavia per consolidare la
cooperazione tra Germania, Francia e Polonia. Uno degli obiettivi è quello di
potenziare i collegamenti ferroviari veloci tra Francia, Germania e Polonia.
Inoltre, nel documento di sintesi si legge che “l’apprendimento del francese e
del polacco nelle scuole in Germania acquisirà maggiore rilevanza, così come
verrà maggiormente promosso l’apprendimento del tedesco in Francia e in
Polonia”.
I vertici dei
gruppi parlamentari chiedono inoltre di non chiudere i Goethe-Institut nei
Paesi partner. Lo scorso anno la coalizione semaforo aveva chiuso diverse sedi,
comprese alcune in Italia. CDU e CSU accusano la coalizione rosso-verde-gialla
di non aver curato a sufficienza le relazioni con i due grandi Paesi confinanti
con la Germania: “La coalizione semaforo ha gravemente danneggiato le relazioni
con la Polonia e la Francia, mettendo a repentaglio il ruolo di guida della
Germania in Europa”.
Campagna
elettorale: la CDU presenta il nuovo simbolo
Con lo slogan “Di
nuovo avanti”, i Cristiano-democratici puntano a vincere le elezioni anticipate
del 23 febbraio 2025. “Vogliamo formare un governo stabile e in grado di
agire”, scrive il Segretario generale della CDU Carsten Linnemann in una e-mail
rivolta ai rappresentanti e ai funzionari di partito. “Sotto la guida di
Friedrich Merz, avvieremo il cambiamento politico urgentemente necessario che
riporterà la Germania in avanti”. Ed è stato presentato anche un nuovo simbolo:
su un cerchio su sfondo bianco nel colore del partito “turchese Cadenabbia” (la
località sul lago di Como in cui il Cancelliere Konrad Adenauer ha sempre
passato le sue vacanze estive), il nuovo motto si mostra accanto a un sigillo
nero-rosso-oro raffigurante la mappa della Germania. Il logo verrà utilizzato
per tutti i prodotti dei Cristiano-democratici in campagna elettorale.
Il candidato alla
Cancelleria e leader della CDU Merz ha dichiarato che il motto rappresenta “il
necessario cambiamento politico di cui il nostro Paese ha bisogno ora”. Le
elezioni serviranno a tracciare la prospettiva futura, per questo è pronto a
riportare la Germania in prima linea, “ai vertici mondiali nella crescita
economica e nell’innovazione, nella qualità della vita e nelle prospettive
future, nelle pari opportunità e nelle opportunità formative”. Il Segretario
generale della CDU Carsten Linnemann ha dichiarato che CDU e CSU mirano a
diventare di gran lunga i partiti più forti nelle prossime elezioni e a guidare
nuovamente il governo.
Scenari post
elettorali: il leader della CSU Söder preferisce l’SPD
Il leader della
CSU Markus Söder è a favore di un’alleanza con l’SPD. Prima, tuttavia, i
Socialdemocratici devono cambiare il loro atteggiamento verso la politica
migratoria e del Bürgergeld, l’equivalente tedesco del reddito di cittadinanza.
Il consenso tra la popolazione rafforzerebbe l’idea di una coalizione
rosso-nera: “La popolazione può immaginarsi un’alleanza del genere, che
promette maggiore stabilità nel Consiglio federale”, ha sottolineato il
governatore bavarese.
“Ma è anche chiaro
che una campagna elettorale ‘disonesta’ da parte di Olaf Scholz sarebbe
un’enorme aggravante”. Söder ha accusato il Cancelliere di “aver mancato una
transizione ordinata verso condizioni stabili.” Nel suo atteggiamento negativo
nei confronti dei Verdi, Söder ha mostrato un po’ più di disponibilità al
compromesso: “La frase di Friedrich Merz è chiara: con questi Verdi non si può
governare. Decisiva è sempre la linea di un partito”. Soprattutto nella
politica migratoria, i Verdi sono ancora sulla strada sbagliata. A settembre,
Söder aveva definito un’alleanza nero-verde come un “assoluto no-go”.
Bruxelles: la
Germania viola il tetto del debito
Ora anche la
Germania ha problemi con Bruxelles. Il bilancio del governo federale uscente,
per il prossimo anno, viola le raccomandazioni della Commissione Europea sul
rispetto delle regole europee sul debito. Le spese nette stimate dovrebbero
superare i massimali previsti. In questi casi, se gli Stati violano le norme UE
sul debito rischiano una procedura d’infrazione. Finora, il piano di bilancio
per il prossimo anno è stato approvato solo dal Consiglio dei ministri a
Berlino, comprese le rimanenti lacune nei finanziamenti nell’ordine di
miliardi.
La rottura del
governo semaforo ha impedito la delibera ancora necessaria in seno al
Bundestag. A partire dall’inizio del 2025 ci si attende quindi una
pianificazione di bilancio preliminare, come annunciato dal nuovo ministro
delle Finanze Jörg Kukies (SPD). In Germania il tetto di spese delle autorità è
stabilito per legge. Il bilancio definitivo potrebbe quindi essere deliberato
dal nuovo governo nella prossima primavera.
Crisi:
Thyssenkrupp Steel Europe annuncia tagli
Continua la crisi
dell’industria siderurgica. Ora la più grande azienda siderurgica tedesca,
Thyssenkrupp Steel Europe, annuncia per i prossimi anni tagli per diverse
migliaia di posti di lavoro. L’azienda ha comunicato che nell’arco di sei anni
il numero di posti di lavoro dovrebbe ridursi dagli attuali 27.000 a circa
16.000. Di conseguenza, circa 5.000 posti di lavoro saranno eliminati entro la
fine del 2030 in considerazione di “adeguamenti nella produzione e
nell’amministrazione”, mentre 6.000 ulteriori posti di lavoro saranno
esternalizzati o venduti a fornitori di servizi esterni. Inoltre, le spese del
personale saranno ridotte in media del 10% nei prossimi anni.
Per l’azienda
questi passaggi rappresentano punti chiave essenziali di una politica
industriale all’altezza delle sfide del futuro. Nell’immediato invece, le
decisioni del gruppo industriale rappresentano una reazione al persistere della
debolezza nella domanda. Si prevede quindi che le capacità produttive verranno
ridotte da 11,5 milioni di tonnellate all’anno a sole 8,7-9,0 tonnellate. Ciò
corrisponde al volume di spedizioni dell’esercizio finanziario precedente.
Nell’ambito della riorganizzazione, l’obiettivo dichiarato rimane di evitare
licenziamenti per motivi operativi.
“Libertà”: la
Merkel pubblica le sue memorie
“Non sono nata
Cancelliera”, così l’ex Cancelliera Merkel intitola il primo capitolo delle sue
memorie e descrive nel suo libro: "Libertà", per oltre un centinaio
di pagine (su circa 750), la prima metà della sua vita nella DDR, dall’infanzia
e l’adolescenza a Templin alla vita da giovane fisica a Berlino est. Nel libro,
il difficile rapporto con l’attuale leader della CDU e suo ex concorrente
Friedrich Merz (CDU) è trattato in modo breve e indolore. “È sempre stato un
buon oratore”, scrive l’ex Cancelliera Merkel, che ha sempre apprezzato il
fatto che “fosse anche consapevole del suo potere”. Ma c’era un problema, fin
dall’inizio: “Volevamo entrambi diventare leader”. Già nella prefazione, l’ex
Cancelliera promette anche riflessioni di carattere personale. “Oggi nominerò
ciò che considerai in modo sbagliato e difenderò ciò che ritenni giusto”. Ciò
riguarda in particolar modo il controverso tema della politica migratoria.
La famosa frase
“Wir schaffen das” (“Ce la faremo”) segnò senza alcun dubbio il suo
cancellierato come nessun’altra, e l’ex Cancelliera la difende senza riserve.
“Nessuna frase mi è stata rinfacciata così tante volte in tutta la mia carriera
politica come questa. Nessuna ha polarizzato in questo modo. Per me, ad ogni
modo, fu una frase banale. Era l’espressione del mio atteggiamento”.
E perché durante i
16 anni di governo Merkel la Germania è diventata sempre più dipendente dal gas
russo? L’ex Cancelliera Merkel risponde così alle accuse: il suo compito era
quello di fornire energia a basso costo, all’epoca mancavano maggioranze politiche
capaci di garantire una vera transizione energetica. Le memorie sono state
pubblicate contemporaneamente in più lingue, anche in italiano. L’11 dicembre
l’ex Cancelliera presenterà a Milano il suo libro al pubblico italiano.
Luoghi in
Germania: Cattedrale di Sant’Edvige a Berlino
Ispirata al
Pantheon di Roma, la cattedrale cattolica di Sant’Edvige, sede dell’arcivescovo
di Berlino anziché 2000 di anni ne ha solo 200. La caratteristica cupola del
centro storico venne gravemente danneggiata durante la guerra e si ritrovò nel
settore sovietico, l’ex Berlino est. La cattedrale venne poi ricostruita con
donazioni provenienti dall’occidente. Molti hanno trovato cupo l’interno della
chiesa con il suo pavimento di marmo nero. Ora, al termine di una
ristrutturazione durata quasi sei anni, l’interno risplende di tonalità bianco
chiaro, così come il pavimento in pietra calcarea.
Il nuovo altare si
trova al centro della chiesa circolare, le panche sono disposte in cerchio. I
critici lamentano che tutto ciò appare molto freddo, sobrio e addirittura
“protestante”, e ci si chiede: Si può sentire qui dentro il calore della fede?
Le opinioni sono divergenti. Dal punto di vista architettonico è comunque uno
spettacolo. Per farsi un’idea bisogna aver visitato la nuova cattedrale della
capitale tedesca, dove solo un abitante su dieci si professa cattolico.
SPD: proseguono i
dubbi sulla candidatura di Scholz
A meno di 100
giorni dalle elezioni anticipate del Bundestag, nella direzione del partito SPD
prosegue il dibattito se Olaf Scholz debba essere il candidato alla Cancelleria
o rinunciare, visti i negativi risultati dei sondaggi. Il leader del partito
Lars Klingbeil ha annunciato che nei prossimi giorni verrà fissata l’ulteriore
tabella di marcia per la campagna elettorale: “Si tratta di fare chiarezza, ne
va del nostro percorso comune. Vogliamo partecipare a questa campagna
elettorale con il Cancelliere Olaf Scholz. Tutti coloro che ricoprono
responsabilità ai vertici sostengono la sua candidatura“. Anche la
Co-presidente Saskia Esken ha ribadito che Scholz: “È il nostro Cancelliere e
il nostro candidato alla Cancelleria. Questa è una certezza”.
Ma la situazione
non sembra così chiara: facendo riferimento agli scarsi risultati dei sondaggi,
parlamentari, funzionari e membri dell’SPD, provenienti da tutto il Paese, si
erano espressi a favore del ministro della Difesa Boris Pistorius. L’ex leader del
partito Franz Müntefering, le cui opinioni sono rispettate nella SPD, ad
esempio, ha negato al Cancelliere Scholz la prerogativa della candidatura,
chiedendo, se necessario, una votazione aperta al prossimo congresso di
partito.
Il ministro
Pistorius respinge qualsiasi pensiero in chiave anti-Scholz: “Abbiamo un
Cancelliere davvero eccezionale, che in uno dei momenti più difficili della
Germania ha tenuto il timone in un complicato scenario a tre”, ha dichiarato il
ministro della Difesa, che resta fermamente convinto del fatto che “il
Cancelliere Olaf Scholz verrà nominato“. Egli stesso ha quindi intenzione di
continuare il suo lavoro come ministro. Tuttavia, i media hanno sottolineato
che finora Pistorius non ha espresso il netto rifiuto alla sua indisponibilità
e i giorni di Scholz potrebbero essere contati, prima di quanto si pensi.
La telefonata
Scholz-Putin crea forte imbarazzo
Una telefonata che
ha suscitato clamore in Germania e irritazione tra gli alleati: per la prima
volta in due anni, il Cancelliere Olaf Scholz e il leader russo Vladimir Putin
si sono parlati. Il Cancelliere Scholz, che ora deve difendersi dalle pesanti critiche,
ha esortato il Presidente Putin a porre fine alla guerra e al ritiro delle sue
truppe. “Il colloquio è andato nello specifico, ma ha permesso anche di
riconoscere che le opinioni del Presidente russo su questa guerra non sono
cambiate molto”, ha ammesso il Cancelliere Scholz prima della sua partenza per
il vertice del G20 di Rio. “Questa non è una buona notizia”.
L’Ucraina ha
severamente condannato l’iniziativa del capo del governo tedesco. Il
Cancelliere Scholz ha continuato ad assicurare pieno sostegno a Kiev,
affermando che “non ci sarà alcuna decisione sulla fine della guerra che non
coinvolgerà direttamente il popolo ucraino”. I partner UE a Bruxelles sono
rimasti sorpresi dell’azione solitaria, che a quanto pare non è stata
concordata, e dietro le quinte si è parlato di “dilettantismo”. “Il Cancelliere
Scholz è completamente isolato nell’UE”, affermano gli osservatori. Non sono
solo le opposizioni a sollevare forti critiche. Il Presidente Putin
“interpreterà il fatto che il Cancelliere Scholz lo abbia chiamato come un
segno di debolezza piuttosto che come un segnale di forza”, come emerge dalla
CDU, che ha accusato il Cancelliere di voler aiutare il Presidente Putin a
ottenere un “successo propagandistico” per motivi di politica interna. A quanto
pare, il Cancelliere Scholz “non ha presentato alcuna proposta concreta o
tantomeno ha dato un ultimatum a Mosca”, queste le critiche espresse dal
portavoce di politica estera del gruppo parlamentare CDU/CSU al Bundestag,
Jürgen Hardt. “Ma il Presidente Putin capisce solo i segnali di forza, come la
minaccia di aumentare in modo massiccio gli aiuti militari all’Ucraina.”
Anche i Verdi
hanno criticato la scelta del Cancelliere: “Olaf Scholz non è mai stato così
impotente come in questo momento”, si legge tra le loro file. “Solo per questo
il Presidente Putin ha accettato una telefonata, perché conosce la debolezza
del Cancelliere, che non ha più la maggioranza parlamentare”. Ora ci si domanda
se il Cancelliere Scholz non stia pianificando una campagna elettorale come
“Cancelliere della pace”. Secondo una loro portavoce, i Verdi si sono impegnati
a favore di una “pace della libertà”, non di una “pace nel senso della pace
tombale”. In Germania, infatti, molti osservatori ritengono che si tratti di
una tattica elettorale, in quanto Putin è consapevole che il Cancelliere
Scholz, dopo aver perso la maggioranza di governo e in vista delle elezioni
anticipate, è un’”anatra zoppa”. Con le sue azioni, il Cancelliere Scholz vuole
accattivarsi il favore di quegli elettori che chiedevano a tutti i costi una
rapida fine della guerra, dovesse anche significare la fine dell’Ucraina.
I Verdi nominano
il candidato alla Cancelleria
A poco più di una
settimana e mezza dalla fine della coalizione semaforo, i Verdi si sono riuniti
nel congresso di partito, inaugurando la campagna elettorale. Il ministro
dell’Economia Robert Habeck è il candidato prescelto alla Cancelleria. Il
Vicecancelliere e ministro degli Esteri Annalena Baerbock lo guiderà nei Verdi
come coppia al vertice verso le elezioni federali del 23 febbraio.
Nel suo discorso,
il ministro Habeck ha detto di voler assumersi la responsabilità come candidato
e per il popolo tedesco: “Se ciò ci porterà molto lontano, allora perché no
alla Cancelleria”. Il ministro Habeck ha ammesso gli errori commessi nel
governo della coalizione semaforo riguardo la legge sul riscaldamento, che gli
sono costati molto a livello di consensi, ma allo stesso tempo ha messo in
guardia da un governo composto da CDU/CSU e SPD: “La Grande Coalizione è la
ragione della stasi”.
Al contempo, il
ministro Habeck ha offerto al leader della CDU Merz la collaborazione sulla
riforma del freno all’indebitamento prima delle elezioni federali: “La nostra
mano è tesa per realizzare questa grande riforma del freno all’indebitamento,
prima delle elezioni”, ha affermato il Vicecancelliere Habeck, perché “il freno
all’indebitamento deve essere modificato per favorire gli investimenti“. I
delegati hanno anche eletto la nuova leadership: i nuovi Presidenti con pari
diritti sono la Segretaria di Stato parlamentare del ministero dell’Economia,
Franziska Brantner, e il deputato del Bundestag Felix Banaszak, della Renania
Settentrionale-Vestfalia.
I dipendenti
pronti ad aiutare Volkswagen
Lo squilibrio
finanziario della storica casa automobilistica Volkswagen preoccupa dipendenti
e sindacati. A rischio ci sono centinaia di migliaia di posti di lavoro. Il
sindacato dei metalmeccanici e il consiglio aziendale Volkswagen vogliono
ridurre i costi del gruppo, se necessario rinunciando anche allo stipendio per
evitare chiusure di stabilimenti e licenziamenti. Questo è quanto prevede un
piano per il futuro, che i rappresentanti dei lavoratori hanno presentato in
vista delle trattative salariali per il prossimo anno, e che consente uno
sgravio dei costi del lavoro di circa 1,5 miliardi di euro, come si afferma
negli ambienti che partecipano alle trattative.
Nel concreto, gli
operai propongono di inserire il prossimo aumento tariffario in un fondo per il
futuro a tempo determinato, invece di versarlo sui conti dei dipendenti, il che
consentirebbe riduzioni flessibili dell’orario di lavoro senza ridurre il personale.
Il criterio preso come riferimento è l’ultimo accordo pilota per l’intera
industria metallurgica ed elettrica, che prevede un aumento complessivo del
5,1% in due fasi entro il 2026.
In cambio, il
sindacato dei metalmeccanici e il consiglio aziendale richiedono garanzie alla
direzione riguardo sedi e occupazione. Inoltre, hanno chiesto di rimettere in
vigore la garanzia di assicurazione dell’impiego, annullata da Volkswagen a
settembre, la quale escludeva il licenziamento per motivi operativi: ciò
riguarda sia i sei stabilimenti automobilistici della Germania occidentale con
125.000 dipendenti in Bassa Sassonia e Assia, sia le tre sedi in Sassonia.
Gli italiani
vivono più a lungo dei tedeschi
In Germania i
cittadini vivono meno a lungo. Nonostante i massicci investimenti nel settore
sanitario, la speranza di vita media è scesa statisticamente per la prima volta
al di sotto della media UE a 81,2 anni. La Germania è quindi 2,6-3 anni
indietro rispetto a Spagna, Italia e Svizzera, questo è il sorprendente
risultato di uno studio condotto dall’OCSE. La spiegazione risiede nel fatto
che la speranza di vita in Germania è cresciuta più lentamente che in altri
Paesi, ha commentato l’OCSE. Il che è paradossale, perché la Germania è al
primo posto in Europa in termini di spesa pubblica per la salute.
Nel 2022 la spesa,
che era fortemente aumentata a causa della pandemia di coronavirus, è
leggermente diminuita, ma la Germania ha comunque speso il 12,6% del suo
prodotto interno lordo (PIL) per la sanità. Ciò equivale a una spesa di circa
5300 euro pro capite ed è un dato che si attesta orgogliosamente al di sopra
del 50% della media UE. Secondo i dati preliminari degli esperti, nel 2023 la
spesa sanitaria in Germania è scesa all’11,8% del PIL. La percentuale rimane
comunque la più alta nell’UE.
La Chiesa ricorda
la persecuzione in Nicaragua
Il vescovo Georg
Bätzing, presidente della Conferenza episcopale tedesca ha condannato
fermamente “la crescente repressione sistematica della Chiesa cattolica e delle
forze di opposizione” in Nicaragua in occasione della espulsione, avvenuta
nella scorsa settimana, del Presidente della Conferenza episcopale del
Nicaragua dal Paese centroamericano. Il vescovo Carlos Enrique Herrera
Gutiérrez aveva precedentemente espresso critiche al regime, i cui seguaci
avevano disturbato la Santa Messa davanti alla cattedrale.
“Come altri
vescovi, sacerdoti e religiosi, innumerevoli attivisti per i diritti umani e
oppositori, è diventato vittima dell’arbitrio statale”, ha detto in tono fermo
Bätzing. “La sua partenza forzata dimostra ancora una volta l’intolleranza del
regime e la sua determinazione a mettere a tacere le voci dissenzienti.
L’oppressione della Chiesa cattolica da parte della dittatura di Ortega è un
sintomo dell’autoritarismo di cui soffre il Paese“. In questo contesto, il
vescovo Bätzing ha fatto appello al governo tedesco e alla comunità
internazionale “affinché si impegnino maggiormente per i diritti di tutte le
persone in Nicaragua”, esortando al contempo alla preghiera per coloro “la cui
dignità umana e i diritti umani vengono calpestati”.
Luoghi in
Germania: Olympia Park di Monaco di Baviera
Monaco sta
valutando la possibilità di candidarsi alle Olimpiadi. Il vantaggio è che
l’infrastruttura sarebbe già presente. Come nessun’altra area sportiva al
mondo, il famoso Olympia Park nel nord-ovest della metropoli è sinonimo di uso
sostenibile: gli impianti sono infatti in funzione dai Giochi Olimpici del
1972. La torre della televisione è in fase di ristrutturazione, a breve
toccherà allo stadio, l’intero parco dovrebbe essere completamente rinnovato
entro il 2037, in tempo per le Olimpiadi del 2040. La Germania ha intenzione di
candidarsi per ospitare questi giochi, come hanno stabilito in estate il
governo e il Comitato olimpico tedesco (DOSB).
Il bando del
ministero dell’Interno sottolinea espressamente: “Le strutture sportive
esistenti devono essere sfruttate al massimo delle loro capacità per evitare
nuove costruzioni di infrastrutture sportive”. La capitale bavarese considera
gli impianti sportivi olimpici del 1972, sottoposti a completo rinnovamento,
come un bene importante da mettere sul piatto della bilancia.
Kas 21
Berlino. L’Intercomites alla riunione di coordinamento consolare dell’Ambasciata
Berlino. Si è
svolta sabato 16 novembre presso l’Ambasciata italiana a Berlino l’annuale
riunione di coordinamento consolare alla quale hanno partecipato i
rappresentanti della collettività, i membri CGIE eletti in Germania, le/i
Presidenti dei Comites, i Capi degli Uffici consolari e i Dirigenti
scolastici. Alla presenza dell’Ambasciatore Armando Varricchio, dei
Consoli e dei Dirigenti scolastici della Germania si è discusso dei servizi
consolari, della promozione della lingua italiana e della situazione degli enti
gestori, Comites e progetti a favore della collettività. “La
comunità italiana in Germania, con 909.338 residenti AIRE al 30 settembre 2024
risulta la seconda al mondo. È una comunità giovane, mobile e in continua
crescita e la prima per numero di nati da italiani residenti all’estero
(Rapporto Migrantes 2024), perciò i servizi e la lingua italiana risultano
fattori sempre più importanti”, sottolinea l’Intercomites Germania, in una nota
a firma della coordinatrice Simonetta Del Favero, che auspica nuove modalità e
tempistiche per l’erogazione delle risorse per sostenere gli enti gestori. “La
promozione della lingua italiana non serve solo a mantenere i contatti con la
madrepatria ma – evidenzia l’Intercomites – è anche un elemento identitario e,
pertanto se i figli degli italiani e delle coppie miste ricevono un supporto
attraverso la lingua sviluppano anche un’identità sociale più forte. La rete
scolastica è l’elemento più capillare all’interno della comunità. Il
mantenimento dell’identità sociale per la terza e quarta generazione è molto
importante perché – avverte – non si verifichino sbandamenti e situazioni di
conflitto sociale”. “Alla base della politica scolastica deve
esserci un pensiero e un progetto e su questo deve concentrarsi la
promozione del Sistema Italia, alla quale devono poter partecipare attivamente
anche i rappresentanti della collettività italiana, Comites e Consiglieri CGIE
eletti in Germania”, continua l’Intercomites che “considerata l’attuale
situazione” ritiene “importante e necessaria l’istituzione, a breve, di un
tavolo di lavoro sulla lingua italiana in Germania che deve avvenire con il
forte sostegno dell’Ambasciata”. L’Intercomites riferisce che durante la
riunione sono stati presentati “due importanti progetti in favore della
collettività italiana”. “L’Ambasciata ha presentato un progetto volto a
semplificare il linguaggio utilizzato nell’informativa all’utenza sui servizi
consolari. Richiesta fatta – si legge nella nota – dall’Intercomites
Germania in diverse riunioni per garantire ai connazionali l’utilizzo della
lingua semplificata sui siti della rete consolare, sulla base di quanto viene
fatto dall’amministrazione pubblica tedesca. Deve essere garantita a tutte/i la
possibilità di comprendere quanto scritto dalla nostra amministrazione,
semplificando così l’accesso alle informazioni”. “Il progetto -spiega
l’Intercomites – vedrà coinvolte tre classi di alcune scuole bilingui
italo-tedesche con lezioni frontali e attività laboratoriali di scrittura
chiara. La presentazione finale dei lavori di gruppo verrà fatta con la
partecipazione degli operatori consolari della rete in Germania”.
L’Intercomites Germania ha presentato il progetto di aggiornamento della Guida
“Primi Passi in Germania” cui partecipano tutti i Comites della Germania. “La
Guida aggiornata sarà disponibile all’inizio del 2025 e sarà resa disponibile
in formato digitale, con la possibilità per i singoli Comites, qualora lo
ritenessero opportuno, di commissionare delle copie cartacee”. “È stato confermato
il miglioramento della situazione dei servizi consolari, i dati presentati
durante la riunione dimostrano il forte aumento dei documenti rilasciati, dal
totale di 66.112 passaporti e CIE rilasciati nel 2019 a 106.068 nel 2023”
riferisce ancora l’Intercomites che auspica inoltre finanziamenti adeguati per
i Comites al fine di far fronte alle spese di gestione e di poter portare
avanti una programmazione. Si è parlato, tra i tanti punti, “anche dei
preparativi per il 2025 per celebrare i 70 anni dell’accordo italo-tedesco per
il reclutamento e il collocamento della manodopera italiana nella Repubblica
federale tedesca (1955). Diverse le iniziative in progetto che coinvolgeranno
Consolati, IIC, Comites e Associazioni varie”. “Con l’occasione abbiamo salutato
e ringraziato l’Ambasciatore Armando Varricchio che presto lascerà la sede di
Berlino”, conclude l’Intercomites Germania. (Inform/dip 27)
Amburgo. La mostra “Italia Rand Tour” all’IIC fino al 28 gennaio
Amburgo – Venerdì
29 novembre alle ore 19:00, in presenza degli artisti del collettivo
Babele e del curatore della mostra Gabriele Naddeo, l’Istituto Italiano di
Cultura di Amburgo inaugurerà una particolare mostra d’arte contemporanea
“Italia Rand Tour”, che resterà in esposizione presso le sale dell’Istituto
fino a 28 febbraio 2025. La partecipazione al vernissage è gratuita previa
registrazione tramite il portale Eventbrite: La mostra- curata da Gabriele
Naddeo, organizzata dall’Istituto Italiano di Cultura di Amburgo in collaborazione
con il Collettivo Babele – potrà essere visitata in concomitanza con gli eventi
in Istituto oppure dal lunedì al giovedì dalle 10.00 alle 13.00 e dalle 14.00
alle 16.00 e il venerdì dalle 10.00 alle 13.00. L’ingresso alla mostra è sempre
gratuito, ed è un’occasione preziosa per consentire a tutti i visitatori di
immergersi nell’interpretazione contemporanea dell’Italia proposta dal
collettivo Babele, un gruppo di giovani artisti che, attraverso le loro opere,
offrono una visione innovativa e originale del panorama culturale italiano
odierno. “Italia Rand Tour” è una mostra d’arte contemporanea che invita a
scoprire un’Italia meno conosciuta e periferica. Ribaltando l’idea tradizionale
dei Grand Tour – i viaggi con cui, nell’Ottocento, aristocratici, artisti e
scrittori europei visitavano le mete più celebri della Penisola –, il
collettivo Babele propone un viaggio all’estero, per mettere in luce la
bellezza spesso trascurata, quella che si trova ai margini, al bordo, in senso
letterale e figurato, e che in tedesco si dice der Rand, e che rischia di
essere dimenticata. In un itinerario turistico immaginario di oltre 1.600
chilometri attraverso l’Italia, i concetti di periferia e centro, così come
quelli di Nord e Sud, si fondono e si confondono, perdendo il loro significato
e lasciando spazio a una rete di luoghi, tecniche e materiali. La mostra
presenta 8 artisti, 8 opere e 8 destinazioni nascoste che offrono una
prospettiva nuova sul Bel Paese. I protagonisti di questa originale esposizione
sono gli artisti membri del progetto Babele, un collettivo unico nel suo genere
nato nel 2023 dall’intersezione di discipline, istanze e pratiche artistiche
anche molto diverse tra loro. Gli otto elementi contribuiscono a creare,
ciascuno con la propria tecnica e il proprio stile e linguaggio espressivo, un
mosaico di luoghi, tecniche e materiali che rappresenta la ricchezza e la
diversità dell’Italia meno frequentata e distante dai percorsi culturali
abituali. Le ceramiche di Matteo Bagolin, i dipinti di Francesco Campese e
Guglielmo Mattei, le sculture di Stefano Volpe e Alessandro D’Aquila e le opere
di Emanuele Moretti, Filippo Saccà e Ricardo Aleodor Venturi creano un percorso
espositivo che offre una prospettiva inedita sul nostro Paese. Attraverso i
loro lavori, gli artisti invitano il pubblico a scoprire la bellezza nascosta
nei dettagli e nei luoghi meno frequentati, stimolando al contempo una
riflessione sui legami culturali tra la Germania, che ospita la mostra, e
l’Italia, storica meta di riferimento per i viaggiatori in cerca di ispirazione
artistica fin dal XVIII secolo. La mostra Italia Rand Tour si arricchirà di una
piccola ma significativa appendice nella vetrina di Felix Jud, storica libreria
situata nel cuore della città. L’esposizione sarà visitabile fino al 28
febbraio 2025 e culminerà con un evento speciale: la partecipazione di Pietro
Scarnera, illustratore e fumettista torinese, autore del graphic novel Viaggio
in Italia, che sarà l’ospite d’onore della cerimonia di chiusura presso gli
spazi dell’Istituto Italiano di Cultura della città anseatica. (Inform/dip 29)
Mostra su Carpaccio alla Staatsgalerie di Stoccarda. Fino al 2 marzo 2025
Stoccarda - È
stata inaugurata il 13 novembre presso la Staatsgalerie Stuttgart alla presenza
dell’ambasciatore d’Italia in Germania, Armando Varricchio, la prima mostra in
Germania interamente dedicata a Vittore Carpaccio.
Aperta al pubblico
sino al 2 marzo 2025, la mostra è intitolata “Carpaccio, Bellini e il Primo
Rinascimento a Venezia” si svolge in occasione del 500° anniversario della
morte dell’artista italiano.
La Staatsgalerie
Stuttgart ha colto l’occasione del restauro di due opere facenti parte della
sua collezione per presentarle ad un vasto pubblico assieme ad altri 55 lavori
tra pitture e grafiche su carta, tra i quali prestigiose opere provenienti da
Venezia, Firenze, Budapest e Washington, anche di altri artisti quali Giovanni
e Gentile Bellini, Lorenzo Lotto, Albrecht Dürer e Hans Burgkmaier.
Carpaccio, allievo
dell’altrettanto rinomato pittore veneziano Giovanni Bellini, con la sua
virtuosità artistica e grandiosa immaginazione inscena i suoi soggetti e i suoi
ritratti con grande ricchezza di colori e dettagli a testimoniare la vita
quotidiana dell’epoca, con la città lagunare sullo sfondo.
In occasione
dell’inaugurazione della mostra, curata da Annette Hojer e Christine Follmann,
dopo il saluto della direttrice Christiane Lange, l’ambasciatore Varricchio ha
ricordato come la Staatsgalerie Stuttgart abbia “sempre dimostrato
un’attenzione particolare per l’arte italiana, mettendo anche l’artista o gli
artisti esposti continuamente in raccordo con il proprio tempo e il proprio
territorio”.
In mostra a
Stoccarda, ha proseguito l’ambasciatore, è possibile vivere “Venezia come luogo
di scambio e di sinergia. Le opere esposte ci ricordano quanto forti fossero le
influenze reciproche e quanto radicato fosse già all’epoca il rapporto tra la
cultura italiana e quella tedesca”, ha aggiunto. “In questa prospettiva,
guardiamo anche oggi alle relazioni tra Italia e Germania, che continuano a
beneficiare intensamente dei contributi artistici e culturali l’uno
dell’altro”.
(aise/dip 15)
Berlino: le recenti manifestazioni all’Ambasciata
Berlino - “La
dieta mediterranea e la cucina delle radici: salute e tradizione” è il tema
della Settimana della Cucina Italiana nel Mondo e anche della serata ospitata
la sera del 13 novembre in Ambasciata a Berlino.
L’evento, volto a
promuovere la cucina e i prodotti agroalimentari italiani di qualità, è stato
organizzato in collaborazione con l’Agenzia ICE di Berlino all’interno della XI
Settimana della Cucina italiana nel Mondo, iniziativa del Ministero degli Esteri
che intende celebrare l’eccellenza culinaria italiana a livello mondiale. Il
focus è la valorizzazione del riconosciuto ruolo della Dieta Mediterranea per
la tutela della salute, nel quadro di uno stile di vita sano, equilibrato e
sostenibile. È implicito l’uso di prodotti tipici autentici di qualità e la
tutela delle risorse naturali e delle tradizioni locali, anche a sostegno della
sostenibilità.
Nell’ambito della
discussione a Berlino, moderata dalla presentatrice televisiva italo-tedesca
Stefania Lettini, è intervenuto il cofondatore di “Made in Sicily” Davide
Morici, seguito da Daria Pusceddu, trade marketing manager del Pastificio
Felicetti, Beatrice Bridi, business developer della start-up di tecnologia
alimentare Feral, e Matthias Schulze, capo del Dipartimento di Epidemiologia
Molecolare dell’Istituto Tedesco di Nutrizione Umana di Potsdam.
Nell’occasione
l’Agenzia ICE di Berlino ha altresì allestito la mostra sugli “Italianismi nel
Mondo” della Fondazione Artusi, promotrice della candidatura della cucina
italiana a patrimonio UNESCO e “Ambassador” della Regione Emilia Romagna. Il
progetto, realizzato in collaborazione con il Ministero degli Affari Esteri,
racconta attraverso alcune parole della cucina italiana la straordinarietà
della cultura gastronomica nazionale.
Ieri, 14 novembre,
è stata invece presentata a un pubblico di esperti dell’industria alimentare la
fiera più importante a livello mondiale nel settore del Foodservice “SIGEP
World” che avrà luogo a Rimini nel gennaio 2025. Al panel moderato da Chiara
Peruzzi, marketing manager della Fiera, hanno partecipato rappresentanti di
SIGEP Word e del settore, quali Flavia Morelli del Group Exhibition Manager,
Jochen Pinsker di CIRCANA, Gerhard Schenk, presidente dell’Associazione tedesca
dei pasticceri, Giorgio Ballabeni, co-fondatore di Ballabeni Icecream di
Monaco, e Markus Elberg, direttore di Janny’s Ice Gmbh.
L’eccellenza
scientifica italiana
L’eccellenza
scientifica italiana è stata protagonista di un doppio evento che si è tenuto
martedì 19 novembre per celebrare il riconoscimento del network SIGN degli
scienziati italiani in Germania come associazione no-profit da parte delle
autorità tedesche.
L’Ambasciata
d’Italia ha ospitato il panel “AI in molecular, material and medical science:
an invaluable tool to accelerate the path from research to application” e la
cerimonia di conferimento dell’onorificenza dell’Ordine della Stella d’Italia
nel grado di Ufficiale agli scienziati Cecilia Clementi e Gianaurelio
Cuniberti.
“I numeri della
cooperazione scientifica tra Germania e Italia sono impressionanti e in
costante crescita”, ha osservato l’ambasciatore Armando Varricchio. “Per la
prima volta nella storia, questa è la seconda comunità di professori stranieri
e la prima di quelli non di madrelingua tedesca. Molti di questi scienziati
sono membri di SIGN, la rete degli scienziati italiani in Germania,
co-organizzatrice di questo evento. E stasera siamo felici di celebrare un
momento importante nella giovane storia del SIGN, ovvero il suo riconoscimento
da parte delle autorità federali come organizzazione no-profit”.
A ricevere per
mano dell’ambasciatore Varricchio l’onorificenza dell’Ordine della Stella,
concessa dal presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella e nata per
ricompensare benemerenze acquisite nello sviluppo dei legami con l’Italia e la
promozione del prestigio italiano all’estero, sono stati due scienziati di
rilievo internazionale che da anni operano in Germania.
Cecilia Clementi è
la prima e unica scienziata italiana insignita di una prestigiosa cattedra
Einstein alla Freie Univesität di Berlino. Dal giugno 2020 la Professoressa
Clementi è infatti titolare della cattedra Einstein di Biofisica teorica e
computazionale, specializzandosi nella simulazione al computer delle
biomolecole, moderno campo di ricerca che coniuga fisica e biologia. “Negli
anni, il costante impegno della professoressa Clementi nel promuovere
l’eccellenza scientifica italiana in Germania ne ha fatto un vero punto di
riferimento per le giovani generazioni di ricercatori italiani desiderosi di
dare un impulso internazionale alle loro carriere nel campo della biofisica”,
ha sottolineato l’ambasciatore durante la cerimonia di conferimento dell’onorificenza.
Gianaurelio
Cuniberti è ordinario titolare della cattedra di Scienza dei Materiali e
Nanotecnologia presso il Politecnico di Dresda (TU Dresden) e co-direttore
presso il centro di biomateriali Max Bergmann; inoltre è membro fondatore e
primo direttore esecutivo del network SIGN, l’associazione senza scopo di lucro
dei ricercatori italiani operanti in Germania. Un impegno per il quale Armando
Varricchio lo ha ringraziato, ricordando che, “oltre all’eccellenza accademica,
il professor Cuniberti si è sempre distinto per il fatto di ricoprire posizioni
di rilievo presso istituzioni sia italiane che tedesche”, dimostrando un
“costante impegno di promozione dell’eccellenza italiana in Germania”.
A seguito della
cerimonia di conferimento dell’onorificenza, la serata dedicata alla scienza è
proseguita con il panel “AI in molecular, material and medical science: an
invaluable tool to accelerate the path from research to application” incentrato
sulle applicazioni scientifiche dell’intelligenza artificiale. Al panel hanno
partecipato Clementi e Cuniberti, insieme a Esther Troost del Politecnico di
Dresda, Frank Noé di Microsoft Berlin e Daniele Passerone del Politecnico
Federale di Zurigo, che hanno discusso dei più recenti sviluppi
dell’intelligenza artificiale nei rispettivi campi di ricerca.
Onorificenza OMRI
a Roland Busch
L’ambasciatore
d’Italia in Germania, Armando Varricchio, ha consegnato il 26 novembre, al
presidente e ceo di Siemens AG, Roland Busch, l’onorificenza dell’Ordine al
Merito della Repubblica Italiana nel grado di Commendatore conferitagli dal
presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
“Questo encomio è
un’attestazione della costante dedizione del signor Busch nel promuovere con
successo il ruolo di Siemens in Italia e un’attestazione di come abbia saputo
incentivare l’automazione, la digitalizzazione e la trasformazione digitale in
vari settori industriali”, ha sottolineato l’ambasciatore Varricchio, ribadendo
anche come il dialogo informale tra le comunità imprenditoriali italiana e
tedesca sia fondamentale per dare efficacia alle azioni intraprese a livello
governativo.
In qualità di
amministratore delegato della Siemens, come recitano le motivazioni ufficiali
dell’onorificenza, Roland Busch si è contraddistinto per l’impegno nel favorire
la collaborazione italo-tedesca anche sul piano tecnologico e dell’innovazione,
gestendo processi complessi in un percorso economico che ha dato e continua a
dare beneficio alla crescita delle relazioni italo-tedesche.
Il 12º “Dialogo
italo-tedesco sui servizi finanziari”
L’Ambasciatore
italiano a Berlino, Armando Varricchio ha ospitato il 28 novembre l’evento di
apertura del “Dialogo italo-tedesco sui servizi finanziari” con la
partecipazione degli illustri membri delle Delegazioni italiana e tedesca,
rispettivamente guidate dal Presidente di Unicredit Pietro Carlo Padoan e dalla
Direttrice generale della Federazione tedesca delle Casse di risparmio DSGV
Karolin Schriever.
Joachim
Wuermeling, docente e consulente presso la European School of Management and
Technology (ESMT) in materia di finanza digitale è intervenuto in qualità di
relatore ospite della serata.
Il Dialogo
italo-tedesco sui servizi finanziari, iniziativa coordinata per parte tedesca
dal German Banking Industry Committee (DK – Deutsche Kreditwirtschaft) e per
parte italiana dalla dalla FeBAF – Federazione Banche Assicurazioni e Finanza,
ha come scopo il confronto sulle principali sfide poste dallo stato del sistema
finanziario europeo. Molteplici gli argomenti al centro della dodicesima
edizione di oggi, 29 novembre, tra i quali i rapporti Draghi e Letta le
prospettive per la competitività europea, la strategia europea degli
investimenti al dettaglio per le imprese finanziarie e di assicurazioni e gli
sviluppi della digitalizzazione.
“Questi incontri
dimostrano quanto sia profondo e proficuo lo scambio di idee in materia
finanziaria e politica tra Italia e Germania”, ha detto l’Ambasciatore
Varricchio, sottolineando come questo dialogo assuma oggi “una rilevanza ancora
maggiore, in quanto si inserisce nel quadro del Piano d’azione italo-tedesco,
firmato a Berlino quasi esattamente un anno fa dal Presidente del Consiglio
Giorgia Meloni e dal Cancelliere federale tedesco Olaf Scholz”. (aise/dip 29)
Il Circolo Acli Karlsfeld 60° di fondazione
Karlsfeld. Il
Circolo ACLI di Karlsfeld ha celebrato con grande entusiasmo il suo 60°
giubileo, un evento che ha visto la partecipazione di numerosi soci e
simpatizzanti. Nel suo discorso, il presidente del Circolo, Mauro Sansone, ha
espresso la sua gratitudine a tutti coloro che hanno contribuito al successo
del circolo e che continuano a sostenerlo con la loro adesione al tesseramento.
Ospite d'onore
della serata è stato il presidente delle ACLI Baviera, Carmine Macaluso, il
quale ha evocato con passione l'impegno e le battaglie che le ACLI hanno
affrontato nel corso degli anni.
La tradizionale
“Castagnata” ha fatto da splendida cornice all'evento del giubileo. I
partecipanti si sono divertiti con il karaoke, mentre gustavano la buona cucina
del Ristorante La Capannina e le caldarroste appena sfornate dalla griglia.
La celebrazione
del 60° giubileo del Circolo ACLI di Karlsfeld ha unito la comunità in
un'atmosfera di gioia e condivisione. Con il cuore colmo di gratitudine,
guardiamo al futuro con speranza e determinazione, pronti a continuare il
nostro impegno per il bene comune. Che i prossimi anni siano altrettanto ricchi
di soddisfazioni e che il Circolo ACLI di Karlsfeld possa continuare a crescere
e prosperare, mantenendo vivi i valori di solidarietà e amicizia che ci
uniscono. Fernando Grasso, dip 19
Deceduto il fondatore della Famiglia Bellunese del Nordreno Westfalia Aduo
Vio
Belluno si prepara
a dare l’ultimo addio ad Aduo Vio, fondatore e presidente onorario della
Famiglia Bellunese del Nord Reno-Westfalia, in Germania. I funerali si terranno
mercoledì prossimo, 20 novembre, alle ore 15.00 presso la Cattedrale di
Belluno, in una cerimonia che vedrà la partecipazione di familiari, amici, e
rappresentanti delle comunità bellunesi sparse per il mondo.
A presiedere la
celebrazione della Santa Messa sarà il vescovo di Belluno-Feltre, Renato
Marangoni.
Aduo Vio è stato
una figura di riferimento per la comunità bellunese all’estero e, in
particolare, per quella residente in Germania. La sua vita è stata dedicata a
mantenere vivi i legami con la terra d’origine, creando ponti culturali e
sociali tra Belluno e il Nord Reno-Westfalia, dove molti emigrati bellunesi
hanno trovato una nuova casa. Grazie al suo impegno, la Famiglia Bellunese del
Nord Reno-Westfalia è divenuta un punto di riferimento importante per gli
emigranti, facilitando l'integrazione e mantenendo vive le tradizioni culturali
e sociali bellunesi anche lontano da casa.
Alla cerimonia di
addio, oltre al Vescovo Marangoni, sarà presente anche Giorgio Fornasier, la
cui voce accompagnerà la funzione religiosa, offrendo un tributo musicale in
memoria di Vio. Un momento che si preannuncia particolarmente toccante per la
comunità, che vuole ricordare e onorare una persona che ha dato così tanto a
Belluno e ai suoi concittadini all’estero.
Il presidente
dell'Associazione Bellunesi nel Mondo, Oscar De Bona, ha espresso il dolore di
tutta la comunità per la scomparsa di Vio, definendolo “una persona generosa
per la sua terra natia, orgoglio di Belluno e di tutto il Bellunese”. La
partecipazione dei bellunesi sarà ampia, come segno di riconoscenza e di
affetto per l’uomo che, con dedizione e altruismo, ha saputo essere un ponte
tra passato e futuro per tanti emigrati, mantenendo vivo l'amore per Belluno
anche in terre lontane. “Aduo Vio lascia un’eredità importante, fatta di legami
forti e di una rete di amicizie e connessioni che continueranno a prosperare
grazie al suo esempio”. (aise/dip 19)
ROMA – Si è svolta
a Roma, presso la Farnesina, la riunione del Comitato di Presidenza del Cgie.
Le questioni affrontate durante i lavori del Comitato sono state illustrate nel
corso di una conferenza stampa introdotta dalla Segretaria Generale Maria Chiara
Prodi che ha esordito: “A me piace immaginarci come una squadra che include
tutti i consiglieri del Cgie, dei Comites, le Consulte regionali e le reti
delle associazioni italiane all’estero sul territorio. Siamo circa 2000
volontari nella rete della rappresentanza di base e rappresentiamo gli italiani
all’estero, che ormai sono il 10% della popolazione residente in Italia. Siamo
quindi un anello fondamentale di una catena fra l’Italia e i connazionali nel
mondo che non si deve spezzare. E per rendere più forte questo anello noi
agiamo in maniera collegiale trattando i temi che ci vengono segnalati dalle
nostre comunità all’estero e dalle istituzioni con cui collaboriamo”. Dopo
questa introduzione Prodi ha rilevato come il Cgie sia stia muovendo su due piani,
uno di lungo periodo, volto all’ascolto e al consiglio delle istituzioni che si
occupano degli italiani all’estero, e un altro di breve periodo riguardante il
momento attuale. “Sulle questioni del breve periodo – ha spiegato la Segretaria
Generale – abbiamo affrontato alla Camera e al Senato i temi della legge di
bilancio che preoccupano in particolare i nostri connazionali nel mondo, come
ad esempio il problema della perequazione per i nostri pensionati all’estero,
in proposito noi pensiamo che i diritti acquisti difficilmente vadano toccati ,
e questo per noi è un tema di principio. Poi – ha continuato Prodi – c’è il
tema dei finanziamenti alle nostre reti di rappresentanza, come i Comites e il
Cgie. Noi abbiamo una legge istitutiva e dobbiamo onorarla. Per svolgere
il nostro ruolo abbiamo bisogno di risorse adeguate per effettuare gli incontri
in presenza”. La Segretaria Generale ha poi segnalato come il tema della
cittadinanza rappresenti una priorità per il prossimo semestre di lavoro del Cgie.
Su questo punto verrà avviato un confronto di base sui territori, in primo
luogo con i Comites. Altre tematiche, condivise con i territori, saranno la
messa in sicurezza del voto all’estero, la proposta di riforma del Cgie, quella
dei Comites è stata già consegnata al Parlamento, e una riflessione sulla nuova
mobilità incentrata sulla possibilità di dare vita ad una mobilità circolare.
Prodi è poi tornata sul tema delle risorse per il funzionamento minino del Cgie
che dovrebbero attestarsi intorno ad 1 milione e centomila euro e che al
momento sono ferme a 548.000 euro. “La cosa per noi essenziale – ha aggiunto la
Segretaria Generale – è procedere alla realizzazione della Conferenza Stato –
Regioni- Provincie autonome – Cgie, perché questo appuntamento si deve svolgere
ogni tre anni e la prossima Conferenza doveva avere luogo nel dicembre 2024.
Non possiamo far passare troppo tempo per la convocazione perché nella
complessità di rappresentare tante persone c’è la sfida di costruire un fronte
comune con le istituzioni interessate da queste tematiche, per sviluppare una
programmazione triennale e darci gli strumenti per poter dimostrare il nostro
impegno”. Ha poi preso la parola la Vice Segretaria Generale per i Paesi
Anglofoni extraeuropei Silvana Mangione che si è in primo luogo soffermata
sulla riforma del voto all’estero. “Al momento – ha esordito – vi sono proposte
di legge che ridimensionano e mettono a rischio il voto all’estero. Tra le
proposte avanzate vi è quella del voto elettronico, uno strumento stupendo, ma
bisogna ricordare che non tutti i Paesi dove vivono gli italiani all’estero
hanno la capacità di garantire una connessione capillare necessaria per il voto
elettronico…. Per quanto riguarda la possibilità di continuare a votare con le
schede cartacee – ha proseguito la Vice Segretaria – noi chiediamo che queste
vengano stampate in Italia con uno specifico marchio, in modo da rendere
estremamente difficile la loro eventuale riproduzione. Siamo invece
decisamente contrari all’introduzione della registrazione preventiva
dell’opzione di voto”. Mangione ha inoltre auspicato sia un allineamento fra i
registri consolari e quelli del Ministro dell’Interno riguardanti gli italiani
all’estero, sia la realizzazione di una riforma della legge istitutiva del Cgie
, resa necessaria dall’adattamento della rappresentanza ai nuovi contesti di
oggi. Della necessità di porre atto politiche concrete per incentivare il
ritorno degli italiani all’estero e porre così un freno all’inverno demografico
in Italia ha parlato il Vice Segretario Generale per l’Europa e l’Africa del
Nord Giuseppe Stabile. “Si tratta – ha spiegato – di rendere gli italiani
all’estero una risorsa effettiva per il Paese. Sette milioni di italiani
all’estero che vanno nel mondo e poi non ritornano pongono un problema
demografico molto serio”. “Oggi assistiamo a una nuova emigrazione di
italiani, simile alle dimensioni di quelle del passato, ma diversa per luoghi
di origine e tipologia di persone. Sono giovani laureati e diplomati che
lasciano le regioni settentrionali. Vogliamo comprendere perché se ne vanno, e
capire quali possano essere le politiche per farli tornare” , ha aggiunto
Stabile sottolineando come gli incentivi sul ritorno dei “cervelli in fuga” non
coprano tutta la variegata presenza degli italiani nel mondo. Il Vice
Segretario Generale per l’America Latina Mariano Gazzola ha invece affrontato
il tema della cittadinanza sottolineando la necessità di evitare
strumentalizzazioni e stigmatizzazioni quando si parla di questo tema. “Il tema
della riforma della cittadinanza – ha rilevato Gazzola – va analizzato e
discusso, ed è compito del Cgie lavorare a delle proposte per il Parlamento.
Qui non si tratta di porre dei limiti generazionali, ma di adattare la legge
alla realtà odierna, partendo dalla considerazione che un bambino che oggi
nasce a Buenos Aires da discendenti italiani è italiano e che ogni modifica
della legge sulla cittadinanza può cambiarne il futuro”. Il Vice
Segretario ha poi ribadito la sua contrarietà all’introduzione di limiti, ma si
è detto favorevole a possibili meccanismi volti alla verifica dell’identità. Di
cittadinanza ha parlato anche il Vice Segretario Generale di Nomina governativa
Gianluca Lodetti, “Per la cittadinanza – ha evidenziato Lodetti – noi siamo
nella necessità di aggiornare un istituto che ha molti anni. Dobbiamo
rispondere ai grandi cambiamenti che la nostra società e le nostre comunità
all’estero hanno prodotto in questi anni. Su questo tema – ha continuato il
Vice Segretario – dobbiamo partire dalle cose che uniscono e non dalle cose che
dividono. La riflessione che faremo con l’associazionismo e la rappresentanza
oltre confine è sul valore dell’identità italiana, sul fatto che un cittadino
debba essere in qualche modo legato, conoscendo anche i diritti e i doveri, ai
fondamenti della nostra costituzione e della nostra lingua. Partiamo quindi da
elementi concreti che uniscono sia le persone che immigrano in Italia, sia
coloro che oltre confine chiedono il riconoscimento della cittadinanza. La
cittadinanza deve essere quindi il più possibile un istituto consapevole”.
Lodetti ha anche parlato dell’esigenza di proporre incentivi e di costruire
politiche lavorative e industriali capaci di creare una circolarità nella nuova
emigrazione. Un’emigrazione che va anche accompagnata nel suo viaggio
all’estero. Da segnalare infine l’intervento del componente del Comitato di
Presidenza per l’Europa e l’Africa del Nord Tommaso Conte che ha ripercorso la
storia dei finanziamenti pubblici per gli enti gestori volti alla promozione
della lingua e cultura italiana all’estero, rilevando come oggi molti enti
siano in seria difficoltà a causa delle nuove tempistiche nell’erogazione dei
fondi. Conte ha anche rilevato come a tutt’oggi, in una emigrazione composta
anche da famiglie con bambini piccoli, rimanga centrale il rafforzamento della
propria identità culturale. In proposito Conte ha spiegato l’esigenza di
considerare che nella diffusione della lingua e della cultura italiana e nel
mantenimento della identità culturale, si dovrebbero tenere conto anche delle
specificità presenti nelle varie nazioni. Ad esempio, secondo il Consigliere,
negli Stati Uniti si parla della diffusione della lingua e cultura
italiana, mentre in Europa dove vi sono anche italiani di prima generazione
quello che è importante è il mantenimento dell’identità culturale. Un contesto,
quest’ultimo, che oggi, per Conte, appare a rischio. (Lorenzo Morgia, Inform/dip
28)
Cittadinanza consapevole, voto sicuro, riforme: il CGIE programma il futuro
ROMA - Spingere
per una legge di "cittadinanza consapevole", fuori da
"strumentalizzazioni e generalizzazioni". Lavorare per la messa in
sicurezza del voto all'estero, organizzandosi, partecipando e attuando il ruolo
di sintesi che spetta alla rappresentanza degli italiani all'estero. Attuare
incentivi per il rientro degli italiani all'estero, mettendo a punto una
mobilità che sia del tutto circolare. Riformare i Comites e il Consiglio
Generale degli Italiani all'estero, adattandosi alla nuova emigrazione e magari
anche costituzionalizzando il CGIE. Il tutto cercando di confrontarsi con i
territori, con le istituzioni e anche fra membri del CGIE stesso, che però
"devono svolgersi nelle modilià previste dalla legge", perché
"abbiamo diritto di votare e di potere organizzarci". E, dunque, di
fondi adatti allo svolgimento di queste funzioni.
È quanto spiegato
questo pomeriggio dalla Segretaria Generale del CGIE, Maria Chiara Prodi, nella
conferenza stampa al termine della riunione del Comitato di Presidenza del
CGIE, riunitosi alla Farnesina da lunedì scorso fino ad oggi.
Tre macro temi,
dunque, su cui "ci concentreremo" nel prossimo futuro e sui quali
"vogliamo ricevere i contributi dei territori": cittadinanza,
sicurezza del voto all'estero e nuova emigrazione. "Noi - ha aggiunto
ancora Prodi - abbiamo un ruolo di sintesi e interagiamo con i decisori. E
questa sintesi non può essere fatta in una piccola stanza. Abbiamo 2 mila
volontari e vogliamo sintetizzare per avere una voce molto più forte, molto più
organizzata e che dia risalto alle istanze dei 7 milioni di cittadini italiani
all'estero. C'è una sfida: assorbire l'aumento degli italiani nel mondo
all'interno delle nostre reti, che sono essenziali per far sentire ad ogni
italiano all'estero di essere parte di una comunità".
Una delle
preoccupazioni più rilevanti emerse è stata la questione fondi: "al
momento abbiamo 548 mila euro di stanziamento, cioè un taglio del 5% rispetto
all'anno precedente". Però "speriamo di poter avere delle ottime
novità dal Parlamento e dal Governo per riuscire a supportarci nella maniera
corretta nelle nostre attività". La segretaria Prodi ha dunque voluto
ringraziare la Direzione Generale degli Italiani all'Estero e la Farnesina per
aver valutato e poi trasmesso i bisogni del CGIE in 1 milione e 100 mila euro.
"Con questi finanziamenti avremmo diritto a una plenaria e a un comitato
di presidenza, ma la legge istitutiva prevede altro e noi vorremmo onorarla.
Non possiamo essere responsabili per il non adempimento della legge istitutiva.
Vogliamo essere giudicati su quello che dobbiamo fare".
In ultimo, il
Comitato di Presidenza ha voluto anche rimarcare la volontà di procedere nella
Conferenza Permanente Stato-Regioni-Province autonome-CGIE: "deve essere
tenuta ogni tre anni e non dobbiamo far passare troppo tempo. Dobbiamo
costruire un orizzonte comune interagendo con le istituzioni interessate dal
fenomeno migratorio, programmando il futuro triennio e includendo tanti dei 7
milioni di italiani all'estero che desiderano collaborare e moltiplicare le
opportunità per l'Italia. Non dobbiamo dire che "siamo
un'opportunità" ma dobbiamo darci gli strumenti per poterlo
dimostrare".
Inizia, dunque, un
"periodo di proposte di riforme", ha detto prendendo parola la Vice
Segretaria Generale per i Paesi Anglofoni extraeuropei, Silvana Mangione,
partendo dalla riforma sul voto all'estero. Quello del voto diretto dei propri
rappresentati è un diritto conquistato e ora "messo in pericolo da
proposte giacenti in parlamento". Per riformarlo ed evitare brogli si
parla spesso del voto elettronico, e anche il CGIE ne sta discutendo, anche se
sono emerse diverse criticità: "non tutti i paesi dove si trovano gli
italiani hanno le stesse capacità. Alcuni non sono adatti". E sempre per
evitare i brogli, Mangione ha spiegato la loro richiesta: "schede stampate
in Italia con il marchio ad acqua". Altra questione è la riforma della
legge costitutiva del CGIE, che è datata 1998: "vorremmo adattarla ai
tempi e alle diverse realtà delle comunità". Ma soprattutto "vorremmo
costituzionalizzare il CGIE e il voto all'estero, rendendo impossibile per i
residenti in Italia la possibilità di candidarsi all'estero".
Il Vice Segretario
Generale per l’Europa e l’Africa del Nord, Giuseppe Stabile, si è concentrato
invece sul tema degli incentivi per il ritorno in Italia: "è fondamentale
mettere un freno all'inverno demografico partendo anche dai connazionali oltre
confine. Si tratta di rendere questa risorsa effettiva. Accendiamo i riflettori
su questo tema prioritario per gli interessi del Paese". Inoltre, Stabile
si è voluto rivolgere a tutti gli italiani all'estero: "siamo presenti e
vi ascoltiamo". "Vogliamo comprendere perché se ne vanno - ha
concluso spiegando il lavoro del prossimo futuro -, vogliamo capire se vogliono
tornare e quali sono le politiche concrete per farlo".
Mariano Gazzola,
Vice Segretario Generale per l’America Latina, ha parlato invece della
questione "identità italiana", "che spesso si manifesta in modi
diversi da paese e paese, ma non significa che non esista". Da questo
presupposto Gazzola ha fatto una richiesta: "evitate di cadere nelle
generalizzazioni e nelle stigmatizzazione delle comunità italiani
all'estero". E per questo "il CGIE non si nasconde dietro un dito ma
lavoriamo per realizzare delle proposte per il parlamento".
Anche Gianluca
Lodetti, Vice Segretario Generale di Nomina governativa, si è soffermato su
cittadinanza e nuova emigrazione. Riguardo la cittadinanza ha detto: "per
noi è importante partire dalle cose che uniscono non da quelle che differiscono
(tipo i limiti generazionali). Un cittadino, secondo noi, deve essere collegato
ai fondamenti della costituzione e della lingua. Elementi concreti che uniscono
le persone che arrivano in Italia e gli italo-discendenti. Per questo la
cittadinanza deve essere un istituto consapevole, dei diritti, dei doveri e
della conoscenza della lingua".
Riguardo la nuova
migrazione, invece, ha spiegato: "è necessario costruire politiche per
integrare la circolarità delle migrazioni. Il tutto parte dal costruire
politiche di lavoro, industriali". E per farlo "servono servizi
adeguati".
Infine è
intervenuto Tommaso Conte, Componente del CdP per l’Europa e l’Africa del Nord,
che si è concentrato sulla situazione "fallimentare" in cui versano
gli enti gestori per la promozione dei corsi della lingua italiana: "hanno
sempre avuto avuto problemi economici ma mai come oggi. Ci sono bambini di
prima generazione che nascono all'estero che non trovano i corsi di lingua. Non
ci sono quasi più associazioni. Gli emigrati italiani ad oggi sono lasciati a
loro stessi. Il mantenimento dell'identità culturale sta morendo. E la DGDP se
ne chiama fuori". (luc.matteuzzi\ aise/dip 28)
1000 giorni di conflitto in Ucraina, i missili Atacms in suolo russo. Cosa
ci aspetta?
Il Parlamento
europeo celebra la resistenza ucraina, ma le incognite sul sostegno Usa e la
pressione economica europea rendono il futuro incerto
Sono trascorsi
1000 giorni dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, un conflitto che ha
rimodellato non solo gli equilibri geopolitici globali, ma anche il rapporto
tra Europa, Stati Uniti e Russia. Questa tragica pietra miliare è stata
commemorata durante una sessione plenaria straordinaria del Parlamento europeo,
alla presenza del presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Mentre i leader
dell’Unione ribadiscono il loro impegno per la libertà dell’Ucraina, emergono
interrogativi cruciali sul futuro del conflitto e sulle implicazioni per
l’Europa.
Il sostegno
dell’Unione Europea all’Ucraina
Durante la
sessione plenaria, la Presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola ha
dichiarato che il sostegno all’Ucraina resterà incrollabile fino al
raggiungimento di una “libertà e vera pace”. Ha sottolineato come la resistenza
ucraina non rappresenti solo una lotta per la propria sovranità, ma un baluardo
per la libertà di tutti gli europei. Dal canto suo, il presidente Volodymyr
Zelensky ha ringraziato l’Unione Europea per il costante supporto politico,
economico e militare. La sua formula di pace, incentrata su sanzioni severe e
isolamento economico di Mosca, è stata accolta con favore, sebbene restino
sfide critiche. Zelensky ha posto particolare enfasi sulla necessità di
contrastare le “flotte ombra” russe che trasportano petrolio, sottolineando che
“Putin può uccidere finché queste petroliere operano”. Il leader ucraino ha
inoltre esortato l’Ue a mantenere l’unità di fronte alle elezioni statunitensi,
ribadendo che la forza congiunta dell’Europa può spingere la Russia verso una
pace giusta.
L’Europa, però,
deve fare i conti con le proprie divisioni interne e con un’economia in
difficoltà. Le spese per gli aiuti militari e umanitari a Kiev, che già
superano i 20 miliardi di euro l’anno, pongono una pressione crescente sugli
Stati membri. Il rischio di un’escalation, che potrebbe coinvolgere
direttamente la Nato, aggiunge ulteriore tensione.
Tuttavia, le
dichiarazioni ufficiali si scontrano con la complessità della situazione sul
campo. L’Ue ha fornito aiuti finanziari e militari significativi, ma si trova
ora davanti alla possibilità di dover sostenere un peso maggiore, soprattutto
se gli Stati Uniti, sotto la futura presidenza Trump, ridurranno il loro
sostegno a Kiev. Un tale scenario metterebbe alla prova la coesione europea, in
un contesto economico già segnato dall’inflazione e dalla crisi energetica.
L’impatto dei
missili a lungo raggio Atacms sul conflitto ucraino
L’autorizzazione
concessa dagli Stati Uniti all’Ucraina per l’uso dei missili a lungo raggio
Atacms contro obiettivi in territorio russo ha acceso un nuovo capitolo nel
conflitto. Questi sistemi d’arma rappresentano un significativo incremento
delle capacità offensive di Kiev, potenzialmente in grado di ridurre la durata
della guerra. Il ministro degli Esteri ucraino Andrii Sybiha ha definito questa
novità come “una possibile svolta”, anche se gli analisti sottolineano che
l’impatto reale potrebbe essere limitato, dato che Mosca ha già spostato molte
risorse militari fuori dalla portata di tali armi.
La Russia ha
reagito con durezza, definendo l’azione come una provocazione che potrebbe
portare a un’escalation significativa. Il Cremlino ha ribadito che un attacco
in profondità al territorio russo sarebbe interpretato come un coinvolgimento
diretto della Nato nel conflitto, sollevando timori per un ampliamento delle
ostilità.
Le distanze
diplomatiche tra Zelensky e Putin
Sul fronte
diplomatico, le posizioni restano distanti. Zelensky insiste sul ripristino
dell’integrità territoriale dell’Ucraina come condizione fondamentale per
qualsiasi negoziato, mentre Putin pretende il riconoscimento delle “nuove
realtà territoriali”, cioè l’annessione delle regioni di Donetsk, Lugansk,
Zaporizhzhia e Kherson. La possibilità di un compromesso appare remota, anche
alla luce del misterioso piano di pace attribuito al presidente eletto degli
Stati Uniti, Donald Trump, che prevede una zona demilitarizzata e un
congelamento dell’ingresso dell’Ucraina nella Nato per 20 anni.
In Europa, cresce
la preoccupazione per le conseguenze di un eventuale taglio degli aiuti
statunitensi a Kiev. L’aumento delle spese militari graverebbe principalmente
sui Paesi dell’Uu, già impegnati in una difficile ripresa economica. Allo
stesso tempo, un collasso ucraino potrebbe generare una crisi migratoria senza
precedenti, con stime che prevedono fino a 10 milioni di rifugiati in caso di
vittoria russa.
Solidarietà
all’Ucraina o sostenibilità interna?
L’Europa si trova
in una posizione critica: continuare a sostenere l’Ucraina significa preservare
la stabilità regionale, ma comporta anche il rischio di trascinare il conflitto
ancora più a lungo. L’incontro tra il presidente ucraino Zelensky e i leader
europei ha rafforzato l’idea che il prossimo anno sarà cruciale per il
raggiungimento della pace. Tuttavia, come Zelensky ha ricordato, “la pace
giusta” richiederà non solo sforzi diplomatici, ma anche una pressione continua
su Mosca attraverso sanzioni e limitazioni economiche.
Il conflitto ha
ormai dimostrato di essere più di una guerra territoriale: è uno scontro tra
modelli di governance, sistemi economici e visioni del mondo. Per l’Europa, i
prossimi mesi rappresentano un’opportunità per dimostrare unità e leadership,
ma anche una sfida per mantenere l’equilibrio tra solidarietà e sostenibilità.
Il percorso verso la fine della guerra appare lungo e tortuoso, ma come
sottolineato dalla Presidente Metsola, “qualsiasi vera pace deve essere
costruita sul principio ‘niente sull’Ucraina senza l’Ucraina’“. Adnkronos 19
Quale l’approccio di Trump alla Nato?
La presidenza
Trump darà verosimilmente una scossa alla NATO in termini di investimenti nella
difesa e sarà in continuità con Biden su Cina e Indo-Pacifico, mentre è
improbabile che punti a una rottura di principio. Piuttosto, resta un
drammatico punto interrogativo sulla tenuta della deterrenza e della difesa
collettiva alleata, se il presidente americano realizzerà la sua intenzione di
raggiungere una pace in Ucraina consegnando di fatto a Putin la vittoria
politica e militare su Kyiv.
Il sistema
istituzionale e politico statunitense pone dei pesi e contrappesi ai poteri
presidenziali in materia di sicurezza nazionale, politica estera e di difesa, e
quindi NATO. Ad esempio, un’eventuale decisione di Trump di uscire dal trattato
istitutivo dell’Alleanza richiederebbe una maggioranza di due terzi in Senato
per diventare realtà, ed è quindi di fatto impossibile che avvenga.
Priorità:
investimenti nella difesa e Cina
C’è inoltre un
forte consensus bipartisan e una certa continuità tra la prima amministrazione
Trump e quella Biden nel spingere affinché gli alleati europei investano
maggiormente nella loro difesa, per sgravare le forze armate e i contribuenti
statunitensi. Trump lo chiederà in modo molto duro e minaccioso, all’insegna
del principio “America First” che contraddistingue la sua piattaforma politica,
come già accennato in campagna elettorale. Poiché oggi già 23 stati membri su
32 hanno raggiunto l’obiettivo del 2% del PIL investito nella difesa, la
pressione americana si rivolgerà soprattutto sui 9 Paesi ancora inadempienti.
Tra questi spicca l’Italia, ferma al 1,5%: non aumentare il bilancio della
difesa potrebbe diventare per il governo Meloni un problema nei rapporti con
Washington. Inoltre, poiché la Polonia investe già ora il 4,7% del PIL nella
difesa, il Regno Unito punta al 2,5% e diversi altri alleati sono su questa
traiettoria a causa della minaccia russa, non è escluso che su spinta americana
la NATO fissi una nuova soglia più elevata rispetto al 2%.
Al di là delle
dichiarazioni elettorali di Trump sul rivedere la missione della NATO, è
probabile che la limitata attenzione della nuova amministrazione verso
l’alleanza si concentrerà sugli investimenti nella difesa. Ciò potrebbe andare
di pari passo con una parziale riduzione della presenza militare americana in
Europa, ma è improbabile che ciò avvenga in modo drastico per l’opposizione, in
primo luogo, dello stesso Pentagono, conscio dei rischi che si correrebbero. In
questo contesto, è molto probabile che continui la marginalizzazione del fianco
sud nell’agenda NATO, in corso ormai da anni, poiché Trump ha chiarito che
l’intervento esterno di Washington sarà strettamente vincolato all’esistenza di
un “essenziale” interesse americano, che in questa regione è riconducibile,
nella sua visione, solo alla protezione di Israele. È quindi necessario per
l’Italia e l’Europa prenderne atto e agire per la stabilità del Mediterraneo
allargato al di fuori del formato NATO.
Altra continuità
tra Trump, Biden e l’establishment americano è la priorità assoluta data al
confronto a tutto campo con la sfida egemonica posta dalla Cina, e quindi
all’Indo-Pacifico. Ciò ha portato la NATO, dal 2019 in poi, a occuparsi
maggiormente di Pechino, formulando una valutazione via via più dura della
minaccia cinese: dalla costante guerra cibernetica alla corsa allo spazio, dal
crescente arsenale nucleare della Cina all’uso strategico di investimenti e
commercio per creare dipendenze in Europa. Allo stesso tempo, la NATO ha
rafforzato i partenariati con quattro Paesi dell’Indo-Pacifico, ovvero
Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda. È probabile che entrambi i
trend – riconoscimento della minaccia cinese e partenariati regionali – proseguiranno
con Trump, magari senza grandi risultati concreti per la sua diffidenza verso
il multilateralismo che contraddistingue l’Alleanza, ma sicuramente con un
indurimento della posizione NATO verso Pechino.
L’abbandono
dell’Ucraina e il rischio per la NATO
La discontinuità
maggiore tra Biden e Trump rispetto alla NATO riguarda l’appoggio occidentale
all’Ucraina, che lo scorso summit di Washington aveva incardinato in una
struttura alleata ad hoc. Se, come probabile e già annunciato in campagna
elettorale, il nuovo presidente cercherà una pace in tempi rapidi per chiudere
questo fronte, per lui non importante, di certo Mosca cercherà di ottenere il
massimo a spese di Kyiv. Il vicepresidente in pectore Vance ha già accennato
pubblicamente alla possibilità che la Russia mantenga le aree conquistate e che
venga istituita una zona demilitarizzata in Ucraina, ma tirando la corda il
Cremlino potrebbe ottenere anche di più, considerando che Trump non ha una
posizione pregiudizialmente anti-russa, anzi. Putin potrà così cantare vittoria
in patria e all’estero.
Di conseguenza,
nel giro di pochi anni l’alleanza dovrà difendersi da una minaccia russa più
grave, imminente e aggressiva, grazie al consolidamento delle conquiste russe
in Ucraina. Il Cremlino sarà ancora più convinto che l’uso della forza paga,
perché dopo una resistenza iniziale le democrazie occidentali gettano la
spugna, e potrebbe tentare un colpo di mano nei Paesi Baltici o altrove per
testare la tenuta della difesa collettiva. Questo è il più grande, drammatico e
potenzialmente epocale punto interrogativo sull’approccio di Trump alla NATO.
Se la nuova presidenza repubblicana lascerà credere a Mosca di poter occupare
parte del territorio di uno stato membro, e se non interverrà a difenderlo
qualora ciò avvenisse, questa sarà la fine dell’alleanza atlantica. E lo sarà
anche dell’Ue come unione politica, perché tutti i Paesi del fianco est sono
membri di entrambe le organizzazioni, e se la NATO non agisce, l’Unione non
sarebbe minimamente capace di difenderli, neanche nel momento in cui uno stato
sotto attacco invocasse le clausole di solidarietà e mutua assistenza presenti
nei trattati Ue e legalmente vincolanti.
Non si tratta di
uno scenario immediato, ma neanche remoto, i cui tempi dipenderanno da tre
variabili: quanto e quando l’amministrazione Trump taglierà gli aiuti militari
a Kyiv per fargli accettare una pace nei termini di Mosca; se e in che misura i
Paesi europei manterranno l’unità di fronte alla Russia una volta che
Washington aprirà a negoziati sull’Ucraina, e quindi se vorranno e potranno
sostituirsi a Washington nel fornire equipaggiamenti militari a Kyiv; infine,
la durata dei negoziati con il Cremlino e della resistenza ucraina senza
l’attuale livello di forniture statunitensi.
In questo
contesto, l’approccio della nuova amministrazione verso la deterrenza e difesa
collettiva NATO sarà probabilmente un equilibrio dinamico e instabile, frutto
dell’interazione tra l’attitudine dirompente del presidente e l’attaccamento
alla continuità del sistema politico-istituzionale in senso ampio. Nella sua
prima presidenza, Trump poteva contare solo su un ridotto numero di fedelissimi
e soffrì un certo ostracismo da parte delle istituzioni americane e degli
stessi membri della sua amministrazione, che infatti sostituiva con una
frequenza senza precedenti. Stavolta, il nuovo presidente in pectore si
presenta con una squadra più ampia e allineata, a partire dal vicepresidente, e
un piano per sostituire rapidamente le prime e seconde linee del Dipartimento
di Stato e di altre istituzioni che potrebbero intralciarlo. Conta inoltre su
un partito repubblicano dal quale sono state epurate una serie di figure
politiche che l’avevano contrastato negli anni precedenti, e quindi più pronto
a sostenere le sue posizioni. È perciò prevedibile una maggiore capacità di
Trump di passare dalle parole ai fatti quanto a politica estera e di
difesa.
Questo è
particolarmente rilevante per la NATO, in quanto, al netto della suddetta
uscita dal Trattato di Washington che è fuori discussione, tutte le scelte
americane in una situazione di crisi o escalation, come potrebbe essere quella
causata da una Russia imbaldanzita dalla vittoria in Ucraina, rientrano in
pieno nelle prerogative del presidente. In altre parole, se né Trump né la sua
amministrazione agiranno per scoraggiare Putin dal testare la difesa collettiva
NATO dopo aver abbandonato Kyiv, in pochi anni l’Europa potrebbe trovarsi di
fronte a una situazione drammatica e dall’esito imprevedibile. Una situazione
alla quale iniziare a prepararsi fin da ora, rafforzando il pilastro europeo
dell’Alleanza atlantica. Alessandro Marrone, AffInt 26
Non è possibile
fare delle previsioni serie sull’Italia che sarà. Se tutto andrà nel verso
giusto, i disoccupati dovrebbero diminuire in percentuale e gli occupati, a
tempo parziale, potranno far conto sull’invocato tempo indeterminato. In questa
primavera, ancora tutta da analizzare, gli effetti mitigatori potrebbero essere
non rapidi perché ci saranno da sistemate, in primo luogo, i lavoratori a
progetto, a partita Iva e altre realtà occupazionali “mutilate”.
Il nuovo progetto occupazionale potrebbe
andare a regime nel biennio2025/2027. Sempre che “regga” il Governo e il
Parlamento che lo sostiene.
A conti fatti, le
aziende hanno capito che con un’occupazione stabile vengono a pagare meno che
facendo durare quella precaria. Non solo, la produttività resterebbe
maggiormente garantita.
Si avrà una nuova
concertazione sindacale, anche per meglio evidenziare i “pro” dei reali
provvedimenti socio/previdenziali in cantiere. Se saranno varati i decreti
applicativi del progetto”lavoro”, si potranno stabilire i salari minimi orari
che dovrebbero essere proporzionati a quelli già in essere in altre realtà UE.
Se, entro il
prossimo anno, la percentuale dei disoccupati dovesse tornare a livelli
“fisiologici”, saremmo in grado d’affermare che il peggio della “crisi”
potrebbe essere rientrato. Per ora, preferiamo evitare i facili ottimismi che,
tra l’altro, non avvantaggerebbero nessuno.
Giorgio Brignola,
de.it.press
Pubblichiamo il
comunicato del Tavolo Asilo e Immigrazione in relazione agli emendamenti
proposti dal Governo al “decreto flussi”.
Tavolo Asilo e
Immigrazione: ancora un tentativo del governo di limitare i diritti
fondamentali, contro i principi costituzionali e il diritto internazionale
La maggioranza di
governo ha presentato mercoledì 13 novembre in Commissione Affari
costituzionali a Montecitorio una serie di emendamenti al c.d. “decreto flussi”
(D.L. n. 145/2024) che ancora una volta intervengono in maniera pericolosa
sulla normativa in materia di migrazione e asilo. La presentazione degli
emendamenti arriva all’indomani dell’ingresso in Italia dei sette richiedenti
asilo di nazionalità egiziana e bengalese, che da 9 giorni erano
trattenuti prima in una nave della marina militare italiana e poi nei centri di
detenzione in Albania.
Questa è la
diciassettesima volta che il governo interviene su questa materia in due anni,
con misure che dimostrano un totale scollamento dalle necessità reali legate
all’ingresso, alla tutela e all’accoglienza delle persone migranti. Misure che
minacciano un ulteriore e preoccupante svilimento dei principi costituzionali e
del diritto internazionale, e che di fatto comportano gravi violazioni dei
diritti fondamentali delle persone, oltretutto con effetti contrari
all’interesse del paese.
Le organizzazioni
del Tavolo Asilo e Immigrazione esprimono grande preoccupazione in particolare
verso alcuni degli emendamenti che producono un ulteriore peggioramento nel
processo di criminalizzazione del fenomeno migratorio e di negazione del
diritto d’asilo, a partire dal rapporto con paesi che violano i diritti
fondamentali a cui è delegato il ruolo di guardiani delle frontiere d’Europa,
sino a una mortificazione ulteriore del sistema di accoglienza.
In particolare
solleva molta apprensione l’emendamento che sposta la competenza sulle
convalide del trattenimento dei richiedenti asilo dalle sezioni specializzate
dei tribunali ordinari alla Corte d’appello, con effetti deleteri su tutto il
sistema giudiziario. Un sovraccarico di lavoro che non potrà che aumentare il
grave affannamento in cui già si trovano le Corti d’appello senza alcun
risultato positivo per gli interessati e il sistema. Proprio ieri l’Unione
delle Camere Penali Italiane definiva questa una scelta irrazionale e
pericolosa il cui scopo appare solo quello di cercare il giudice “non
politicizzato”, ma non c’è ragione di ritenere che giudici differenti operino
diversamente.
Siamo gravemente
preoccupati anche per due emendamenti che agiscono sul già frammentato e
precario sistema di accoglienza, che vorrebbero togliere il diritto a essere
accolti a richiedenti asilo che si presentano in questura dopo 90 giorni dal
loro ingresso e dare la precedenza nelle accoglienze a chi arriva via mare
rispetto a chi entra via terra, quando sappiamo che proprio per chi arriva via
terra l’ingresso in questura per iniziare la domanda d’asilo è spesso rimandato
di mesi per mancanza di personale e prassi discrezionali, con una
discriminazione dei diritti dei richiedenti asilo in base alle modalità di
accesso al territorio che non può in alcun modo essere tollerata.
Inaccettabile
anche la modifica proposta che secreta le informazioni relative
all’equipaggiamento fornito a stati terzi per il controllo delle frontiere e
dei flussi migratori. L’emendamento punta a classificare e rendere
inaccessibili alla società civile e ai cittadini le informazioni e i contratti
relativi alla fornitura di mezzi per il controllo delle frontiere a paesi come
la Tunisia o la Libia, dove le autorità responsabili del pattugliamento in mare
sono state riconosciute responsabili di gravissime violenze, torture e abusi.
Da anni la società
civile denuncia la complicità dell’UE e dell’Italia in episodi di
intercettazioni e respingimenti, e l’accesso alle informazioni – già limitato –
è stato fondamentale per ricostruire le catene di responsabilità. Secretare
questo tipo di informazioni equivale a costruire un sistema di impunità che
renderà ancora più difficile ricostruire le responsabilità dell’Italia nelle
violazioni nei paesi con i quali sono stati firmati accordi.
Il decreto con i
nuovi emendamenti rischia di essere approvato in Aula entro il prossimo 25
novembre.
Facciamo appello
al governo e a tutte le forze politiche presenti in Parlamento affinché cessi
questa rincorsa insensata e strumentale ad affrontare questioni complesse e
delicate che pesano sulla vita di migliaia di persone, attraverso interventi
che producono ingiustizie e discriminazioni.
L’Italia ha altre
priorità e altri problemi che non si risolvono attaccando i diritti dei
richiedenti asilo e negando i principi del diritto internazionale e della
nostra Costituzione. Migr.on. 15
G20: "Destinare i fondi per le armi alla lotta alla fame"
Il Papa ha inviato
un messaggio letto dal Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato, al G20 in
corso a Rio de Janeiro, in Brasile. Di Marco Mancini
Rio de Janeiro.
“Nel contesto di un mondo globalizzato che si trova ad affrontare una
moltitudine di sfide interconnesse, è essenziale riconoscere le significative
pressioni attualmente esercitate sul sistema internazionale. Queste pressioni
si manifestano in varie forme, tra cui l'intensificarsi di guerre e conflitti,
attività terroristiche, politiche estere assertive e atti di aggressione,
nonché il persistere di ingiustizie. È quindi della massima importanza che il
Gruppo dei 20 individui nuove strade per raggiungere una pace stabile e
duratura in tutte le aree di conflitto, con l'obiettivo di ripristinare la
dignità delle persone coinvolte”. Lo scrive il Papa nel messaggio letto dal
Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato, al G20 in corso a Rio de
Janeiro, in Brasile.
“I conflitti
armati a cui si assiste attualmente – denuncia Francesco - non sono solo
responsabili di un numero significativo di morti, di sfollamenti di massa e di
degrado ambientale, ma contribuiscono anche ad aumentare le carestie e la
povertà, sia direttamente nelle aree colpite sia indirettamente nei Paesi che
si trovano a centinaia o migliaia di chilometri di distanza dalle zone di
conflitto, in particolare attraverso l'interruzione delle catene di
approvvigionamento. Le guerre continuano ad esercitare una notevole pressione
sulle economie nazionali, soprattutto a causa dell'esorbitante quantità di
denaro spesa per armi e armamenti”.
Il Papa poi
affronta il tema della fame. “La silenziosa accettazione della carestia da
parte della società umana è una scandalosa ingiustizia. Coloro che causano la
fame e la morte dei loro fratelli e sorelle della famiglia umana, commettono
indirettamente un omicidio, che è loro imputabile. Non bisogna risparmiare
alcuno sforzo per sottrarre le persone alla povertà e alla fame. È importante
tenere a mente che il problema della fame non è solo una questione di cibo
insufficiente; piuttosto, è una conseguenza di più ampie ingiustizie sociali ed
economiche. La povertà, in particolare, è un fattore che contribuisce in modo
significativo alla fame, perpetuando un ciclo di disuguaglianze economiche e
sociali che sono pervasive nella nostra società globale. Il rapporto tra fame e
povertà è inestricabilmente legato. È quindi evidente che è necessario
intraprendere un'azione immediata e decisiva per sradicare il flagello della
fame e della povertà”.
Francesco infine
torna a chiedere “di reindirizzare i fondi attualmente destinati alle armi e ad
altre spese militari verso un fondo globale destinato ad affrontare la fame e a
promuovere lo sviluppo nei Paesi più impoveriti. Questo approccio contribuirebbe
a evitare che i cittadini di questi Paesi siano costretti a ricorrere a
soluzioni violente o illusorie, o a lasciare i loro Paesi in cerca di una vita
più dignitosa”. Aci 19
Erasmus+: nel 2025 quasi 5 miliardi di euro
BRUXELLES - Nel
2025 il programma Erasmus+ dell'UE sosterrà gli scambi di apprendimento
all'estero e i partenariati di cooperazione nei settori dell'istruzione, della
formazione, della gioventù e dello sport con circa 5 miliardi di euro, pari a
un aumento del 6,5% del finanziamento rispetto allo scorso anno. La Commissione
europea ha pubblicato ieri l'invito a presentare proposte Erasmus+ per il 2025.
Con oltre 16
milioni di partecipanti dall’istituzione nel 1987, Erasmus+ continua a veder
crescere le adesioni, oltre ad ampliare l’accesso e l’inclusione per le persone
con minori opportunità. Ciò è in linea con la recente raccomandazione del
Consiglio "L'Europa in movimento", che fissa obiettivi ambiziosi per
aumentare la mobilità e la partecipazione, in particolare dei gruppi
sottorappresentati.
Il programma
Erasmus+ manterrà il suo impegno a sostenere il sistema di istruzione ucraino e
i discenti e gli educatori presenti in Ucraina o che si sono rifugiati nell'UE.
Nel 2023 Erasmus+ ha finanziato la stampa e la consegna di 500 mila manuali
scolastici in lingua ucraina, mentre quest’anno sono stati forniti alle scuole
ucraine un milione di libri di arte e di informatica. Per l'anno scolastico
2025-2026 è prevista una terza fornitura.
In linea con i
settori prioritari delineati nel programma Erasmus+ per il periodo 2021-2027,
l'invito continuerà a sostenere un'ampia gamma di progetti incentrati sulla
promozione dell'inclusione sociale, delle transizioni verde e digitale e della
partecipazione dei giovani alla vita democratica.
“Con Erasmus+, non
stiamo solo supportando l’istruzione e la mobilità: stiamo promuovendo i valori
stessi che uniscono l’Europa, come la solidarietà, l’inclusione, la democrazia
e il rispetto dei diritti umani”, ha commentato Margaritis Schinas, vice
presidente per la Promozione dello stile di vita europeo. “Dalla sua creazione,
il programma ha dato potere a milioni di partecipanti, con 16 milioni di
mobilità e in continuo aumento. Guardando al futuro, Erasmus+ continuerà a
incarnare questi valori fondamentali, contribuendo a costruire un’Europa più
coesa, aperta e unita nella diversità”.
Soddisfatta anche
la commissaria all’Innovazione, Ricerca, Cultura, Educazione e Gioventù, Iliana
Ivanova, per la quale “Erasmus+ è una delle più grandi storie di successo
dell’Unione Europea, trasforma vite e connette persone attraverso l’istruzione,
la formazione, la gioventù e lo sport da quasi quattro decenni”. Inoltre, ha
aggiunto, “mentre continuiamo a supportare milioni di partecipanti, inclusi
quelli con minori opportunità, Erasmus+ rimane al cuore della costruzione di
un’Europa più forte, unita e proiettata verso il futuro“. (aise 21)
Farci i conti in
tasca è impresa spiacevole. Spesso, però, necessaria per tentare d’intendere
come si evolverà l’economia italiana. In altri termini, quella di tutti i
giorni. Per avere precisi termini di raffronto, abbiamo preso in esame i prezzi
di merci comuni. Limitando la nostra indagine tra maggio 2020 e maggio
2024. Le percentuali si riferiscono alla
media nazionale; anche se le stesse differiscono tra regione e regione.
Gli stipendi e le
pensioni, per il periodo considerato, hanno subito un aggiornamento dell’1,5 %
(al lordo d’imposta). Insomma, gli adeguamenti delle retribuzioni e dei
trattamenti previdenziali, nella maggioranza dei casi, restano inferiori al
costo della vita. Oggi, con stipendi e pensioni, spesso, non si riesce ad
arrivare alla fine del mese. Gli italiani vivono di “promesse” e con
un’”allerta” sanitaria ancora in atto. Riprendere la via di una libera
economia, in un’Europa senza vincoli territoriali, appare effimero. Per di più,
le “stelle” dell’UE non brillano all’unisono. Il ruolo d’Italia resta da
quantificare nella misura in cui si riuscirà a sanare, prima di tutto,
l’economia interna. Compito difficile anche per questo Governo anche a fronte
di una situazione bellica ad est d’Europa.
La penisola s’è
svenduta i pezzi migliori per tentare d’evitare il collasso. Che ci sia
riuscita è una tangibilità ancora tutta da verificare. Intanto, gli
investimenti internazionali nel nostro Paese restano limitati. Nel 2002, ci
siamo mossi in modo sconveniente. La conversione Lira/Euro doveva essere meglio
negoziata. In UE, tanto per capirci, chi decide la politica monetaria sono i
Paesi con un’economia interna forte. Il nostro, nonostante i migliori
propositi, continua a non essere tra questi. Giorgio Brignola, de.it.press
Regionali, centrodestra battuto due volte "ma la maggioranza resta
solida"
In Umbria ed
Emilia Romagna vince il centrosinistra, Meloni si complimenta "al di là
delle differenze politiche" e Tajani rivendica il risultato di Forza
Italia. Ma il caso della leghista Tesei brucia
Doppia sconfitta
per il centrodestra in Emilia Romagna e Umbria. La prima Regione resta
saldamente nelle mani del centrosinistra, grazie alla vittoria del sindaco di
Ravenna Michele De Pascale su Elena Ugolini; la seconda ritorna 'rossa' dopo la
parentesi degli ultimi cinque anni targati Donatella Tesei, la candidata della
Lega e del centrodestra che non è riuscita a bissare il successo del 2019.
Alle 19.09, quando
il quadro emerso dalle proiezioni era ormai chiaro, la premier e leader di
Fratelli d'Italia Giorgia Meloni non può che riconoscere la vittoria dei
candidati dello schieramento rivale: "Desidero rivolgere i miei auguri di
buon lavoro ai nuovi presidenti della Regione Umbria, Stefania Proietti, e
della Regione Emilia Romagna, Michele De Pascale. Al di là delle differenze
politiche, auspico una collaborazione costruttiva per affrontare le sfide
comuni e lavorare per il benessere e il futuro delle nostre comunità",
scrive su X la presidente del Consiglio, che rivolge un "ringraziamento
sentito" a Donatella Tesei ed Elena Ugolini "per l'impegno, la
dedizione e la passione dimostrati in questa competizione elettorale".
Alle parole di
Meloni si aggiungono quelle del segretario di Forza Italia Antonio Tajani, che
sottolineava come la sua forza politica abbia "raddoppiato i consensi in
entrambe le Regioni" promettendo "un'opposizione costruttiva".
Per il vicepremier e numero uno della Lega Matteo Salvini "gli elettori
hanno sempre ragione. Già da domani - assicurava il ministro delle
Infrastrutture - sono a disposizione dei nuovi amministratori per portare
avanti tutte le opere pubbliche che servono a cittadini e territori".
"Questo voto non avrà ripercussioni sul governo e sulla maggioranza, ma
sarà uno stimolo a riprendere con vigore e compattezza la via delle riforme e
della modernizzazione del Paese", l'opinione di Maurizio Lupi, soddisfatto
del risultato di Noi Moderati, che in Umbria ha "più che quintuplicato i
voti rispetto alle politiche, arrivando quasi al tre per cento".
L'analisi della
sconfitta, il caso Umbria brucia
In casa Fdi, a
taccuini chiusi si analizza l'esito di un voto sul quale non si nutrivano
grandi aspettative: "Quest'estate partivamo molto sotto nei sondaggi, in
campagna elettorale c'è stata una grossa rimonta ma non è bastata. Quando si
perde, si ascoltano sempre gli elettori" spiegano all'Adnkronos fonti di
peso di Via della Scrofa, che in tema di regionali rivendicano il risultato di
"11 a 3" da quando il centrodestra ha vinto le elezioni politiche del
2022. Se, da una parte, sull'Emilia Romagna nessuno riponeva speranze di
successo, discorso diverso lo merita l'Umbria, dove la sconfitta brucia di più.
Mentre Fi e Lega tengono botta rispetto alle europee, sono i voti di Fratelli
d'Italia quelli che mancano all'appello: a giugno il partito di Meloni aveva
ottenuto il 32,62% in Umbria al voto di giugno, questa volta non arriva al 20%.
Ma anche se nessuno lo ammette apertamente, a penalizzare il centrodestra
secondo diversi meloniani sarebbero stato lo scarso appeal comunicativo di
Tesei. Molti, dalle parti di Fdi, dubitavano delle capacità carismatiche della
leghista: "Nel caso specifico ovviamente uno fa le giuste riflessioni, ma
è facile parlare il giorno dopo: Tesei si è impegnata per cinque anni, ha fatto
la campagna elettorale. Per ora si ringrazia tutti, non buttiamo la croce su
nessuno. Poi faremo le dovute riflessioni", spiegano le stesse fonti,
secondo le quali "non cambia nulla per la maggioranza, che resta solida ed
è serena. Non si può vincere sempre".
A chi le chiede se
sia mancato il traino di Fratelli d'Italia, che in Umbria si attesta sotto il
20%, la governatrice sconfitta Donatella Tesei risponde che "tutti i
partiti hanno dato il massimo", anche "per far conoscere anche quello
che forse non siamo in grado di comunicare bene durante questi cinque
anni". Anche il segretario della Lega in Umbria Riccardo Marchetti non
cerca "colpevoli": "Tutti nell'alleanza hanno condotto una
campagna seria, anche gli alleati di Fratelli d'Italia. Bisogna invece capire
cosa gli elettori, evidentemente, non hanno capito", dobbiamo
"prepararci per difendere quelle che sono le tante azioni messe in campo
dal governo regionale e nazionale".
Non fa professione
di modestia il sindaco di Terni Stefano Bandecchi, che con la sua Alternativa
Popolare ha sostenuto la corsa di Tesei dopo aver accarezzato il sogno di una
sua candidatura in prima persona: "Con me candidato presidente avremmo vinto
contro Stefania Proietti, senza ombra di dubbio. Parliamo di un leader contro
acqua fresca...", afferma con l'Adnkronos l'imprenditore, senza giri di
parole. Sul risultato di Ap "posso dire con orgoglio che abbiamo portato
anche più di quanto fosse prevedibile. Abbiamo fatto la nostra parte e non
abbiamo nulla da recriminare, al contrario di quello che fa la sinistra quando
perde. Come centrodestra dobbiamo fare un esame di coscienza e lavorare meglio.
Per esempio, penso a Tesei: ha fatto tantissimo, ma forse non ha comunicato i
suoi risultati nel modo giusto", osserva Bandecchi.
In una nota Forza
Italia rivendica il suo "trend positivo": l'ultima tornata elettorale
conferma il movimento come "secondo partito della coalizione di
centrodestra e la terza forza politica in assoluto", risultato che rende
l'obiettivo del 20% alle prossime politiche "assolutamente alla nostra
portata" a detta degli azzurri. Su X fa discutere però il tweet pubblicato
dalla deputata di Fi Rita Dalla Chiesa: "Alla prossima alluvione se lo
ricorderanno", scrive l'ex conduttrice a proposito dell'esito del voto in
Emilia Romagna. Poi la precisazione: "E' una terra che ha vissuto momenti
difficilissimi. Tante persone hanno perso tutto a causa dell'alluvione. Da
esponente del centrodestra, speravo che questo dramma potesse essere anche un
momento di riflessione, soprattutto per gli emiliani. Mi fa male pensare che
non abbiano compreso che con il centrosinistra si rischia di arrivare a queste
situazioni...", affermava la parlamentare, interpellata dopo le polemiche
sollevate dal suo post. Adnkronos 19
La Marcia PerugiAssisi: la pace prima di tutto
Ground Offensive
Begin. Scrivo queste note nel momento in cui i grandi circuiti internazionali
dell’informazione annunciano l’avvio della nuova invasione israeliana del
Libano. La precedente è del 2006, ma questa volta a essere sull’orlo del
baratro non è solo il Paese dei Cedri ma il mondo intero. Molti non si rendono
conto del pericolo. Altri preferiscono nasconderlo. Ma la realtà è sotto gli
occhi di tutti quelli che la vogliono vedere.
«Siamo vicini a
una guerra quasi mondiale», ha denunciato papa Francesco il 27 settembre scorso
dal Belgio. Anche questa volta, come accade dall’inizio di questo pontificato,
il suo grido d’allarme è stato silenziato. Ma la realtà è più forte dei suoi vergognosi
manipolatori e il pericolo che dieci anni fa – quando papa Francesco ha
cominciato a parlare della “Terza guerra mondiale a pezzi” – poteva apparire
remoto, oggi si materializza davanti a noi. Non è catastrofismo.
La guerra, che nel
2014 si combatteva nella piccola regione ucraina del Donbass, oggi fa esplodere
i suoi missili a Kiev e a Mosca e ci rigetta dentro l’incubo oscuro della
guerra atomica. Da un anno assistiamo alla carneficina e alla devastazione
della Striscia di Gaza e ora temiamo il peggio in Cisgiordania, in Libano e nel
resto del Medio Oriente. È il vortice della guerra che infuria, si rafforza e
si allarga senza regole né limiti. Di questo passo, quello che oggi vediamo
malvolentieri in Tv, rischiamo di viverlo domani nelle nostre città.
«Ci stiamo
avvicinando all’inimmaginabile: una polveriera che rischia di inghiottire il
mondo», ha tuonato il Segretario generale dell’Onu in chiusura del Summit del
Futuro di settembre. «Il livello di impunità nel mondo è politicamente
indifendibile e moralmente intollerabile. Oggi, un numero crescente di governi
e altri soggetti si sentono autorizzati a fare di tutto. Possono calpestare il
diritto internazionale. Possono violare la Carta delle Nazioni Unite. Possono
chiudere un occhio sulle convenzioni internazionali sui diritti umani o sulle
decisioni dei tribunali internazionali. Possono infischiarsene del diritto
umanitario internazionale. Possono invadere un altro Paese, distruggere intere
società o ignorare completamente il benessere del proprio popolo».
Di fronte a questa
situazione, non è facile impegnarsi per la pace. Lo sappiamo bene. Devi
resistere al senso d’impotenza che ti sale ogni giorno e agli attacchi dei
propagandisti della guerra che dominano la comunicazione istituzionale. Vediamo
come trattano un grande Papa come Francesco. Eppure, se sai quanto sono grandi
il bene della pace e il male della guerra, non puoi fare altro che rinnovare il
tuo impegno. Non è solo un dovere morale, ma anche una necessità urgente. Con
questo spirito, il 21 settembre, nella Giornata internazionale della pace, ci
siamo ritrovati a riflettere e a camminare assieme, ancora una volta in tanti e
diversi, nella città di san Francesco d’Assisi. Ed è stato un momento speciale.
Di fronte alle
sfide e ai pericoli che incombono, di fronte all’incalzare di tragici eventi, è
necessaria una mobilitazione straordinaria che, passando di bocca in bocca, di
scuola in scuola, di città in città, di organizzazione in organizzazione, di
parrocchia in parrocchia, possa far crescere un grande movimento unitario di
cittadini e istituzioni per la pace. Per alimentarla abbiamo ideato e avviato
il programma Immagina, che culminerà domenica 12 ottobre 2025
nell’organizzazione di quella che dovrà diventare la più grande Marcia
PerugiAssisi della storia.
Immagina è il
percorso di un anno, centrato sulla formazione di una nuova generazione di
costruttrici e costruttori di pace. Persone che desiderano la pace, che la
amano e siccome la vogliono la fanno, ci lavorano, si battono per ottenerla,
s’impegnano a costruirla. Sappiamo che il lavoro da fare è grande. Sappiamo che
dobbiamo: 1) ricostruire il nostro senso di responsabilità verso la pace; 2)
ricostruire la capacità nostra e delle nostre istituzioni di “fare la pace”; 3)
ricostruire la politica e le istituzioni della pace. Dalla più piccola alla più
grande. Imagine all the people living together in peace (Immagina tutte le
persone vivere insieme in pace): questo è lo slogan della Marcia PerugiAssisi
del 2025, che ci accompagnerà per tutto l’anno insieme a tre preziose bussole:
l’Enciclica di papa Francesco Fratelli tutti. Sulla fraternità e l’amicizia
sociale; l’Agenda 2030 dell’Onu per lo sviluppo sostenibile; il “Patto per il
futuro”.
In un pianeta in
fiamme, in un mondo in guerra, noi vogliamo spingerci in una direzione e in un
mondo diverso. In un tempo buio, che uccide la fiducia e la speranza, noi
vogliamo suscitare un sogno, antico e moderno: “Il sogno di una società
fraterna”. In un mondo devastato dall’individualismo, dall’egoismo e
dall’indifferenza che uccide e lascia uccidere, mentre lo scontro di interessi
alimenta spietate guerre di ogni genere, mentre uomini spietati si accaniscono
ferocemente contro bambini, donne, malati e anziani, in un mondo intriso di
violenza, pieno di muri e confini, mentre si accelera un’incontrollata corsa al
riarmo, di fronte ai segni sempre più marcati della “Terza guerra mondiale”,
noi vogliamo reagire con “Il sogno della fraternità e dell’amicizia sociale”.
La fraternità è
l’alternativa alla guerra: l’altro orizzonte possibile. Noi lo vogliamo
sognare, desiderare e costruire. Facciamolo assieme! Se anche tu condividi
questo sogno, se vuoi tornare a sognare insieme, aiutaci a organizzare la più
grande Marcia PerugiAssisi per la pace e la fraternità. (www.perlapace.it)
Flavio Lotti, Vita Past. novembre
IA: ripensare il futuro con consapevolezza
L’intelligenza
artificiale è una realtà complessa e in continua evoluzione, che richiede una
riflessione costante per comprenderne le implicazioni e guidarne lo sviluppo.
Di Giovanni Tridente
L’intelligenza
artificiale (IA) è un tema che abbiamo già affrontato da diverse angolazioni,
ma torna spesso al centro della riflessione perché la sua complessità e il suo
impatto richiedono continui approfondimenti. Più volte abbiamo sottolineato
come si tratti di una tecnologia che si sta dimostrando in grado di influenzare
molteplici aspetti della nostra esistenza, dal lavoro alla salute, fino al
nostro modo di pensare. Torniamo oggi su alcuni concetti che vale la pena
guardare in prospettiva.
Cosa intendiamo
per IA: un promemoria
Abbiamo già
definito l’IA come un insieme di sistemi informatici capaci di simulare alcune
funzioni tipiche dell’intelligenza umana, come l’elaborazione del linguaggio,
il riconoscimento di immagini o la risoluzione di problemi. Questa tecnologia,
sviluppata a partire dagli anni ’50, si basa fondamentalmente su due grandi
pilastri: una potenza di calcolo eccezionale e un’enorme quantità di dati. Ciò
le consente di superare l’uomo in compiti ripetitivi e ad alta intensità di
calcolo, rendendola per questo uno strumento straordinariamente versatile.
Benefici e
insidie: una panoramica
Tra gli ambiti
applicativi dell’IA che abbiamo spesso menzionato - molti dei quali li abbiamo
snocciolati nel volume 50 domande & risposte sull’Intelligenza Artificiale
- , vale la pena ricordare alcuni esempi concreti. Nella medicina, l’IA sta
rivoluzionando le diagnosi, rendendole più rapide e precise, e offre supporto
nello sviluppo di trattamenti personalizzati. Sul fronte della sicurezza, i
sistemi di sorveglianza intelligenti migliorano la prevenzione dei crimini, ma
pongono interrogativi etici legati alla privacy. Riguardo all’ambiente, l’IA
aiuta a monitorare l’inquinamento e ottimizza l’uso delle risorse, ma occorre
vigilare affinché questi benefici non siano riservati solo a chi ha accesso
alle tecnologie avanzate.
Accanto a queste
opportunità, dunque, emergono rischi importanti. Come abbiamo già discusso,
demandare decisioni critiche a sistemi autonomi, specialmente in ambito
bellico, può portare a conseguenze devastanti, minando - o eclissando - alla
radice anche il concetto stesso di responsabilità umana. C’è poi la disparità
nell’accesso all’IA se pensiamo che, già solo a livello tecnologico, il 30%
della popolazione mondiale non ha neppure accesso a Internet. E questo rischia
di ampliare il divario tra chi può sfruttare le potenzialità di queste
innovazioni tecnologiche e chi ne rimane escluso.
Mai dimenticare
l’essere umano
Abbiamo spesso
ribadito che l’IA non è solo una questione tecnica, ma una sfida etica e
sociale. Per questo è cruciale continuare a ricordare l’importanza di regole
condivise che promuovano trasparenza, responsabilità e inclusività. L’obiettivo
non deve essere solo quello di innovare, ma di farlo per il bene comune, senza
sacrificare la dignità e la centralità della persona.
Organismi
internazionali come l’OCSE, ad esempio, hanno tracciato sin dal 2019 linee
guida su trasparenza e sicurezza, ma la loro attuazione dipende dalla nostra
capacità di costruire un dialogo istituzionale a livello globale. Ciò in
effetti può avvenire se a tutti i livelli - dagli sviluppatori all’ultimo
utilizzatori - viene alimentata una consapevolezza critica e condivisa.
Una relazione
complessa
Un tema che torna
spesso anche negli incontri che stiamo realizzando è il rapporto tra uomo e
tecnologia. L’IA sta già cambiando il modo in cui viviamo e interagiamo con il
mondo, ma resta una domanda centrale: come influenzerà la nostra spiritualità,
la nostra fede, il nostro senso di umanità?
Se da un lato la
tecnologia può stimolare interrogativi profondi su cosa significhi essere
umani, dall’altro è evidente che non potrà mai sostituire esperienze
intrinsecamente umane, come il senso del sacro o la relazione personale con gli
altri.
Una sfida aperta
Ci troviamo
pertanto di fronte a una sfida aperta, in cui opportunità e rischi convivono e
continueranno a convivere. Il nostro compito, in qualunque settore ci troviamo
ad operare e a qualunque livello agiamo, sarà quello di comprenderne tutte
queste implicazioni per guidarne lo sviluppo in una direzione che sia orientata
al bene e sostenibile. A.d. 18
Si sta chiudendo
il sipario sul 19° G20, e viene spontaneo chiedersi: tutto questo clamore è
davvero servito a qualcosa? Prendendo in prestito il titolo della celebre
commedia di Shakespeare, viene da riflettere se l’imponente macchina
organizzativa – con una città come Rio de Janeiro praticamente paralizzata per
giorni, 56 ospiti (di cui 23 capi di Stato) accolti nel Museo di Arte Moderna,
e le spese esorbitanti sostenute dal Brasile e dai partecipanti – valga davvero
il gioco. Insomma, è il classico caso in cui viene spontaneo tirare fuori
l’analisi costo-beneficio (ACB).
E qui si apre il
vero dilemma: dal punto di vista pubblico e privato, i conti tornano? Per i
privati, sembra di sì: c’è chi ha guadagnato visibilità a livello
internazionale, con belle foto e discorsi a effetto. Ma per il pubblico, il
beneficio si riduce a bei propositi e grandi promesse. Secondo alcune fonti, il
comunicato finale si concentrerà sui soliti temi: lotta alla fame, pace,
tassazione più gravosa per i ricchi. Tuttavia, sugli impegni concreti,
soprattutto per il clima, siamo ancora al palo. Anzi, si registra persino un
passo indietro: niente accenni a un’effettiva transizione dai combustibili
fossili o a un reale impegno finanziario sul tema. Il solito muro contro muro:
da una parte i Brics, dall’altra USA ed Europa.
E per l’Italia? La
premier Giorgia Meloni si è concentrata su agricoltura, energia, cibo e acqua,
con una tabella di marcia fitta di incontri e interventi. Ma anche qui, al
netto dei buoni propositi, resta da capire quanto di tutto questo si tradurrà
in fatti concreti.
Risultato finale?
Per dirla con Lina Wertmüller: “Tutto a posto e niente in ordine”. Se non
altro, però, il lato turistico ha funzionato alla grande: i leader hanno
trovato il tempo di visitare alcune delle meraviglie di Rio, facendo
sicuramente felice l’Ente del Turismo brasiliano. Chissà se altrettanto felici
possono dirsi gli affamati e i dimenticati di cui tanto si è parlato.
Giuseppe Arnò, dip
20
In questi mesi
d’emergenza economica dovremmo, per coesa necessità, riscoprire la solidarietà.
Metodo sicuro, e senza compromessi, per fare fronte ai bisogni di una società
che richiede tutto e che, almeno per ora, ha avuto troppe promesse. Quelle che
non dovrebbero avere un colore politico.
I fatti che
abbiamo vissuto, e che ancora vivremo, sono la prova di una società malata,
anche nello spirito, che si dovrebbe attivare per cambiare. Riprendere la
normalità delle nostre vite non sarà agevole. Ma provare bisogna. Per
riprendere la nostra vita, il nostro essere italiani, anche nel baratro delle
incertezze socio/sanitarie. Ora è indispensabile operare per riprenderci la
nostra esistenza in un Paese che avrà da offrire poco. Pur se certi privilegi
resteranno.
La meta, che sentiamo nostra, è chiara: ”
costruire la nuova società in una prospettiva d’uguaglianza che, per il
passato, era più formale, che sostanziale. Il termine “indigenza” resterà alla
nostra ribalta sociale per lungo tempo. Non saranno, certamente, i politici a
risolvere le nostre più immediate necessità. Fare finta di non vedere è
impossibile. La realtà non consente neppure gli ottimismi di “facciata”. Ci
sembra rilevante prenderci cura anche degli altri. Perché il Popolo italiano ha
delle necessità in comune. L’indispensabile ha da essere garantito a tutti.
La politica ci ha deluso ed ha determinato,
tra l’altro, confusione anche tra i meglio intenzionati. In questo periodo di
essenziale “assestamento” sociale, cerchiamo d’essere coesi per una meta
comune: il futuro del Paese. “Politica” e “Solidarietà” non hanno mai avuto, e
non avranno poli d’attrazione. Facciamo in modo di sostituire la “teoria” del
quotidiano, con la “pratica” di un sistema produttivo. La solidarietà potrebbe
essere la prima arma vincente.
Giorgio Brignola,
de.it.press
Nuovo Codice della Strada: le nuove regole
Il nuovo Codice
della strada è stato approvato ieri dal Senato. Ora la palla passa al
presidente della Repubblica Sergio Mattarella: con la sua firma le modifiche
verranno pubblicate in Gazzetta Ufficiale e dopo 15 giorni entreranno
ufficialmente in vigore. Il Sir ha fatto un punto sulle principali modifiche
introdotte con l’aiuto Roberto Romeo, esperto di settore e presidente nazionale
di Anglat, Associazione nazionale di promozione sociale che dal 1980 opera,
anche in sede internazionale, per la rappresentanza e la tutela dei diritti
delle persone con disabilità e dei loro nuclei familiari, prioritariamente nel
settore della mobilità, della guida, del trasporto e dell’accessibilità. Andrea
Regimenti
Il nuovo Codice
della strada è stato approvato ieri dal Senato. Ora la palla passa al
presidente della Repubblica Sergio Mattarella: con la sua firma le modifiche
verranno pubblicate in Gazzetta Ufficiale e dopo 15 giorni entreranno
ufficialmente in vigore. “Più sicurezza e prevenzione, contrasto ad abusi e
comportamenti scorretti, norme aggiornate ed educazione stradale”, ha promesso
il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini. Per gli
automobilisti, ma non solo per loro, quindi cambieranno alcune regole. Questo
disegno di legge introduce numerose modifiche volte a migliorare la sicurezza
sulle strade italiane, con l’obiettivo di raggiungere una mortalità zero entro
il 2035, come richiesto dalla Commissione Europea. Tra le principali novità, vi
sono sanzioni più severe per la guida in stato di ebbrezza e sotto l’effetto di
stupefacenti, nuove regole per l’uso dei monopattini e delle biciclette, e
misure per la protezione degli utenti vulnerabili, inclusi pedoni e persone con
disabilità. Inoltre, il disegno di legge prevede l’installazione obbligatoria
di dispositivi di sicurezza come l’alcolock per chi è stato sanzionato per
guida in stato di ebbrezza. Il Sir ha fatto un punto sulle principali modifiche
introdotte con l’aiuto Roberto Romeo, esperto di settore e presidente nazionale
di Anglat, Associazione nazionale di promozione sociale che dal 1980 opera,
anche in sede internazionale, per la rappresentanza e la tutela dei diritti
delle persone con disabilità e dei loro nuclei familiari, prioritariamente nel
settore della mobilità, della guida, del trasporto e dell’accessibilità.
Di seguito le
nuove regole nel Codice della Strada per ogni categoria:
Biciclette
In caso di
sorpasso, è obbligatorio mantenere una distanza di almeno un metro e mezzo. La
potenza massima del motore delle bici elettriche rimane di 250 Watt e la
velocità massima non deve superare i 30 km/h. A tutela dei ciclisti, è stato
inoltre inserito l’obbligo per tutti i conducenti di veicoli a motore di
mantenere, in caso di sorpasso, una distanzadi sicurezza laterale non inferiore
a 1,5 metri.
Monopattini
I monopattini
devono essere dotati di assicurazione, targa e frecce obbligatorie per
garantire maggiore sicurezza. È obbligatorio l’uso del casco per tutti, anche
per i minorenni. Le sanzioni per chi circola senza assicurazione vanno da 100 a
400 euro; per chi usa monopattini senza indicatori luminosi di svolta e freno
su entrambe le ruote, le multe vanno da 200 a 800 euro. È vietata la sosta dei
monopattini sui marciapiedi e quelli noleggiati devono avere un meccanismo di
blocco automatico fuori dalle zone consentite. I monopattini possono circolare
solo su strade urbane con limiti di velocità sotto i 50 km/h, non più su piste
ciclabili e nelle isole pedonali.
Guida in stato di
ebbrezza
Il Codice della
Strada introduce la tolleranza zero per chi guida ubriaco. Le sanzioni variano
in base al tasso alcolemico:
* Tra 0,5 e 0,8
g/l: Sanzione tra 573 e 2.170 euro, sospensione della patente da 3 a 6 mesi.
* Tra 0,8 e 1,5
g/l: Sanzione da 800 a 3.200 euro, detenzione fino a 6 mesi, sospensione della
patente da 6 mesi a un anno.
* Oltre 1,5 g/l:
Sanzione da 1.500 a 6.000 euro, detenzione da 6 mesi a 1,5 anni, sospensione
della patente da 1 a 2 anni.
In tutti i casi,
vi è una decurtazione di 10 punti dalla patente. È vietato bere alcol prima di
mettersi alla guida e per i recidivi è obbligatorio l’alcolock sull’auto, un
dispositivo che impedisce l’avvio del veicolo in caso di ebbrezza. Se il test è
positivo, la patente viene revocata e non può essere conseguita per tre anni.
Guida sotto
effetto di stupefacenti
Per chi guida
sotto effetto di droghe (positivo ai test salivari), è prevista la revoca della
patente, con impossibilità di conseguirne una nuova per 3 anni.
Apparecchiature
elettroniche
Le sanzioni per
l’uso di apparecchiature elettroniche alla guida sono state inasprite:
* Ritiro della
patente per una settimana se il conducente ha più di 10 ma meno di 20 punti
sulla patente. Sospensione della patente per 15 giorni se il punteggio è
inferiore.
* Prima
infrazione: Multa da 250 a 1.697 euro e sospensione della patente da 15 giorni
a 2 mesi.
* Recidiva: Multa
da 350 a 2.588 euro, sospensione della patente da 1 a 3 mesi e decurtazione da
8 a 10 punti.
“Questi interventi
– spiega Romeo – potrebbero essere un valido deterrente, ma per renderli più
efficaci e diffusi tra i giovani, la cultura della legalità e della
responsabilità sulla sicurezza stradale dovrebbe essere promossa tramite
iniziative di informazione e formazione”.
Motoveicoli (es.
scooter)
I conducenti di
ciclomotori e motocicli verranno inseriti nell’elenco degli “utenti
vulnerabili” insieme a pedoni, persone con disabilità, ciclisti e categorie
simili. Gli aspiranti motociclisti autorizzati a esercitarsi per conseguire le
patenti di categoria AM, A1, A2 e A, muniti di foglio rosa, non potranno
trasportare passeggeri. Chi occupa spazi riservati alla fermata o alla sosta
dei veicoli per persone invalide o blocca gli scivoli o i raccordi tra i
marciapiedi, le rampe o i corridoi di transito, sarà soggetto a una multa da
165 a 660 euro.
Autovelox
Arriva una stretta
sull’utilizzo degli autovelox, che saranno utilizzabili solo nel caso in cui la
velocità massima sul tratto di strada è inferiore di non più di 20 km/h
rispetto a quanto previsto dal Codice per quella tipologia di strada (per
esempio su una strada extraurbana dove il limite normalmente è di 90 km/h non
potranno essere installati dispositivi su tratti con limite a 60 km/h). Il
dispositivo dovrà essere preceduto da un apposito segnale a non meno di 1
chilometro prima e tra due autovelox si dovrà mantenere una distanza di almeno
3 chilometri sulle strade extraurbane principali e di almeno un chilometro su
quelle secondarie. Chi prenderà più multe sullo stesso tratto stradale nel giro
di un’ora non si vedrà accumulare le sanzioni, ma ne pagherà solamente una, la
più grave aumentata di un terzo.
Limiti di velocità
Con il nuovo
Codice è prevista una sanzione tra 173 e 694 euro quando il superamento del
limite è tra i 10 e i 40 km/h. Tuttavia, se ciò avviene all’interno di un
centro abitato e per almeno due volte nell’arco di un anno, la multa varia da
220 e 880 euro. A ciò si aggiunge la sospensione della patente da 15 a 30
giorni.
Neopatentati
Per i primi tre
anni dal conseguimento della patente B non potranno essere guidati veicoli con
potenza superiore a 75 kW per tonnellata né elettrici e ibridi con potenza
superiore a 105 kW per tonnellata. Rispetto a quanto accade ora, i neopatentati
potranno guidare vetture più potenti per il primo anno (oggi il limite di 55 kW
per tonnellata per gli autoveicoli in generale e di 70 kW per le autovetture),
ma avranno limitazioni più prolungate nel tempo.
Moto 125 in
autostrada
Su autostrade e
strade extraurbane principali potranno circolare motocicli con motore termico
di cilindratanon inferiore a 120 ccoppure di potenza non inferiore ai 6 kW
in caso di propulsore elettrico. In entrambi i casi, il conducente deve essere maggiorenne.
Sir 21
Priorità e obiettivi della Difesa nel Documento Programmatico 2024-2026
Il Documento
Programmatico Pluriennale della Difesa 2024-2026, recentemente presentato dal
Ministro Guido Crosetto in Parlamento, delinea priorità e prospettive della
difesa italiana per il biennio a venire.
Tutela degli
interessi nazionali e politica industriale della difesa
Riprendendo un
concetto chiave del DPP 2023-2025, ovvero quello della preminenza della difesa
dello Stato su altre attività precedentemente interpretate come prioritarie,
l’ultimo Documento delinea le tre “funzioni imprescindibili” della Difesa.
Nell’ordine: “la difesa dello stato”, “la tutela dei prioritari interessi
strategici nazionali”, “lo stimolo e incentivo alla ricerca e allo sviluppo
tecnologico e nei confronti del settore industriale nazionale”.
Tali funzioni
ricalcano in parte quelle assegnate alle forze armate dal codice
dell’ordinamento militare, in particolare la difesa dello stato, indicando
piuttosto una direzione politico-strategica in linea con il contesto
geopolitico attuale e prevedibile. Emerge infatti un’elevazione di due elementi
chiave a prerogative dello strumento militare. Da un lato la salvaguardia degli
interessi strategici “ovunque essi siano minacciati”, si innesta su una
concezione expeditionary di ampio respiro nel Mediterraneo allargato,
precedentemente caratteristica della gestione delle crisi e delle missioni di
pace ma oggi declinata esplicitamente e fortemente in chiave di interessi
nazionali dell’Italia.
Dall’altro lato,
l’attenzione verso il settore industriale nazionale, posta allo stesso livello
degli altri due pilastri, emerge come riconoscimento del “ruolo di volano di
crescita e stimolo alla competitività industriale, che gli investimenti nel
settore della Difesa hanno sull’intera economia”. Si attesta dunque, oltre alla
funzione cardine dell’industria di portare avanti lo sviluppo tecnologico per
permettere allo strumento di militare di affrontare le sfide attuali, quella di
contribuzione allo sviluppo economico inteso come elemento strategico. Tale
elemento è in linea con la riforma in corso della Direzione Nazionale
Armamenti, separata dal Segretariato Generale della Difesa al fine di
valorizzarne e rafforzarne il ruolo specifico riguardo alla politica
industriale della difesa.
Attenzione verso
l’Africa e operazioni militari autonome
In riferimento
alla tutela degli interessi strategici si evidenzia, in particolare
nell’introduzione del Ministro, un focus particolarmente accentuato
sull’Africa, in quanto soggetto geopolitico che “per caratteristiche e
potenzialità è il naturale complemento dell’Europa”. Nell’ottica di tutelare
gli interessi nazionali, l’approccio italiano all’Africa si declina in un
contrasto alla presenza di “attori terzi che perseguono interessi predatori”,
che minano la presenza italiana al momento “marginalizzata”. Le prospettive
della Difesa sono partecipi di una convergenza a livello di governo e
sistema-Paese verso una concezione degli interessi strategici primariamente di
natura energetica e commerciale, rappresentati principalmente dal Piano Mattei
per l’Africa. Questo è sottolineato, ad esempio, dall’enfasi del DPP sulle
risorse che il continente africano offre, e di cui invece l’Europa ha scarsa
disponibilità.
La formulazione
dell’orientamento strategico verso l’Africa lascia aperti degli interrogativi
relativamente alla concretizzazione di questa visione. Due, in particolare. Il
primo concerne la volontà di procedere autonomamente o in un quadro di
cooperazione europea. Come detto, l’Africa viene descritta come “naturale
complemento dell’Europa”, ma dal documento non si evince in modo chiaro se si
intenda portare avanti le strategie di supporto ai Paesi africani in accordo
con i partner europei o, qualora possibile, in modo autonomo. Il secondo
aspetto è invece relativo agli attori terzi sopra menzionati. Al di là di Cina
e Russia che rappresentano in modo più netto una presenza ostile agli interessi
italiani in Africa, nel continente si rileva un’intensa competizione tra attori
regionali ed extra-regionali che pone l’Italia di fronte alla sfida di gestire
un crescente livello di conflittualità con stati con i quali non vi è
competizione a livello sistemico nel quadro di alleanze, ma solo nello
specifico quadrante africano.
In ragione di
dinamiche competitive sempre più complesse e di un alto livello di volatilità
del sistema di sicurezza internazionale e dei suoi equilibri, il DPP fa
riferimento alla necessità di un approccio allo sviluppo dello strumento
militare basato sulla “speed of relevance”, ovvero la capacità di mantenere
quest’ultimo rilevante rispetto alle rapide evoluzioni di attori e scenari.
Questo dovrebbe concretizzarsi attraverso processi di foresight per individuare
trend rilevanti, un maggiore allineamento tra requisiti operativi e soluzioni
industriali, ed una maggiore sinergia con centri di ricerca e think tank per
una migliore circolazione e condivisione di idee e tecnologie dirompenti.
In un contesto di
crescente polarizzazione e di maggiore predisposizione a ricorrere al conflitto
armato per risolvere dispute internazionali la credibilità assume un ruolo
centrale, in particolare quella relativa alla prontezza al combattimento delle
forze armate, sia in una prospettiva di deterrenza sia per far fronte ad
effettive esigenze di difesa in caso di conflitto. In quest’ottica, come
parametro per valutare il processo di sviluppo capacitivo della Difesa, il DPP
stabilisce nel breve termine l’obiettivo di dotarsi di mezzi e capacità per
poter condurre in autonomia una Limited Small Joint Operation (L-SJO) ad alta
intensità e per un periodo di 6/8 mesi. Questa ambizione risulta
particolarmente rilevante per le sue implicazioni operative e strategiche. Il
raggiungimento del livello di autonomia prefisso dal documento implica ad
esempio un certo grado di indipendenza quanto ad abilitatori strategici finora
forniti da alleati e fondamentali per il raggiungimento, la permanenza e
l’uscita dal teatro operativo. Il secondo aspetto particolarmente rilevante
riguarda la natura di alta intensità della L-SJO. Per quanto, infatti, si
faccia riferimento ad uno scenario di durata temporale limitata, una simile
prospettiva richiede un’ampia disponibilità di mezzi e sistemi, e più in
generale una capacità di “rigenerazione della forza”, che sia in grado di
sostenere il livello di attrito e di complessità di un simile conflitto. È
importante sottolineare come buona parte delle capacità per sostenere
un’operazione interforze limitata ma ad alta intensità servano anche per la
deterrenza e difesa collettiva in ambito NATO.
Deterrenza e
difesa rispetto a un avversario alla pari
Occorre notare
come, a fianco all’attenzione per l’Africa e all’autonoma capacità di
proiezione militare, si collocano investimenti che rispondono in primo luogo
alla logica di assicurare la deterrenza e la difesa collettiva dell’Europa nel
quadro dell’Alleanza atlantica rispetto alla minaccia russa concretizzatasi
drammaticamente in Ucraina.
Nel dominio aereo,
le priorità sono la difesa aerea e missilistica e l’air combat. Il DPP avvia
infatti dell’iter di acquisizione di 24 velivoli Eurofighter F-2000 (quarta
tranche), che nel medio periodo dovrebbero sostituire 26 velivoli della prima
tranche giunti alla fine della loro vita operativa. Svetta poi l’acquisizione
di 15 F35-A (a decollo tradizionale) e 5 F-35-B (a decollo verticale) per
l’aeronautica, ai quali si aggiungono ulteriori 5 F35-B per la marina: con un
costo complessivo dell’operazione di acquisizione dei 25 nuovi velivoli pari a
7 miliardi in dieci anni, la flotta nazionale raggiunge i 115 esemplari,
rispetto ai 131 previsti prima della spending review del governo Monti nel
2011. Proprio in funzione di tale espansione della flotta il DPP prevede
l’adeguamento infrastrutturale di due basi, a Grottaglie e Decimomannu, per
poter ospitare gli F-35. Al potenziamento quantitativo dei sistemi di quarta e
quinta generazione, con una prospettiva temporale di impiego molto
significativa per entrambi, si accompagna l’impegno verso il programma GCAP, e
quindi la sesta generazione, con 8,9 miliardi per la ricerca e sviluppo fino al
2050, e un‘integrazione di 550 milioni attraverso risorse a “fabbisogno” dalla
Legge di Bilancio (LdB) 2024. Rileva come rispetto al precedente DPP l’arco
temporale per gli investimenti in oggetto sia stato allungato dal 2037 al 2050.
Nell’ambito della
difesa aerea e missilistica il DPP 2024-2026, in linea con le decisioni
precedenti, ribadisce l’impegno all’acquisizione di 5 nuove batterie SAMP/T e
al completamento di una sesta, di cui una destinata all’esercito e 5
all’aeronautica. Per il 2024 sono stati stanziati 403,6 milioni, ai quali si
aggiungono 339 milioni attraverso risorse a “fabbisogno” dalla LdB 2024. Tale
acquisizione rappresenta una priorità soprattutto in considerazione della
cessione all’Ucraina di due delle cinque batterie in precedenza a disposizione
dell’Italia.
In ambito
terrestre si conferma l’orientamento verso l’acquisizione di un sistema di
sistemi per la fanteria pesante Army Armored Combat System (A2CS), costituito
da piattaforme combat, Armored Infantry Fighting Vehicle (AIFV) e di supporto,
con fondi per il 2024 pari a 1,225 miliardi di euro. Il DPP riconosce inoltre
la correlazione di questo programma con lo sviluppo del Main Battle Tank (MBT)
di nuova generazione, che ha ricevuto un’integrazione di 1,420 miliardi nel
2024, nella cornice del Main Ground Combat System (MGCS) e dell’alleanza
industriale che vi è alla base. Infine, in campo navale merita poi menzione lo
stanziamento di 2 miliardi di euro per l’acquisizione di due fregate FREMM EVO
in sostituzione dei due vascelli ceduti all’Egitto.
Il DPP presenta
programmi di investimento ambiziosi, sia nei suddetti domini operativi sia in
quelli spaziale e cibernetico. Si pone dunque la questione dell’aumento del
bilancio della difesa per assicurare la realizzazione di tali programmi in
tempi ragionevoli e in modo efficace, nonché per assolvere all’impegno preso
nel 2014 dall’Italia di spendere il 2% del PIL nella difesa entro il 2024 –
impegno realizzato a oggi da 23 su 32 alleati NATO, compresi Francia, Germania,
Polonia (che è arrivata al 4,7%) e Regno Unito (che ha formalizzato l’obiettivo
del 2,5%). Il bilancio ordinario della Difesa per il 2024 ammonta a 29,18
miliardi, in aumento rispetto ai 27,75 miliardi del 2023. Secondo quanto
dichiarato dal Ministro Crosetto in sede di presentazione del DPP alla
commissione difesa al Senato nel 2024 il budget della Difesa rappresenta
l’1,54% del PIL nazionale, con una prospettiva di crescita negli anni
successivi, fino a superare la soglia del 1,60% nel 2027. Ad un incremento in
termini assoluti si accompagna dunque un avvicinamento al requisito NATO del
2%.
Il DPP combina
elementi innovativi, come l’elevazione ad elementi prioritari della Difesa di
componenti precedentemente non considerate tali, prospettive ambiziose, verso
l’Africa e a livello di autonomia operativa, e programmi di investimento volti
a dotare le forze armate di strumenti adeguati a gestire un conflitto con
avversari alla pari e a rafforzare la deterrenza in tal senso. Un’effettiva
concretizzazione di tutti questi aspetti in una Difesa in grado di affrontare
il crescente livello di volatilità e conflittualità del sistema internazionale
richiede continuità nel tempo, soprattutto ma non solo a livello finanziario,
chiarezza e pragmatismo nel declinare gli obiettivi politico-strategici in
politiche specifiche in grado di affermare e tutelare effettivamente gli
interessi nazionali, ed il rafforzamento dell’approccio da sistema-Paese per
massimizzare le risorse a disposizione a livello finanziario, tecnologico e
operativo.
Nicolò Murgia,
AffInt 19
Il paradosso del possesso. Perché desideriamo ciò che non possiamo avere
Nel silenzio dei
corridoi umani giace un paradosso, un sentimento espanso di desiderio per
qualcosa che è sempre appena oltre la nostra portata. Siamo ossessionati
dall'illusorio, dall’irraggiungibile, dal misterioso, e proprio queste cose
riempiono le nostre menti, invitandoci con un fascino ultraterreno. È come se
le vite non realizzate abitassero liberamente nella nostra mente, più preziose
nella loro assenza di qualsiasi altra cosa che possiamo realmente raggiungere.
Ci ricorda incessantemente ciò che non sarà mai, una sorta di chimera che
sussurra piaceri ideali, di come le cose potrebbero essere se solo potessimo
raggiungerle.
Nel frattempo,
tutto ciò che possediamo scivola nello sfondo, avvolto nella familiarità umida
che genera apatia. Dimentichiamo i tesori che sono i nostri compagni
quotidiani: le vittorie per cui abbiamo lavorato, le relazioni che abbiamo
coltivato, e quelle piccole cose che portano gioia nelle nostre vite. Se questa
è la realtà dell’essere fuori dal proprio cammino, ignorando ciò che si ha già
per ciò che si deve ancora ottenere, potrebbe solo farci cadere in un ciclo
infinito di desideri. Uno che promette sempre di soddisfare al prossimo
traguardo, ma raramente mantiene la promessa.
Questo è un ciclo
vizioso che alla fine si rivela autodistruttivo nella misura in cui ci spinge
indietro. Cercando il prossimo “oggetto,” sminuiamo il presente, privandoci
della felicità che deriva dalla gratitudine e dall'apprezzamento, dicendoci che
la contentezza è una destinazione futura, un luogo che raggiungeremo solo
quando avremo ciò che ci manca. Eppure, più ci avviciniamo a un desiderio che
un altro emerge davanti a noi, come un miraggio sull'orizzonte del deserto. È
come se il cuore fosse stato addestrato ad inseguire, mai guardare indietro,
concentrarsi solo sui vuoti e non sui tesori già acquisiti.
Pensiamo per un
momento alla bellezza di un’amicizia ben coltivata, alla serenità di un momento
di solitudine, e al calore di sapere di essere amati. Tesori inestimabili,
eppure troppo spesso non riconosciuti. Dimentichiamo ciò che almeno avevamo
sognato; dimentichiamo ciò che aspiravamo a possedere. Un tempo avevano
catturato la nostra mente quando erano irraggiungibili; ora, come sussurri in
una stanza piena di rumori, svaniscono nel silenzio. È la possibilità che,
prestando loro attenzione, perdiamo la pienezza della nostra vita, quella
bellezza nascosta dietro la quotidianità.
Questo paradosso —
la consapevolezza che bramiamo ciò che ci manca trascurando ciò che abbiamo — è
antico. I filosofi, poeti e pensatori di un tempo ci hanno avvertito di “volere
ciò che abbiamo” piuttosto che “avere ciò che vogliamo”. Ma nel nostro mondo
frenetico, orientato all’ottenimento di successi, siamo più propensi a
celebrare l’ambizione e a scambiare la contentezza per la compiacenza. E la
vera contentezza è tutt'altro che compiacente; piuttosto, è un atto di
apprezzamento attivo e intenzionale della vita già piena, già abbastanza.
Rompiamo questo
ciclo attraverso l'arte della gratitudine consapevole. È una scelta, un atto
intenzionale nel notare e valorizzare ciò che ci circonda. Quando ci fermiamo a
riconoscere le nostre benedizioni, il nostro cuore trova pace e la nostra mente
si stabilizza nell'apprezzamento. Riconosciamo la ricchezza già presente nelle
nostre vite. Veramente, i piccoli miracoli: le risate degli amati insieme a
noi; la natura splendida; le lezioni degne di essere apprese per la saggezza.
Quando impariamo a
valorizzare ciò che ci è caro, sbiadisce il fascino inquietante
dell’irraggiungibile. Scopriamo che la maggior parte dei tesori nella vita non
è qualcosa che possiamo afferrare con le mani, ma è ciò che conserviamo nel
nostro cuore e nella nostra mente. Invece di riempire la testa con ciò che non
abbiamo, pensiamo ai tesori che già possediamo. Facendo così, potremmo scoprire
che la soddisfazione non sta nella corsa infinita verso il “di più,” ma nella
profondità con cui apprezziamo tutto ciò che già abbiamo.
Alla fine, ciò che
non possiamo possedere perseguiterà sempre le nostre menti, ma lo fa come un
maestro: un silenzioso promemoria a non cercare illusioni, ma a vivere
pienamente con ciò che possediamo qui e ora. La vera ricchezza non è il
miraggio del desiderio, ma l'apprezzamento calmo e contemplativo di ciò che è
reale, e di ciò che dà alla vita una pienezza autentica. E allora scopriamo che
la vita è un dono: traboccante e piena solo se lasciata essere.
Krishan Chand
Sethi, dip 18
L’attuale
fragilità sociale dovrà, pur col tempo, essere sostituita col varo di nuovi
programmi anche per ridurre la fragilità di un sistema che non avrebbe più
ragione d’esistere senza sostanziali mutamenti. La ripresa che immaginiamo
dovrà puntellarsi su fattori di grande carisma economico. Dalla sanità,
dall’occupazione e dal varo di un piano finanziario capace di sostenere gli
obiettivi prioritari di una penisola che vuole riemergere da una situazione che
non consente di fare programmi solo teorici. Ci saranno dei beni comuni da
potenziare; a discapito di quelli personali che dovranno essere ridimensionati.
L’Italia dovrebbe essere al centro d’iniziative capaci d’ampliare l’immagine di
bene comune.
La Ricostituire una società del “rinnovamento”
non sarà facile. Le difficoltà potranno essere superate dall’impegno di tutti
nel seguire una strada condivisa. Le trasformazioni socio/economiche hanno
sempre avuto un loro prezzo che anche noi saremo chiamati a pagare. La lezione
della Pandemia e la volontà di riscatto nazionale dovranno fornirci la volontà
per superare le incertezze, le politiche ambigue e chi, tutto considerato, non
ha ancora le idee chiare sul futuro nazionale. Il rilancio dell’Italia chiederà,
indubbiamente, sacrifici. Questa volta, però, non saranno a fondo perduto come,
invece, è stato per il passato.
Giorgio Brignola,
de.it.press
Festival della Migrazione. Piano Mattei per l’Africa: “Chiamiamolo Piano
Meloni”
Europa-Africa
andata e ritorno: le storie e i cammini che rigenerano l’Italia”, con le
relazioni, tra gli altri, di S.E. mons. Gian Carlo Perego, presidente della
Fondazione Migrantes e arcivescovo della diocesi Ferrara-Comacchio.
ha ricordato “la
storia passata e presente di sfruttamento dell’Africa da parte del nostro
Paese” e che “i recenti cammini dei migranti dall’Africa all’Europa trovano una
fatica per la mancanza di percorsi di legalità o per percorsi di legalità –
come il decreto flussi – dove sono tenuti presenti solo i bisogni delle aziende
e non quelli dei lavoratori”.
L’attenzione del
presidente della Fondazione Migrantes si è poi concentrata sull’efficacia del
cosiddetto “Piano Mattei” per l’Africa, che mons. Perego preferirebbe “chiamare
‘Piano Meloni’ per non confonderlo con il vero Piano Mattei”, che era basato su
presupposti culturali e politici dettagliatamente ricordati e contestualizzati
nella sua relazione.
Ricordando il
dettato dell’art. 45 della Costituzione Italiana (“La Repubblica riconosce la
funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di
speculazione privata”), mons. Perego si è domandato se “la cooperazione
internazionale realizzata dal nostro Paese con il nuovo Piano Mattei/Meloni in
nove Paesi africani (Egitto, Tunisia, Algeria, Marocco, Costa d’Avorio,
Mozambico, Repubblica del Congo, Etiopia e Kenya) conserva queste
caratteristiche di funzione sociale, di mutuo aiuto, cioè di collaborazione
alla pari, senza fini di speculazione privata”.
Secondo l’Ansa,
ammontano a 600 milioni di euro le risorse messe a disposizione dal “Piano
Mattei” per il 2025, a fronte di un continente “che necessiterebbe di 500
miliardi di dollari – ha spiegato l’arcivescovo di Ferrara-Comacchio -, per
garantire accesso all’energia a tutta la popolazione, e 438 miliardi di dollari
per investimenti in adattamento entro il 2030, possibile solo con un raccordo
con il Piano europeo sull’Africa, che esiste dal 2009. L’attuale Piano non ha
alcun riferimento al Piano europeo sull’Africa”.
Nella sua
conclusione mons. Perego sottolinea la chiave del suo ragionamento,
che esplicita anche l’ambiguità dello slogan “aiutiamoli a casa loro”: “Se
le politiche sull’immigrazione e le politiche sulla cooperazione non camminano
insieme, contrapponendo il diritto di migrare con il diritto di rimanere nella
propria terra e non tutelando entrambi, si annullano, aggravando la situazione
dei migranti e dei Paesi d’origine”. Migr.on. 27
La Giornata mondiale dell’infanzia. Impariamo ad ascoltare i bambini
“La Giornata
Mondiale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza”, appuntamento che si
rinnova il 20 novembre nel ricordo della “Dichiarazione dei Diritti del
Bambino” e della “Convenzione sui diritti del fanciullo” approvate dalle
Nazioni Unite – “rappresenta certo l’occasione per ricordare che tutti i
bambini godono di diritti, ma pure che tale obiettivo deve costituire un
impegno permanente condiviso, a cominciare dal nostro Paese”. Insomma, “la
ricorrenza, abbracciando l’orizzonte più vasto, deve farci aprire gli occhi e
guardare lontano: ai bambini che vivono tra guerre ed emergenze dimenticate; ai
bambini sfruttati nel lavoro minorile; alle bambine promesse per matrimoni
precoci forzati… Al contempo, non vanno dimenticati dati che ci riguardano da vicino
nel nostro Paese: sulla denatalità, la salute, la povertà educativa
e quella assoluta. Dati che, anche dal nostro osservatorio, destano
preoccupazione”.
Lo dichiara in una
nota Luca Iemmi, presidente nazionale della FISM, la Federazione Italiana
Scuole Materne alla quale fanno riferimento circa novemila presidi educativi
non profit frequentati da quasi mezzo milione di bambine e bambini fra Zero e
Sei anni. “Siamo una realtà parte fondamentale dell’unico sistema integrato di
educazione ed istruzione che tuttavia attende ancora la piena
applicazione della Legge sulla parità del 2000, fatto che ci obbliga a lottare
quotidianamente con difficoltà economiche”, tiene a ripetere Iemmi che, proprio
pochi giorni fa, ha chiesto a tutte le forze di sostenere l’emendamento per
incrementare i fondi per la disabilità degli alunni delle paritarie.
E, sempre a
proposito della “Giornata mondiale” del 20 novembre, il presidente nazionale
FISM nella sua dichiarazione aggiunge: “Anche quest’anno abbiamo invitato le
nostre scuole a riflettere su questa giornata, proseguendo soprattutto le
attività che da tempo già coinvolgono i piccoli sui diritti: alla pace, ad una
sana alimentazione, ma pure al gioco… In molte scuole verranno proposte letture
ispirate a questi temi; altre insisteranno sull’ascolto dei bambini, non meno
necessario come affermano i nostri pedagogisti. Alcune poi hanno già realizzato
delle iniziative insieme ai Comuni, ad esempio collocando panchine azzurre nei
parchi: un nuovo simbolo della centralità e priorità che devono avere i
bambini: di fatto, da sempre l’oggetto della nostra mission”. Fism 18
ROMA – In
occasione della Settimana della Cucina Italiana nel Mondo, il senatore
Francesco Giacobbe, eletto nella circoscrizione estero
Africa-Asia-Oceania-Antartide, sottolinea l’importanza di questa celebrazione
come strumento fondamentale per la promozione del Made in Italy e della cultura
italiana all’estero. “La cucina italiana – afferma Giacobbe – è molto più che
semplice nutrimento; è un linguaggio universale che porta con sé tradizione,
qualità e passione. Attraverso il cibo, riusciamo a raccontare la storia e i
valori del nostro Paese”. Durante questa settimana, il Sistema Italia – con il
coinvolgimento di ambasciate, consolati, Istituti Italiani di Cultura, Camere
di Commercio, enti gestori, uffici dell’ICE – organizza eventi, degustazioni e
incontri per portare nel mondo le eccellenze italiane. “Questi eventi –
continua il senatore – non solo permettono di far conoscere i nostri prodotti
agroalimentari, ma sono anche un’opportunità per rafforzare i legami culturali
e commerciali tra l’Italia e i Paesi che ospitano le nostre comunità”. Il
senatore ha voluto poi evidenziare il ruolo cruciale svolto dalle comunità
italiane all’estero nella diffusione della nostra cultura culinaria: “I nostri
emigrati sono stati i primi ambasciatori del gusto italiano. Prima che
esistesse il mercato globale, loro erano i veri ‘marketers’ dell’Italia,
facendo conoscere prodotti come l’olio, il vino e il parmigiano, la pasta e
tante altre eccellenze italiane in luoghi lontani e creando una rete di
relazioni che ha reso il Made in Italy sinonimo di qualità”. Infine, il
Senatore Giacobbe ha voluto sottolineare l’importanza di questa settimana come
momento di riflessione sul contributo delle comunità italiane e sulla necessità
di consolidare sempre di più la presenza e l’influenza del Made in Italy
all’estero. “Celebrare la nostra cucina significa anche onorare il lavoro e il
sacrificio delle generazioni di italiani che hanno portato il nostro Paese nel
mondo, rafforzando il legame tra l’Italia e chi vive lontano. La Settimana della
Cucina Italiana nel Mondo è un tributo al loro impegno e alla nostra cultura”.
(Inform/dip 18)
Presentata la IX Settimana della Cucina Italiana nel Mondo
ROMA – Presso la
Sala delle Conferenze Internazionali della Farnesina si è tenuta la
presentazione della nona edizione della Settimana della Cucina Italiana
nel Mondo che quest’anno è dedicata al tema “Dieta Mediterranea e Cucina delle
Radici: Salute e Tradizione”. L’iniziativa si propone di valorizzare
all’estero, attraverso eventi e attività promozionali di vario genere
realizzati dalla rete diplomatico-consolare della Farnesina, le eccellenze
del settore agroalimentare ed enogastronomico italiano, sostenendo le
esportazioni, l’internazionalizzazione e i flussi turistici in entrata.
L’incontro è stato aperto dal Ministro degli Esteri Antonio Tajani che ha
in primo luogo segnalato che dal prossimo anno la Settimana della Cucina
Italiana nel Mondo sarà organizzata all’estero in periodi temporali diversi a
seconda dei paesi ospitanti. “La Settimana – ha spiegato il Ministro – non avrà
più una data fissa, ma flessibile così che le Ambasciate abbiano modo di
organizzarsi, il che permetterà anche ai cuochi italiani di andare in più parti
nel mondo”.Tajani ha poi rilevato come quest’anno la Settimana sia volta a
promuovere la dieta mediterranea e la cucina delle radici. “La cucina – ha
spiegato – rappresenta una parte importante dell’export italiano e quindi abbiamo
il dovere di promuoverla anche per contrastare l’italian sounding”. Il primo
obiettivo è quello di favorire le esportazioni attraverso una strategia
complessiva che presenti l’immagine di una cucina di qualità. “La cucina
italiana si basa sulla nostra storia e sulla nostra identità” ha continuato il
ministro. “La dieta mediterranea è anche sinonimo di salute e quando ci
battiamo per difendere anche a livello europeo questo tipo di alimentazione lo
facciamo perché siamo convinti che prove alla mano tuteli al meglio la salute
di ciascuno di noi”. Per Tajani sono i nostri cuochi i presentatori e gli
ambasciatori della dieta mediterranea. L’altro punto toccato dal ministro è
stato quello relativo alla cucina delle radici. “Il ministero degli Esteri – ha
spiegato Tajani – gestisce un programma del PNRR che si chiama Turismo delle
radici il cui obiettivo è quello di far riscoprire a chi ha origini italiane o
chi ha la doppia cittadinanza la propria storia nel paese d’origine”. “In
questo ambito – ha continuato – anche la cucina può attrarre questi turisti
delle radici. Si va a scoprire come mangiavano i propri nonni o i propri
bisnonni”. Per il Ministro l’obiettivo è quello di incrementare le presenze
turistiche nei piccoli borghi e comuni, attraverso un turismo culturale, ma
anche enogastronomico. “Vogliamo far conoscere le nostre cucine che sono tutte
di altissimo livello: da quella siciliana a quella dell’Alto Adige. Abbiamo
tante varietà culinarie e possiamo fare centro con qualsiasi tipo di cucina”,
ha aggiunto il Ministro . Tajani ha poi sottolineato come il giro d’affari
complessivo dell’export italiano si attesti intorno a 626 miliardi. Un valore
che nei prossimi 2 anni, lavorando tutti insieme, potrebbe arrivare a 700
miliardi. Dopo aver sottolineato il pieno sostegno alla candidatura della
cucina italiana come patrimonio immateriale UNESCO, Tajani ha rilevato come
oggi, in un mondo caratterizzato dalla guerra, il cibo italiano abbia
anche una valenza solidale, segnalando in proposito l’iniziativa italiana Food
for Gaza. “Già è arrivato a Gaza – ha ricordato – un carico di 70 tonnellate di
beni alimentari e adesso il governo italiano ha acquistato 15 tir che ha donato
al programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite”. “Siamo anche un popolo
solidale, e questo ci aiuta ad entrare in tanti luoghi, mentre per altri è più
complicato” ha concluso Tajani. Ha poi preso la parola il Ministro
dell’Agricoltura, Sovranità Alimentare e Foreste Francesco Lollobrigida:
“Spesso nel mondo – ha esordito il Ministro – si ragiona di prezzo, solo di
prezzo, senza dare il giusto peso al valore intrinseco del prodotto, a quello
che c’è dietro, in termini di lavoro, di rispetto dell’ambiente, di rispetto
delle regole e di una produzione che riesce a garantire benessere fisico”. “Se
uno mangia bene, se uno ha un ottimo stile di vita, – ha proseguito
Lollobrigida – seguendo le indicazioni che furono di Ippocrate, avrà una vita
longeva e oggi l’Italia ha un’età media molto alta… Uno degli obiettivi è fare
in modo che tutti possano avere accesso a questo cibo di qualità”. Il Ministro,
dopo aver segnalato la grande partecipazione all’estero agli eventi legati alla
Settimana della Cucina italiana, ha sottolineato come sia straordinario
“vedere in tutto il mondo l’interesse per questa iniziativa e soprattutto
l’attenzione dei tanti cittadini italiani che vivono all’estero, che si
sentono legati alla loro patria. Senza contare i tanti cittadini di altre
nazioni che amano l’Italia e che vogliono approfondirne la conoscenza del
nostro cibo” riuscendo a renderci “più competitivi”. “Abbiamo un grande dovere”
ha poi concluso il Ministro. “Continuare a garantire il Made in Italy e
proteggerlo” dall’italian sounding. A seguire è intervenuto Lorenzo
Galanti, Direttore Generale dell’ICE che ribadito come il tema della Settimana
inviti a riscoprire il legame profondo tra cibo, cultura e benessere puntando
su valori come la sostenibilità e la tutela delle nostre radici gastronomiche.
“Stiamo parlando – ha aggiunto – di una filiera strategica che crea occupazione
e che all’estero accredita l’Italia e il suo saper fare impresa”. Galanti ha
poi segnalato come nella Settimana siano stati coinvolti 102 paesi in cui “ICE
realizza per l’occasione, in relazione con la Farnesina, 173 iniziative
coordinate dalla rete degli uffici all’estero”. “In queste iniziative – ha
precisato Galanti – Il nostro patrimonio culturale viene spiegato in tutte le
sue sfaccettature, contrastando l’italian sounding”. Galanti ha concluso il suo
intervento ricordando come il settore agroalimentare sia una forza trainante
per l’export italiano: vale il 19% del PIL italiano, “sono 64 i miliardi
dell’export agroalimentare, con un incremento del 6%”. Dal canto suo Sandro
Gambuzza, Vice Presidente di Confagricoltura, ha spiegato come l’adesione
al progetto sia maturata per “diffondere nel mondo la conoscenza della cucina
italiana e dei prodotti alimentari di qualità del nostro paese”. Gambuzza ha
anche ricordato le diverse iniziative promozionali e istituzionali fatte in
merito tra cui quella relativa alla pubblicazione di un libro realizzato da
Confagricolutra e Confagricolutra donna sul tema “Le grandi chef in una
ricetta”. E stata poi la volta di Ettore Prandini, Presidente della
Coldiretti, che ha parlato della centralità del lavoro portato avanti dai
cuochi nel far conoscere all’estero le nostre eccellenze enogastronomiche.
Un’attività in qualche modo simile a quella portata avanti in altri settori
dagli Ambasciatori. Prandini si è anche soffermato sul possibile obiettivo di
raggiungere entro la fine dell’anno in questo ambito la soglia dei 70 miliardi
di export. Dopo l’intervento di Luigi Scordamaglia, Presidente di Eat Europe,
che ha rilevato come nonostante le difficoltà a livello mondiale degli ultimi
anni il settore agroalimentare italiano sia riuscito a crescere anche grazie
all’aumento della richiesta dei prodotti mondiali, Paolo Mascarino, Presiedente
di Federalimentare, ha sottolineato l’importanza del legame che esiste tra la
cucina italiana, le radici storico-culturali e la valorizzazione dei modelli
alimentari tradizionali, in riferimento a stili di vita sani e diete
equilibrate. “Esso costituisce un unicum nel panorama mondiale” ha proseguito
Mascarino. La qualità della dieta mediterranea è dimostrata, secondo il presidente
di Federalimentare, dalle cifre dell’export, già citate in precedenza, e dal
positivo andamento della salute pubblica. Dal canto suo Antonio Cellie,
Presidente di Tutto Food, ha rilevato la centralità per il prossimo futuro del
ruolo delle. Filiere. L’incontro si è concluso con il messaggio video di
Alessandro Circello, Responsabile comunicazione Federcuochi, che,
dall’Ambasciata d’Italia a Tokio, ha illustrato le iniziative messe in
campo per la Settimana della cucina italiana nel mondo dai cuochi italiani
giunti in Giappone.
(Alessio Mirtini-
Inform/dip 19)
Redditi prodotti all’estero. La sentenza della Cassazione sulla doppia
imposizione fiscale
ROMA – “Con una
nuova, ennesima importante sentenza, la Corte di Cassazione ha riaffermato il
principio – già espresso in altre sentenze ma non ancora recepito nella
legislazione italiana – che il credito per le imposte già pagate all’estero
(per redditi prodotti all’estero) spetta (al contribuente con la residenza
fiscale in Italia) anche se tale contribuente che ha lavorato all’estero e
comunque prodotto redditi all’estero, non abbia presentato la dichiarazione dei
redditi in Italia, purché vi sia una convenzione internazionale contro le
doppie imposizioni fiscali”. Lo segnala con una nota il deputato del Pd Fabio
Porta (circoscrizione Estero-ripartizione America Meridionale) facendo
riferimento al “caso esaminato dalla recente Sentenza n. 24160/2024” che
“riguardava un contribuente che aveva prodotto redditi in Brasile e al quale
l’Agenzia delle Entrate (Centro operativo di Pescara) aveva notificato 5 avvisi
di accertamento per redditi perfezionatisi in Brasile, sottoposti a tassazione
in quel Paese ma non dichiarati in Italia”.
L’on. Porta
ricorda che “in virtù del principio adottato nel diritto tributario interno
dallo Stato e dall’amministrazione finanziaria italiani definito ‘Word Wide
Taxation’ o tassazione mondiale, i redditi del cittadino residente sono
soggetti a tassazione diretta dal fisco italiano indipendentemente dal luogo
ove tali redditi sono stati prodotti”. “Capita spesso quindi – continua – che i
lavoratori italiani i quali non si iscrivono all’AIRE e producono reddito
all’estero sono soggetti o rischiano di essere soggetti se tracciati, a doppia
tassazione”.
“La Corte di
Cassazione – spiega Porta – ha precisato in questa sua ultima sentenza che con
la Convenzione bilaterale sulla doppia imposizione con il Brasile lo Stato
italiano, nel caso in cui assoggetti a imposizione elementi di reddito
imponibili in Brasile, si è obbligato nei confronti dello Stato brasiliano a
detrarre dalle imposte così calcolate l’imposta sui redditi pagata in Brasile.
L’obbligo che lo Stato italiano ha assunto nei confronti dello Stato brasiliano
è un obbligo incondizionato. In altre parole, con la Convenzione bilaterale
l’Italia si è obbligata, nei confronti del Brasile, a limitare la sua sovranità
in tema di imposizione fiscale e a far sì che i contribuenti italiani che
paghino le tasse al fisco brasiliano in relazione ad elementi di reddito posti
in essere in Brasile, nel caso in cui siano assoggettati a tassazione anche in
Italia in relazione a quegli stessi elementi di reddito, non subiscano una
doppia imposizione. Questo principio vale ovviamente per tutte le convenzioni
bilaterali contro le doppie imposizioni stipulate dall’Italia”.
“Si tratta perciò
– evidenzia il deputato – di una sentenza molto importante che praticamente
sancisce che l’omessa dichiarazione dei redditi in Italia (da parte del
contribuente residente fiscalmente in Italia) non comporta di per sé la perdita
del diritto di credito per le imposte pagate all’estero e conferma il concetto
che l’art. 165 comma 8 del TUIR (che prevede appunto la doppia tassazione per
omessa dichiarazione dei redditi prodotti all’estero) è una norma invalida e
incostituzionale sulla quale prevalgono i principi delle convenzioni contro le
doppie imposizioni che sono istituite con lo scopo di eliminare la doppia
imposizione. “Viene quindi confermato dalla Cassazione l’orientamento
giurisprudenziale secondo cui il diritto al credito di imposta essendo
formalizzato dalle convenzioni contro le doppie imposizioni, non necessita di
ulteriori adempimenti – tra i quali la dichiarazione dei redditi – previsti
dalla legge nazionale (art. 165 del Tuir) proprio alla luce della preminenza
dei Trattati internazionali sulle leggi interne”
“Va rilevato
tuttavia – prosegue l’on. Porta – che le sentenze della Cassazione non hanno
forza di legge perché decidono un caso specifico portato all’attenzione del
giudice, tuttavia la Cassazione definisce la corretta interpretazione e
applicazione di una legge. Dovrà ora essere lo Stato (Governo e Parlamento) a
modificare la legge per uniformarsi ai principi fissati dalla Suprema Corte”.
Il deputato del Pd eletto all’estero fa presente che “da molti anni”
segnala con interrogazioni, emendamenti e proposte di legge, “il problema di
decine di migliaia di nostri lavoratori andati a lavorare all’estero per più di
dodici mesi , i quali, per la ragioni più disparate e sebbene sia obbligatorio
per legge, non si iscrivono all’Aire (Anagrafe degli Italiani Residenti
all’Estero), mantenendo così la residenza fiscale in Italia e rischiano di
essere o sono sottoposti a doppia tassazione”. L’on. Porta ritiene che “dopo
l’ulteriore chiarimento della Cassazione” sia “improcrastinabile un intervento
legislativo del Governo italiano che legiferi , come richiesto anche nelle mie
interrogazioni, che il contribuente può detrarre l’imposta assolta all’estero
da quella complessivamente dovuta allo Stato italiano, anche nel caso di omessa
presentazione della dichiarazione o di omessa indicazione dei redditi prodotti
all’estero nella dichiarazione presentata”. (Inform/dip 20)
Rafforzamento servizi consolari: dal Senato via libera definitivo alla
legge
ROMA - Il Senato
ha approvato oggi in via definitiva il ddl “Disposizioni per il finanziamento
di interventi volti al rafforzamento dei servizi consolari in favore dei
cittadini italiani residenti o presenti all'estero” a prima firma Ricciardi
(Pd). Dopo il via libera della Camera, il testo ha proseguito velocemente il
suo iter in Senato.
Ad illustrare il
testo ai colleghi è stato il relatore, Roberto Menia (FdI): composto di un solo
articolo, il ddl prevede la creazione di un fondo di 4 milioni di euro annui
dal 2025 per migliorare il rilascio dei passaporti. Le risorse saranno
distribuite agli uffici consolari in base al numero di passaporti emessi. Entro
marzo di ogni anno, una relazione sull'utilizzo dei fondi sarà pubblicata
online. La copertura finanziaria è garantita da riduzioni nel bilancio del
Ministero dell'economia.
Il testo è stato
approvato con il voto di tutti i partiti: nelle dichiarazioni finali sono
intervenuti i senatori Scalfarotto (IV), Magni (Misto-AVS), De Rosa (FI-BP),
Marton (M5S), Stefania Pucciarelli (LSP), Alfieri (PD) e Antonella Fadda (FdI).
Pur votando a
favore del provvedimento, Italia Viva ha criticato la gestione della
cittadinanza italiana, proponendo una revisione dell'attuale legge per dare
priorità a chi vive e contribuisce nel Paese, mentre il Movimento 5 Stelle ha
espresso dubbi sull'efficacia del criterio di distribuzione dei fondi ai
consolati, che penalizza gli uffici già in difficoltà. (aise 21)
ROMA\ aise\ - “Il
ddl sui servizi consolari a mia prima firma è finalmente legge. È importante
perché, per la prima volta nella storia, una legge che riguarda gli italiani
all'estero non è un atto parlamentare straordinario ma ha seguito un iter
ordinario. Ma è importante soprattutto perché il primo partito di opposizione,
il Partito Democratico, l’ha inserita a inizio legislatura tra le proprie
priorità, e oggi, con il consenso di tutte le forze politiche di Camera e
Senato, che ringrazio, l’ha fatta diventare legge dello Stato”. Così Toni
Ricciardi, deputato Pd eletto in Europa, commenta l’approvazione definitiva
votata ieri dal Senato del ddl che prevede la creazione di un fondo di 4
milioni di euro annui dal 2025 per migliorare il rilascio dei passaporti.
“Questo –
sottolinea – è anche un segno di riconoscimento alle comunità delle italiane e
degli italiani all'estero, che hanno sempre premiato il Partito Democratico e
credo sia un giusto riconoscimento. Il consolato è l'unico luogo dove gli
italiani all’estero si recano per risolvere i loro problemi, non ne hanno
altri, è come il piccolo comune in Italia, è totalizzante”.
Secondo Ricciardi,
“è significativo che il Partito Democratico abbia colto in questo una un segno
distintivo, una priorità. In questa legislatura è l'unico provvedimento al
momento a favore degli italiani all'estero”.
“Nonostante i
quasi 7 milioni di italiani all’estero si fa fatica a riconoscere la
ventunesima regione d'Italia, l'unica che demograficamente cresce. Questa è una
misura che riguarda soprattutto il continente europeo, dove vive il 65 per
cento degli iscritti Aire. Ci sono consolati che registrano 4500 iscrizioni al
mese, di cui il 30 per cento sono nascite. Ragazze e ragazzi partiti
dall’Italia qualche anno fa che hanno messo su famiglia e vedono i propri figli
nascere all'estero. Serviva intervenire e – conclude Ricciardi – siamo
fiduciosi che questa sia solo l'inizio di una misura che si autoalimenterà e
che in prospettiva sarà un crescendo di risorse per lo Stato e per i consolati,
per garantire servizi, garantire i diritti, garantire cittadinanza”. (aise/dip
21)
Nessuna esternalizzazione di servizi consolari ai patronati all’estero
Roma. “Il
Ministero degli Esteri non intende in alcun modo esternalizzare ai patronati
all’estero servizi di competenza alle ambasciate e ai consolati. Lo ha
dichiarato il Sottosegretario agli Affari Esteri, Giorgio Silli, che ringrazio,
rispondendo in Commissione Esteri alla mia interrogazione, posta a seguito
dello scoop di Massimo Giletti e Rai3 sullo scandalo patronati Cgil
all’estero”. A dirlo è stato Simone Billi, deputato della Lega eletto in
Europa, che ha riportato della risposta del governo alla sua interrogazione.
“Il
Sottosegretario Silli ha precisato che la normativa vigente permetterebbe di
stipulare convenzioni coi patronati solo per il mero inoltro di pratiche
digitali da remoto - ha aggiunto Billi -. L’ipotesi è allo studio ma di
difficile concretizzazione perché manca una specifica voce di bilancio e vi
sono vincoli relativi alla riscossione di percezioni consolari”.
Contento, dunque,
Billi per la risposta ricevuta “in cui la Farnesina esplicitamente dichiara
l’intento di rafforzare la rete consolare e le sue risorse umane per potenziare
i servizi ai cittadini all’estero”.
“Il Ministero
degli esteri non intende in alcun modo esternalizzare ai patronati all'estero
servizi di competenza delle Ambasciate e dei Consolati”, ha affermato Silli.
“La normativa vigente prevede espressamente che questi servizi vengano erogati
dalla nostra rete diplomatico-consolare. La possibilità di stipulare
convenzioni con i patronati – esplicitamente prevista dalla normativa vigente –
se venisse attivata potrebbe riguardare il mero inoltro di pratiche digitali da
remoto, per venire incontro alle esigenze delle fasce più fragili delle
comunità italiane all'estero. Si tratta peraltro di un'ipotesi per il momento
solo allo studio, simile a quanto avviene, ad esempio, per i servizi di
assistenza fiscale in Italia”.
“L'assenza di una
specifica voce di bilancio rappresenta, tra l'altro, un ostacolo importante
verso tale prospettiva”, ha rimarcato il sottosegretario, spiegando che “ci
sono, inoltre, vincoli relativi alla riscossione di percezioni consolari, che
devono essere versate nelle casse dello Stato da parte della rete
diplomatico-consolare. Inoltre, tutte le procedure deputate allo svolgimento
delle funzioni consolari devono essere aderenti ai principi e agli obblighi di
legge in materia di protezione dei dati personali. La gestione e il trattamento
dei dati personali nell'ambito dei servizi consolari sono in capo al personale
dell'Amministrazione e non sono delegabili a soggetti esterni”.
“L'obiettivo di
potenziare la qualità e la funzionalità dei servizi ai cittadini e alle imprese
italiane all'estero – ha concluso Silli – non può quindi essere perseguito
attraverso l'esternalizzazione, ma solo con il rafforzamento della nostra rete
diplomatico-consolare e delle sue risorse umane. Questa continua ad essere la
nostra priorità”. (aise/dip 20)
Approvato in via definitiva il disegno di legge sul rafforzamento dei
servizi
ROMA – Approvato
in via definitiva e all’unanimità dall’Aula del Senato, dopo essere già passato
alla Camera, il disegno di legge Toni Ricciardi ed altri, recante disposizioni
per il finanziamento di interventi volti al rafforzamento dei servizi consolari
in favore dei cittadini italiani residenti o presenti all’estero. Nell’Aula di
Palazzo Madama il relatore, senatore Roberto Menia (FdI), ha rilevato come
questo provvedimento rappresenti un importante segnale di attenzione, di
vicinanza e di solidarietà verso i nostri connazionali che vivono, operano e
lavorano all’estero. “È un segno di vicinanza – ha affermato Menia – ed è bello
che venga da questo Senato, visto che da parlamentari rappresentiamo l’Italia
tutta e che l’Italia tutta è prima di tutto un concetto spirituale. L’Italia
non è soltanto quello che è dentro i nostri confini, l’Italia non è soltanto i
nostri monumenti e le nostre opere d’arte, l’Italia non è soltanto tutto ciò
che è materiale, ma anche molto di ciò che è immateriale: la lingua bellissima
che parliamo, i valori spirituali che ci sono trasmessi attraverso le
generazioni. L’Italia vive anche lontano da qui, perché esiste un’altra Italia:
sei milioni e più di italiani sparsi in ogni Continente sono italiani che
vivono, che lavorano, che testimoniano la loro italianità e lo fanno
producendo, inventando, ideando, creando”. Menia, dopo aver evidenziato che ci
sono però anche italiani in difficoltà in vari Paesi del mondo, ha quindi
spiegato in cosa consiste il disegno di legge. “Sono previste delle
disposizioni per il finanziamento e nuovi interventi rivolti al rafforzamento
dei servizi consolari in favore dei cittadini italiani residenti all’estero.
Questa proposta di legge arriva dalla Camera e origina da una proposta
dell’onorevole Toni Ricciardi del Partito Democratico, meritevole di aver
voluto questa legge. È un’iniziativa meritoria, che nasce da un’intuizione:
nasce dall’aver empiricamente verificato, essendo un italiano all’estero, come
una delle prime e quasi banali cose che chiede un italiano all’estero è avere
il proprio passaporto”, ha rilevato il relatore ricordando che all’estero ci
sono italiani di vecchia generazione e italiani di nuova generazione, emigranti
storici ed emigranti nuovi. “Come per tutti gli emigranti, la nostalgia della
casa, il voler ritornare un giorno a casa è un dato fondamentale. E la prima
cosa che ti serve per tornare a casa è il passaporto. Ebbene, voi dovete sapere
che le nostre strutture consolari, pur con il lavoro indefesso che svolgono,
non sempre ce la fanno”, ha sottolineato Menia rilevando il rischio che una
porzione della domanda di passaporti possa rimane inevasa con conseguente
percezione di abbandono, rispetto alla Madrepatria, da parte del connazionale
all’estero . Il relatore ha poi evidenziando come il provvedimento sia composto
da un solo articolo, con tre commi. “Il disegno di legge stabilisce che sia
stanziato un fondo, che sarà di quattro milioni annui, diretto a finanziare le
strutture consolari perché siano adibite a questo tipo di lavori. Si prevede
quindi una dotazione pari a quattro milioni di euro annui a decorrere dal 2025,
destinata al finanziamento di interventi per il rafforzamento dei servizi
consolari in favore di cittadini italiani residenti o presenti all’estero, con
priorità per i servizi maggiormente richiesti, compresi quelli relativi al
rilascio di passaporti. Nel medesimo comma viene altresì previsto che le
risorse del fondo siano ripartite annualmente tra gli uffici
diplomatico-consolari in proporzione al numero di passaporti ordinari
rilasciati da ciascun ufficio nell’anno precedente. Il secondo comma stabilisce
che, entro il 31 di marzo di ogni anno a decorrere dal secondo anno successivo
a quello in corso alla data di entrata in vigore della legge, nel sito Internet
del Ministero degli Esteri sia pubblicata un’apposita relazione che contenga i
dati aggregati relativi all’utilizzo delle somme del fondo. Infine, il terzo
comma reca la copertura finanziaria del provvedimento e dispone che gli oneri
derivanti dalla legge saranno pari a 4 milioni di euro annui a decorrere dal
2025”, ha spiegato Menia. (Inform/dip 24)
Riconoscere la perequazione delle pensioni dei residenti all’estero
L’attuale
configurazione dell´articolo 27 del ddl di Bilancio per il 2025, attualmente
all´esame della Camera dei Deputati, dispone che la rivalutazione automatica
dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall’articolo
34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, non sia riconosciuta ai
residenti all’estero titolari di pensioni complessivamente superiori al
trattamento minimo INPS.
Questa misura,
stando ai dati nelle nostre disponibilità, andrebbe ad aggredire un segmento di
contribuenti, a cui sono erogate spettanze pensionistiche piuttosto modeste,
pertanto ben lontane dai grandi patrimoni su cui, di solito, si agisce quando
si applicano i prelievi di solidarietà.
La formulazione
stessa di detta norma, in modalità di prelievo di solidarietà a carico del
contribuente che percepisce spettanze di non elevato importo, rappresenta un elemento altamente
sanzionabile che viola il dettato costituzionale, nonché le pronunce della
suprema Corte e che deve invitare ad una riflessione complessiva in uno
scenario internazionale economico-sociale che impone agli Stati di operare
scelte di garanzia e di tutela nei confronti dei cittadini, al fine di
salvaguardarli, in primis, dalla spirale inflazionistica.
Tali scelte,
qualora trovassero applicazione nel ddl di Bilancio 2025, intaccherebbero ogni
elemento di garanzia e di tutela nei confronti dei pensionati residenti
all’estero, elementi che verrebbero fortemente compromessi con la misura in
parola.
Ci auguriamo,
dunque, che vi siano, tra gli
emendamenti segnalati, che saranno
oggetto di voto in sede referente nei prossimi giorni, anche gli emendamenti
soppressivi o riformulativi di detta norma, al fine di riportare la materia
entro parametri di legittimità, di correttezza e di garanzia nei confronti dei
connazionali, lavoratori e pensionati, che per una vita hanno versato
contributi in Italia e che ora, poiché residenti all’estero, si vedono esclusi dai legittimi riadeguamenti
previsti dalla norma per rendere adeguate le proprie pensioni, per ragioni che
sfuggono sotto il profilo giuridico e sociale. Confsal Unsa 24
Voto RSU 2025: lettera aperta di Confsal Unsa Esteri ai responsabili di
Cgil, Cisl e Uil
Roma - “Ci
troviamo a pochi mesi dalle procedure di voto per l’elezione delle
Rappresentanze Sindacali Unitarie (RSU 2025), che avranno luogo, come di rito,
anche presso le sedi estere della Farnesina”, e la Confsal Unsa Esteri ha
rivolto una lettera aperta ai responsabili di Cgil, Cisl e Uil, ricordando che
“il rinnovo delle rappresentanze RSU si configura come l’espressione più alta
dell’azione sindacale, oltre che l’attuazione della legittima quanto
inderogabile azione di unione tra rappresentanza sindacale e rappresentanti
sindacali”.
“Il prossimo mese
di aprile”, si legge nella lettera, “noi tutti saremo chiamati ad un rinnovo
della nostra missione, unitamente a quello della nostra responsabilità nei
confronti di tutti i lavoratori del MAECI a Roma e all’estero e, in particolar
modo, rispetto a quelli in servizio in aree geografiche dove i diritti
sindacali rappresentano qualcosa di inusuale, lontano – quasi impalpabile - e
ben distante dalle realtà socio-politiche e culturali entro cui i colleghi sono
cresciuti e si sono formati all’estero e entro cui vivono la loro
quotidianità”.
“Dinanzi a questo
scenario, che si configura come un unicum nel panorama della PA italiana”, la
Confsal Unsa Esteri evidenzia “la responsabilità di elevare i diritti di questi
lavoratori entro una cornice di trasparenza, funzionalità e soprattutto uguaglianza,
esorcizzando il reiterarsi abominevole di disparità di trattamento in termini
di rappresentanze tra lavoratori, egualmente in servizio presso la medesima
sede, ma costretti ed assoggettati ad una sorta di apartheid della
rappresentanza sindacale che, nel 2025, fa fatica a trovare un senso giuridico,
amministrativo, sociale, sindacale ed operativo”.
Con “questa
drammatica consapevolezza”, il sindacato rivolge un appello ai colleghi di
Cgil, Cisl e Uil, “per chiedere loro di compiere un atto di emancipazione
rispetto ai lacci e lacciuoli che i vincoli ideologici, programmatici e
politici impongono costantemente e che traghettano le azioni sindacali verso
orientamenti più funzionali alla rappresentanza tout court che agli interessi
preminenti dei lavoratori”.
“Come Confsal
Unsa”, prosegue la lettera aperta, “vogliamo poter contare anche su di voi per
ridefinire lo scenario operativo entro cui dovranno attuarsi le prossime
elezioni RSU, in occasione delle quali il nostro Sindacato, in nome della
giustizia e parità di trattamento, ritiene opportuno, finalmente, approdare ad
un Collegio unico, che includa tutti i lavoratori, senza quei confinamenti,
quei fili spinati, quei “muri di Berlino”, che, secondo l’accordo sottoscritto
recentemente all’ARAN, si pretende di continuare ad applicare, delimitando così
la rappresentanza sindacale, i diritti annessi e le istanze dei lavoratori”.
Per la Confsal
Unsa Esteri “le prossime elezioni RSU possono essere un’occasione preziosa,
quasi irripetibile, per attuare questa emancipazione anche nello scenario
sindacale della Farnesina. In questa battaglia non vogliamo continuare ad
essere soli: riteniamo infatti imprescindibile operare in una prospettiva di
coralità, a cui deve aggiungersi un’azione sindacale concreta, a tutela,
soprattutto, di quelli i cui diritti devono essere difesi non solo con azioni
di monitoraggio costante, ma anche con i muscoli e con i denti”.
La Confsal Unsa
Esteri invita quindi i tre sindacati nazionali a “dimostrare apertamente la
disponibilità a voler effettivamente abbattere ogni discriminazione, ogni
frammentazione e ogni svilimento dei diritti sindacali e del ruolo sindacale
presso il MAECI: attuiamo insieme questa piccola grande rivoluzione. La Confsal
Unsa ci sarà!”. (aise/dip 27)
L’Inps nega l’importo aggiuntivo di 154 euro sulla 13ª delle pensioni in
convenzione detassate
Roma. “Come tutti
gli anni l’Inps emana un messaggio (quest’anno il n. 3821 del 15 novembre)
dove, senza spiegarne i motivi, ci informa che l’importo aggiuntivo di 154 euro
(art. 70, comma 7, della legge 23 dicembre 2000, n. 388) corrisposto con la
tredicesima del mese di dicembre a tutte le pensioni pari o inferiori al minimo
(e a patto che i beneficiari soddisfino specifici limiti reddituali) non sarà
pagato alle pensioni detassate in virtù di una convenzione sulla doppia
imposizione”. A rilanciare la notizia è Fabio Porta, deputato Pd eletto in Sud
America, che spiega come, alla luce di questa decisione, “vengono escluse
dall’attribuzione del beneficio tutte le pensioni dei residenti all’estero i
quali hanno richiesto all’Inps la detassazione della loro pensione, sia in
convenzione che autonoma, secondo quanto stabilito dalla convenzione contro le
doppie imposizioni fiscali stipulata dall’Italia con il Paese di emigrazione”.
“Quasi tutte le
pensioni erogate all’estero – ricorda Porta – sono detassate alla fonte
dall’Inps e tassate dal Paese di residenza perché così è stabilito dalla
stragrande maggioranza delle convenzioni contro le doppie imposizioni fiscali
stipulate dall’Italia. Ciò significa che a quasi tutti i potenziali aventi
diritto (si presume migliaia di pensionati italiani residenti all’estero) viene
negato il diritto ai 154 euro della somma aggiuntiva”.
“Ma cosa è e quali
sono i requisiti pensionistici e reddituali necessari per aver diritto
all’importo aggiuntivo? L’importo aggiuntivo – spiega il deputato – è
un’erogazione supplementare alla pensione, pari a 154,94 euro, introdotta dalla
legge finanziaria 2001 (art. 70, legge 23 dicembre 2000, n. 388) e riconosciuta
a chi percepisce una o più pensioni con un importo complessivo non superiore al
trattamento minimo e che si trovi in determinate condizioni reddituali. Per il
2024 il limite di importo annuo della pensione (comprensivo delle maggiorazioni
sociali e delle pensioni o pro-rata esteri) non deve superare i 7.781,93 euro
(se l’importo delle pensioni è compreso fra 7.936,87 e 7.781,93 euro spetta la
differenza fra 7.936,87 e l’importo della pensione). Sempre per il 2024 i
limiti reddituali da non superare sono 11.672,90 euro quello individuale e
23.345,79 quello coniugale. Nei casi in cui il pensionato sia titolare anche di
prestazioni liquidate in regime di convenzione internazionale, per la verifica del
limite reddituale viene considerato anche l’importo della pensione estera (o
pro-rata), in aggiunta all’importo delle pensioni italiane. Per il tetto di
reddito, non si calcolano i trattamenti di famiglia, la casa d’abitazione e
pertinenze, i trattamenti di fine rapporto, i redditi derivanti da competenze
arretrate sottoposte a tassazione separata”.
“La decisione
dell’Inps di escludere (nonostante ne abbiano il diritto) dal pagamento
dell’importo aggiuntivo di 154 euro i pensionati italiani residenti all’estero
solo perché hanno richiesto la detassazione della loro pensione, così come
d’altronde previsto dalla normativa fiscale internazionale, - annota il
parlamentare dem – appare giuridicamente infondata (non lo prevede nessuna
disposizione legislativa nazionale e convenzionale) e inoltre non è
giustificata da alcuna inferenza logico-deduttiva delle norme in vigore ed in
particolare della stessa legge istitutiva della prestazione (e cioè della legge
n. 388/2000, articolo 70, commi da 7 a 10) che non menziona restrizioni di
natura fiscale ma solo reddituali”.
“Vengono colpiti
da questa penalizzante decisione – evidenzia Porta – soprattutto i pensionati
più poveri, ossia quelli residenti in America latina, le cui pensioni sono
detassate in Italia e tassate nel Paese di residenza e i cui importi
pensionistici complessivi sono spesso pari o inferiori al trattamento minimo
italiano. Continueremo ad adoperarci – conclude – affinché il Governo, il
Ministero del Lavoro e l’Inps chiariscano questa iniquità”. (aise/dip
29)
Umfrage. Unterbringung Geflüchteter
ist „herausfordernd, aber machbar“
Viele Menschen sind seit 2015 nach Deutschland geflüchtet,
zuletzt aus der Ukraine. Wie klappt es mit der Versorgung vor Ort? Eine Umfrage
gibt Auskunft: Es gibt entspannte Kommunen und Städte am Limit.
Viele Kommunen und Landkreise betrachten die Unterbringung
von Geflüchteten weiterhin als Herausforderung. Hinweise liefert eine nicht
repräsentative Online-Befragung des Instituts für Demokratische Entwicklung und
Soziale Integration. So schätzt fast die Hälfte deren Unterbringung als
„herausfordernd, aber machbar“ ein. Rund ein Drittel sieht sich „am Limit, im
Krisenmodus“. Rund jede zehnte Kommune bewertet die Lage als „(noch) entspannt,
aber teilweise belastend“, jede zwanzigste sieht sich demnach als „überlastet,
im Notfallmodus“.
Co-Autor Frank Gesemann spricht von einer „repräsentativ
angelegten Befragung“, da alle Kommunen ab 5.000 Einwohnern die Chance zur
Teilnahme hatten. Unter anderem da die Rücklaufquote zufriedenstellend gewesen
sei und die Stichprobe die Verteilung der Kommunen nach Merkmalen wie Typ,
Größe und Bundesland gut widerspiegele, handle es sich um eine „aussagekräftige
Stichprobe“. Der Rücklauf aus ostdeutschen Kommunen sei aber geringer gewesen.
Wohnungsmarkt herausfordernd
Meist werden Geflüchtete der Umfrage zufolge in angemieteten
Privatwohnungen oder kommunalen Wohnungen untergebracht, gefolgt von
Gemeinschaftsunterkünften und Wohncontainern. Sporthallen oder Zelte kamen nur
noch sehr selten zum Einsatz. Als besonders herausfordernd werteten die
Befragten die Situation auf dem Wohnungsmarkt.
An der Online-Befragung nahmen nach Angaben der Autoren 567
Kommunen und Landkreise zwischen dem 19. August und dem 30. September teil. Auf
Landkreise, die ebenfalls an der Unterbringung beteiligt sein können, entfiel
dabei knapp jede zehnte Antwort. Ostdeutsche Städte, Landkreise und Gemeinden
waren eher unterrepräsentiert. (dpa/mig 29)
Gefangen in der Eskalationsspirale
Abschreckung soll den Gegner zu Zurückhaltung bewegen – kann
aber als Aggression wahrgenommen werden. Gibt es einen Ausweg aus dem Dilemma?
Von Johann Ivanov
Wahrscheinlich werden Historiker erst nach Dekaden einen
passenden Begriff für die heutige Zeit finden. Zu viel ist gerade in Bewegung,
zu wenig hat sich vollends materialisiert. Neue Ost-West-Konfrontation, Kalter
Krieg 2.0, Ende des regelbasierten Systems oder Beginn der multipolaren
Weltordnung? An Ideen wird es nicht mangeln; an Versuchen, Parallelen zu
früheren Zeiten zu ziehen, sicherlich auch nicht. Manche Begriffe, die nach
vergangenen Epochen klingen, werden aber absehbar die strategischen Debatten
der kommenden Jahre prägen. „Abschreckung“ ist ein solcher Begriff.
Gründe dafür gibt es viele und die prominentesten liegen auf
der Hand. Die vergangenen zehn Jahre waren von zwei großen Brüchen in der
europäischen Sicherheitsordnung gekennzeichnet: von Russlands Annexion der
Halbinsel Krim im Jahr 2014 und vom Überfall auf die Ukraine im Jahr 2022, der
die „Zeitenwende“ in der deutschen Politik eingeläutet hat. Bereits in den
Jahren zuvor hatte sich eine Verschlechterung in den Beziehungen zwischen
Russland und dem Westen abgezeichnet. Aus dem, was passiert ist, und dem, was
in Zukunft verhindert werden soll, speist sich der gegenwärtige
Abschreckungsdiskurs.
Dabei ist Abschreckung als Konzept heimisch in den
Hochzeiten des Kalten Krieges (ihr Ursprung geht in die Antike zurück).
NATO-Atomwaffen sollten den konventionell überlegenen Warschauer Pakt von einem
Angriff auf Westeuropa abhalten. Heute funktioniert Abschreckung unter anderen
Vorzeichen: Ein konventionell und technologisch unterlegenes Russland schreckt
mit seinem taktischen und strategischen Nukleararsenal die NATO davor ab, im
Krieg in der Ukraine militärisch zu intervenieren.
Nukleare Abschreckung funktioniert, indem Land A von einer
Handlung gegen Land B abgehalten wird, da B die Konsequenzen klar und
glaubwürdig signalisiert. A berücksichtigt diese bei seiner Entscheidung,
wodurch es auf die Handlung verzichtet. Der Abschreckungsdiskurs ist auf
strategischer Ebene, dem Einsatz von Atomwaffen, angesiedelt, wuchert aber auch
in den konventionellen und ökonomischen Bereich hinein. Der Vordenker der
US-Nuklearstrategie Thomas C. Schelling definierte Abschreckung als die Verhinderung
einer Handlung durch Androhung von Konsequenzen. Trotz seiner Bedeutung fristet
dieses Thema heute ein Nischendasein.
Die Realität der Abschreckung ist weitaus komplexer als ihre
spieltheoretischen Kosten-Nutzen-Kalkulationen. Konflikte sind geprägt von
Freund-Feind-Denken, von sprachlich und sozial konstruierten historischen
Feindbildern und großem Misstrauen. „Othering“ verhärtet die Fronten,
diskursive Grenzen erschweren Verständnis für die Gegenseite. Aktionen der
anderen Seite werden oft als Bedrohung wahrgenommen, Paranoia dominiert
politische Debatten. Entscheidungsträger überbieten sich mit Härte und
Entschlossenheit, statt Lösungen zu suchen. Solche Dynamiken erschweren es,
Abschreckungsstrategien zu entwickeln und Konflikte zu entschärfen.
Abschreckung wird in einem Kontext entwickelt, in dem Recht
weniger zählt als ihre Funktionsweise und die Vermeidung des schlimmsten Falls.
Die moralische Verurteilung der Gegenseite, die oft politische Debatten prägt,
kann strategische Überlegungen vernebeln und zu Fehlschlüssen führen. Solche
Verzerrungen behindern effektive Abschreckungsstrategien und erschweren das
Konfliktmanagement.
Abschreckung erfordert Verständnis für die Psychologie der
Gegenseite und die Wahrnehmung von Diskursveränderungen im Konfliktverlauf. Sie
funktioniert durch strategische Empathie: Die Kenntnis der Ängste und Sorgen
der anderen Seite hilft, Handlungen zu vermeiden, die diese Ängste schüren
könnten. Dabei ist es besonders wichtig zu verstehen, dass Abschreckung im Kopf
des Opponenten stattfindet. In Konfliktsituationen mit zerstörtem Vertrauen ist
es aber schwierig, Entschlossenheit zu signalisieren, die nicht als eine Form
der Aggression wahrgenommen werden könnte.
Im aktuellen Krieg in der Ukraine betrachtet Russland
möglicherweise eine militärische Konfrontation mit der NATO als bereits im
Gange. Hinweise darauf liefern Beiträge russischer außenpolitischer Akteure und
Kommentare in Medien, die auch westliches Publikum beeinflussen sollen. Diese
Perspektive ist für russische Eliten wirkmächtig, unabhängig von westlicher
Kritik. Wenn eine Seite glaubt, sich im Krieg zu befinden, die andere dies aber
leugnet, beeinflusst dies die Organisation und die Instrumente von Abschreckung.
Diese Asymmetrie in der Interpretation der aktuellen Lage
kann zu unterschiedlichen Risikoeinschätzungen auf beiden Seiten führen. Wenn
der Westen glaubt, sich weit genug von einer direkten militärischen
Auseinandersetzung mit Russland zu befinden, kann er tendenziell zu größeren
eskalativen Schritten (aus Sicht Russlands) bereit sein. Darunter fällt auch
die Entscheidung, den Einsatz von ballistischen Raketen des Typs ATACMS (aber
auch die Marschflugkörper Storm Shadow beziehungsweise SCALP) auf Ziele in
Russland freizugeben oder perspektivisch Marschflugkörper des Typs JASSM (mit
einer Reichweite, je nach Konfiguration, von circa 1 000 Kilometern) an die
Ukraine weiterzugeben. Wladimir Putin hat angedeutet, diese Entwicklung als
eine direkte Kriegsbeteiligung des Westens zu betrachten.
Der wiederholte Einsatz solcher Raketen durch die Ukraine
erhöht die Kriegskosten für Russland. Das Ziel ist, eine Verhaltensänderung zu
bewirken. Das kann aber auch dazu führen, dass Russland versuchen könnte, die
Kosten für die Ukraine und den Westen hochzutreiben. Dies kann von einer Reihe
neuer hybrider Aktionen, einer Eskalation auf dem Schlachtfeld – wie dem
jüngsten Einsatz einer experimentellen IRBM Oreshnik mit mehrfachen
Gefechtsflugkörpern gegen Ziele im ukrainischen Dnipro, wie zusätzlichen Angriffen
auf zivile Infrastruktur oder der Weitergabe moderner Antischiffsraketen P-800
Oniks an Rebellengruppen im Roten Meer – bis zur Wiederaufnahme von
Atomwaffentests reichen.
Wenn Russland glauben sollte, dass seine Abschreckung nicht
mehr funktioniert, weil es wiederholten Angriffen mit Raketen ausgesetzt ist,
die ohne größere Kosten für den Westen ablaufen, könnte es eine massive
Eskalation oder Ausweitung des Konflikts suchen, um eine glaubwürdige
Abschreckung wiederherzustellen. Letzteres kann auch weitere escalate to
de-escalate-Aktionen bedeuten.
Bei solch einer dynamischen und angespannten Situation kann
es immer wieder Momente der Fehlkalkulation und Fehlinterpretation geben. Dann
können schnell Automatismen greifen – der Point of no Return. Informationen auf
beiden Seiten werden nie perfekt sein. Die Ziele einer Policy und ihre
Konsequenzen können unter Stress auseinanderfallen. Abschreckung als Strategie
der Konfliktverhinderung kann dann ins Gegenteil abdriften und zu
Konflikteskalation beitragen. Das Spannungsverhältnis von Abschreckung und strategischer
Stabilität einerseits und der Beteiligung an einem bewaffneten Konflikt
andererseits, kann zur Auflösung eben dieser strategischen Stabilität zwischen
NATO und Russland beitragen. Aber auch längerfristig ausgerichtete Schritte der
Abschreckung können (in einem übergeordneten diskursiven Rahmen des Misstrauens
und der Feindschaft) zu einer Verstetigung und Verschärfung des Konflikts
beitragen.
Die zentrale Aufgabe der NATO, entsprechend des Strategic
Concept 2022, ist deterrence and defence. Auch die deutsche
Sicherheitsstrategie betont diesen Ansatz. Der Ausbau militärischer
Infrastruktur, so auch die geplante Stationierung der sogenannten Long Range
Fires (darunter auch Hyperschallwaffen wie Dark Eagle) in Deutschland durch die
USA, die Anschaffung neuer Plattformen wie F-35 und eine höhere Anzahl von
Manövern, sind eine Form der Selbstvergewisserung nach innen und eine
Signalisierung von Entschlossenheit nach außen.
Letztere Komponente muss bei Russland nicht zwangsläufig den
seitens der NATO erwünschten Effekt erzeugen – nämlich Zurückhaltung. Die
Beteuerungen des Verteidigungsbündnisses, dass ihre Aktionen nicht gegen
Russland gerichtet sind, werden unter heutigen Bedingungen noch mehr auf taube
Ohren in Moskau stoßen als noch in den Jahren zuvor. Vielmehr können diese auf
Abschreckung ausgerichteten Maßnahmen der NATO zu einer gesteigerten
Wahrnehmung der Unsicherheit führen – und zu Aktionen Russlands mit dem Ziel,
diese Unsicherheit zu reduzieren beziehungsweise die Unsicherheit der anderen
Seite zu steigern.
Dies erfolgt beispielsweise durch den Aufbau russischer
Kapazitäten, die Stationierung von Atomwaffen an den Grenzen der NATO, die
Zunahme von Übungen der Atomstreitkräfte, die Entwicklung neuer Trägersysteme
oder die Vertiefung von neuen Bündnissen. Auch der Bereich der sogenannten
„esoterischen Superwaffen“ wie dem Hyperschallgleiter Avangard, die nuklear
bestückte Poseidon-Unterwasserdrohne und der nuklear betriebene
Marschflugkörper Burewestnik gehören zum Aufbau des Abschreckungspotenzials.
Der Versuch der NATO, angesichts des Krieges in der Ukraine
über Selbstvergewisserung nach innen und Entschlossenheit nach außen für sich
selbst mehr Sicherheit zu generieren, führt letztlich zu einem
Sicherheitsdilemma. Dies kann zu einer stetigen Steigerung von Potenzialen und
Drohungen, einer Aufrüstungs- und Eskalationsspirale führen. Eben weil Russland
im Glauben sein könnte, sich bereits in einem Krieg mit der NATO in der Ukraine
zu befinden, können politische Forderungen nach dem Einsatz von Waffen gegen
russisches Territorium (etwa von Taurus-Marschflugkörpern) zu einer schnelleren
Eskalation und Kulmination in Form direkter Kampfhandlungen zwischen Russland
und NATO führen.
Die Entscheidung zum Aufbau neuer militärischer
Infrastruktur, eine konfrontative Haltung, wird auf Jahrzehnte die Beziehungen
zwischen der NATO und Russland prägen – an Verbesserung ist kaum zu denken.
Bestenfalls wird sie in mehreren Jahren, nachdem zumindest der militärische
Teil des Konflikts in der Ukraine vorüber sein dürfte, in die Debatten um
Rüstungskontrolle und Abrüstung einfließen und ein Verhandlungspfand werden.
Für politische Entscheidungsträger ist es heute besonders
wichtig zu erkennen, dass Maßnahmen, die auf Abschreckung zielen, nicht
zwangsläufig den gewünschten deeskalierenden Effekt haben müssen. Wenn die
andere Seite diese Schritte als Bedrohung für ihre Sicherheit wahrnimmt oder
sich bereits im Krieg sieht, könnten sie vielmehr die Reste der strategischen
Stabilität zwischen beiden Seiten unterminieren. Was hieraus folgen muss, ist
eine vertiefte Debatte und Reflexion um strategische Interessen und gegebenenfalls
eine Anpassung und Rekalibrierung dieser Interessen vor dem Hintergrund einer
sich weiter verschärfenden sicherheitspolitischen Lage. Innezuhalten und sich
Zeit für qualitativ hochwertige Entscheidungen zu nehmen, die sowohl
kurzfristige Dynamiken als auch langfristige Entwicklungen reflektieren, ist
das Gebot der Stunde. IPG 29
Macht der Klimawandel krank? Die
Hälfte der Befragten sorgt sich um ihre
Gesundheit
Repräsentative Befragung für die SBK
Siemens-Betriebskrankenkasse zu den gesundheitlichen Folgen von
Klimaveränderungen
München. Hitzewellen, Überflutungen, Infektionen: 53 Prozent
der Menschen in Deutschland sind besorgt, dass sich Klimaveränderungen auf ihre
Gesundheit auswirken könnten. Besonders Jüngere zwischen 18 und 24 Jahren sehen
mit 61 Prozent persönliche Risiken, so das Ergebnis einer Online-Befragung für
die SBK Siemens-Betriebskrankenkasse unter 2.041 Erwachsenen. 58 Prozent der
Frauen und 48 Prozent der Männer halten das Gesundheitssystem für nicht gut
gerüstet gegen die Folgen der Klimaveränderungen.
Mehr als zwei Drittel erwarten laut der Erhebung, dass der
Druck auf das Gesundheitswesen durch den Klimawandel wächst: 70 Prozent halten
es für wahrscheinlich, dass das Gesundheitssystem belastet wird. Und 53 Prozent
nehmen es als nicht gut vorbereitet wahr. Ähnliches prognostiziert der
GKV-Spitzenverband: Klimaveränderungen werden die Ausgaben für Behandlungen in
Kliniken und Praxen weiter erhöhen. „Gleichzeitig wird in unserem deutschen
Gesundheitssystem finanziell belohnt, wer viel macht – auch wenn dies für die
Patientinnen und Patienten nicht immer sinnvoll ist“, sagt Dr. Gertrud Demmler,
Vorständin der SBK Siemens-Betriebskrankenkasse. „Wir müssen weg von der
herkömmlichen Logik, dass viel auch viel hilft. Werden die vorhandenen
Ressourcen sinnvoll eingesetzt, kann unser Gesundheitssystem auch den
Herausforderungen der Zukunft standhalten.“ Der Fokus auf Qualität statt
Quantität sowie wirtschaftliches Ressourcenmanagement bilden für Demmler die
Voraussetzung einer ökologisch wie finanziell nachhaltigen
Gesundheitsversorgung.
Eine Lösung: Prävention ausbauen
Die Gesundheit des Menschen ist untrennbar mit einer
gesunden Umwelt verbunden: Luftverschmutzung und Hitze gefährden uns, während
umweltfreundliches Verhalten häufig auch gut für unsere Gesundheit ist. Mit dem
Rad zur Arbeit, eine pflanzenbasierte Kost – solche Verhaltensweisen sind gut
für die Menschen und den Planeten. „Um unser Gesundheitswesen nachhaltiger
aufzustellen, sollte die Förderung von Gesundheit im Zentrum der Versorgung
stehen. Und sie sollte in der Gesellschaft insgesamt eine größere Rolle spielen“,
sagt Demmler. Ein gesunder Lebensstil ist die beste Vorsorge gegen Adipositas,
Diabetes oder anderen sogenannten Zivilisationskrankheiten. Weniger Krankheit
bedeutet nicht nur mehr Lebensqualität für die Menschen, sondern auch weniger
medizinische Behandlungen. Daher schont Prävention die knappen Ressourcen im
Gesundheitswesen und die Umwelt durch zum Beispiel weniger Abfall in Form von
Einwegprodukten und geringerem Einsatz von Arzneien und Energie.
Die SBK veröffentlicht seit 2022 einen
Nachhaltigkeitsbericht. Hierin stellt sie dar, was verantwortungsvolles Handeln
und Wirtschaften für unser Gesundheitssystem bedeutet und wie sie selbst diese
Herausforderungen angeht.
Die Daten dieser Befragung basieren auf Online-Interviews
mit Mitgliedern des YouGov Panels, die der Teilnahme vorab zugestimmt haben.
Für diese Befragung wurden im Zeitraum 12. und 14.11.2024 insgesamt 2041
Personen befragt. Die Erhebung wurde nach Alter, Geschlecht und Region quotiert
und die Ergebnisse anschließend entsprechend gewichtet. Die Ergebnisse sind
repräsentativ für die Wohnbevölkerung in Deutschland ab 18 Jahren. SBK 28
Neue Integrationskursverordnung. Bundesregierung
will Integrationskurse verschlanken
Für Integrationskurse, das Flaggschiff der deutschen
Integrationspolitik, sollen künftig weniger Mittel zur Verfügung stehen. Das
hat das Bundeskabinett beschlossen – samt neuer Verordnung. Das sieht ein
„kompakteres Kursartenangebot“ vor.
Angesichts der Sparzwänge im Haushalt für das kommende Jahr
will die Bundesregierung die Integrationskurse zumindest in Teilen
verschlanken. Wie das Bundesinnenministerium am Mittwoch mitteilte, hat das
Kabinett eine neue Integrationskursverordnung beschlossen, die ein „kompakteres
Kursartenangebot“ vorsieht, das individuelle Voraussetzungen der Teilnehmenden
stärker berücksichtigen soll. Gleichzeitig gab die Bundesregierung die Zusage
für die Finanzierung der Kurse.
Bundesinnenministerin Nancy Faeser und Bundesfinanzminister
Jörg Kukies (beide SPD) hätten verabredet, die notwendigen Mittel auch während
einer vorläufigen Haushaltsführung zu decken, hieß es. Nach dem Aus der
Ampel-Koalition wird der Bundestag nicht wie üblich einen Bundeshaushalt für
das kommende Jahr beschließen. Im Haushaltsentwurf der Regierung waren bei den
Integrationskursen deutliche Einsparungen vorgesehen. Statt 1,1 Milliarden, die
in diesem Jahr zur Verfügung standen, sollten im kommenden Jahr nur 500
Millionen Euro ausgegeben werden.
Höhe der Einsparung nicht bekannt
Wie viel Geld genau für das kommende Jahr nun eingeplant
ist, wurde nicht gesagt. Ein Sprecher des Bundesinnenministeriums sagte nur,
dass mit der neuen Gestaltung der Integrationskurse voraussichtlich rund 84
Millionen Euro eingespart werden würden. Die Kürzungspläne hatten Kritik auf
sich gezogen. Künftig sollen Bildungsvoraussetzungen und Lernfortschritt
stärker berücksichtigt werden, was dazu führen kann, dass Teilnehmende mit
bereits vorhandenen Sprachkenntnissen mit einem höheren Kursmodul einsteigen.
Dafür soll es Einstufungstests geben.
Daniel Terzenbach, Sonderbeauftragte der Bundesregierung für
die Arbeitsmarktintegration von Geflüchteten, hatte sich bereits zuvor für eine
Reform der Integrationskurse ausgesprochen und bereits durchblicken lassen,
welche Richtung es gehen soll. Man wolle die Kurse stärker an den Bedürfnissen
des Arbeitsmarkts ausrichten, hatte er Mitte November erklärt.
Integrationskurse bestehen aus einem Sprachkurs sowie einem
Orientierungskurs, in dem Kenntnisse über die deutsche Rechtsordnung,
Geschichte und Kultur vermittelt werden. Seit 2022 ist die Zahl der
Teilnehmenden an Integrationskursen dem Bundesinnenministerium zufolge
gestiegen. 2023 gab es demnach 363.000 Teilnehmende, in diesem Jahr bislang
rund 325.000. Das Bundesinnenministerium rechnet nach Worten des Sprechers mit
gleich großer Nachfrage im kommenden Jahr. (epd/mig 28)
Verheerende Dürre im südlichen
Afrika. Allein in Simbabwe hungern über 7 Millionen Menschen
Friedrichsdorf/Harare – Die Länder im südlichen Afrika sind
von einer der schlimmsten Dürren seit Jahrzehnten betroffen. Die internationale
Kinderhilfsorganisation World Vision hat deshalb ihre Nothilfemaßnahmen in der
Region deutlich ausgebaut. Allein in Simbabwe ist die Hälfte der Bevölkerung
von Hunger betroffen. Vor allem Kinder leiden unter dem Mangel an
Nahrungsmitteln, da ihre Entwicklung nachhaltig Schaden nimmt, berichtet World
Vision.
Der Klimawandel und das Wetterphänomen El Nino haben dazu
geführt, dass in weiten Teilen des Landes kaum Regen gefallen ist. Dadurch hat
vor allem die Getreideernte gelitten. Statt der üblichen zwei Millionen Tonnen
konnten nur 600.000 geerntet werden. Die Expertin für humanitäre Hilfe,
Melanie Assauer, ist für World Vision in Simbabwe aktiv: „Da auch in den
Nachbarländern Dürre herrscht, fällt der bisherige Getreidelieferant Südafrika
aus, was den Mangel noch verschärft. Noch ist die Bevölkerung widerstandsfähig.
Doch auf den Feldern verhungern schon die Kühe.“
World Vision hat seine Hilfsaktion ausgeweitet und versorgt
jetzt über 175.000 Menschen mit humanitärer Hilfe wie Lebensmitteln, Bargeld
und Trinkwasser aber auch Trainings zum Anbau von Dürre tolerantem Saatgut.
Ganz besonders wichtig sind Hilfen für Kinder und stillende Mütter. Melanie
Assauer: „Durch die Verelendung können sich viele Familien nicht mehr leisten,
ihre Kinder zur Schule zu schicken. Auch die Zahl von Frühverheiratungen ist
deutlich gestiegen, ebenso hat häusliche Gewalt zugenommen. Wie so oft, leiden
Kinder und Frauen besonders unter der Dürre.“
Kinder, die dauerhaft hungern, nehmen auch später noch
Schaden an den Folgen. Gehirn und Körper können sich nicht richtig entwickeln
und sie sind anfälliger für Krankheiten. Melanie Assauer: „Umso dringender ist
es, dass die internationale Gemeinschaft in Simbabwe und der gesamten Region
die Maßnahmen der Organisationen und der Regierung unterstützt und auch mehr
finanzielle Mittel zur Verfügung stellt.“ Wvd 28
Studie. Kinder mit deutschem Pass
bekommen mehr Hilfe für die Schule
Kinder zugewanderter Mütter bekommen mehr Unterstützung für
die Schule, wenn sie einen deutschen Pass haben. Zu diesem Ergebnis kommt eine
Studie. Die Mütter sehen dann offenbar einen höheren Nutzen des
Bildungserfolgs, vermuten die Autorinnen.
Der deutsche Pass hat einer Studie zufolge Einfluss auf den
Bildungserfolg von Kindern mit Migrationshintergrund. Zugewanderte Mütter,
deren Kinder seit Geburt die deutsche Staatsangehörigkeit besitzen,
unterstützen diese intensiver in schulischen Belangen, wie aus einer am
Mittwoch in Berlin vorgestellten Untersuchung des Bundesinstituts für
Bevölkerungsforschung hervorgeht. Die Studie könne das auf den bloßen Effekt
der Staatsbürgerschaft zurückführen.
Der Effekt wirke sich langfristig auf die Schulabschlüsse
aus, heißt es. Kinder aus zugewanderten Familien mit deutschem Pass machen der
Studie zufolge mit einer höheren Wahrscheinlichkeit Abitur.
Formale Zugehörigkeit macht Unterschied
Die Studienautorinnen um die Bevölkerungsökonomin C.
Katharina Spieß haben für die Untersuchung die Auswirkungen der im Jahr 2000 in
Kraft getretenen Staatsangehörigkeitsreform betrachtet. Seitdem ist es unter
bestimmten Voraussetzungen möglich, dass in Deutschland geborene Kinder von
Eltern ohne deutschen Pass selbst die deutsche Staatsangehörigkeit erhalten
können. Die Studie vergleicht vier Gruppen: Kinder, die im Jahr vor und nach
der Reform geboren sind, sowie Kinder aus Familien mit und ohne Migrationshintergrund.
Dadurch könne der Effekt der Staatsbürgerschaft isoliert werden. Analysiert
wurden für die Studie Daten unter anderem aus dem Mikrozensus und dem
nationalen Bildungspanel.
Die formale Zugehörigkeit zur deutschen Gesellschaft mache
einen Unterschied beim Bildungserfolg, resümieren die Autorinnen. Über die
Gründe für den Effekt der Staatsbürgerschaft könne man nur spekulieren, sagte
Studien-Co-Autorin Elena Ziege. Mütter erwarteten mit Erwerb der
Staatsbürgerschaft für ihre Kinder vermutlich bessere Perspektiven am
Arbeitsmarkt, sagte sie. Sie sähen einen höheren Nutzen von Bildungserfolgen
für ihre Kinder, heißt es dazu in der Studie.
Anerkennung ausländischer Qualifikationen entscheidend
Der Untersuchung zufolge hat mehr als ein Drittel der Mütter
minderjähriger Kinder in Deutschland Migrationshintergrund. 29 Prozent der
Mütter minderjähriger Kinder seien selbst zugewandert.
Sieben Prozent der Mütter mit Kindern unter 18 Jahren sind
darüber hinaus Zugewanderte der sogenannten zweiten Generation, das heißt,
mindestens ein Elternteil wurde nicht in Deutschland geboren. Die meisten
zugewanderten Mütter kommen aus Polen, der Türkei, Kasachstan, Russland, Syrien
und Rumänien.
Die Studie untersuchte auch, inwiefern sich die
Erwerbstätigkeit zugewanderter Mütter entwickelt und sich von der von Müttern
ohne Zuwanderungsgeschichte unterscheidet. Eine entscheidende Wegmarke für die
Aufnahme einer Arbeit war der Studie zufolge die erleichterte Anerkennung von
im Ausland erworbenen Berufsabschlüssen ab 2012. Dennoch liege die
Erwerbsbeteiligung von Frauen mit Zuwanderungsgeschichte weiterhin unter der
von Frauen ohne Migrationshintergrund. „Der Fachkräftemangel in Deutschland
könnte durch eine bessere Unterstützung dieser Mütter reduziert werden“,
schlussfolgern die Autorinnen. (epd/mig 28)
Hamburg – Einwanderung, Inflation, Armut und soziale
Ungleichheit: Das sind die größten Sorgen der Deutschen im November 2024, drei
Monate vor der Bundestagswahl. Dies geht aus der Studie „What Worries the
World“ hervor, die das Markt- und Meinungsforschungsinstitut Ipsos monatlich in
29 Ländern weltweit durchführt.
44 Prozent der Deutschen zählen das Thema Migration aktuell
zu den drei größten Sorgen im eigenen Land, 2 Prozentpunkte mehr als im
Vormonat. Damit erreicht die Sorge um die Zuwanderung den höchsten Wert seit
Oktober 2023 und steht den zweiten Monat in Folge an der Spitze des
Sorgenbarometers der Deutschen; sie löst damit das Thema Kriminalität und
Gewalt ab, das im September dieses Jahres zum ersten Mal diesen Platz
eingenommen hatte. Nicht nur im europäischen Vergleich, sondern auch in keinem
anderen der 29 untersuchten Länder sind die Menschen derzeit so besorgt über
die Zuwanderung wie in Deutschland.
Finanzielle Sorgen nehmen in Deutschland wieder zu
Noch stärker zugenommen haben in Deutschland die Ängste vor
Inflation (33 %) und Armut/sozialer Ungleichheit (31 %). Sie beschäftigen etwa
ein Drittel der Bundesbürger - ein Plus von jeweils 6 Prozentpunkten im
Vergleich zum Vormonat. Vor einem Jahr waren diese beiden Themen für die
Deutschen allerdings noch wichtiger (38% bzw. 34%). Knapp dahinter folgt die
Sorge vor Kriminalität und Gewalt, die von 29 Prozent genannt wird. Der
Klimawandel ist für jeden fünften Deutschen (21 %) ein Anlass zur Sorge und komplettiert
damit die Top 5 des Sorgenbarometers der Deutschen.
Auch das Gesundheitswesen (20 %), militärische Konflikte (19
%) und der zunehmende Extremismus (17 %) bereiten derzeit fast jedem fünften
Bundesbürger Sorgen. Trotz der weit verbreiteten Angst vor Armut und sozialer
Ungleichheit zählt die Arbeitslosigkeit nur für jeden Zehnten (10 %) zu den
drei wichtigsten Themen in Deutschland, und auch der Erhalt von
Sozialprogrammen bewegt nur 7 Prozent der Befragten.
Deutsche beurteilen Lage der Nation als desolat
Nicht einmal jeder vierte Bürger (23 %) sieht Deutschland
auf dem richtigen Weg, eine deutliche Mehrheit von 77 Prozent hat den Eindruck,
dass die Entwicklung ihres Landes in die falsche Richtung geht. Dieser Wert ist
ein neuer Negativrekord in der seit über einem Jahrzehnt durchgeführten
Langzeitstudie. Nicht viel besser sieht es bei der Wahrnehmung der
Wirtschaftslage aus. Nur 31 Prozent der Deutschen halten sie für gut, 69
Prozent für schlecht. Seit Oktober ist das Vertrauen in die deutsche Wirtschaft
um 5 Prozentpunkte gesunken, im Vergleich zum Vorjahr sogar um 9 Prozentpunkte.
Dr. Robert Grimm, Leiter der Politik- und Sozialforschung
bei Ipsos in Deutschland, erklärt: „Eigentlich sollte der Anstieg der
Lebenshaltungskosten gebannt sein. Das Statistische Bundesamt meldete am 12.
November eine Inflationsrate von nur noch 2 Prozent für Oktober 2024. Dennoch
ist die Sorge der Deutschen vor hohen Preisen im vergangenen Monat sprunghaft
um 6 Prozentpunkte gestiegen. Dies dürfte vor allem an den teureren
Grundnahrungsmitteln liegen. So verteuerte sich Butter von September auf Oktober
um 9,9 Prozent, der Preis für frisches Gemüse stieg im gleichen Zeitraum um 4,1
Prozent. Neben den steigenden Grundnahrungsmittelpreisen ist die Angst der
Bevölkerung vor Armut und sozialem Abstieg auch auf die wirtschaftliche
Grundstimmung in unserem Land zurückzuführen. Der vielfach angekündigte
Arbeitsplatzabbau in großen Industriekonzernen schürt die Wohlstandssorgen der
Deutschen zusätzlich. Im bevorstehenden Bundestagswahlkampf werden sich die
Parteien mit genau diesen Sorgen der Bürgerinnen und Bürger auseinandersetzen
müssen.“ Ipsos 28
Weniger Neueinstellungen,
Kurzarbeit steigt
München – Die Unternehmen treten bei der Personalplanung auf
die Bremse und beantragen mehr Kurzarbeit. Das ifo Beschäftigungsbarometer sank
im November auf 93,4 Punkte, nach 93,6 Punkten im Oktober. „Die Industrie
versucht, der Krise mit einer Mischung aus Kurzarbeit und Arbeitsplatzabbau zu
begegnen“, sagt Klaus Wohlrabe, Leiter der ifo Umfragen.
Insbesondere die Industrieunternehmen planen verstärkt, ihre
Belegschaft zu verkleinern. Ähnliches gilt für den Handel, obwohl dort der
Indikator leicht gestiegen ist. Die Dienstleister hatten über lange Zeit mehr
Personal eingestellt – nun gehen sie eher von einer konstanten Entwicklung aus.
Im Baugewerbe gibt es wenig Bewegung bei der Personalplanung. „Immer mehr
Unternehmen stoppen Neueinstellungen“, sagt Wohlrabe. „Zudem diskutieren sie
immer häufiger über einen Abbau von Arbeitsplätzen.“
Gleichzeitig steigt die Kurzarbeit in der Industrie. Im
November setzten 17,8 Prozent der befragten Firmen in der Industrie auf
Kurzarbeit, nach 14,3 Prozent im August. Für die kommenden drei Monate erwarten
dies 28 Prozent, nach 23 Prozent im August. Im Vergleich zu vergangenen Krisen
sind diese Anteile an Kurzarbeit jedoch gering. Im Frühjahr 2000, in der
Corona-Pandemie, nutzten das Instrument laut den ifo Umfragen 59 Prozent der
Industriefirmen.
Über Kurzarbeit federn nach eigenen Angaben vor allem
Unternehmen in der Metallerzeugung die Krise ab (41,7 Prozent), gefolgt von den
Möbelherstellern (33,7 Prozent), der Autobranche (27,2 Prozent), den
Herstellern elektrischer Ausrüstungen (26,9 Prozent), sowie dem Maschinenbau
(21,4 Prozent). In der Chemie hingegen wurde von keiner nennenswerten
Kurzarbeit berichtet. Ifo 28
35 Millionen Menschen. Afrika: Zahl
der Binnenflüchtlinge verdreifacht
Die Zahl der Binnenflüchtlinge in Afrika ist binnen 15
Jahren auf 35 Millionen angestiegen. Damit lebt weltweit fast jeder zwei
Binnenflüchtling auf dem Kontinent. Immer mehr Menschen flüchten vor Dürre und
Fluten.
Kriege und extreme Wetterbedingungen haben die Zahl der
Menschen, die in Afrika im eigenen Land auf der Flucht sind, in die Höhe
getrieben. Einem Bericht der Beobachtungsstelle für Binnenvertriebene (IDMC)
zufolge lebten Ende vergangenen Jahres rund 35 Millionen Afrikaner als
Flüchtlinge und Vertriebene innerhalb ihrer Heimatländer. Damit habe sich die
Zahl der Binnenflüchtlinge innerhalb von 15 Jahren verdreifacht, heißt es in
dem in Genf veröffentlichten Report. Damit lebe nahezu die Hälfte aller Binnenflüchtlinge
weltweit auf dem afrikanischen Kontinent.
Die meisten von ihnen, nämlich 32,5 Millionen Menschen,
flohen demnach vor Gewalt und bewaffneten Konflikten. Dabei stellen fünf Länder
80 Prozent der geflohenen und vertriebenen Menschen: der Sudan, die
Demokratische Republik Kongo, Äthiopien, Nigeria und Somalia. Dabei seien viele
Menschen über einen längeren Zeitraum oder mehrfach zur Flucht gezwungen.
Fluchtursache zunehmend Klimawandel
Immer häufiger sind aber auch extreme Wetterbedingungen wie
Dürre und Fluten Fluchtursachen. Hier stieg die Zahl dem Bericht zufolge von
1,1 Millionen Binnenflüchtlingen im Jahr 2009 auf 6,3 Millionen Ende
vergangenen Jahres. Da als Folge des Klimawandels mehr Extremwetterereignisse
erwartet werden, dürfte die Zahl der Menschen, die vor Naturkatastrophen
fliehen, weiter steigen.
In einigen Ländern wie Somalia oder dem Sudan überlappen
sich auch die Fluchtursachen, etwa wenn Menschen erst vor dem Krieg flüchten
und später wegen einer Flut. Die bestätigt damit die zunehmend anerkannte
Erkenntnis, dass der Klimawandel inzwischen weltweit mit zu den größten
Fluchtursachen gehört. Menschenrechtler fordern Anerkennung von Klimaflucht als
Asylgrund.
Binnenflüchtlinge suchen laut Völkerrecht im eigenen Land
Schutz. Flüchtlinge hingegen verlassen ihr Land, um sich jenseits der Grenzen
in Sicherheit zu bringen. (dpa/epd/mig 27)
Studie. Deutschland braucht
Einwanderung – und diskriminiert
Deutschlands Arbeitsmarkt braucht laut einer Studie viel
mehr Einwanderung als bisher. Es geht um Kräfte im sechsstelligen Bereich.
Barrieren müssten weg – dazu gehört auch Diskriminierung in Top-Jobs. Von
Yuriko Wahl-Immel
Der deutsche Arbeitsmarkt ist einer Studie zufolge
langfristig jedes Jahr auf Einwanderer „in substanziellen Umfang“ angewiesen.
Um ein ausreichendes Angebot zur Verfügung zu haben, wären bis 2040 jährlich
rund 288.000 internationale Arbeitskräfte erforderlich, wie eine Analyse im
Auftrag der Bertelsmann Stiftung ergibt. Aktuell falle die Erwerbsmigration
erheblich geringer aus als benötigt. Hemmnisse müssten abgebaut und Bedingungen
für Migranten verbessert werden, sagt die Stiftungsexpertin für Migration,
Susanne Schultz.
Der Blick auf ein Beispiel kann ernüchtern. So schildert ein
2016 aus Syrien geflüchteter heute 29-Jähriger der Deutschen Presse-Agentur, er
habe einen Bachelor und Master an Hochschulen in Nordrhein-Westfalen geschafft
– und verlasse Deutschland als gut ausgebildeter IT-Spezialist jetzt trotzdem.
Er gehe in die Schweiz, sagt er.
IT-Fachkraft: „Diskriminiert und abgelehnt“
„Ich habe hier Topleistungen gebracht, um als gleichwertig
wahrgenommen zu werden, aber ich habe mich diskriminiert und abgelehnt
gefühlt.“ Im sozialen Leben, Studienumfeld und Nebenjob sei ihm viel Abwertung
begegnet. Trotz Nebentätigkeit in einem Institut und sehr guten
Master-Abschlusses habe er kein adäquates Jobangebot erhalten: „Ich möchte auf
Augenhöhe behandelt werden, aber ich möchte nicht darum betteln.“
Expertin Schultz meint, der Fall stelle „leider keinen
totalen Ausreißer“ dar. „Deutschland kann sich so etwas nicht leisten und muss
attraktiver werden.“ Die Rekrutierung ausländischer Fachkräfte müsse intensiver
werden, Hürden seien abzubauen, mahnt auch die Untersuchung.
Großer Bedarf mit regionalen Unterschieden
Die Projektion rechnet damit, dass Deutschland im
Durchschnitt bis 2040 jedes Jahr 288.000 Personen aus dem Ausland benötigt. Ein
zweites Projektionsmodell, das auf einer etwas ungünstigeren Ausgangslage
basiert, nimmt sogar an, dass 368.000 Personen nötig werden. Von 2041 bis 2060
sei – ausgehend auch von positiven Effekten aus vorheriger Einwanderung – ein
Bedarf von rund 270.000 Personen im Jahresschnitt zu erwarten.
Ohne zusätzliche Einwanderer würde die Zahl der
Arbeitskräfte aufgrund des demografischen Wandels von aktuell 46,4 Millionen
auf 41,9 Millionen – um rund 10 Prozent – sinken. Ausbleibende Einwanderung
könnte sich regional unterschiedlich auswirken: Laut Analyse würde der Schwund
im bevölkerungsreichsten Bundesland NRW mit einem angenommenen Minus von 10
Prozent etwa im Mittelfeld liegen. Thüringen, Sachsen-Anhalt und das Saarland
wären stärker getroffen. Aber auch in Bayern, Baden-Württemberg oder Hessen wäre
der Personalmangel ohne zusätzliche internationale Arbeitskräfte groß.
Nennenswerte Netto-Einwanderung aus Drittstaaten
Die Einwanderung aus anderen EU-Ländern ist unter dem Strich
zuletzt stark gesunken und wird künftig kaum noch im nennenswerten Bereich
liegen, heißt es. Umso wichtiger werden die Drittstaaten. 2023 sind Schultz
zufolge rund 70.000 Arbeitskräfte aus Drittstaaten gekommen, aber zugleich
haben 20.000 Deutschland verlassen. Das liege unter anderem an Problemen mit
Aufenthaltstiteln, aber auch an Diskriminierungen.
„Deutschland hat mittlerweile ein sehr liberales
Einwanderungsgesetz“, sagt die Wissenschaftlerin mit Blick auf das reformierte
Fachkräfteeinwanderungsgesetz. „Es muss allerdings viel besser in die Praxis
umgesetzt werden.“ Bürokratie und Personalmangel auch in Ausländerbehörden
seien Barrieren.
Zudem sei ein mentaler Wechsel in so mancher Behörde geboten
– „deutlicher weg von restriktiver, ablehnender Haltung hin zu aktivem
Willkommen“. Es sei mehr Wissen über Rekrutierung im Ausland oder über
Beurteilung von ausländischen Qualifikationen nötig. „Es gibt aber auch
Erfolgsgeschichten. Vieles läuft extrem gut.“ Es würden Arbeitskräfte in fast
allen Branchen gesucht – darunter Bau und Handwerk, Pflege- und Gesundheit,
Tourismus und auch stark im IT-Bereich.
Diskriminierung weit verbreitet in gehobenen Berufen
Gelingende Arbeitsmarkteinwanderung nutzt laut der Studie
den Unternehmen, den Migranten und sollte auch „kooperative Einstellungen der
einheimischen Bevölkerung gegenüber Migration nachhaltig befördern.“
Allerdings: Es gebe Benachteiligung und dabei den Trend, dass Diskriminierung
in gehobenen Berufen stärker zuschlage als in Jobs, die mit minderer
Qualifikation ausgeübt werden könnten, sagt Herbert Brücker vom Institut für
Arbeitsmarkt- und Berufsforschung (IAB) der Deutschen Presse-Agentur.
„Je mehr es um Zugewanderte in akademischen, gehobenen
Berufen geht, desto stärker werden mitunter die Ablehnungserscheinungen“,
erläutert der Wirtschaftswissenschaftler: „Wo zugewanderte Menschen Lehrerinnen
oder Lehrer werden wollen, Professoren oder Richter, beobachten wir, dass es
problematisch wird.“
Und: „Interessant ist, dass diese Menschen in der Regel gut
integriert sind, sie bringen hohe Qualifikationen mit und performen gut,
berichten aber trotzdem häufig über Diskriminierungserfahrungen.“ In
Befragungen zeige sich immer wieder: „Viele Leute sagen, beispielsweise ein
Syrer oder ein Muslim als Kollege ist für sie okay, aber ein Muslim oder Syrer
als Chef, Lehrer, Richter oder Bürgermeister wäre für sie ein Problem.“
Deutliche Hierarchien: Diskriminierung spielt eine Rolle
Der IAB-Experte für Migration, Integration und
internationale Arbeitsmarktforschung weiß: „Nicht alle Menschen mit
Migrationshintergrund werden auf dem Arbeitsmarkt benachteiligt, aber
Diskriminierung spielt eine Rolle, und es gibt hier klare Hierarchien.“ Während
etwa Österreicher oder Schweizer wie Deutsche behandelt würden, fange die
Skepsis gegenüber südeuropäischen Herkunftsländern oft schon an. „Menschen aus
der Türkei, dem Mittleren Osten und Schwarzafrika sind am stärksten von
Diskriminierung betroffen, dann nimmt es in Richtung Fernost wieder ab.“
Brücker stellt klar, dass solche Benachteiligungen kein
singuläres deutsches Problem sind. Auch in der Schweiz, anderen europäischen
Ländern oder den USA gebe es Diskriminierung und Benachteiligungen von
bestimmten Migrantengruppen. „Allerdings ist in der Schweiz schon seit vielen
Jahren ein hoher Anteil von ausländischen Arbeitskräften tätig. Dort ist es
auch normaler, dass Spitzenstellen von Ausländern und Migranten besetzt sind.“
Der 29-jährige IT-Experte, der Deutschland verlässt und nun
in Bern Fuß fasst, ist optimistisch: „Ich habe gute Voraussetzungen für einen
Neustart, ich werde respektiert bei der Arbeit, hatte gleich mehrere
WG-Angebote und werde nicht mehr so angestarrt.“ (dpa/mig 27)
Trumps Nahost-Politik ist unberechenbar und voller
Widersprüche. Könnte ausgerechnet sein unkonventioneller Ansatz zu Frieden
führen? Clemens Starke & Marcus Schneider
Die Wahlkampagne von Donald Trump wurde von einigen
unerwarteten Äußerungen des zukünftigen US-Präsidenten begleitet. In einer
Zeit, in der die israelischen Militäroperationen im Gazastreifen und im Libanon
auch in den USA stark polarisieren und in der viele arabisch-amerikanische
Wähler von der pro-israelischen Haltung der Biden-Harris-Administration
zutiefst enttäuscht waren, betonte Trump wiederholt sein Ziel, Frieden in die
Region zu bringen. Dabei warb er aktiv um Stimmen aus der arabischen Community,
insbesondere in wichtigen Swing States wie Michigan.
Dennoch bleibt unklar, wie Trumps zukünftige Nahost-Politik,
etwa in Bezug auf Gaza, konkret aussehen wird und ob sie tatsächlich einen
anderen Weg als den der Biden-Administration einschlagen wird. Zwar erhielt
Trump starke Unterstützung aus dem konservativen, pro-israelischen Lager, doch
scheint er die andauernden Konflikte in Gaza eher als PR-Problem für Israel
denn als humanitäre Katastrophe für die Palästinenser zu betrachten. Zugleich
kündigte er bereits harte Maßnahmen gegen die palästinensische Solidaritätsbewegung
an.
Trumps erste Personalentscheidungen für sein zukünftiges
Kabinett deuten in eine ähnliche Richtung: Der designierte Außenminister Marco
Rubio hat sich bisher entschieden gegen eine Waffenruhe in Gaza ausgesprochen.
Der künftige CIA-DirektorJohn Ratcliffe kritisierte die
Biden-Administration scharf für ihren angedrohten Stopp von Waffenlieferungen
nach Israel angesichts der Lage in Gaza. Mike Huckabee, der zukünftige
US-Botschafter in Israel, negierte nicht nur jegliche palästinensische
Selbstbestimmung, sondern stellte sogar die Existenz einer eigenständigen
palästinensischen Identität grundsätzlich infrage.
Während Trump bei seinem ersten Wahlsieg noch selbst
überrascht schien und seine damalige Regierung von häufigem Entlassungen,
Personalwechseln, Skandalen und Widersprüchen geprägt war, setzt er im Vorfeld
seiner zweiten Amtszeit auf Loyalität und bekannte Gesichter. Das Gewicht der
etablierten neokonservativen Regimewechsel-Befürworter und Generäle nimmt ab,
während loyale „CEOs and businessmen“ eine zunehmend zentrale Rolle einnehmen.
Gleichzeitig scheinen die Falken im zukünftigen Kabinett wie Rubio zum Teil
einige ihrer interventionistischen Positionen abzumildern.
Dieser Trend fügt sich in das Playbook Trump’scher
Außenpolitik ein, bestehend aus einer Abkehr von Idealen und Werten – seien es
Menschenrechte oder Demokratie –, wie sie traditionell als Vorwand
republikanischer Interventionspolitik dienten, und einer Hinwendung zu einer
Deal-orientierten Mentalität taktischer Tauschgeschäfte.
Die konzeptionelle Grundlage ist eine Politik des „Friedens
durch Stärke“ beziehungsweise des „maximum pressure“, wie Robert O’Brien,
letzter Nationaler Sicherheitsberater (2019–2021) der ersten
Trump-Administration in einem viel-beachteten Foreign Affairs-Artikel ausführt:
Maximaler Druck schrecke Kontrahenten ab, beende alte und verhindere neue
Kriege, fordere ein stärkeres Engagement von US-Verbündeten ein, lasse diesen
aber auch mehr Verantwortung zuteilwerden. Jason Greenblatt, ehemaliger
Nahost-Gesandter unter Trump, illustriert die Umsetzung dieser Politik am
Beispiel Irans: maximaler Druck über Sanktionen und Abschreckung gegenüber Iran
einerseits, auch, um Teheran zu einem Umlenken seiner Politikentscheidungen
sowie der seiner Proxies zu bewegen, und andererseits ein stärkeres Einfordern
von mehr Engagement durch lokale US-Verbündete wie Saudi-Arabien.
Dass dieser Ansatz nicht nur die Sichtweise ehemaliger
Trump-Regierungsmitglieder widerspiegelt, unterstreicht Brian Hook, der frühere
Iran-Gesandte der ersten Trump-Administration und derzeit verantwortlich für
den Transitionsprozess im US-Außenministerium. Auch er sieht Iran mit seinem
Regime und seiner revolutionären Ideologie als die Hauptquelle für Instabilität
nicht nur am Persischen Golf, sondern in der gesamten Region. Trump habe zwar
kein Interesse an einem Regimewechsel, dies sei letztlich eine Entscheidung des
iranischen Volkes. Jedoch werde die kommende Trump-Regierung Iran diplomatisch
und wirtschaftlich isolieren, nicht zuletzt um ein Zeichen an andere Feinde
Amerikas zu senden.
Anders als seine erste Administration stößt Trumps
Iranpolitik nun jedoch auf eine veränderte regionale Gemengelage. Während es
den regionalen US-Verbündeten, allen voran Riad und Abu Dhabi, damals noch
darum ging, Iran maximal zu isolieren, ist seit einigen Jahren eine aktiv
herbeigeführte Annäherung festzustellen. Insbesondere Saudi-Arabien könnte
fürchten, dass eine zu antagonistische Iranpolitik die Kriegsgefahr auch am
Golf erhöht – mit fatalen Auswirkungen auf die eigene Stabilität. Der künftige
Einfluss der Golf-Araber ist eine der großen Unbekannten. Während die Saudis
mit Biden fremdelten, gilt Trump als Partner, mit dem sich reden lässt.
In Washington zeichnet sich jedoch ein möglicher Konflikt
der Einflussnahmen ab. Auf der einen Seite steht Israel, welches die Hardliner
in der Trump-Administration unterstützt und eine maximal konfrontative
Iranpolitik befürwortet. Auf der anderen Seite Saudi-Arabien, das ein Amerika
bevorzugt, welches die Islamische „Schwester-Republik“ Iran durch
pragmatisches, transaktionales Dealmaking einhegt, anstatt auf Eskalation zu
setzen.
Das in dieser Logik eher der saudischen Sicht zuneigende
isolationistische Lager, in erster Linie verkörpert durch den zukünftigen
US-Vizepräsidenten J.D. Vance, kann keineswegs als Iran-freundlich
bezeichnet werden. Ausgehend von einer America First-Haltung lehnt es einen
Krieg mit dem Mullah-Regime als einen weiteren forever war jedoch ab. Das
amerikanische und das israelische Interesse stehen hier konträr zueinander.
Vance argumentiert, dass US-Außenpolitik „smart“ sein müsse, indem sie nicht
überall durch Truppenpräsenz agiere, sondern die Entwicklungen in der Region
strategisch gestalte – etwa durch diplomatische Initiativen wie die Abraham
Accords aus Trumps erster Amtszeit.
Damals schlossen vier arabische Länder Frieden mit Israel,
was auch als erster Schritt hin zu einer Normalisierung zwischen Israel und
Saudi-Arabien gesehen wurde – allerdings unter weitgehender Marginalisierung
der Palästinenser. Das Feiern solcher Megadeals ist exemplarisch für die
Trump’sche Herangehensweise. Auch mit dem Iran, den Trump nach eigener Aussage
„sehr erfolgreich“ sehen möchte, könnte ein ähnlicher Deal angestrebt werden.
Die mögliche Einbindung von Elon Musk in die zukünftige Iranpolitik deutet auf
einen kreativen, möglicherweise unkonventionellen Ansatz hin. Die zentrale
Frage bleibt jedoch, welche Substanz einen solchen Deal untermauern könnte.
Während das neokonservative Lager der Falken an Einfluss
eingebüßt hat, zeigt sich sein Fortbestehen dennoch in Gestalten wie Jared
Kushner. Der frühere Berater und Schwiegersohn Trumps, einer der Architekten
der Abraham Accords, zog sich zwar 2021 offiziell aus der Politik zurück und
hat erklärt, kein Amt in der nächsten Regierung anzustreben. Dennoch könnte er
als informeller Berater zurückkehren. Kushner steht sinnbildlich für jene
Fraktion, die in klassisch neokonservativer Manier die Gelegenheit gekommen
sieht, die Region im israelisch-amerikanischen Sinne radikal umzugestalten.
Seine öffentlich geäußerten Vorstellungen für eine Nachkriegsordnung sind
ebenso erschreckend wie ambitioniert: So schlug er vor, den Konflikt in Gaza
durch die Vertreibung der Palästinenser nach Ägypten und eine Annexion der
Westbank zu „lösen“. Zudem sei jetzt der Zeitpunkt gekommen, das iranische
Nuklearprogramm militärisch zu zerstören. Eine solche Strategie könnte jedoch
genau das Gegenteil von End Forever Wars bewirken und die Region weiter
destabilisieren.
Ideologische Konsistenz dürfte in der zweiten
Trump-Regierung kaum zu erwarten sein. Israel gegen Saudi-Arabien, America
First gegen Neokonservative – und dazwischen zahlreiche machtbewusste Akteure
mit starken Egos. Über all dem steht ein als erratisch bekannter Präsident, der
zwar als kriegsavers gilt, aber zugleich einen Hang zu transaktionalen Lösungen
und großen Inszenierungen hat.
Der Personality-Faktor in der Politik kommt den
Familienregimen im Nahen Osten durchaus entgegen, da er diese dort abholt, wo
sie selbst stehen. Ein Beispiel dafür ist die Hoffnung im Libanon, dass die
familiären Verbindungen von Trumps Tochter Tiffany über ihren Ehemann Michael
Boulos, der libanesische Wurzeln hat, auch Donald Trump für die von Israel
attackierte Zedernrepublik einnehmen könnten. Entsteht hier möglicherweise eine
„Schlacht der Schwiegersöhne“ – Kushner gegen Boulos? Nahost-Politik als Familienaffäre.
Die derzeitige Transitionsperiode scheint jedoch vor allem
Israel zu begünstigen. Trump hatte einst Netanjahu zugerufen: „Finish the job!“
Dieser Satz scheint der nun per Haftbefehl gesuchte mutmaßliche
Kriegsverbrecher durchaus als Gelegenheitsfenster wahrzunehmen, vollendete
Tatsachen zu schaffen. In Nord-Gaza setzt die israelische Armee offen auf
ethnische Säuberung, während im Libanon zunehmend eine Politik der verbrannten
Erde verfolgt wird.
Ein mögliches Ziel dieser Eskalation könnte sein, Trump bei
seiner Amtseinführung die Bühne zu bereiten, sich als Friedensbringer zu
inszenieren – um so unter dem Deckmantel diplomatischer Lösungen israelische
Interessen weiter mit US-Unterstützung abzusichern. Genauso könnte dem
israelischen Premier jedoch daran gelegen sein, Trump entgegen dessen
isolationistischer Tendenzen mit dem Fait accompli einer außer Kontrolle
geratenen Eskalation mit Iran zu konfrontieren. Für einen umfassenden Krieg,
der das iranische Nuklearprogramm entscheidend zurückwirft, wäre Israel auf die
militärische Unterstützung der USA angewiesen.
Es sind diese Widersprüche, die die künftige Nahost-Politik
Trumps so schwer vorhersagbar machen. Anders als in seiner ersten Amtszeit
fehlen nun die sogenannten adults in the room, die damals die problematischsten
Instinkte des Präsidenten in Bahnen lenkten, die den langfristigen Interessen
der USA als Welthegemonialmacht entsprachen. Ein Stück weit kultiviert das
Trump-Lager diese Unberechenbarkeit des neuen, alten US-Präsidenten sogar
bewusst – als strategischen Trumpf gegenüber seinen Gegnern.
Gleichzeitig muss festgehalten werden, dass auch die in der
Eigenwahrnehmung wertebasierte und berechnende Nahost-Politik Joe Bidens weder
die regionale Eskalation noch humanitäre Katastrophen verhindern konnte. Die
nahezu totale ideologische Selbstaufgabe Amerikas zugunsten israelischer
Interessen hat die Weltmacht auf internationaler Ebene isoliert.
Von Trump ist keine großsprecherische Beschwörung einer
„regelbasierten Weltordnung“ zu erwarten – ein Konzept, das in der Region
ohnehin als Heuchelei gebrandmarkt ist. Weniger Ideologie und mehr
pragmatischer Transaktionalismus könnten in der Theorie eine tragfähige
Alternative sein. Die Gefahr besteht jedoch darin, dass dieser
Transaktionalismus zu einer Politik mit viel Bling-Bling, aber wenig Substanz
verkommt. Harte Interessenskonflikte in der Region lassen sich nicht einfach
übertünchen.
Zudem bergen Trumps erratische Persönlichkeit, die absehbare
Schlacht der Egos innerhalb seiner Regierung und seine Anfälligkeit für externe
Einflussnahmen das Risiko, dass es an einer kohärenten Nahost-Strategie mangeln
könnte. Für die Akteure der Region bleibt nur eines: Fest anschnallen, es wird
holprig. IPG 26
Rück- und Ausblick. Merkel gegen
Unionsforderung nach Zurückweisungen an Grenze
2015 hatte die damalige Kanzlerin entschieden, die deutschen
Grenzen offen zu halten. Daran hält sie auch heute in der Migrationsdebatte
fest – und erteilt Forderungen aus ihrer Partei eine Absage. Auch in einer
anderen Frage mischt sie sich ein.
Im aufziehenden Bundestagswahlkampf positioniert sich
Ex-Kanzlerin Angela Merkel in der Migrationspolitik gegen Unionsforderungen
nach Zurückweisungen von Migranten an den deutschen Grenzen. „Ich finde das
nach wie vor nicht richtig“, sagte die 70-Jährige dem „Spiegel“. „Es ist doch
eine Illusion anzunehmen, alles wird gut, wenn wir Flüchtlinge an der deutschen
Grenze zurückweisen.“ Falls es der EU nicht gelinge, das Problem der illegalen
Migration zu lösen, fürchte sie „ein Stück Rückabwicklung der europäischen
Integration, mit Folgen, die man nicht abschätzen kann“.
CDU-Chef und Kanzlerkandidat Friedrich Merz und die CSU
fordern immer wieder einen härteren Kurs in der Asylpolitik, darunter auch
Zurückweisungen an der deutschen Grenze. Merkel sagte nun, man habe
„Grenzkontrollen eingeführt und vieles Richtige mehr, das zeigt Wirkung“. Sie
verteidigte ihre Entscheidung von 2015, angesichts der Flüchtlingsbewegungen
von Ungarn über Österreich nach Deutschland die offenen deutschen Grenzen nicht
geschlossen zu haben. „Ich hatte damals das Gefühl, ich hätte sonst die gesamte
Glaubwürdigkeit der Sonntagsreden über unsere tollen Werte in Europa und die
Menschenwürde preisgegeben.“ Ihre Entscheidung hatte zu einem tiefen Zerwürfnis
mit der CSU und deren damaligem Vorsitzenden Horst Seehofer geführt.
Merkel verteidigte zudem ihre Selfies mit Migranten, die ihr
den Vorwurf eingebracht hatten, Menschen überhaupt erst zur Flucht zu
motivieren. „Ein freundliches Gesicht bringt niemanden dazu, seine Heimat zu
verlassen“, sagte sie jetzt. Zugleich verlangte sie Offenheit und
Veränderungsbereitschaft der aufnehmenden Gesellschaft, ohne die es keine
Integration geben könne. „Voraussetzung ist ein Mindestmaß an Wissen über
andere Kulturen, ich muss mich schon dafür interessieren.“
Merkel gegen Söder-Absage an Schwarz-Grün
Auch in einem anderen Punkt stellte sich Merkel gegen
Äußerungen der CSU und aus Teilen ihrer eigenen Partei. Angesichts
komplizierter Koalitionsverhandlungen in Thüringen, Sachsen und Brandenburg
warnte sie davor, wie von CSU-Chef Markus Söder gefordert ein Bündnis mit den
Grünen auszuschließen. „Ich finde es nicht in Ordnung, dass Markus Söder und
andere in CSU und CDU derart abfällig über die Grünen sprechen“, sagte sie. Vor
dem Hintergrund der AfD und den Entwicklungen um das Bündnis Sahra Wagenknecht
nannte Merkel es umso wichtiger, „dass diejenigen, die koalieren können, sich
ihre Bündnisfähigkeit nicht noch selbst zerschlagen“.
Klar hätten die Grünen sehr andere Ansichten als die Union,
„und ich bin ja mit Bedacht nicht dort Mitglied, sondern in der CDU“, sagte
Merkel. „Aber eine Bündnisfähigkeit muss erhalten bleiben, zumal schwarz-grüne
Koalitionen in Nordrhein-Westfalen, Schleswig-Holstein und Baden-Württemberg
funktionieren.“ Dies seien ja nicht die erfolglosesten Bundesländer.
Söder hatte seine Absage an ein schwarz-grünes Bündnis im
Bund nach dem Grünen-Parteitag am vergangenen Wochenende untermauert. Nötig sei
ein echter Richtungswechsel. Merz hatte auf dem CSU-Parteitag im Oktober ein
Bündnis mit den Grünen aktuell ebenfalls unmöglich genannt, anders als Söder
Schwarz-Grün aber nicht komplett ausgeschlossen.
Frage zur Kanzlertauglichkeit von Merz bleibt offen
Die Frage, ob Unionsfraktionschef Merz ein geeigneter
Kanzler sei, beantwortetet Merkel im „Spiegel“ nicht. „Er muss jetzt einen
Wahlkampf führen, in dem er das beweisen kann.“ Wer es zum Kandidaten schaffe,
müsse aber „über irgendwelche Eigenschaften verfügen, die ihn dazu befähigen“.
2002 hatte Merkel Merz vom Vorsitz der Unionsfraktion im Bundestag verdrängt.
Das Verhältnis beider gilt seitdem als belastet. Aus Merkels Memoiren mit dem
Titel „Freiheit“, die am Dienstag erscheinen, zitiert der „Spiegel“ den Satz
Merkels über Merz: „Es gab ein Problem, und zwar von Beginn an: Wir wollten
beide Chef werden.“
Merkel verteidigt Entscheidung gegen Stopp von Nord Stream 2
Die Altkanzlerin verteidigte ihre Entscheidung, trotz der
Annexion der ukrainischen Krim-Halbinsel durch Russland 2014 das
Gaspipeline-Projekt Nord Stream 2 nicht gestoppt zu haben. „Ich habe es als
eine meiner Aufgaben gesehen, für die deutsche Wirtschaft billiges Gas zu
bekommen“, sagte sie dem Magazin. „Wir sehen jetzt, welche Folgen teure
Energiepreise für unser Land haben.“ Für einen Abbruch des Gashandels mit
Russland hätte sie zudem keine politischen Mehrheiten gehabt „und schon gar
keine Zustimmung in der Wirtschaft“. Sie habe das Projekt zudem für politisch
sinnvoll gehalten. Sie habe mit Putin Verbindung halten wollen „durch den
Versuch, ihn am Wohlstand teilhaben zu lassen“.
Merkel betonte aber auch, sie habe sich nie Illusionen über
den Ex-KGB-Offizier Putin gemacht. „Er hatte immer diktatorische Züge, und
seine Selbstgerechtigkeit hat mich aufgeregt.“ Sie glaube aber nicht, dass sich
Putin schon bei seinem Amtsantritt im Jahr 2000 vorgenommen habe, eines Tages
die Ukraine anzugreifen. „Das ist vielmehr eine Entwicklung, bei der auch wir
im Westen uns die Frage stellen müssen, haben wir immer alles richtig gemacht“,
fügte die Ex-Kanzlerin hinzu. So wäre eine größere Einheit des Westens sicher
besser gewesen. „Wir waren nicht so stark, wie wir hätten sein können.“
(dpa/mig 26)
„Viele Länder im Globalen Süden
sind bitter enttäuscht“
Verhärtete Fronten: Yvonne Blos aus Baku über die
Klimakonferenz in einem Petrostaat und den Streit über die Klimafinanzierung.
Die Fragen stellte Alexander Isele.
Die UN-Klimakonferenz in Baku wurde gleich zu Beginn von der
Ankündigung erschüttert, der designierte US-Präsident Trump plane den erneuten
Ausstieg aus dem Pariser Klimaabkommen. Was bedeutet das für die globalen
Anstrengungen gegen den Klimawandel?
Das hat auf inhaltlicher Ebene tatsächlich weniger
Auswirkungen, als man annehmen würde. Denn zum einen sind die USA unter Trump
bereits einmal aus dem Pariser Abkommen ausgestiegen, ohne dass andere Länder
gefolgt wären. Und zum anderen haben sich die USA bei der wichtigsten Frage
dieser Konferenz – der Klimafinanzierung – auch bereits unter Joe Biden nicht
für mehr Ambitionen eingesetzt oder ihren fairen Anteil geleistet. Trotzdem
konnten wir gleich zu Beginn der Konferenz beobachten, dass der argentinische
Präsident Javier Milei seine Delegation von der COP29 abgezogen hat. Es bleibt
also zu befürchten, dass es dieses Mal doch zu einem Domino-Effekt kommen
könnte und weitere, vor allem rechtspopulistisch regierte Länder Trump folgen
könnten. Das wäre in der Tat fatal, da die UN-Klimarahmenkonvention als
wichtiger multilateraler Mechanismus bisher erstaunlich krisenfest ist.
Mehrere wichtige Staatsoberhäupter wie Bundeskanzler Olaf
Scholz, Frankreichs Präsident Emmanuel Macron und Brasiliens Präsident Lula da
Silva blieben der Klimakonferenz fern. Wie sehr hat das die COP29 geschwächt?
Das hat die Konferenz in der Tat geschwächt. Viele Staats-
und Regierungschefs sahen diese UN-Klimakonferenz nicht als besonders wichtig
an und haben ihren Blick bereits nach Brasilien gerichtet, wo nächstes Jahr die
COP30 stattfinden wird. Das ist fatal, denn sie zeigen damit, dass Klimaschutz
und vor allem die Klimafinanzierung keine große Priorität für sie haben. Für
viele Länder im Globalen Süden ist eine ausreichende Finanzierung jedoch
überlebenswichtig, um überhaupt Klimaschutz betreiben zu können. Zudem
schwächte das Fortbleiben vieler Staatschefs auch das politische Momentum in
Baku, da durch sie oft politische Ankündigungen gemacht werden, die zu einem
Durchbruch verhelfen. Dies war zum Beispiel auf der COP26 in Glasgow der Fall.
Und es schwächt auch die COP selbst als eines der wenigen noch funktionierenden
multilateralen Foren. Solche Foren müssen jedoch gerade in diesen Zeiten
zunehmender globaler Polarisierung gestärkt werden.
Die Konferenz fand in Aserbaidschan statt, einem Land, das
stark von fossilen Brennstoffen abhängig ist. Wie beeinflusst dies die
Diskussionen über den Ausstieg aus fossilen Energien, der auf der letzten
Klimakonferenz beschlossen wurde?
Die Frage, wie die Emissionen weiter gesenkt werden können,
um zurück auf einen 1,5-Grad-Pfad zu kommen, kam bei dieser Klimakonferenz
definitiv zu kurz. Es war von Anfang an klar, dass die aserbaidschanische
Präsidentschaft in diesem Punkt keine Ambitionen hegt. Eigentlich war
vorgesehen, dass sich die sogenannten COP-Troika-Länder – bestehend aus der
aktuellen, der vorherigen und der zukünftigen COP-Präsidentschaft, also
Aserbaidschan, den Vereinigten Arabischen Emiraten und Brasilien –
zusammenschließen, um insbesondere auch in diesem Punkt voranzukommen. Jedoch
hat Aserbaidschan im Gegensatz zu Brasilien kein ambitionierteres nationales
Klimaschutzziel vorgelegt. In seiner Eröffnungsrede hat Aserbaidschans
Präsident Ilham Aliyev zudem für Aufsehen gesorgt, indem er die fossilen
Energien als „Geschenk Gottes“ bezeichnete. Ohne Führung durch die
Präsidentschaft wird es schwierig, andere Länder zur Nachbesserung ihrer
Klimaziele zu bewegen. Bis Februar 2025 sind alle Länder gefordert, ihre
nationalen Minderungsziele nachzuschärfen. Mit Ausnahme von ganz wenigen
Ländern wie Großbritannien, das in Baku angekündigt hat, seine Emissionen bis
2035 um 81 Prozent senken zu wollen, gibt es kaum Länder, deren Bemühungen hier
ausreichend sind.
Die Festlegung eines klaren Pfades zur Abkehr von fossilen
Energien ist leider auch nicht Bestandteil der offiziellen Verhandlungsstränge
auf den Klimakonferenzen. Im letzten Jahr wurde auf der Klimakonferenz in Dubai
als Erfolg gefeiert, dass die Abkehr vor fossilen Energien im allgemeinen
Abschlussdokument explizit gefordert wurde – zusammen mit der Verdreifachung
der erneuerbaren Energien sowie einer Verdopplung der Energieeffizienz bis
2030. Ein solches Dokument war jedoch von der aserbaidschanischen COP-Präsidentschaft
gar nicht vorgesehen.
Die aserbaidschanische Präsidentschaft war jedoch auch
aufgrund der schwierigen Menschenrechtslage problematisch, die keinen offenen
Protest vor Ort ermöglichte. Hinzu kamen mangelhafte Vorbereitung und die
fehlende diplomatische Erfahrung mit solchen Verhandlungen. Es fehlte somit
sowohl am Willen als auch an den Fähigkeiten für eine stärkere Verankerung der
Abkehr von fossilen Energien. Dadurch hat diese Klimakonferenz in diesem
wichtigen Bereich Rückschritte gemacht und konnte nicht auf den Beschlüssen der
letzten COP in Dubai aufbauen.
Ein Hauptfokus der Konferenz in Baku lag auf
Finanzierungsfragen. Werden die beschlossenen Klimafinanzierungsziele den
Ansprüchen gerecht?
Zuerst einmal ist es wichtig festzuhalten, dass die
Industrieländer eine historische Verantwortung gegenüber den
Entwicklungsländern haben, die auch klar im Pariser Klimaabkommen festgehalten
ist. Denn die Entwicklungsländer haben am wenigsten zur Klimakrise beigetragen,
leiden jedoch am meisten unter ihr. Schon in der Vergangenheit sind die
Industrieländer dieser Verpflichtung nur unzureichend nachgekommen, denn erst
verspätet wurden die bereits für 2020 versprochenen 100 Milliarden jährlich für
Klimafinanzierung bereitgestellt.
Außerdem ist völlig klar, dass diese Summe unzureichend ist.
Einerseits wird der Anpassungsdruck in Folge der voranschreitenden Klimakrise
immer größer und somit kostspieliger. Andererseits nehmen die Schäden und
Verluste durch Klimakatastrophen immens zu. Und auch wenn der Umstieg auf
erneuerbare Energien und die Steigerung von Energieeffizienz sich mittlerweile
vielerorts wirtschaftlich lohnen, so erfordern diese Technologien hohe
Anfangsinvestitionen. Schätzungen gehen davon aus, dass Entwicklungsländer für
diese drei Bereiche mindestens eine Billion US-Dollar jährlich benötigen,
während Klimaaktivistinnen und -aktivisten aufgrund der historischen Schuld der
Industrieländer sogar fünf Billionen US-Dollar jährlich fordern.
Wenn also die Industrieländer eine rasche Minderung der
Emissionen und eine Abkehr von fossilen Energien auch in den
Entwicklungsländern fordern, so muss klar sein, dass dies direkt mit der Frage
zusammenhängt, wie stark diese dabei unterstützt werden, um dieses Ziel zu
erreichen. Und es leuchtet auch ein, dass der Globale Süden zu Recht wenig
kooperativ ist,
Offiziell forderte die wichtige Verhandlungsgruppe der
Entwicklungsländer (G77 und China) 1,3 Billionen US-Dollar jährlich bis
2035. Die Industrieländer haben jedoch, vermutlich aus Verhandlungstaktik, erst
am letzten Verhandlungstag mit 250 Milliarden US-Dollar jährlich eine
eigene Zahl für das globale Klimafinanzierungsziel auf den Tisch gelegt.
Wichtig ist für viele Länder im Globalen Süden jedoch auch die Qualität der
Klimafinanzierung. Sie sollte aus öffentlichen Mitteln und nicht aus privaten
Geldern und Krediten bestehen. Denn dies treibt viele Länder in eine noch
größere Schuldenkrise.
Daneben hat eine weitere Debatte um die Klimafinanzierung
die Gemüter in Baku erhitzt. Denn laut der Definition der
UN-Klimarahmenkonvention von 1992 gelten viele Länder mit mittlerweile hohen
Pro-Kopf-Emissionen und Pro-Kopf-Einkommen immer noch als Entwicklungsländer,
etwa reiche Petrostaaten oder China. Daher forderte vor allem die EU eine
Verbreiterung der Geberbasis, die auch solche Länder verpflichtet, zur
Klimafinanzierung beizutragen.
Die Fronten waren deshalb verhärtet und die COP29 drohte
kurz vor Ende zu scheitern. Erst als die Verhandlungen am Samstag in die
Verlängerung gingen, haben die Industrieländer ihr Angebot auf 300 Milliarden
jährlich erhöht. Dies entspricht zwar einer Verdreifachung der bisherigen
Summe, es deckt aber nur ein Viertel der geschätzten Kosten – und die Summe
soll auch aus privaten Geldern bestehen können. Zwar wird das
1,3-Billionen-Ziel auch als Zielgröße erwähnt, jedoch ohne konkrete
Verpflichtung. Zudem findet sich diesbezüglich auch der Verweis, dass diese
höhere Summe sowohl durch Industrieländer als auch weitere Länder mobilisiert
werden soll.
Für die Entwicklungsländer hieß es daher in letzter Minute:
Take it or leave it. Die Industrieländer betonten dabei, dass die Chance auf
einen Deal im nächsten Jahr noch schlechter sein werde. Zivilgesellschaftliche
Akteure aus dem Climate Action Network forderten indes in einem offenen Brief
die Länder aus dem Globalen Süden auf, die Verhandlungen ohne Abschluss zu
verlassen.
Nach mehr als 30 Stunden Verlängerung kam es in den frühen
Morgenstunden am Sonntag doch noch zu einem Abschluss der Verhandlungen. Viele
Länder im Globalen Süden sind jedoch über das Ergebnis bitter enttäuscht. So
hat der Gipfel zwar den Multilateralismus in letzter Minute gerettet. Das
geschah jedoch auf Kosten der Entwicklungsländer, die nun bei der Bekämpfung
der Klimakrise weiterhin ohne ausreichende Unterstützung zurechtkommen müssen.
So geht weiteres Vertrauen zwischen Globalem Norden und Süden verloren, welches
gerade in diesen geopolitisch schwierigen Zeiten dringend benötigt wird.
Welche Aspekte des Klimaschutzes kamen bei dieser COP zu
kurz?
Zu Recht wurde der Klimagipfel in Baku von der Frage
dominiert, wie viel Geld zukünftig für die Klimafinanzierung zur Verfügung
steht. Dies ist eine wichtige Grundvoraussetzung für globale
Klimagerechtigkeit. Mindestens genauso wichtig ist jedoch die Frage, wie die
Bekämpfung der Klimakrise durch entsprechende qualitative Elemente sozial
gerecht erfolgen kann. Auch hierzu gab es offizielle Verhandlungen, die jedoch
von den Diskussionen um das globale Klimafinanzierungsziel überschattet wurden.
Bei den Verhandlungen zum Thema Gender gab es zu Beginn
Rückschritte bei den Verhandlungen. Denn einige, vor allem arabische Staaten,
lehnten die Formulierung ab, dass auch LGBTIQ-Rechte Erwähnung finden sollten.
Hier kam es letztlich jedoch zu einem erfolgreichen Abschluss der
Verhandlungen, der dezidiert menschenrechtsbasiert ist – ein wirklich allzu
kleiner Hoffnungsschimmer auf dieser Klimakonferenz.
Mit dem Just Transition Work Program hat im letzten Jahr in
Dubai zum ersten Mal die sozial gerechte Gestaltung der Transformation
offiziell Eingang in die klimapolitischen Verhandlungen gefunden. Da Just
Transition immer im lokalen Kontext betrachtet werden muss, war es
zugegebenermaßen schwierig, hier zu einer Einigung zu kommen. Genauso gab es
unterschiedliche Vorstellungen, wie unterschiedliche Akteursgruppen in den
Prozess eingebunden werden sollen. Nichtsdestotrotz gab es gute Vorschläge, die
Anknüpfungspunkte für die weitere Implementierung boten. Jedoch wurde das Just
Transition Work Program von einigen Ländern als Faustpfand eingesetzt, um
eigene Forderungen bei anderen Themen durchzusetzen. Insbesondere Saudi-Arabien
hat hierbei eine extrem negative Rolle gespielt. Diese Verhandlungen wurden
daher auf das nächste Jahr vertagt.
Die Zivilgesellschaft und die Gewerkschaften, die sich auf
der Klimakonferenz unermüdlich für Just Transition und Klimagerechtigkeit
eingesetzt haben, werden weiterhin dafür sorgen, dass diese Themen nicht
untergehen. Das macht trotz der extrem enttäuschenden Ergebnisse aus Baku
Hoffnung. Es bleibt zu hoffen, dass auch die COP30-Präsidentschaft in Brasilien
das so sieht und diese Forderungen in den Mittelpunkt der nächsten
Verhandlungen rückt. IPG 26
Bundesverwaltungsgericht. Geflüchtete
dürfen nach Italien abgeschoben werden
Was erwartet Geflüchtete, wenn sie nach Italien abgeschoben
werden? In dieser Frage waren die deutschen Gerichte uneins. Jetzt hat das
Bundesverwaltungsgericht eine Entscheidung getroffen. In Italien drohe keine
extreme Notlage.
Das Bundesverwaltungsgericht stuft eine Abschiebung von
alleinstehenden, arbeitsfähigen Asylsuchenden, die bereits in Italien als
Flüchtlinge anerkannt worden sind, als zulässig ein. Den Schutzsuchenden
drohten bei einer Rückkehr nach Italien keine erniedrigenden oder
unmenschlichen Lebensbedingungen, entschied das Gericht in Leipzig. Das gelte
für alleinstehende, erwerbsfähige und nicht-vulnerable Personen – und sowohl
für Männer als auch Frauen.
Die Oberverwaltungsgerichte der Länder hatten die
abschiebungsrelevante Lage in Italien zuvor unterschiedlich beurteilt. Mit
seinem Urteil hat das Bundesverwaltungsgericht die Einschätzung
höchstrichterlich geklärt. (Az.: BVerwG 1 C 23.23 und 1 C 24.23)
Geklagt hatten eine Somalierin und eine Syrerin, die in
Italien als Flüchtlinge anerkannt worden waren. Sie reisten nach Deutschland
weiter und stellten Asylanträge. Diese wurden abgelehnt und den Frauen wurde
die Abschiebung nach Italien angedroht.
Notunterkunft und medizinische Grundversorgung gesichert
Nach Überzeugung des Bundesverwaltungsgerichts ist bei
Geflüchteten wie den beiden Klägerinnen „nicht mit beachtlicher
Wahrscheinlichkeit“ zu erwarten, dass sie in Italien in eine extreme materielle
Notlage geraten würden. Sie könnten zumindest in Notunterkünften unterkommen,
die Kommunen, Kirchen oder Hilfsorganisationen in dem Mittelmeerland
bereitstellen. Die medizinische Grundversorgung sei ebenfalls gewährleistet.
In Europa ist durch die Dublin-Verordnung geregelt, dass ein
EU-Land für einen Asylbewerber zuständig ist, wenn er dort einen Antrag auf
Schutz gestellt hat. Reisen die Flüchtlinge anschließend in ein anderes Land
weiter, muss das erste Land die Schutzsuchenden nach den Dublin-Regeln
zurücknehmen. Italien akzeptiert allerdings seit einiger Zeit diese
Rücküberstellungen in den meisten Fällen nicht mehr. (dpa/mig 25)
Welttag 25. November: Frauen vor
Gewalt schützen
Zum internationalen Tag gegen Gewalt an Frauen hat die
Diakonie eine bessere Hilfe vom Gesetzgeber für Frauen gefordert. In Ländern,
in denen es keine Unterstützung vom Staat dafür gibt, sind es oft Ordensfrauen,
die helfen.
An diesem Montag wird der internationale Tag gegen Gewalt an
Frauen begangen. Zu diesem Anlass appelliert die Diakonie, das
Gewalthilfegesetz nicht zu blockieren. Die gescheiterte Ampel-Koalition wollte
damit den Bund zur verlässlichen Mitfinanzierung der Frauenhäuser verpflichten.
Zudem soll auch ein Rechtsanspruch auf Beratung und Schutz eingeführt werden.
Gleichzeitig müssten die Ursachen der Gewalt bekämpft
werden. Maria Loheide vom Diakonie-Vorstand, sagte dazu: „Wenn wir häusliche
Gewalt wirklich verhindern wollen, müssen wir sehr viel mehr präventiv und mit
den Tätern arbeiten, um die von Gewalt geprägten Beziehungs- und
Verhaltensmuster zu verändern.“
Ordensfrauen als Beschützerinnen
Doch gibt es auch in vielen Ländern Gewalt gegenüber Frauen,
in denen sie keine Hilfe vom Staat bekommen. Oft springen dann Ordensfrauen ein
und bieten Schutzmöglichkeiten. Missio-Präsident Dirk Bingener würdigte sie als
„das Rückgrat des zivilgesellschaftlichen Schutzes von Frauen“.
„Das Rückgrat des zivilgesellschaftlichen Schutzes von
Frauen“
Er wies zugleich darauf hin, dass die Ordensfrauen selbst
oft Opfer von Missbrauch und Ausbeutung würden. Das Hilfswerk Missio hat
eigenen Angaben zufolge in den vergangen fünf Jahren Programme und Projekte für
Ordensfrauen mit über 24 Millionen Euro unterstützt.
Das Problem der Gewalt gegen Frauen ist weltweit, auch in
Deutschland, ein wachsendes. Der Lagebericht des Bundeskriminalamts berichtet
für das Jahr 2023 von einem Zuwachs von 5,6 Prozent für die Zahl der weiblichen
Opfer häuslicher Gewalt im Vergleich mit dem Vorjahr auf mehr als 180.000. Auch
die Zahl der versuchten und vollendeten Tötungsversuche stieg gegenüber dem
Vorjahr.
(domradio/bka 25)
Gescheitert. Italien zieht Personal
aus Flüchtlingslagern in Albanien ab
Eigentlich will Italiens Regierung in Albanien Tausende
Asylanträge abwickeln. Die Justiz machte ihr zweimal einen Strich durch die
Rechnung. Deshalb waren in dem Lager bisher nur italienische Beamte. Nun kehren
auch sie zurück.
Italien zieht einen Großteil des Personals aus seinen
umstrittenen Aufnahmezentren für Migranten in Albanien ab. Wie mehrere
italienische Medien übereinstimmend berichteten, verlassen anderthalb Monate
nach der Inbetriebnahme der Flüchtlingslager die meisten Beschäftigten des für
den Betrieb und die Verwaltung der Zentren zuständigen Unternehmens Medihospes
noch an diesem Wochenende Albanien.
Nur sieben Beschäftigte des Unternehmens verbleiben demnach
in den Lagern auf albanischem Boden. Darüber hinaus bleiben einige albanische
Beschäftigte, vor allem medizinisches Personal, sowie eine unbekannte Anzahl
italienischer Polizeibeamter dort. Aus dem Innenministerium in Rom verlautete
der Nachrichtenagentur Ansa zufolge, das Personal sei zwar reduziert worden,
die Lager blieben aber weiter geöffnet und betriebsbereit.
Melonis Plan scheiterte zweimal
Die rechte Regierung von Ministerpräsidentin Giorgia Meloni
war zuletzt zweimal mit ihrem Plan gescheitert, über die Asylanträge von
Mittelmeer-Migranten außerhalb der EU entscheiden zu lassen. Gerichte hoben
zweimal hintereinander die Inhaftierung von Migranten in den Lagern auf,
nachdem sie zuvor von den Behörden auf dem Weg nach Europa im Mittelmeer
gestoppt worden waren. Sie wurden danach nach Italien überstellt.
Italien ist der erste Staat der Europäischen Union, der
außerhalb der EU-Grenzen Lager errichtet hat, um dort Asylanträge in einem
beschleunigten Verfahren und nach italienischem Recht abzuwickeln. Das
„Albanien-Modell“ der Rechtsregierung von Regierungschefin Meloni ist
umstritten. Andere europäische Regierungen verfolgen es allerdings genau. So
auch in Deutschland. Bundesinnenministerin Nancy Faeser (SPD) hatte das
italienische Modell als „interessant“ bezeichnet. (dpa/mig 25)
Verschleppte Bronchitis – die
unterschätzte Gefahr
Bei Erkältungssymptomen frühzeitig Isothiocyanate
einsetzen
Eschborn – Aktuelle Daten des Robert-Koch-Instituts belegen,
dass die Zahl der Betroffenen mit Atemwegsinfektionen derzeit wieder stark
ansteigt[1]. Was die wenigsten Erkrankten wissen: Aus einer nicht auskurierten
Erkältung können sich ernsthafte Folgeerkrankungen wie eine Pneumonie oder
sogar eine Myokarditis entwickeln. Um Komplikationen bereits frühzeitig
entgegenzuwirken, sollten bei den ersten Anzeichen einer akuten
Atemwegsinfektion pflanzliche Arzneimittel wie die einzigartige
Kombination aus Kapuzinerkresse und Meerrettich (ANGOCIN® Anti-Infekt
N) eingenommen werden. Die darin enthaltenen Isothiocyanate (ITC,
Senföle) wirken antiinflammatorisch[2-7], antiviral[8-10]sowie
antibakteriell[11-15]. „Eine klinische Studie aus Deutschland[16] belegt,
dass sich unter Einnahme der Senfölkombination bereits nach drei
Behandlungstagen typische Bronchitissymptome im Vergleich zu Placebo
statistisch signifikant verbesserten“, sagt Dr. med. Christoph-Daniel
Hohmann, Arzt für Integrative Medizin, Traunstein[16]. Aktuelle Daten zeigen
zudem, dass unter Einnahme der Kombination aus Kapuzinerkresse und Meerrettich
das Risiko für eine wiederkehrende Bronchitis sowie das Ausbilden einer
chronischen Bronchitis im Vergleich zu anderen Standardtherapien signifikant
reduziert werden[17].
Die akute Bronchitis zählt zu den häufigsten Krankheiten
überhaupt. Von 100.000 Einwohnern erkranken wöchentlich etwa 80 Patienten, in
den Wintermonaten doppelt so viele. Die Erkrankung geht meistens mit einer
Entzündung der oberen Atemwege (Nasen- und Rachenraum) einher.
Infolgedessen kann der Körper stark geschwächt sein, so dass die akute
Bronchitis nicht richtig abheilt. Dann kommt häufig noch eine bakterielle
Superinfektion hinzu. Bei einem solchen protrahierten Verlauf der akuten
Bronchitis können sich Bakterien in unserem Organismus weiter ausbreiten und
eine Pneumonie verursachen oder sogar das Herz befallen.
Mit 3fach-Wirkung gegen Atemwegsinfektionen – Isothiocyanate
wirken antiinflammatorisch, antiviral und antibakteriell
„Obwohl die akute Bronchitis in etwa 90 % der Fälle durch
Viren verursacht wird, werden bei dieser Erkrankung noch immer zu häufig
Antibiotika verwendet“, erklärt Hohmann. Erst wenn sich eine bakterielle
Superinfektion dazugesellt, wird die Einnahme dieser chemisch-synthetischen
Medikamente erforderlich. „Würden bei Erkältungskrankheiten von Beginn an
wirksame pflanzliche Arzneimittel zum Beispiel mit Isothiocyanaten eingesetzt,
wäre ein Antibiotikum nur selten nötig“, so Hohmann weiter.
Die Kombination aus Isothiocyanaten von Kapuzinerkresse
und Meerrettich lindert aufgrund antiinflammatorischer Effekte[2-7] die
Beschwerden einer akuten Bronchitis. Zahlreiche wissenschaftliche
Untersuchungen belegen zudem, dass das pflanzliche Arzneimittel nicht nur
gegen Viren[8-10], sondern auch gegen Bakterien[11-15] wirkt. Durch diesen
Dreifach-Effekt können Atemwegsinfektionen wie akute Bronchitiden und
Sinusitiden mit der pflanzlichen Wirkstoffkombination umfassend behandelt
werden.
Gesund durch den Winter
Bis zu fünf Erkältungen im Jahr gelten bei Erwachsenen als
normal, Kinder erkranken bis zu achtmal. Gerade häufige akute
Atemwegsinfektionen können eine enorme Belastung darstellen: Sie schwächen den
Körper, verlängern Krankheitsphasen und beeinträchtigen den Alltag – beruflich
wie privat. Betroffene fühlen sich dadurch oft langfristig eingeschränkt. Eine
klinische Studie aus Deutschland belegt, dass das Phytopharmakon
(ANGOCIN® Anti-Infekt N) auch bei häufig rezidivierenden Infektionen der
Atemwege empfehlenswert ist. Patienten, die während der
Erkältungssaison in einem Untersuchungszeitraum über zwölf Wochen das
pflanzliche Arzneimittel einnahmen, erkälteten sich um fast 50 Prozent weniger
häufig als solche Patienten, die Placebo erhielten[18]. Eine weitere klinische
Studie bestätigt, dass die ITC-Kombination im Vergleich zu Placebo die
Erkrankungsdauer einer Rhinosinusitis um bis zu zwei Tage schneller
reduziert[19]. „Mit der Einnahme senfölhaltiger Arzneimittel bereits bei den
ersten Anzeichen einer akuten Atemwegsinfektion kann man viel dazu beitragen,
gesünder durch die kalte Jahreszeit zu kommen“, resümiert Hohmann. GA 25
Gespaltene Reaktionen auf
COP29-Abkommen
UN-Generalsekretär Antonio Guterres sieht die Ergebnisse der
Weltklimakonferenz in Baku als Teilerfolg. Er habe auf ein ehrgeizigeres
Ergebnis gehofft, erklärte Guterres am Sonntag in der aserbaidschanischen
Hauptstadt. „Aber dieses Abkommen liefert eine Basis, auf der man aufbauen
kann“.
Nun komme es darauf an, dass die Staaten im kommenden Jahr
weitere Klimaaktionspläne in Übereinstimmung mit dem 1,5-Grad-Ziel vorlegten.
„Das Ende des Zeitalters der fossilen Brennstoffe ist wirtschaftlich
unausweichlich", so Guterres. Die G20-Länder als größte Verursacher
müssten dabei führen.
Schwierige geopolitische Lage
Die Verhandlungen der mehr als 190 Teilnehmerstaaten in Baku
hätten in einer Situation globaler Unsicherheit und Spaltung stattgefunden.
Dennoch hätten die Teilnehmer bewiesen, dass multilaterale Zusammenarbeit auch
schwierige Themen bewältigen könne.
Auch die Präsidentin der EU-Kommission, Ursula Von der
Leyen, hatte sich positiv über das erreichte Abkommen geäußert. „Ich begrüße
das Abkommen der COP29“, so die Deutsche. Es markiere „eine neue Ära für die
Klimakooperation und -finanzierung“ und werde „Investitionen in einen sauberen
Übergang, die Reduzierung von Emissionen und die Stärkung der
Widerstandsfähigkeit gegenüber dem Klimawandel fördern“, meint Von der Leyen.
Und weiter: „Die EU wird weiterhin eine führende Rolle spielen und ihre
Unterstützung auf die Schwächsten konzentrieren“.
Afrikanische Unterhändler hatten hingegen ihrer Enttäuschung
über das Abkommen ausgedrückt, das „zu wenig und zu spät“ für den afrikanischen
Kontinent sei. „Wir sind sehr enttäuscht über den Mangel an Fortschritten bei
kritischen Themen für Afrika“, sagte Ali Mohamed, der kenianische Präsident der
Gruppe, auf der Cop29-Konferenz in Aserbaidschan. „Afrika hat die Alarmglocken
geläutet und wird dies auch weiterhin tun, um auf unzureichende
Klimafinanzierung aufmerksam machen.“
Enttäuschung bei NGO's
Die Allianz für Klimagerechtigkeit hat das Ergebnis der
Weltklimakonferenz (COP29) in Aserbaidschan scharf kritisiert und als
„enttäuschend und verantwortungslos“ bezeichnet. Das neue Finanzierungsziel von
300 Milliarden US-Dollar jährlich ab 2035 entspreche keiner realen Verdoppelung
und reiche bei weitem nicht aus, „um auch nur die notwendigsten lebensrettenden
Anpassungsmaßnahmen in den ärmsten Ländern des Globalen Südens
sicherzustellen“, erklärte Martin Krenn, Klima-Experte der Koordinierungsstelle
der österreichischen Bischofskonferenz für internationale Entwicklung und
Mission (KOO). Zudem gebe es keinerlei Fortschritt beim Ausstieg aus fossilen
Energieträgern wie Kohle, Öl und Gas, kritisierte Krenn gegenüber der
Kathpress.
Die Allianz für Klimagerechtigkeit - ein Bündnis von 26
Nichtregierungsorganisationen, die in den Bereichen Umwelt,
Entwicklungszusammenarbeit, Soziales und Humanitärer Hilfe tätig sind -
kritisierte das Verhandlungsergebnis als „viel zu wenig für die Menschen und
das Klima“. Zudem werde ein großer Teil der Verantwortung auf private
Unternehmen und die betroffenen Länder abgewälzt.
Auch die Delegation der katholischen Jugendverbände FIMCAP
(International Federation of Catholic Parochial Youth Movements), die an der
Weltklimakonferenz teilgenommen hat, zieht ein enttäuschtes Fazit. Für die
Vulnerabelsten und am stärksten Betroffenen sei das Ergebnis viel zu wenig,
sagte Delegationsleiter Fidelis Stehle am Sonntag gegenüber Vatican News.
„Es bedeutet einen
Schritt weg von Pariser 1,5 Grad-Limit und damit mehr und mehr menschliches
Leid und mehr Klimatote. 300 Milliarden Klimafinanzierung sind nicht das, was
nach heutiger wissenschaftlicher Einschätzung notwendig ist. Es ist eher ein
Inflationsausgleich ohne Qualität in den nächsten zehn Jahren und leider alles
andere als ein echter Erfolg. Zudem fehlt es an vielen Stellen an einem klaren
Bekenntnis zu Menschenrechten, Emissionsminderung und zur Entschädigung für
Schäden und Verluste durch die Klimakrise. Zudem ist der Beschluss ein fatales
Signal an junge Menschen, die für Solidarität, Klimagerechtigkeit und ihre
Zukunft kämpfen.“
Gleichzeitig zeige die globale Zivilgesellschaft bei
der Klimakonferenz COP jedoch, wie wichtig Menschenrechte seien und was
Solidarität und Gemeinschaft bedeuteten.
Multilaterale Formate wie dieses seien unerlässlich, um Lösungen
für die Klimakatastrophe zu finden, so Stehle. Hoffnungen setzen die jungen
Katholiken hier auch auf den Papst als Brückenbauer:
„Mit Blick auf die COP 30 kommendes Jahr in Brasilien und
dem 10-jährigen Jubiläumsjahr von Laudato si‘ ist zu hoffen, dass die
Weltgemeinschaft weitere Schritte zum Ende der fossilen Energien geht. Hier
kann Papst Franziskus als Argentinier mit seiner klaren Haltung für
Klimaschutz, für Menschlichkeit und für Solidarität weiterhin eine wichtige
Rolle als Brückenbauer und Mahner spielen. Insbesondere die Themen wie
Schuldenerlass und superreichen Steuer werden hier kommendes Jahr besonders
wichtig“, so Fidelis Stehle, Präsident von FIMCAP Europa.
Minimalkonsens
Am Sonntagmorgen hatten sich die Staaten bei der
Weltklimakonferenz COP29 in Baku nach verlängerten, zähen Verhandlungen auf ein
Ergebnis geeinigt. Wichtigstes Resultat: Industrieländer sollen bis 2035
jährlich mindestens 300 Milliarden US-Dollar an Klimahilfen für ärmere Staaten
zahlen; bisher lag die Marge bei 100 Milliarden, Ziel bleibt eine Jahressumme
von 1,3 Billionen US-Dollar. Die Entwicklungsländer hatten als Mindestziel bis
2030 ursprünglich eine Erhöhung der Zahlungen der Industriestaaten auf 500
Milliarden Dollar jährlich gefordert. Nächstes Jahr soll auf der COP30 in
Brasilien beraten werden, wie die Lücke zu 1,3 Billionen geschlossen werden
kann. Die aufstrebenden Wirtschaftsmächte China und Indien sollen erst
schrittweise an der Zahlung beteiligt werden. Keine konkreten Fortschritte gab
es bei der globalen CO2-Reduzierung. Hier blockierten Öl- und Gasförderländer
wie Saudi-Arabien weitergehende Beschlüsse. (kna/kap/agenturen 24)
COP29: Ergebnisse der
Klimakonferenz reichen bei weitem nicht
Friedrichsdorf/Baku - Die internationale
Kinderhilfsorganisation World Vision kritisiert die Ergebnisse der
Klimakonferenz COP29 in Baku. Trotz einiger Fortschritte zeugen die Beschlüsse
von mangelnder Ernsthaftigkeit bei der Bewältigung der Klimakrise, insbesondere
seitens der Industrieländer. Die zugesagten finanziellen Hilfen für ärmere
Länder seien eine einzige Enttäuschung.
Die Folgen des Klimawandels gefährden schon jetzt das
Wohlergehen der heutigen und künftigen Generationen. Der in dieser Woche
veröffentlichte UNICEF-Bericht “State of the World's Children 2024“ zeigt auf,
dass etwa eine Milliarde Kinder - fast die Hälfte aller Kinder der Welt - in
Ländern leben, die einem hohen Risiko durch Klima- und Umweltgefahren
ausgesetzt sind.
Ekkehard Forberg, Klimaexperte bei World Vision Deutschland:
„Das Schicksal der Kinder in den Ländern des Globalen Südens wurde auf dieser
Klimakonferenz einmal mehr mit Füßen getreten. Zwar sollen Kinder und andere
besonders gefährdete Gruppen im Rahmen der zukünftig finanzierten Projekte
besonders berücksichtigt werden, aber die hier bereitgestellten finanziellen
Mittel sind viel zu gering. Sie reichen bei weitem nicht aus, um die
Lebensverhältnisse und die Zukunft der bereits jetzt vom Klimawandel betroffenen
Kinder zu sichern oder zu verbessern“.
Besonders Kinder im Globalen Süden, für die sich World
Vision weltweit einsetzt, tragen die Hauptlast der Klimakrise – obwohl sie am
wenigsten dafür verantwortlich sind.
Jüngste Untersuchungen von World Vision in Ost-Timor zeigen,
dass 42 Prozent der Kinder über Lebensmittelknappheit klagen. Diese
alarmierende Zahl verdeutlicht nicht nur die existenzielle Bedrohung, die die
Klimakrise für das Leben von Kindern darstellt, sondern auch das Versagen der
internationalen Gemeinschaft, entschlossen gegen die Klimakrise
vorzugehen.
World Vision unterstützt die Forderungen der am stärksten
gefährdeten Länder, mehr Ehrgeiz bei der Bewältigung der Klimakrise zu
entwickeln. Das beinhaltet auch, die Kohlendioxidemissionen deutlich zu
reduzieren, damit die Ziele des Pariser Klimaabkommens erreicht werden.
Ekkehard Forberg: „Die COP29 war geprägt vom Egoismus und
mangelnder Solidarität der Industrieländer. Es hätte konkrete Ziele für
finanzielle Zusagen geben müssen, mit Hilfe derer sich die am meisten
betroffenen Gemeinschaften auf extreme Klima-Auswirkungen vorbereiten können.
Die unter dem Klimawandel leidenden Kinder brauchen jetzt unsere
Unterstützung!“ Wvd 23
Baerbock bei COP29: „Keine
Machtspiele auf dem Rücken ärmster Länder mehr“
In Baku ist es bei Klimagipfel COP29 am Samstag zu einem
Eklat gekommen. Vertreter der kleinen Inselstaaten haben die Beratungen noch
vor der Verabschiedung des umkämpften Schlussdokumentes verlassen. Ihre
finanziellen Interessen seien ignoriert worden, so die Unterhändler.
Unterdessen hat die deutsche Außenministerin Annalena Baerbock das
„geopolitische Machtspiel einiger Staaten, die fossile Brennstoffe
produzieren“, kritisiert.
In Baku haben die Unterhändler der kleinen Inselstaaten und
von weniger entwickelten Nationen die außerordentlichen Beratungen mit dem
COP29-Präsidenten verlassen. Ihre finanziellen Interessen seien nicht
berücksichtigt worden, so der Vorwurf: „Wir sind zu diesem Klimagipfel
gekommen, um eine gerechte Übereinkunft zu finden. Wir sind der Ansicht, nicht
angehört worden zu sein“, hat der samoanische Präsident der Allianz kleiner
Inselstaaten, Cedric Schuster, am Samstagnachmittag erklärt. In der Allianz sind
die Inselstaaten zusammengeschlossen, deren Territorium durch die Erhöhung des
Meeresspiegels bedroht ist und die aufgrund des Klimawandes mit ähnlichen
Problemen zu kämpfen haben. Sie waren mit der Hoffnung auf Milliardenhilfen
nach Baku gereist.
Machtspiele zu Lasten der Ärmsten
Unterdessen hat auch die deutsche Ministerin Annalena
Baerbock deutliche Kritik an den Verhandlungen geübt. Diese hätten bereits am
Freitag zu Ende gehen sollten, doch wie bei vorherigen Klimagipfeln waren
weitere Beratungen nötig geworden.
„Wir befinden uns inmitten eines geopolitischen Machtspiels
einiger, fossile Brennstoffe produzierender, Staaten“, so die
Grünenpolitikerin. Und weiter: „Ihr Spielbrett ist leider der Rücken der
ärmsten und verletzlichsten Länder.“ Harsche Kritik übte die deutsche
Außenministerin auch am Gastgeberland Aserbaidschan: „Wir Europäer werden nicht
zulassen, dass die verletzlichsten Staaten auf der Welt, insbesondere die
kleinen Inselstaaten, von einigen der neuen fossilen und reichen Emittenten
jetzt hier über den Tisch gezogen werden. Und das im Zweifel auch noch auch mit
Rückendeckung der COP-Präsidentschaft."
„Wir Europäer werden nicht zulassen, dass die
verletzlichsten Staaten auf der Welt, insbesondere die kleinen Inselstaaten,
von einigen der neuen fossilen und reichen Emittenten jetzt hier über den Tisch
gezogen werden“
Die Verhandlungen würden nun vorerst weitergehen, so
Baerbock, die von einem „letzten Aufbäumen der fossilen Welt“ sprach. „Wir als
Europäerinnen und Europäer arbeiten daher jetzt intensiv in jeder Minute daran,
weiter Brücken zu bauen“, sagte Baerbock, die insbesondere auf Gespräche mit
der EU-Delegation und anderen wichtigen Gruppen wie den Inselstaaten sowie mit
lateinamerikanischen und afrikanischen Staaten hinwies: „Gerade auch, weil die
Anliegen dieser Länder leider von der Präsidentschaft bisher ignoriert worden
sind.“
Klimafinanzierung und die Reduzierung der Co2-Emissionen
seien „eng miteinander verbunden“, weshalb die EU ihre Finanzierungszusagen bis
2035 erhöht habe, so Baerbock weiter. „Was wir jetzt brauchen, sind Bedingungen
auf allen Kontinenten für Klimagerechtigkeit, für eine nachhaltige
Klimafinanzierung und die Fortsetzung des in Dubai eingeschlagenen Weges, um
deutlich zu machen, dass es eine große Mehrheit von Ländern auf der Welt gibt,
die glauben, dass Klimagerechtigkeit allen zugutekommt und dass die starken
Schultern das größte Gewicht tragen“.
Ölstaaten blockieren weiter
Insbesondere in der Kritik steht das ölreiche Saudi-Arabien,
welches Initiativen zur Reduzierung der Produktion fossiler Brennstoffe
weiterhin besonders ablehnend gegenübersteht. Normalerweise, so schrieb der
Guardian, sei Riad daran gewöhnt, hinter den Kulissen zu arbeiten, um seine
eigenen Interessen zu verfolgen, doch dieses Mal habe der saudische Delegierte
Albara Tawfiq offen erklärt, dass „die arabische Gruppe keinen Text akzeptieren
wird, der sich an bestimmte Sektoren richtet, einschließlich fossiler
Brennstoffe.“
(adnkronos/guardian/divers 23)
Klimagipfel COP29: „Nachhaltige
Zukunft ist Wettlauf gegen die Zeit"
Beim Klimagipfel COP29 in Baku hat Francesco La Camera,
Generalsekretär der International Renewable Energy Agency (IRENA) vor den
immensen Herausforderungen durch Umweltprobleme in Europa gewarnt. In einem
Interview mit uns skizzierte er die Schwerpunkte künftiger Maßnahmen.
Die Länder Europas stehen La Camera zufolge vor einer
Vielzahl von Umweltproblemen – von Luftverschmutzung über die Auswirkungen des
Klimawandels bis hin zu Wasserknappheit, Bodenverbrauch und Verlust der
Artenvielfalt. Extreme Wetterereignisse, wie zuletzt in Valencia,
verdeutlichten die Dringlichkeit. Dort seien die katastrophalen Folgen eine
direkte Folge der Erderwärmung und außergewöhnlicher Wetterbedingungen.
La Camera würdigte die bisherigen Fortschritte europäischer
Länder in Sachen Klimapolitik, etwa beim Ausbau des öffentlichen Nahverkehrs
und der energetischen Gebäudesanierung. Allerdings: „Wir sind noch weit davon
entfernt, das Problem der Luftverschmutzung und vor allem der Emissionen von
Treibhausgasen in die Atmosphäre zu lösen.“ Der Fachmann erinnerte auch an das
Ziel, den Ausstoß von Treibhausgasen um 45 Prozent bis 2030 zu drosseln, „das
ist praktisch morgen für unser produktives und unternehmerisches System“,
erklärte der Italiener, der die Agentur für Erneuerbare Energien mit Sitz in
den Vereinigten Arabischen Emiraten seit 2019 leitet.
La Camera verwies darüber hinaus auch auf die
fortschreitende Bodenversiegelung durch Neubauten und Infrastruktur: Innerhalb
2050 sind die Mitgliedsstaaten der EU dazu aufgerufen, ihren
Nettoflächenverbrauch auf „Netto-Null“ Prozent zu senken. „Nullverbrauch von
Boden bedeutet nicht, ihn für bestimmte Zwecke nicht mehr zu nutzen, sondern
ein Gleichgewicht zu schaffen zwischen Nutzung und Maßnahmen wie Aufforstung
oder urbaner Regeneration.“ Dies müsse mit einer nachhaltigen wirtschaftlichen
Entwicklung einhergehen.
„Am Wasser wird sich die Zukunft der Welt und der Menschheit
in den nächsten Jahren entscheiden“
Als besonders dringlich bezeichnet La Camera das Thema
Wasser für Europa und den Globus in den nächsten Jahren: „Am Wasser wird sich
die Zukunft der Welt und der Menschheit in den nächsten Jahren entscheiden.“
Aus der Sicht des Fachmanns kann nur ein doppelter Ansatz helfen: Lebensstil,
also das konkrete Verhalten jedes Einzelnen, und Politik, auch Kommunalpolitik,
die auf das Gemeinwohl zielt.
„Bis jetzt haben wir Wasser als ein erworbenes Gut
betrachtet, und es ist für uns normal, den Wasserhahn aufzudrehen und das
Wasser laufen zu lassen, ohne vielleicht die Weitsicht zu haben, ihn
abzudrehen, sobald wir diese für unser Land so wichtige Ressource entsprechend
gebraucht haben“, merkte der Fachmann an; an diesem Verhalten müsse man
arbeiten. „Und dann geht es natürlich auch um infrastrukturelle Maßnahmen, um
eine effizientere Instandhaltung unserer Wasserinfrastrukturen, die wir in
einigen Fällen modernisieren müssen. Wir müssen auch einen insgesamt
verantwortungsvolleren Umgang mit den Wasserressourcen ermöglichen oder besser
entwickeln, auch in der Industrie.“
Mit Nachdruck wies La Camera die Vorstellung zurück, der
oder die Einzelne könne nichts tun, um der leidenden Schöpfung zu helfen: „Die
Rolle der Bürger ist in diesem Zusammenhang sehr wichtig“, erklärte er. Niemand
könne die ökologische Frage heutzutage außer Acht lassen, „aber wir müssen uns
verantwortungsvoll gegenüber der Umwelt und den Ressourcen verhalten, die in
dieser Zeit am wertvollsten sind: Wasser und Boden. Vor allem müssen wir uns
darüber im Klaren sein, dass der ökologische Übergang ein Weg ist, der auch -
und in gewisser Weise vor allem - durch tugendhaftes Verhalten verläuft, durch
die Änderung der Lebensweise und der Gewohnheiten der Bürger.“ Natürlich müsse
die Lebensstil-Frage Hand in Hand gehen mit nachhaltigkeitsorientierter
Politik. „Es braucht Interventionen auch in der produktiven, wirtschaftlichen
und sozialen Welt, die ebenso tugendhaft sein müssen und auf den Umweltschutz
und somit auf den ökologischen Übergang zielen müssen.“
Die Internationale Organisation für erneuerbare Energien ist
eine NGO, die global die umfassende und nachhaltige Nutzung erneuerbarer
Energien fördert. Rund 170 Staaten und die Europäische Union sind Mitglied der
IRENA.
Schwieriges Ende beim Klimagipfel
Am Klimagipfel COP29 in Baku nehmen rund 50.000 Menschen aus
197 Staaten teil, um gemeinsam an Schritten im Kampf gegen die Klimakrise zu
arbeiten. Kurz vor Ende der Konferenz gibt es wenig Konkretes. Hauptstreitpunkt
ist, mit wie hohen und welchen Mitteln wohlhabende Staaten in Zukunft die
schwächeren unterstützen sollen, damit diese Klimaschutz und die Anpassung an
Klimafolgen bewältigen können. Der Gipfel soll an diesem Freitag mit einer
gemeinsamen Schlusserklärung enden, allerdings ist in den vergangenen Jahren
keine der internationalen Klimakonferenzen pünktlich zu Ende gegangen. (vn 22)
Parolin: Krieg in Ukraine und
Heiligem Land bald beenden
Kardinalstaatssekretär Pietro Parolin hat am Rand einer
Buchvorstellung am Freitag in Rom Journalistenfragen zu aktuellen Themen
beantwortet. Mit Blick auf die Ukraine forderte er erneut ein baldiges Ende des
Krieges. Zu den Aussagen von Papst Franziskus, man müsse prüfen, ob es
„Völkermord“ in Gaza gebe, sagte er: „Es gibt technische Kriterien für die
Definition eines solchen Begriffs“. Salvatore Cernuzio und Stefanie Stahlhofen
– Vatikanstadt
Keinen Kommentar des Chefdiplomaten des Heiligen Stuhls gab
es hingegen zur Entscheidung des Internationalen Strafgerichtshofs, einen
Haftbefehl gegen den israelischen Ministerpräsidenten Netanjahu wegen
Kriegsverbrechen zu erlassen. Zum Haftbefehl gegen Netanjahu erklärte der
Kardinal lediglich, dass der Heilige Stuhl „die Geschehnisse zur Kenntnis
genommen hat“ und bekräftigte, dass es „uns beunruhigt und interessiert, dass
der Krieg bald zu einem Ende kommt“.
Die gleiche Sorge gelte auch für die Ukraine, nachdem
britische und US-amerikanische Langstreckenraketen auf russisches Territorium
abgeschossen wurden und Präsident Wladimir Putin mit einem Konflikt gedroht
hat, der sich auf die ganze Welt ausweiten könnte.
„Lasst uns jetzt aufhören, solange wir noch Zeit haben, denn
man weiß nicht, wohin diese Eskalation führen wird“
Parolin sagt, er „interpretiere den Gedanken und die Sorge
des Papstes: Lasst uns jetzt aufhören, solange wir noch Zeit haben, denn man
weiß nicht, wohin diese Eskalation führen wird. Irgendwann werden wir nicht
mehr wissen, wie wir eine eventuelle Entwicklung dieser Situation kontrollieren
können.“ Alle Verantwortlichen mahnt der Kardinal, aufzuhören, bevor
dieser Punkt erreicht werde.
Sorge um Ukraine
Auf die Frage, ob dies der schlimmste Moment im
Ukraine-Konflikt sei, bemerkt der Kardinalstaatssekretär, „dass es meiner
Meinung nach nie bessere Momente gegeben hat“, und betont, dass „die derzeitige
Situation, die Entwicklungen, sehr besorgniserregend sind, weil wir nicht
wissen, wohin sie führen könnten“.
Neben seiner Besorgnis über eine mögliche Eskalation bringe
der Heilige Stuhl seine Verbundenheit mit dem „gemarterten“ Land zum Ausdruck,
indem er sich weiterhin für den Austausch von Gefangenen und die Rückkehr
ukrainischer Kinder einsetzt, die gewaltsam nach Russland verschleppt wurden.
Dazu gibt es keine Neuigkeiten, aber Parolin bekräftigt, dass „auf unserer
Seite der Wille besteht, weiterzumachen. Wir haben dies immer getan, nicht nur
um der Initiative an sich willen, sondern auch, um den Boden für Verhandlungen
zu bereiten“.
Völkermord in Gaza?
Zu Papst Franziskus' Aussage in einem Buch, dass man
untersuchen solle, ob der Konflikt im Gazastreifen, wo die Zahl der Opfer
mittlerweile 44.000 überstiegen hat, als „Völkermord“ bezeichnet werden kann,
sagte Parolin: „Der Papst hat gesagt, was die Position des Heiligen Stuhls ist,
und das ist, dass diese Dinge untersucht werden müssen, weil es technische
Kriterien für die Definition des Begriffs Völkermord gibt“.
„Wir haben Antisemitismus immer verurteilt und werden ihn
auch weiterhin verurteilen“
Klare Veurteilung von Antisemitismus
Mit Blick auf Antisemitismus erinnerte Kardinal Parolin
daran, dass „die Position des Heiligen Stuhls zu diesem Phänomen klar ist“: „Es
gibt keinen Grund, weitere Überlegungen anzustellen. Wir haben Antisemitismus
immer verurteilt und werden ihn auch weiterhin verurteilen, und wir werden uns
bemühen, genau die Bedingungen zu schaffen, damit es wirklich eine ernsthafte
Verurteilung und einen ernsthaften Kampf gegen dieses Phänomen geben kann“. (vn
22)
EU-Umfrage. Migration und
Terrorgefahr treiben EU-Bürger am meisten um
Eine neue Umfrage zeigt: In der EU sorgen sich die Menschen
stärker um Migration und Terrorgefahr als um Cyberangriffe oder militärische
Konflikte. Dabei gibt es deutliche Unterschiede zwischen den Ländern.
„Irreguläre“
Migration und Terrorgefahr treiben die Menschen in der Europäischen Union
aktuell stärker um als andere potenzielle Bedrohungen für den Frieden. Das
zeigen die Ergebnisse einer repräsentativen Umfrage im Auftrag der Bertelsmann
Stiftung in den 27 Mitgliedstaaten. Dabei sind regionale Unterschiede
erkennbar. Den russischen Angriffskrieg in der Ukraine nimmt die Bevölkerung in
den EU-Staaten auch als eine große Bedrohung wahr.
Auf die Frage „Was ist heute die größte Bedrohung für den
Frieden in Europa?“ gaben demnach etwa 25 Prozent der über 26.000 Teilnehmer
der Befragung an, nicht funktionierender Grenzschutz treibe sie mehr um als
alles andere. 21 Prozent der Menschen in der EU nehmen demnach terroristische
Angriffe als größte Bedrohung wahr, 19 Prozent große Cyberattacken. Ein Angriff
durch eine fremde Macht wird den Angaben zufolge von 18 Prozent der befragten
EU-Bewohner als größte Bedrohung empfunden. 17 Prozent von ihnen entschieden
sich für die Antwortvariante „Organisiertes Verbrechen“.
Teilnehmer aus Deutschland sorgen sich besonders um
Terrorrisiko
Dass die in Deutschland beheimateten Teilnehmer der Umfrage
das Terrorrisiko zu 23 Prozent als größte Bedrohung für den Frieden in Europa
wahrnehmen, mag auch mit dem Zeitpunkt der Befragung im vergangenen September
zusammenhängen. Die Erinnerungen an den Terroranschlag in Solingen waren da
noch sehr frisch. Am 23. August soll der Syrer Issa Al H. in Solingen drei
Menschen mit einem Messer getötet haben. Mehr als 24 Stunden später wurde er
festgenommen. Die Terrormiliz IS hat den Anschlag für sich reklamiert.
Mangelnde Grenzsicherung, eine Unterwanderung durch das
organisierte Verbrechen und einen militärischen Angriff halten der Befragung
zufolge jeweils 21 Prozent der Menschen in Deutschland mit Blick auf den
Frieden in Europa für die größte Gefahr. 14 Prozent verorten die größte
Bedrohung im Cyberraum.
Polen halten Angriffskrieg für größte Bedrohung
In Polen, das eine Grenze mit der von Russland angegriffenen
Ukraine hat, ist dagegen die Angst vor einem Krieg das, was die Menschen
besonders beschäftigt. Laut Umfrage halten 29 Prozent der Polen die Gefahr
eines militärischen Angriffs für die größte Bedrohung für den Frieden in
Europa. Im vom Kriegsschauplatz weiter entfernten Spanien sagen dies dagegen
lediglich 16 Prozent der Befragten.
Deutsche halten USA für wertvollsten Verbündeten
Laut Umfrage hielten im September – und damit vor der
erneuten Wahl von Donald Trump zum US-Präsidenten – 54 Prozent der deutschen
Bevölkerung die USA für den wertvollsten Verbündeten der EU. Dieser Wert liegt
etwas über dem EU-weiten Durchschnitt von 51 Prozent. In Polen ist der Anteil
derjenigen, die den USA diese Rolle zuweisen, mit 65 Prozent besonders hoch, in
Belgien mit 43 Prozent deutlich niedriger.
Unter den Bürgerinnen und Bürgern der USA ist der
Europa-Enthusiasmus nicht ganz so groß wie umgekehrt. Auf die Frage, wer wohl
der wertvollste Verbündete der USA sei, nannten nach Angaben der Bertelsmann
Stiftung 27 Prozent der rund 2.500 Teilnehmer der Befragung Großbritannien,
gefolgt von der Europäischen Union mit 25 Prozent. 13 Prozent der Menschen in
den USA halten Kanada für den bedeutendsten Partner, 12 Prozent Israel.
Zehn Prozent der Deutschen sehen China als wichtigsten
Verbündeten
Jeweils jeder Zehnte Bewohner Deutschlands und der EU
insgesamt bezeichnet China als wertvollsten Verbündeten. Der Westen wirft China
vor, Russland mit Gütern zu versorgen, die sowohl zivil als auch militärisch
genutzt werden können und so die russische Kriegswirtschaft zu unterstützen.
Die Bundesregierung hatte im Sommer 2023 erstmals eine
umfassende China-Strategie beschlossen. Darin wird das von der kommunistischen
Führung mit harter Hand regierte Land als Partner, Wettbewerber und
systemischer Rivale definiert. Kern der Strategie ist es, die wirtschaftliche
Abhängigkeit von China zu verringern, um ein böses Erwachen wie nach dem
russischen Angriff auf die Ukraine bei der Kappung der Gaslieferungen zu
vermeiden. (dpa/mig 22)
Im Ausland moderat, zu Hause Hardlinerin: Italiens
Regierungschefin treibt gekonnt ihre rechte Agenda voran – ohne die Mehrheit im
Land zu verprellen. Von Anna Momigliano
Als die italienische Regierung vor kurzem ein Gesetz
verabschiedete, das Leihmutterschaften auch im Ausland mit hohen Geld- und
Gefängnisstrafen belegte, gab es einigen Aufruhr. Doch der Protest hielt nicht
lange an. Die Maßnahme wurde natürlich von einigen progressiven Prominenten
kritisiert: „Kann mir jemand erklären, warum das ein Verbrechen ist?“, fragte
die Komikerin Luciana Littizzetto in der beliebten abendlichen Talkshow Che
Tempo Che Fa („Wie ist das Wetter?“). Elly Schlein, die Vorsitzende der Demokratischen
Partei, die sich in der linken Mitte verortet, nannte das Gesetz „scheußliche
Propaganda auf dem Rücken von Kindern“. Italiens größte LGBTQ+-Organisation
Arcigay bezeichnete es als „schwerwiegende Verweigerung individueller Rechte“
und kündigte Proteste an.
Doch am Tag nach dem Parlamentsbeschluss waren die
Titelseiten der Zeitungen stattdessen voll mit Artikeln über die
Haushaltskürzungen. Das Thema verschwand daraufhin weitgehend aus den
Nachrichten und wurde nur noch in kleinen, progressiven Kreisen auf sozialen
Medien diskutiert. Dies ist ein weiteres Beispiel für ein mittlerweile
vertrautes Muster: Ein Beschluss der Regierung unter Italiens rechter
Ministerpräsidentin Giorgia Meloni sorgt bei den Linken für Empörung, findet
auch in den Medien einigen Widerhall, entfacht jedoch keine breite
gesellschaftliche Debatte. Das Gesetz wird verabschiedet, Melonis
Zustimmungswerte bleiben hoch, und Italien rückt mit kaum mehr als einem
Schulterzucken nach rechts.
Es ist bekannt, dass Meloni, deren politische Laufbahn im
postfaschistischen Movimento Sociale Italiano begann, sich als
Ministerpräsidentin eine erfolgreiche Doppelidentität aufgebaut hat: Im Ausland
ist sie moderat, zuhause Hardlinerin. So demonstrierte ihre Regierung
angesichts der russischen Invasion auf internationaler Bühne stets
Unterstützung für die Ukraine und die NATO, obwohl Meloni selbst in der
Vergangenheit durchaus lobende Worte für Wladimir Putin gefunden hatte.
Auch daheim musste Meloni Balanceakte vollführen, um ihre
rechtskonservative Agenda durchzusetzen, ohne die Bevölkerung vor den Kopf zu
stoßen. Bis jetzt ist ihr das gelungen: In Italien, einem Land mit notorisch
kurzlebigen Regierungen und Zustimmungsraten, wurde die Ministerpräsidentin zu
einem ungewöhnlichen Stabilitätsanker. Die Faktencheck-Website Pagella Politica
zeigte in einer vergleichenden Analyse von Meinungsumfragen seit 2008, dass die
Zustimmungsraten ihrer Regierung zwar nicht überragend, aber seit ihrer
Amtseinführung konstant geblieben sind – ein scharfer Kontrast zu den meisten
Vorgängerkabinetten. Ihre Regierung zählt damit zwei Jahre nach der Wahl
bereits zu den langlebigsten in der italienischen Geschichte.
Diese Beständigkeit verdankt sie nicht bloßem Glück oder
Zufall. Meloni gelang es, sich den Rückhalt ihrer Fans zu sichern und zugleich
die halbherzige Unterstützung einer breiteren, moderateren Wählerschaft zu
erlangen, indem sie Maßnahmen erließ und Reden hielt, die rechts genug waren,
um Erstere zufriedenzustellen und Letztere nicht zu verschrecken.
Dazu gehört in Italien auch das Verbot der Leihmutterschaft.
In den USA sind sowohl uneigennützige als auch kommerzielle Formen der
Leihmutterschaft weit verbreitet und genießen breite Unterstützung. In Italien
hingegen galt Leihmutterschaft schon immer als Verbrechen. Das neue Gesetz geht
nun noch einen Schritt weiter und stellt sie auch bei Inanspruchnahme im
Ausland unter Strafe. Kommerzielle Leihmutterschaft, bei der die Leihmutter für
das Austragen der Schwangerschaft bezahlt wird, ist in der gesamten EU
verboten, und in Italien sprechen sich etwa 76 Prozent der Befragten dagegen
aus. Manche italienische Linke betonen, Leihmutterschaft sei Ausbeutung, vor
allem gegen Bezahlung, und Prominente, die sich dafür aussprechen, wägen ihre
Worte sorgfältig ab. Auch Littizzetto äußerte sich nicht zustimmend: „Ich kenne
bei einem solchen komplexen, riesigen, schwierigen Thema keine Gewissheiten“,
sagte sie bei ihrem Auftritt in Che Tempo Che Fa.
Ähnlich wie mit dem Gesetz zur Leihmutterschaft plant Meloni
nun, ein neues Sicherheitspaket zu verabschieden, das die Rechte von
Demonstrierenden erheblich einschränken würde. Zudem hat sie ein Abkommen mit
Albanien geschlossen, um Asylsuchende während der Prüfung ihrer Anträge dort
unterzubringen – auch wenn ein Gerichtsbeschluss diesen Plan vorläufig gestoppt
hat. Darüber hinaus hält sie den staatlichen Rundfunksender RAI fest unter
Kontrolle.
All diese Maßnahmen sind zwar auf der rechten Seite des
politischen Spektrums zu verorten, aber nicht völlig außerhalb des
italienischen Mainstreams. Nach Umfragen wünscht sich die überwiegende Mehrheit
der Italienerinnen und Italiener eine stärkere Polizeipräsenz. Ein Meinungsbild
von 2023 ergab, dass sich 64 Prozent der Bevölkerung für schärfere
Grenzkontrollen aussprechen und 45 Prozent der Aussage, Einwanderer seien eine
Gefahr für die öffentliche Sicherheit, voll und ganz zustimmen. Zudem sind die Italienerinnen
und Italiener seit den Zeiten Silvio Berlusconis an politisch streng
kontrollierte Medien gewöhnt.
Giorgia Meloni hat es allerdings auch sorgfältig vermieden,
gesellschaftliche Themen anzugehen, die zu Spaltungen führen könnten, weil sie
entweder zu ideologisch aufgeladen sind oder den Eindruck von
Selbstüberschätzung erwecken könnten. So beschränkte sie sich beispielsweise
bei der Abtreibungsfrage, die rund 80 Prozent der Italienerinnen und Italiener
unterstützen, auf rein symbolische Aussagen.
Indem sie solche Fallstricke geschickt umging, konnte Meloni
den Eindruck von Arroganz und Überheblichkeit vermeiden – eine Haltung, die
schon so manchen italienischen Politiker zu Fall brachte. Ein Beispiel ist
Matteo Renzi, Ministerpräsident von 2014 bis 2016, der seinen Verbleib im Amt
an ein ehrgeiziges Verfassungsreferendum knüpfte, das der Exekutive mehr Macht
verleihen sollte. Nach einer krachenden Niederlage musste er jedoch
zurücktreten. Oder Matteo Salvini, Innenminister von 2018 bis 2019 in einer
Koalition, in der er als beliebtester Politiker – wenn nicht sogar als
inoffizieller Chef – galt. Salvini drängte auf vorgezogene Neuwahlen,
scheiterte jedoch spektakulär und verlor an Einfluss, bevor er als Melonis
Stellvertreter wieder auf der politischen Bühne erschien. Zweifellos wird auch
Giorgia Meloni eines Tages zu weit gehen. Doch derzeit scheint sie genau zu
wissen, was sie tut. TNYT/EPG 22
Merkel-Biographie berichtet von
hilfreichem Papst-Tipp
Deutschlands frühere Bundeskanzlerin Angela Merkel - die
erste Frau in dieser Position - hat eine Autobiographie geschrieben.
Veröffentlicht ist sie noch nicht - aber es kursieren in einigen Medien schon
Auszüge - in denen es auch um Papst Franziskus geht. Die Protestantin und das
katholische Kirchenoberhaupt trafen sich mehrfach.
Die „Zeit" (Donnerstag) publizierte die entsprechende
Passage aus Merkels bisher noch unveröffentlichter Biographie. Da heißt es,
Papst Franziskus habe Angela Merkel nach deren eigenem Bekunden im Jahr 2017
einen wichtigen Tipp gegeben. Als Bundeskanzlerin habe sie den Papst damals
kurz vor dem G20-Gipfel in Hamburg getroffen, so die CDU-Politikerin in ihrer
Autobiographie. Die Zusammenkunft der 20 wichtigsten Industrie- und
Schwellenländer stand damals laut Merkels Schilderung unter anderem wegen des
von Präsident Donald Trump angekündigten Rückzugs der USA aus dem Pariser
Klimaabkommen unter keinem guten Stern. Die „Zeit" (Donnerstag)
publizierte die entsprechende Passage aus Merkels bisher noch
unveröffentlichter Biographie. Den Papst habe sie, ohne Namen zu nennen,
gefragt, wie er mit fundamental unterschiedlichen Meinungen in einer Gruppe von
wichtigen Persönlichkeiten umgehen würde, erinnert sich Merkel. „Er verstand
mich sofort und antwortete mir schnörkellos: ,Biegen, biegen, biegen, aber achten,
dass es nicht bricht.' Dieses Bild habe ihr gefallen, schreibt Merkel. „In
diesem Geiste würde ich in Hamburg versuchen, mein Problem mit dem Pariser
Übereinkommen und Trump zu lösen, obwohl ich noch nicht genau wusste, was das
konkret bedeutete."
Merkels Autobiographie soll am kommenden Dienstag (26.
November) bei Kiepenheuer & Witsch erscheinen und am selben Tag in einem
Gespräch der Autorin mit Moderatorin Anne Will im Deutschen Theater in Berlin
vorgestellt werden. Die Veranstaltung ist ausverkauft. Laut Angaben des Kölner
Verlags erscheint das Buch, das Merkel zusammen mit ihrer langjährigen
Beraterin Beate Baumann verfasste, in mehr als 30 Ländern. (kna 21)
Vorwurf: Kriegsverbrechen. Weltstrafgericht
erlässt Haftbefehl gegen Netanjahu
Der Chefankläger des Internationalen Strafgerichtshofs will
Israels Regierungschef Netanjahu vor Gericht bringen. Dafür gibt es nun ein
Haftbefehl. International wird der Vorgang kontrovers diskutiert.
Der Internationale Strafgerichtshof hat Haftbefehle gegen
Israels Ministerpräsidenten Benjamin Netanjahu, den früheren
Verteidigungsminister Joav Galant und gegen den Anführer der Terrororganisation
Hamas Mohammad Diab Ibrahim Al-Masri erlassen. Die Richter in Den Haag stimmten
damit einem Antrag des Chefanklägers Karim Khan vom Mai zu. Netanjahu und
Galant stehen danach unter dem Verdacht von Kriegsverbrechen und Verbrechen
gegen die Menschlichkeit seit dem 8. Oktober 2023 im Gazastreifen.
Chefankläger Khan ermittelt seit Monaten wegen mutmaßlicher
Kriegsverbrechen im Gaza-Krieg. Israel hatte Beschwerde gegen die Beantragung
der Haftbefehle eingereicht. Diese wiesen die Richter zurück. Hamas-Chef
Al-Masri – bekannt unter dem Namen Deif – wird wegen möglicher Kriegsverbrechen
und Verbrechen gegen die Menschlichkeit seit dem 7. Oktober gesucht. Er soll
bei einem israelischen Bombenangriff im Gazastreifen getötet worden sein. Eine
offizielle Bestätigung für seinen Tod gab es jedoch nie.
Das Gericht sieht ausreichende Gründe für die Annahme, dass
Netanjahu und Galant „absichtlich und wissentlich der Zivilbevölkerung im
Gazastreifen wesentliche Dinge für ihr Überleben einschließlich Nahrung, Wasser
sowie Medikamente und medizinische Hilfsmittel sowie Brennstoffe und Strom
vorenthalten haben.“
Das Weltstrafgericht kennt keine Immunität von Staats- oder
Regierungschefs. Bereits 2023 erließ es einen Haftbefehl gegen den russischen
Präsidenten Wladimir Putin wegen möglicher Kriegsverbrechen in der Ukraine. Das
Gericht mit Sitz in Den Haag hat selbst keine Möglichkeiten, die Haftbefehle
auch zu vollstrecken. Aber seine 124 Mitgliedsstaaten – darunter Deutschland –
sind dazu verpflichtet, die Gesuchten festzunehmen, sobald sie sich in ihrem
Hoheitsgebiet befinden. Damit werden die Reisemöglichkeiten für die Gesuchten
stark eingeschränkt.
Internationale Kontroverse
Schon der Antrag des Chefanklägers auf die Haftbefehle löste
international Schockwellen aus. Zahlreiche Staaten hatten juristische
Stellungnahme zu dieser Frage dem Gericht übergeben. Diese hatten die Richter
bei ihrer Entscheidung über den Antrag mitberücksichtigt.
Weder die USA noch Israel erkennen den Strafgerichtshof an.
Doch die palästinensischen Gebiete sind Vertragsstaat. Bereits 2021 hatte das
Gericht festgestellt, dass es auch für Gebiete zuständig sei, die seit 1967 von
Israel besetzt sind.
Im Mai hatte Netanjahu den Ankläger Khan einen „der großen
Antisemiten der Moderne“ genannt. Auch Israels wichtigster Verbündeter, die
USA, hatten sich gegen die Haftbefehle ausgesprochen. Zahlreiche andere Länder
wie etwa Frankreich stärkten dem Strafgerichtshof dagegen den Rücken.
Weiteres Verfahren gegen Israel
Die Ermittlungen des Weltstrafgerichts sind unabhängig von
laufenden Verfahren zu der Gewalt im Gazastreifen vor dem Internationalen
Gerichtshof. Dieses höchste UN-Gericht ebenfalls mit Sitz in Den Haag will
Streitfälle zwischen Staaten lösen. Südafrika hatte Israel wegen Völkermordes
vor diesem Gericht verklagt. (dpa/mig 21)
„Deutschland müsste Netanjahu
festnehmen und überstellen“
Völkerrechtler Matthias Goldmann über den Haftbefehl gegen
Israels Regierungschef, die Legitimität des IStGH und Konsequenzen für die
Bundesrepublik. Die Fragen stellte Nikolaos Gavalakis.
Der Internationale Strafgerichtshof hat Haftbefehl gegen
Israels Premierminister Benjamin Netanjahu und
Ex-Verteidigungsminister Yoav Gallant wegen mutmaßlicher Kriegsverbrechen
erlassen. Eine Überraschung?
Nein, der Gerichtshof sieht klare Anhaltspunkte für
Kriegsverbrechen und Verbrechen gegen die Menschlichkeit, darunter das
systematische Aushungern der Bevölkerung. Ebenso wird die Verfolgung einer
bestimmten Bevölkerungsgruppe angeführt. Relevant für den Haftbefehl sind
insofern die katastrophale Versorgungslage in Gaza sowie die seit Monaten
prekäre medizinische Versorgung, die ja auch medial stark thematisiert werden.
Deutschland ist seit dessen Gründung ein wichtiger
Unterstützer des Internationalen Strafgerichtshofs. Welche rechtlichen und
praktischen Konsequenzen hat der Haftbefehl für die Bundesregierung und
deutsche Behörden?
Die zentrale Frage ist, ob Deutschland verpflichtet wäre,
Netanjahu bei der Einreise festzunehmen. Grundsätzlich genießen amtierende
Regierungschefs Immunität aufgrund der Staatenimmunität. Allerdings gibt es für
internationale Strafgerichte Ausnahmen. Der Internationale Gerichtshof hat 2002
im sogenannten Haftbefehlsfall bei einer Klage der Demokratischen Republik
Kongo gegen Belgien entschieden, dass gewohnheitsrechtliche Immunitäten von
Offiziellen gegenüber internationalen Gerichten nicht gelten.
Ein wichtiger Punkt ist, dass Israel kein Mitglied des
Internationalen Strafgerichtshofs ist. Daher wird diskutiert, ob diese
Ausnahmeregel auch für Staaten gilt, die nicht dem Gerichtshof angehören. Viele
Experten argumentieren, dass es bei Verbrechen gegen die Menschlichkeit keine
Immunität geben kann. Dafür spricht aus meiner Sicht einiges – auch wenn die
Rechtslage nicht vollständig geklärt ist, und in der Vergangenheit Staaten
ähnliche Haftbefehle teils nicht konsequent umgesetzt haben. Deutschland als
Mitgliedstaat des Internationalen Strafgerichtshofs müsste Netanjahu demnach
festnehmen und überstellen.
Wie realistisch ist es, dass ein israelischer Regierungschef
auf deutschem Boden festgenommen wird?
Es ist sehr unwahrscheinlich. Netanjahu wird nicht nach
Deutschland reisen – und falls doch, wäre das eine massive Provokation. Sollte
er sich tatsächlich ankündigen, müsste die Bundesregierung mit allen
diplomatischen Mitteln eine solche Situation vermeiden. Denn wenn er einreist,
steht Deutschland vor der Wahl: ihn festnehmen und ausliefern oder eine klare
Verletzung der Verpflichtungen gegenüber dem Internationalen Strafgerichtshof
riskieren. Jede Reise nach Deutschland oder in andere EU-Staaten könnte man als
Test verstehen, ob die Vertragstreue gegenüber dem Strafgerichtshof Bestand
hat. Ein solcher Test müsste mit der klaren Botschaft beantwortet werden, dass
Deutschland seinen Pflichten nachkommt.
Israel und die USA erkennen den Internationalen
Strafgerichtshof nicht an. Welche Auswirkungen hätte es auf das internationale
Rechtssystem, wenn Haftbefehle wie dieser nicht umgesetzt werden?
Viele Haftbefehle sind in der Vergangenheit nicht umgesetzt
worden, weil man die Angeklagten nicht greifen konnte. Zum Beispiel im Zuge des
Ruanda-Tribunals. Das allein würde die Legitimität des internationalen Rechts
oder des Strafgerichtshofs nicht erschüttern. Ähnliches gibt es ja auch auf
nationaler Ebene. Problematisch wird es, wenn Mitgliedstaaten die Haftbefehle
systematisch ignorieren. Sollte Netanjahu weiterhin unbehelligt reisen können,
könnte das die Glaubwürdigkeit des Internationalen Strafgerichtshofs erheblich
beschädigen. Besonders kritisch ist dies im Kontext des Vorwurfs, der
Gerichtshof sei ein Gericht nur für Afrika oder für Angeklagte aus dem Globalen
Süden. Wenn westliche Politiker wie Netanjahu anders behandelt würden als
Angeklagte aus Afrika, könnte der Internationale Strafgerichtshof seine
Legitimität dauerhaft verlieren. Das ist eine Gefahr, welche die
Bundesregierung bei ihrer Entscheidung unbedingt berücksichtigen muss. EPG 21
Studie "Frauen und ihre
Karrierepläne". Ausgebremste Ambitionen
Aktuelle Arbeitsmarktreport beleuchtet berufliche Ziele von
Frauen: Viele weibliche Beschäftigte treffen nach wie vor auf Barrieren in der
Karriereplanung
Berlin, November 2024. Weniger als jede fünfte Frau verfolgt
kurzfristig einen konkreten Karriereschritt in ihrem aktuellen Unternehmen. Das
ist ein Ergebnis der aktuellen Arbeitsmarkt Studie „Frauen und ihre
Karrierepläne“, für die die KÖNIGSTEINER Gruppe 1.608 Beschäftigte, davon 1.083
Frauen befragen ließ. Demnach geben 17 % der Frauen an, in naher Zukunft die
nächste Stufe auf ihrer Karriereleiter erklimmen zu wollen. Zum Vergleich: Bei
den Männern liegt der entsprechende Anteil bei 24 %. Allerdings streben die
meisten Frauen dabei eine gehaltliche Weiterentwicklung sowie die Übernahme von
fachlicher Verantwortung an. Weniger hoch im Kurs stehen aus weiblicher Sicht
dagegen Führungs- und Personalverantwortung. Ein Hauptgrund, warum viele Frauen
umgekehrt auf ein berufliches Vorankommen verzichten, liegt in der höheren
Gewichtung der eigenen Work-Life-Balance. Dies geben 53 % der Frauen als
Hauptgrund an, derzeit keinen Karriereschritt im Blick haben. Mehr als ein
Drittel von ihnen (36 %) befürchten zudem einen zu hohen beruflichen Stress.
Nur 13 % verzichten zu Gunsten der Familie auf eine Weiterentwicklung im Job.
Bereits mehr als ein Fünftel erleben ihr Geschlecht als
Karrierehemmnis
Ein weiterer Grund, warum viele Frauen wohl auch von sich
aus auf eine Karriereentwicklung verzichten, sind angenommene sowie erlebte
Ressentiments aufgrund ihres Geschlechts. Denn 22 % der befragten
Arbeitnehmerinnen erfuhren eigenen Angaben zufolge bereits Karrierehindernisse
aufgrund der Tatsache, dass sie eine Frau sind. Besonders ausgeprägt ist diese
Erfahrung im berufserfahrenen Alter zwischen 30 und 39 Jahren. Hier geben 28 %
derart negative Erfahrungen zu Protokoll. Dazu passt: Während 21 % der Frauen
das Gefühl haben, grundsätzlich aufgrund ihres Geschlechts in der
Karriereplanung benachteiligt zu werden, teilen dies nur 6 % der Männer für ihr
Geschlecht.
Vielfach wahrgenommene Barrieren in der Karriereentwicklung
sind aus Sicht vieler Frauen ungleiche Bezahlung, die mehr als die Hälfte der
Frauen (52 %) in ihrem Berufsleben bereits mindestens einmal hingenommen haben,
der Mangel an flexiblen Arbeitszeiten (40 %) sowie fehlende Fürsprecher in
ihrem aktuellen Unternehmen (39 %).
Vor allem aus den Personalabteilungen fehlt vielen Frauen
die notwendige Unterstützung. So fühlen sich aktuell mehr als die Hälfte der
Frauen (52 %) von der HR-Abteilung nicht angemessen unterstützt, was den
Fortgang ihrer beruflichen Laufbahn betrifft. Entsprechend gering ausgeprägt
ist der Glauben daran, dass Personaler überhaupt etwas für sie tun können.
Davon gehen nämlich gerade einmal 16 % der befragten Frauen aus. Die Hoffnungen
ruhen dabei eher auf der direkten Führungskraft (48 %) sowie der Geschäftsführung
(38 %). Vor allem weibliche und jüngere Führungskräfte werden von Frauen als
Karriereförderer im Unternehmen erlebt. „Unsere Studie zeigt, dass Männer in
ihren Karriereplänen ein Stück weit mehr auf den `Fame` aus sind, der mit einem
Karriereschritt verbunden ist. Die Übernahme von Personalverantwortung oder
Führungspositionen beinhaltet mehr Bedeutung im jeweiligen Unternehmen. Frauen
ist es dagegen erst einmal wichtig, im Gehalt aufzuschließen und sie scheuen
sich auch nicht davor, mehr fachliche Verantwortung zu übernehmen – also sich
im Sinn der Sache einzubringen, ohne einen neuen Jobtitel dafür einzuheimsen“,
so Nils Wagener, Geschäftsführer der KÖNIGSTEINER Gruppe, zu den
Studienergebnissen.
Karrierepläne der Frauen konzentrieren sich auf Gehalt und
Fachbereich
Interessant ist, was Frauen konkret vorschwebt, wenn sie
ihre Karriere voranbringen möchten. Dann nämlich steht für die meisten zunächst
einmal ein Gehaltssprung auf der persönlichen Agenda. 63 % von ihnen verstehen
vor allem die Erhöhung ihrer monatlichen Bezüge als wichtigen Karriereschritt.
Gleich danach folgt die bereitwillige Übernahme fachlicher Verantwortung, was
sich 37 % der Frauen, die eine berufliche Entwicklung anstreben, gut vorstellen
können. Weniger im Fokus weiblicher Beschäftigter: Führungspositionen, die nur
für 15 % der ambitionierten Frauen vorstellbar sind, sowie
Personalverantwortung (22 %). Zum Vergleich: 26 % der ambitionierten Männer
schielen auf Führungsverantwortung, 30 % auf Personalverantwortung.
Ambitionierte Frauen erreichen in der Regel ihre
Karriereziele
Insgesamt ist der Anteil der Männer, die ihre
Karriereplanung als "sehr wichtig" bezeichnen, deutlich höher ist als
der von Frauen. Insgesamt bewerten 31 % der Männer die Verwirklichung ihrer
beruflichen Ziele so, im Vergleich zu 21 % der Frauen. Allerdings sind die
Frauen, die ihre Karrierepläne als sehr wichtig bezeichnen mit den erzielten
Fortschritten diesbezüglich auch zufrieden. 42 % von ihnen sind in dieser
Hinsicht sehr zufrieden, weitere 40 % zumindest tendenziell. Nur 9 % haben
einen gegenteiligen Eindruck. HR-P 21
„Berliner Erklärung“. Integrationsbeauftragte:
Asyldebatte bedient Migrationsfeindlichkeit
Die Integrationsbeauftragten der Länder und des Bundes sind
sich einig: Deutschland braucht Einwanderung. In einer gemeinsamen Erklärung
fordern sie mehr Unterstützung der Städte und Gemeinden und verteidigen das
Asylrecht.
Die Integrationsbeauftragten der Länder und des Bundes
fordern mehr Unterstützung der Kommunen bei deren Integrationsbemühungen.
„Deutschland profitiert von Einwanderung und ist in Zukunft darauf angewiesen“,
heißt es in der „Berliner Erklärung“, die sie bei ihrem Herbsttreffen in der
Hauptstadt verabschiedet haben. Die Frage gelungener Integration entscheide
sich maßgeblich in den Städten und Gemeinden. „Bund und Länder sind gefordert,
die Kommunen bei dieser Aufgabe dauerhaft und verlässlich zu unterstützen.“
„Integration ist kein Projekt, es ist eine Regelaufgabe“,
sagte Berlins Integrationsbeauftragte Katarina Niewiedzial der dpa. „Wir
brauchen eine krisenfeste Infrastruktur, die den Kommunen hilft, diese Aufgabe
zu bewerkstelligen. Dazu zählen Wohnungen, Kitaplätze, Schulplätze und auch
eine sozial ausgewogene Nachbarschaft.“
„Sprache ist das Fundament für alles andere“
Eine weitere Forderung in der „Berliner Erklärung“ ist die
nach ausreichender Finanzierung von Integrationskursen, bei denen nicht zuletzt
die deutsche Sprache gelernt wird. Sie sei das Fundament für alles andere,
sagte Niewiedzial. „Wenn das wegfällt, dann bricht uns hier das ganze System
zusammen. Das darf nicht sein.“
Genauso wichtig ist aus Sicht der Integrationsbeauftragten,
Migrantenorganisationen als zentrale Akteure der Einwanderungsgesellschaft zu
stärken. „Sie benötigen auf allen Ebenen mehr Repräsentanz, Teilhabe und eine
auskömmliche Finanzierung“, heißt es im gemeinsamen Resolutionstext.
Die aktuelle Asyldebatte bediene migrationsfeindliche
Ressentiments und schade dem gesellschaftlichen Zusammenhalt. „Die
Integrationsbeauftragten bekräftigen, dass sie am grundgesetzlich gesicherten
Recht auf Asyl festhalten und sich gegen jeden Versuch seiner Einschränkung
wehren.“
„Am Ende geht es auch um unsere Haltung“
Niewiedzial wies darauf hin, dass das alleine nicht reiche:
„Wir können Verordnungen und Gesetze machen, aber am Ende geht es auch um
unsere Haltung“, betonte sie. „Um unsere Haltung, die eindeutig sagt:
Einwanderung und Vielfalt sind kein Problem, sie sind eine Chance. Diese
Haltung verkörpern und fordern wir ein, weil sie gerade in die Defensive
gerät.“
Die Integrationsbeauftragten aus den Ländern und die
Beauftragte des Bundes, Reem Alabali-Radovan, kamen ab Montag zu ihrem
zweitägigen Treffen in Berlin zusammen. Berlin war turnusmäßig Gastgeber der
Runde. (dpa/mig 21)
Internationalisierung der
Hochschulen für Angewandte Wissenschaften erfolgreich
Der Deutsche Akademische Austauschdienst (DAAD) zieht nach
fünf Jahren eine erste, positive Bilanz seines Förderprogramms zur
Internationalisierung der Hochschulen für Angewandte Wissenschaften (HAWen).
Auf einer Konferenz in Karlsruhe stellt der DAAD ab heute die bisherigen
Ergebnisse des Programms „HAW.International“ vor. Das vom Bundesministerium für
Bildung und Forschung (BMBF) finanzierte Programm läuft voraussichtlich noch
bis 2029.Bonn. „Das Programm HAW.International ist für uns ein Leuchtturm in der
Förderung der Internationalisierung. Es sorgt für mehr weltweite Sichtbarkeit
von Deutschlands Hochschulen für Angewandte Wissenschaften. Die bisherigen
Ergebnisse zeigen zudem, wie wirkungsvoll die Unterstützung der HAWen bei der
Internationalisierung ist“, sagte DAAD-Präsident Prof. Dr. Joybrato Mukherjee.
„Mehr als zwei Drittel der HAWen in Deutschland haben sich bereits am Programm
beteiligt. Wir wollen auch in den kommenden Jahren möglichst viele der HAWen
beim Ausbau der internationalen Wettbewerbsfähigkeit und der Vorbereitung von
Studierenden auf die Herausforderungen der globalisierten Arbeitswelt
unterstützen.“
Nach fünf Jahren zieht der DAAD eine erste Bilanz für das
Programm: Seit dem Start wurden 119 Projekte gefördert, mehr als 7.000
Studierende, Lehrende und Forschende unterstützt, das BMBF stellt dafür über 70
Millionen Euro bereit. An den Projekten waren Hochschulen und
Partnerinstitutionen aus rund 100 Ländern weltweit beteiligt, Schwerpunkte der
internationalen Netzwerkbildung der Hochschulen lagen auf Nordamerika und
Europa.
Der DAAD bietet den HAWen mit dem Programm maßgeschneiderte
Unterstützung, um weltweite Netzwerke in Forschung, Lehre und Transfer
auszubauen und ihren Studierenden internationale Erfahrungen zu ermöglichen.
Neben der Förderungen der Hochschulen vergibt der DAAD im Rahmen des Programms
Individualstipendien für Semesteraufenthalte, Praktika oder Abschlussarbeiten
im Ausland. Im Oktober wählte der DAAD für eine weitere Programm-Runde zehn
neue Projekte aus, die bis 2027 gefördert werden.
Hintergrund. Das Förderprogramm HAW.International startete
im März 2019 und wird vom BMBF finanziert. Es unterstützt Hochschulen für
Angewandte Wissenschaften in Deutschland bei der Entwicklung einer nachhaltigen
internationalen Profilbildung und der internationalen Vernetzung.
HAW.International fördert dabei sowohl Internationalisierungsprojekte als auch
einzelne Studierende, Lehrende und Forschende bei ihren internationalen
Vorhaben. Das Programm läuft nach aktueller Planung bis 2029.
Der Ausbau der Internationalisierung der HAWen in
Deutschland zeigt sich auch an der Entwicklung der Zahl internationaler
Studierender: Im Wintersemester 2012/2013 waren 135.200 internationale
Studierende an Deutschlands HAWen eingeschrieben, zehn Jahre später waren es
bereits 231.800. Der Anteil internationaler Studierender an den HAWen stieg
damit von 5,8 auf zehn Prozent. Daad 21
Muezzin-Ruf in Köln wird
unbefristet genehmigt
Die Aufregung um den ersten öffentlichen Muezzin-Ruf in Köln
war im Herbst 2022 groß – doch inzwischen ist bei dem Thema merklich Ruhe
eingekehrt. Die Stadt stellt nun fest: So kann es weitergehen.
Der im Rahmen eines Modellprojekts an der Kölner
Ditib-Zentralmoschee erlaubte öffentliche Muezzin-Ruf darf künftig weiter
erschallen. Das geht aus einer Mitteilung der Stadt hervor. Nach Ablauf des
Evaluierungszeitraums von zwei Jahren gebe es keine Hinweise auf Verstöße der
Moscheegemeinde gegen die vereinbarten Auflagen. Daher werde der geschlossene
Vertrag verlängert – unbefristet. Mehrere Medien hatten zuvor berichtet.
An der Zentralmoschee der Türkisch-Islamischen Union Ditib
in Köln-Ehrenfeld ruft seit Oktober 2022 ein Muezzin zum Freitagsgebet. Zuvor
hatte es viele Diskussionen um den per Lautsprecher übertragenen Gebetsruf
gegeben, da Kritiker die Ditib als verlängerten Arm der türkischen
Religionsbehörde in Ankara betrachten. Kölns Oberbürgermeisterin Henriette
Reker (parteilos) hatte das zunächst auf zwei Jahre angelegte Pilotprojekt, an
dem sich Moscheegemeinden in Köln beteiligen konnten, mit Hinweis auf die im Grundgesetz
verbriefte Freiheit der Religionsausübung ins Leben gerufen.
Nicht länger als fünf Minuten
Für eine Genehmigung mussten Gemeinden allerdings Auflagen
erfüllen. So darf der Ruf nicht länger als fünf Minuten dauern und eine
bestimmte Lautstärke nicht überschreiten. Er darf freitags zwischen 12.00 und
15.00 Uhr einmalig ohne erneute Wiederholung erklingen. Die Auflagen gelten im
Fall der Zentralmoschee nun unverändert weiter.
Nach Angaben der Stadt gab es vor allem zu Beginn des
Projekts auch einige negative Rückmeldungen von Bürgern. Dabei seien aber nur
wenige konstruktive Äußerungen eingegangen, hieß es im Bericht. „Viele der
E-Mails enthielten beleidigende Inhalte und Statements, bis hin zu
strafrechtlich zu bewertenden Inhalten.“ Nach rund zwei Wochen sei die Zahl der
Zuschriften stark zurückgegangen.
Die Moscheegemeinde der Ditib ist nach Angaben der Stadt die
einzige Moscheegemeinde in Köln, die sich an dem Modellprojekt beteiligt hat.
(dpa/mig 21)
YouGov-Studie zur aktuellen politischen Stimmung in
Kooperation mit dem SINUS-Institut
Köln. Drei Monate vor der vorgezogenen Bundestagswahl im
Februar 2025 deutet alles auf einen klaren Sieg der CDU/CSU hin. Die ehemaligen
Ampel-Parteien müssen derzeit mit erheblichen Verlusten rechnen. Doch wer sind
derzeit die Unterstützerinnen und Unterstützer der Parteien? Welche Potenziale
haben die Parteien in der Bevölkerung? Welche Themen sind den Wählerinnen und
Wählern wichtig, und wie verändern sich deren Prioritäten? Diesen und weiteren
Fragen ist die Data & Analytics Group YouGov in Kooperation mit dem
SINUS-Institut in einer repräsentativen Online-Befragung nachgegangen.
Wenn am nächsten Sonntag Bundestagswahl wäre, würden 33
Prozent der Wählerinnen und Wähler der CDU/CSU ihre Stimme geben. Mit
deutlichem Abstand folgt die AfD mit 19 Prozent. Die SPD würden 15 Prozent
wählen, die Grünen 12 Prozent, das BSW käme auf 7 Prozent. Um den Einzug in den
Bundestag zittern müssen die FDP mit 5 Prozent und die Linke mit 3 Prozent. Die
sonstigen Parteien liegen zusammen bei 7 Prozent.
Dies ist das Ergebnis der aktuellen Sonntagsfrage von
YouGov, für die 2.193 Wahlberechtigte in einer repräsentativen Online-Befragung
zwischen dem 08.11. und 12.11.2024 befragt wurden. Von ihnen äußerten 1.805
Personen (82 Prozent) eine konkrete Wahlabsicht. Die restlichen 18 Prozent
zählen zu den Nichtwählern, sind noch unentschlossen oder machten bei der Frage
zur Wahlabsicht keine Angabe.
Das aktuelle Stimmungsbild offenbart eine breite Zustimmung
für die Unionsparteien: CDU/CSU führen aktuell in allen Geschlechter-, Alters-
und Bildungsgruppen. Politische Einstellungen und Wahlverhalten hängen jedoch
stärker mit Werten zusammen als mit soziodemografischen Faktoren. Das legt die
Analyse im Gesellschaftsmodell der Sinus-Milieus offen, das die deutsche
Bevölkerung vor dem Hintergrund ihrer Werte, Lebensstile und der sozialen Lage
in zehn „Gruppen Gleichgesinnter“ einteilt. Entsprechend konkurriert die Union
je nach Bevölkerungsgruppe mit unterschiedlichen Parteien.
CDU/CSU liegen vorne – sogar bei jungen und progressiven
Wählergruppen
Die Unionsparteien würden bei einer Bundestagswahl in sieben
von zehn Sinus-Milieus gewinnen. „Auf ihre Stammwählergruppen können sie sich
verlassen: Das Zentrum der CDU/CSU liegt beständig im Milieu der
Konservativ-Gehobenen, der strukturkonservativen Elite unserer Gesellschaft.
Hier würden weit überdurchschnittliche 47 Prozent der Befragten die Union
wählen. Hohe 38 Prozent erreicht die Union weiterhin in ihren Stammmilieus der
Performer, das sind die erfolgsorientierten Fortschrittsoptimisten hierzulande,
und bei den Traditionellen, der Sicherheit und Ordnung liebenden älteren
Generation“, sagt Dr. Silke Borgstedt, Geschäftsführerin des SINUS-Instituts.
Im Vergleich zu früheren Milieu-Analysen ist auffällig, dass
die Unionsparteien derzeit auch Wähler aus jungen und progressiven Milieus
überzeugen können. Konkret: In den Zukunftsmilieus der Expeditiven und
Neo-Ökologischen, wo die Grünen bei der Bundestagswahl 2021 weit
überdurchschnittlich abschnitten, liegen die Unionsparteien mit 36 Prozent bzw.
40 Prozent nun klar vorne.
In der Mitte der Gesellschaft ist die AfD die stärkste
Konkurrenz der Union
Die Analyse nach Sinus-Milieus zeigt auch, dass sich CDU/CSU
je nach Milieu mit unterschiedlichen Konkurrenten auseinandersetzen muss. So
ist in den Milieus der gesellschaftlichen Mitte die AfD die größte Konkurrentin
der Unionsparteien. Besonders deutlich wird dies in der modernen Mitte der
Adaptiv-Pragmatischen. Hier gewinnen CDU/CSU mit 30 Prozent, aber die AfD folgt
dicht mit 28 Prozent. In der alten Mitte der Nostalgisch-Bürgerlichen liegt die
AfD mit 34 Prozent vor der CDU/CSU mit 29 Prozent. Dr. Silke Borgstedt
erläutert: „So unterschiedlich die beiden Mitte-Milieus jeweils ticken, sie
eint eine starke Zukunftsverunsicherung und Transformationsenttäuschung. Die
Menschen in den Mitte-Milieus sorgen sich besonders stark vor steigenden
Lebenshaltungskosten, unsicheren wirtschaftlichen Perspektiven und möglichen
Folgen der Zuwanderung“. Im Milieu der Prekären ist der Zuspruch für die AfD am
größten (47 Prozent).
Die Ampel-Parteien haben Probleme, vorhandene
Wählerpotenziale auszuschöpfen
Die ehemaligen Ampel-Parteien haben seit der Bundestagswahl
2021 in nahezu allen Milieus an Zuspruch verloren. Dr. Silke Borgstedt gibt
einen Überblick: „Die Grünen können derzeit vor allem ihr Stammmilieu der
Postmateriellen gewinnen (41 Prozent) und legen hier ordentlich zu.
Gleichzeitig haben sie in den progressiven Milieus massiv verloren. Die SPD
scheint auf den ersten Blick unsichtbar, da sie keine ausgeprägte
Stammwähler-Milieus mehr hat, rangiert aber in vielen Milieus auf Platz zwei
oder drei. Die FDP fällt mittlerweile in einigen Milieus unter die
5-Prozent-Marke.“
Zudem gelingt es den Ampel-Parteien nur bedingt, ihr
vorhandenes Wählerpotenzial auszuschöpfen. Das zeigt sich bei der Frage, welche
Parteien die Befragten sich grundsätzlich (also „sicher“ oder „vielleicht“)
vorstellen können zu wählen, wenn am nächsten Sonntag Bundestagswahl wäre.
Unter den drei Ampelparteien aktivieren die Grünen noch am besten potenzielle
Wählerinnen und Wähler: So können sich 27 Prozent der Wahlberechtigten
grundsätzlich vorstellen, die Grünen zu wählen, doch nur 12 Prozent äußern eine
konkrete Wahlabsicht in der aktuellen Sonntagsfrage (Potenzialausschöpfung: 44
Prozent). Bei der SPD liegt die Potenzialausschöpfung bei 42 Prozent
(Sonntagsfrage: 15 Prozent vs. Potenzial: 36 Prozent), bei der FDP bei 29
Prozent (Sonntagsfrage: 5 Prozent vs. Potenzial: 17 Prozent).
Demgegenüber haben CDU/CSU und AfD deutlich weniger „Luft
nach oben“. Die AfD kommt auf eine Potenzialausschöpfung von 73 Prozent
(Sonntagsfrage: 19 Prozent vs. Potenzial: 26 Prozent). Das Potenzial der
Unionsparteien liegt deutlich höher, denn 47 Prozent der Wahlberechtigten
zeigen sich grundsätzlich offen für diese Parteien, und 33 Prozent äußern in
der Sonntagsfrage eine entsprechende Wahlabsicht (Potenzialausschöpfung: 70
Prozent).
Wichtigste Themen: Wirtschaft gewinnt gegenüber Einwanderung
an Wichtigkeit
Welche Themen sind für Wählerinnen und Wähler wichtig?
YouGov fragt jeden Monat Wahlberechtigte, welches das wichtigste Thema ist, um
das sich Politikerinnen und Politiker in Deutschland kümmern sollten.
Im Rückblick ist das Jahr 2024 stark geprägt vom Thema
„Einwanderung und Asylpolitik“. In der Spitze nannten im September 2024 jede/r
Dritte (33 Prozent) „Einwanderung und Asylpolitik“ als wichtigstes Thema. Im
November allerdings hat sich die Agenda weg von „Einwanderung und Asyl“ hin zum
Thema „Wirtschaft“ verschoben. Zwar bleibt „Einwanderung und Asyl“ das am
häufigsten genannte Thema, seine Relevanz geht aber um neun Prozentpunkte
zurück (32 Prozent im Oktober, 23 Prozent im November). Mit 23 Prozent nennen
im November so wenige Menschen wie seit April 2024 (21 Prozent) nicht mehr
„Einwanderung und Asylpolitik“ als wichtigstes Thema.
Das Thema „Wirtschaft“ gewinnt dagegen deutlich an Relevanz:
Rund jeder Sechste (14 Prozent) nennt es im November als wichtigstes Thema.
Dies ist der höchste Wert in den letzten zwei Jahren. Gegenüber Oktober (8
Prozent) hat sich der Anteil der Wählerinnen und Wähler, für die das Thema am
wichtigsten ist, fast verdoppelt.
Themenprioritäten verschieben sich in den Wählergruppen
Für Wählerinnen und Wähler von CDU/CSU und SPD hat
„Wirtschaft“ das Thema „Einwanderung und Asylpolitik“ als Top-Thema abgelöst.
Im November ist für 23 Prozent der aktuellen CDU/CSU-Wählerinnen und -Wähler
„Wirtschaft“ das wichtigste Thema, „Einwanderung und Asyl“ für 22 Prozent.
Dagegen hat im Oktober ein Drittel (34 Prozent) der CDU/CSU-Wählerinnen und
-Wähler „Einwanderung und Asyl“ als wichtigstes Thema genannt und nur 12
Prozent „Wirtschaft“. Bei SPD-Wählerinnen und -Wählern zeigt sich die Themenverschiebung
noch deutlicher: Rund jede/r Sechste (16 Prozent) nennt im November
„Wirtschaft“ als wichtigstes Thema, nur noch jede/r Zehnte „Einwanderung und
Asyl“. Im Oktober war dieses Verhältnis noch umgekehrt („Wirtschaft“: 9
Prozent, „Einwanderung und Asyl“: 17 Prozent). Anders bei AfD-Wählerinnen und
-Wählern: In dieser Wählergruppe ist „Einwanderung und Asylpolitik“ auch im
November mit Abstand das wichtigste Thema (November: 55 Prozent, Oktober: 60
Prozent), „Wirtschaft“ gewinnt nur leicht an Relevanz (November: 11 Prozent,
Oktober: 8 Prozent).
Frieder Schmid, Account Director Political Research bei
YouGov, ordnet die Zahlen folgendermaßen ein: „Die unsichere
gesamtwirtschaftliche Entwicklung, die Krise der Automobilwirtschaft und die
Diskussion über eine Wende in der Wirtschaftspolitik hinterlassen Spuren.
Bürgerinnen und Bürger sind zunehmend verunsichert und sorgen sich um die
wirtschaftliche Situation in Deutschland. Das Thema „Wirtschaft“ ist jetzt bei
den Wählerinnen und Wählern angekommen, und es wird eines der Themen sein, das
den Wahlkampf zur Bundestagswahl prägen wird – offen ist noch, in welchem
Maße.“ YouGov 21
Thüringer Integrationsbericht. Wenige
Privatkontakte, viel Rassismus
Einwanderung in nennenswertem Ausmaß gibt es in Thüringen
erst seit relativ kurzer Zeit. Der Integrationsbericht zeigt, dass es
vergleichsweise wenige Kontakte zwischen Alt- und Neu-Thüringern gibt. Dafür
ist Rassismus verbreitet – latent und manifest.
Freundschaften und andere nähere private Kontakte zu
Einwanderern sind in der Thüringer Bevölkerung weniger verbreitet als in
anderen Bundesländern. Wie aus dem aktuellen Thüringer Zuwanderungs- und
Integrationsbericht hervorgeht, hat knapp ein Viertel der Einheimischen im
Freundes- oder Bekanntenkreis Menschen, die aus dem Ausland eingewandert sind.
In den westdeutschen Bundesländern trifft das laut Bericht hingegen auf etwa
die Hälfte der Bevölkerung zu, in den anderen ostdeutschen Bundesländern inklusive
Berlin immerhin auf ein Drittel.
In dem Bericht sind Zahlen des Integrationsbarometers
ausgewertet worden, für das bundesweit 4.996 Menschen befragt wurden, darunter
503 in Thüringen. Etwa 42 Prozent der Thüringer haben demnach in ihrem privaten
Umfeld nie oder nur selten Kontakt zu Menschen, die zugewandert sind. In
Westdeutschland trifft das nur auf etwa 25 Prozent der Einheimischen zu.
Sprachbarrieren erschweren Kontakte
Ein Grund für die wenig ausgeprägten Kontakte zwischen
Einheimischen und Zuwanderern ist laut Bericht der Umstand, dass es erst seit
wenigen Jahren eine zahlenmäßig größere Zuwanderung aus dem Ausland nach
Thüringen gibt. Generell sei der Anteil der Zugewanderten an der
Gesamtbevölkerung in Ostdeutschland weiter deutlich geringer als in
Westdeutschland.
„Menschen, die erst seit Kurzem in Deutschland sind, haben
oft noch keine guten Bedingungen, um Kontakt zur eingesessenen Bevölkerung
aufzubauen“, heißt es in dem Papier. „Räumliche Isolation, zum Beispiel durch
das Wohnen in Erstaufnahmeeinrichtungen, Sprachbarrieren und fehlende
Begegnungsräume bei der Arbeit, im Bildungskontext und anderes hemmen die
Kontaktaufnahme in der ersten Phase nach der Zuwanderung.“
Latenter und manifester Rassismus
Umgekehrt zeigen der Vorlage zufolge auch die Thüringer
aufgrund weit verbreiteter Vorurteile sowie in Teilen latent und manifest
sitzendem Rassismus, kein Interesse an Kontakt zu Menschen mit ausländischen
Wurzeln. Ganz im Gegenteil: mehr als 70 Prozent der Thüringer stimmen der
Aussage zu, „Die Ausländer kommen nur hierher, um unseren Sozialstaat
auszunutzen“. Dieser Wert liegt sowohl über dem bundesdeutschen Durchschnitt
als auch über den Werten der anderen ostdeutschen Bundesländer.
Dieses Bild spiegelt sich im Bereich der Diskriminierung.
Die Benachteiligung von Menschen mit Migrationserfahrung ist dem Monitor
zufolge in Thüringen deutlich höher als im Bundesdurchschnitt oder im Vergleich
zu anderen ostdeutschen Bundesländern. So gaben mehr als 20 Prozent der
Thüringer mit ausländischen Wurzeln an, „oft“ aufgrund der Herkunft
benachteiligt worden zu sein. In anderen ostdeutschen Bundesländern und im
Bundesdurchschnitt liegt diese Quote bei rund 13 bzw. sieben Prozent.
Der Bericht soll nach Angaben der Landesbeauftragten für
Integration, Migration und Flüchtlinge, Mirjam Kruppa, Fakten liefern, um
fundiert über Migration diskutieren zu können. Der Vorgängerbericht war 2019
vorgelegt worden. (dpa/mig 20)
Entsetzen über Gesetzentwurf zum
Paragraph 218
Lebensrechtler und Kirchenvertreter protestieren: Ein in der
vergangenen Woche von Vertreterinnen der SPD und Grünen vorgestellter
Gesetzentwurf sieht vor, dass die Tötung des Kindes im Mutterleib bis zum Ende
der zwölften Schwangerschaftswoche rechtmäßig sein soll. Von Claudia Kaminski
Außerdem soll die dreitägige Wartefrist zwischen Beratung
und Abtreibung gestrichen werden, während die Krankenkassen zudem fortan die
Kosten für Abtreibungen übernehmen sollen.
„Wir halten eine Reform des Schwangerschaftsabbruchsrechts
für überhaupt nicht geeignet, in der derzeitigen politischen Situation im
Bundestag noch behandelt und abgestimmt zu werden“, erklärte der Sprecher der
katholischen Bischofskonferenz (DBK), Matthias Kopp, am Freitag gegenüber der
Katholischen Nachrichten-Agentur (KNA) in Bonn. Ein für eine solche
Gesetzesänderung notwendiges, geordnetes Verfahren und eine angemessene
Auseinandersetzung könnten zwischen Vertrauensfrage, Auflösung des Bundestages und
Neuwahlen nicht stattfinden, so Kopp.
Ungünstige Bedingungen für Abstimmung
„Demokratieverachtend und empörend“
Ähnlich hatten sich zahlreiche Vertreter aus Politik und von
Sozialverbänden geäußert. Besonders besorgt zeigten sich Vertreter der
Lebensrechtsbewegung. Cornelia Kaminski, Bundesvorsitzende der „Aktion
Lebensrecht für Alle“, wies darauf hin, dass es „keine Lappalie“ sei, wenn der
Paragraph 218 kippe: „Damit würde in Deutschland eine Zweiklassengesellschaft
entstehen – Menschen, die man grundlos töten darf und Menschen, deren Tötung
eine Straftat ist“, formulierte die Lebensschutzaktivistin. Die Art, wie dieser
Vorschlag „nun durch den Bundestag gepeitscht werden soll“, sei „wirklich
demokratieverachtend und empörend“, so Kaminski, die in diesem Zusammenhang
„alle“ dazu aufrief, Protest einzulegen: „Und zwar nicht nur diejenigen, die
sich schon immer für das ungeborene Leben eingesetzt haben, sondern auch all
die, die sagen: Das ist unwürdig und respektlos, wie hier mit dem Menschenrecht
auf Leben und unserer Verfassung umgegangen wird.“ Die beste Möglichkeit
für Protest sei der direkte Kontakt zu den Abgeordneten, so Kaminski weiter.
Man könne sie persönlich anrufen, im Wahlkreis ansprechen oder ihnen
schreiben.
Lebensschützer wünschen starke Präsenz
Kaminski hat klar formulierte Erwartungen an die
Parlamentarier: „Man sollte auch schreiben, dass wir von den
CDU/CSU-Abgeordneten erwarten, dass sie im Saal sind, wenn darüber abgestimmt
wird – bei so einer Abstimmung durch Abwesenheit glänzen ist keine Option,
sondern genauso schlimm wie für die Legalisierung der Abtreibung zu
stimmen", so die Meinung der Aktivistin. „Denen sollte man vielleicht auch
sagen: Wer eine Brandmauer gegen das Recht auf Leben errichtet, verbrennt sich
daran mehr als die Finger. Und wir erwarten von den FDP-Abgeordneten, dass sie
sich ebenfalls für den Schutz des menschlichen Lebens einsetzen und dieses
ideologiegetriebene Spiel der Rest-Ampel nicht mitmachen."
„Zwei Drittel der Deutschen wollen laut ALfA nicht am § 218
rütteln“
Die ALfA-Vorsitzende betont, dass zwei Drittel der Menschen
in Deutschland nicht am § 218 rütteln wollten. Das müsse man den Abgeordneten
sagen. Zuvor schon hatte sie den Vorstoß als „brandgefährlich" bezeichnet
und hervorgehoben, dass der Gesetzentwurf nicht nur die Tötung von Menschen
eines bestimmten Alters rechtmäßig stelle, sondern die Kosten hierfür auch noch
der Solidargemeinschaft aufbürden wolle.
Stimmen aus der Politik
„Die FDP-Abgeordnete Katrin Helling-Plahr: unangemessen,
dass die Gruppe dem Bundestag auf den letzten Metern so ein komplexes Thema vor
die Füße wirft“
Die FDP-Abgeordnete Katrin Helling-Plahr sagte auf Anfrage,
sie halte es für unangemessen, dass die Gruppe „dem Bundestag auf den letzten
Metern so ein komplexes Thema vor die Füße wirft". Es brauche Raum für die
gesellschaftliche Debatte. Ähnlich äußerte sich auch Caritas-Präsidentin Eva
Maria Welskop-Deffaa. Angesichts der kurzen Zeit bis zur Neuwahl wäre es nicht
verantwortlich, die Entscheidung „jetzt im Eiltempo treffen zu wollen". Wo
es um Grundsatzfragen am Lebensanfang gehe, brauche es eine geordnete
Beratungszeit.
„Wer Abtreibung aus dem Strafrecht entfernt, schafft
Grundrechte von Kindern ab", sagte die Vorsitzende des Bundesverbands
Lebensrecht, Alexandra Linder. Damit finde die Entmenschlichung dieser
Kinder ihren Höhepunkt, doch jeder, der Abtreibungen durchführe, jeder, der
sich mit der Wissenschaft der Embryologie beschäftige, jeder, der eine frühe
Fehlgeburt erlebt und den angeblichen „Zellhaufen“ gesehen habe, wisse, dass es
um Menschenleben gehe, ist sie überzeugt.
Befürworter sehen „historische Chance"
In Deutschland sind Schwangerschaftsabbrüche laut Paragraf
218 des Strafgesetzbuchs rechtswidrig. Abtreibungen in den ersten zwölf Wochen
bleiben aber straffrei, wenn die Frau sich zuvor beraten lässt. Eine von der
Bundesregierung eingesetzte Kommission hatte im April Empfehlungen für eine
Liberalisierung der Abtreibung vorgelegt und sich dafür ausgesprochen, das
entsprechende Gesetz aus dem Strafgesetzbuch zu streichen.
Die Frauenrechtsorganisation Terre des Femmes erklärte, die
Abgeordneten des Bundestags hätten „die historische Chance", über „diesen
wichtigen und lange überfälligen Schritt für Frauenrechte abzustimmen".
Diese Chance dürfe nicht vertan werden. Auch die Arbeiterwohlfahrt begrüßte den
Vorschlag, forderte aber weitergehende Regelungen wie eine Abkehr von der
Beratungspflicht.
(vn / kna 19)
Studie: Ausländische Arbeitskräfte
bringen Deutschland Geld, wenn die Politik das zulässt
Eine neue Studie des Fraunhofer IAO zeigt auf, wie der
Dienstleistungssektor Gastwelt hilft, unsere Sozialsysteme effektiv zu
entlasten – und was er zusätzlich leisten kann, wenn der Rahmen dafür stimmt
Berlin, 18. November 2024 – Im Vorfeld der Bundestagswahl
2025 ist Migration ein großes Reizthema. Vorurteile haben sich in der
Gesellschaft verfestigt, die Themenbereiche „Flüchtlinge“ und „qualifizierte
Arbeitskräftezuwanderung“ werden in der öffentlichen Debatte oft vermischt.
Eine neue Studie des Fraunhofer-Instituts für Arbeitswirtschaft und
Organisation IAO im Auftrag der Denkfabrik Zukunft der Gastwelt (DZG) zeigt
aber auf: Wenn die Eingliederung von Menschen aus dem Ausland in den
Arbeitsmarkt schnell und unkompliziert gelingt, stärkt sie dauerhaft unser
Sozialsystem und sichert den gesellschaftlichen Zusammenhalt. Als zentraler
Baustein einer Lösung, wie Zuwanderer effektiver in Lohn und Brot gebracht
werden, drängt sich die Gastwelt geradezu auf: sie ist Deutschlands wichtigster
„Integrationsmotor“. Doch dieser darf durch fehlende politische Unterstützung
und wachsender Bürokratie nicht ins Stocken geraten.
Aus Sicht der Fraunhofer-Expertinnen ist klar: Die
erfolgreiche Integration von Zuwanderern in der Gastwelt (Tourismus,
Hospitality, Foodservice & Freizeitwirtschaft) hat – vor allem mit Blick
auf die demografische Entwicklung – spürbare positive Auswirkungen auf die
Sozialsysteme und trägt damit maßgeblich zum Erhalt gesellschaftlicher
Stabilität in Deutschland bei. Die Voraussetzung dafür: Es muss schneller und
einfacher als bisher möglich sein, Migranten in den hiesigen Arbeitsmarkt
einzubinden. Die größten Herausforderungen liegen dabei in der Anerkennung
ausländischer Qualifikationen und in bestehenden Sprachbarrieren. Hier muss die
Politik deutlich mehr tun, um die Betriebe vor Ort gezielt zu unterstützen, so
eine zentrale Erkenntnis der Studie, in der 750 Führungskräfte aus der Gastwelt
befragt wurden.
Deutschland braucht ausländische Arbeitskräfte, um seinen
Wohlstand zu erhalten
Die Bundesrepublik braucht ausländische Arbeitskräfte
dringender denn je: Gelingt es nicht, die Personallücken zu schließen, müssen
nämlich viele Unternehmen – vor allem im ländlichen Raum – aufgeben. Pro Jahr
sind laut Bundesagentur für Arbeit (BA) mehr als 400.000 Einwanderer
erforderlich, um den Fach- und Arbeitskräftemangel zu kompensieren und die
deutsche Wirtschaft insgesamt am Laufen zu halten. Allerdings kommen derzeit zu
wenige qualifizierte Migranten nach Deutschland, auch weil unser Land für viele
internationale Talente aktuell nicht sehr weit oben auf der Liste steht. Im
OECD-Vergleich rangiert die Bundesrepublik bei der Fachkräfte-Attraktivität
2023 „nur“ noch auf Platz 15 (2019: Platz 12). Auf der anderen Seite gibt es
bei den Menschen ausländischer Herkunft, die bereits länger im Land leben, vor
allem unter den Geflüchteten, beträchtliches Arbeitsmarktpotenzial. Deren
Beschäftigungsquote liegt aktuell bei „lediglich 70 Prozent“.
Professorin Dr. Vanessa Borkmann, Leiterin des
Forschungsbereichs „Stadtsystem-Gestaltung“ am Fraunhofer IAO und Autorin der
Studie, umreißt den akuten Handlungsbedarf: „Mit Jedem, den wir in eine
Beschäftigung bringen, entlasten wir die Sozialsysteme und stärken unsere
Volkswirtschaft. Ihr besonderes Augenmerk sollte die Politik daher auf die
spezifischen Bedürfnisse der Gastwelt richten, die in Sachen Integration
besonders effektiv unterwegs ist.“ DZG-Vorstandschef Dr. Marcel Klinge bringt
das aktuelle Problem auf den Punkt: „Wir brauchen mehr qualifizierte
Zuwanderung, um den Wohlstand in unserer immer älter werdenden Gesellschaft
dauerhaft zu sichern. Aber wir wissen diesen Hebel aktuell noch nicht richtig
zu nutzen. Wenn wir als Land Menschen aus dem Ausland deutlich schneller und
effektiver integrieren, kosten uns Migranten keine zig Milliarden, wie in der
öffentlichen Debatte oftmals pauschal unterstellt, sondern bringen unserer
Volkswirtschaft zusätzliches Wachstum und dem Staat dringend benötige Steuereinnahmen.“
Personallücke kostet Wertschöpfung und Steuereinnahmen
Diese Einschätzung belegen auch aktuelle Zahlen des
Fraunhofer IAO in der Studie: So haben im größten Gastwelt-Sektor, der
Hospitality (Gastgewerbe), über 40 Prozent der Beschäftigten eine
Einwanderungsgeschichte, in der Gesamtwirtschaft trifft das lediglich auf 15
Prozent zu. Während die Gastwelt an der direkten Beschäftigung bundesweit einen
Anteil von sechs bis sieben Prozent ausmacht, arbeiten hier bereits 12 Prozent
der Geflüchteten, die sich derzeit in Deutschland aufhalten. Das sind knapp
150.000 Personen, die nicht mehr auf soziale Sicherung angewiesen sind, weil
sie ein eigenes Einkommen erzielen. Für die öffentliche Hand bedeute dies
Einsparungen von monatlich rund 150 Millionen Euro oder rund 1,8 Milliarden
Euro pro Jahr, so eine Beispielrechnung des IAO.
Doch diese Menschen reichen nicht aus, um eine Personallücke
zu schließen, die sich um Zuge des demografischen Wandels stetig vergrößert und
zwangsläufig die Wertschöpfung des Dienstleistungssektors und damit die
Steuereinnahmen des Staates mindert – weshalb es nahe liegt, die Betriebe der
Gastwelt wirtschaftspolitisch zu stabilisieren und besser zu unterstützten.
Tatsächlich fehlten dem gesamten Dienstleistungssektor aktuell zwischen 120.000
bis 145.000 Arbeitskräfte, allein in der Hospitality sind es mindestens 65.000
Mitarbeitende. Das Fraunhofer IAO geht davon aus, dass sich der Mangel mit dem
Rückzug der Babyboomer aus dem Arbeitsmarkt bis Anfang der 2030er-Jahre auf bis
zu 600.000 fehlende Beschäftigen erhöhen könnte. Das bedeutet: Die Gastwelt
braucht unbedingt bessere Möglichkeiten, Geflüchtete und Zuwanderer schnell und
effizient einzubinden. Und sie braucht mehr Arbeitskräfte aus dem Ausland. Ein
Mitarbeitender erwirtschaftet z.B. im Gastgewerbe durchschnittlich 35.000 Euro
pro Jahr an Bruttowertschöpfung. Bei den 65.000 unbesetzten Stellen allein in
diesem Teilsektor der Gastwelt gehen Deutschland pro Jahr rechnerisch 2,3
Milliarden Euro an zusätzlicher Wertschöpfung verloren.
Beschleunigte Anerkennungsverfahren und mehr berufliche
Sprachkurse
Im Ausland erworbene Qualifikationen werden häufig nicht
oder erst mit langen Verzögerungen anerkannt. Entsprechende Verfahren dauern
monatelang. Dass es schneller geht, zeigt sich am Beispiel anderer Sektoren wie
etwa der Pflegebranche. Für Verzögerungen auf dem Weg in eine Beschäftigung
sorgt immer wieder auch die Bearbeitungszeit für Arbeitsvisa und
Arbeitserlaubnisse für Nicht-EU-Bürger. Dieses Schneckentempo raubt
Arbeitgebern nicht nur Zeit und Geld, sondern kostet letztlich auch den Fiskus
Steuereinnahmen in beachtlicher Höhe: Bei einer Verzögerung von sechs Monaten,
in denen eine Arbeitskraft ein monatliches Bruttogehalt von 2.800 Euro
verdienen könnte, verliert ein Unternehmen z.B. 16.800 Euro an Produktivität.
Falls die betreffende Person stattdessen sechs Monate Arbeitslosengeld bezieht,
entstehen weitere Pro-Kopf-Kosten mindestens von 7.200 Euro für den Staat.
Außerdem braucht es, so die Fraunhofer-Expertinnen, bezahlte
berufsorientierte Sprachförderprogramme, Weiterbildungs- und Beratungsangebote
sowie Hilfestellung für Zuwanderer bei der Navigation durch Behörden und bei
ausländerrechtlichen Fragen. Wichtig für die Betriebe der Gastwelt wäre
außerdem eine Reform des Arbeitszeitgesetzes, die es den Betrieben ermöglichen
würde, Teilzeit- und Schichtmodelle umzusetzen – eine Möglichkeit, die helfen
könnte, weitere Arbeitskräfte zu mobilisieren, vor allem im Bereich der Mütter
mit Migrationshintergrund – flexible Arbeitszeiten ermöglichen es gerade auch
diesen, Familie und Job unter einen Hut zu bringen.
Unternehmen brauchen mehr Beinfreiheit und ein neuer
Integrationsfonds würde helfen
„Die Parteien in Berlin sollten endlich erkennen, welch
großes Integrationspotenzial unser Dienstleistungssektor besitzt, und diesen
Hebel aktiv nutzen. Denn die Gastwelt kann noch mehr tun, wenn die Politik
endlich einen entsprechenden Rahmen dafür setzt und uns mehr Beinfreiheit in
der Praxis lässt“, so DZG-Vorstandschef Klinge. Er macht sich für eine
systematische Integration stark, wie sie in Ländern stattfindet, die mit
Deutschland im internationalen Wettbewerb um Arbeitskräfte stehen und für Migranten
als attraktivere Gastländer gelten. Wie etwa Österreich oder Kanada, die beide
jeweils ein Integrationsjahr für Geflüchtete anbieten. Unsere österreichischen
Nachbarn wissen um die Bedeutung der Aufgabe: Sie haben, um Sprachkurse und
Arbeitsmarktintegration zu finanzieren, eigens einen Integrationsfonds
aufgelegt. „Diesen sollten wir in ähnlicher Form auch in Deutschland einführen.
Die staatlichen Mittel dafür wären am Ende eine gute Investition.“
Die Studie wurde dank der freundlichen Unterstützung
folgender DZG-Partner umgesetzt: METRO (Foodservice), HGK Hotel- und
Gastronomie-Kauf eG (Foodservice), Shiji (Hospitality) und Dorint
(Hospitality).
Die vorgestellten Ergebnisse beziehen sich auf die erste
Schwerpunkt-Gruppe der Studie, Menschen mit Migrationshintergrund sowie
Flüchtlinge. Alle Erkenntnisse zur zweiten Fokus-Gruppe, nämlich junge Menschen
ohne Berufsabschluss in Deutschland (knapp drei Millionen Personen), werden am
14. Januar 2025 separat vorgestellt. Dzg 19
Was bedeutet Trumps Wahlsieg für
Russland?
Moskau macht Fortschritte in der Ukraine. Doch eigentlich
gibt es im Kreml wenig Grund zum Optimismus. Von Tatiana Stanovaya
In den letzten Monaten schien dem russischen Präsidenten
Wladimir Putin das Glück hold zu sein. Die Unterstützung des Westens für die
Ukraine lässt allmählich nach und direkte Verhandlungen mit Russland sind
offenbar nicht länger eine abwegige Idee. Zudem setzt sich der Rechtsruck in
der westlichen Politik mit Donald Trumps Sieg bei den US-Präsidentschaftswahlen
nahtlos fort. Es hat den Anschein, als stünde Moskau kurz davor zu bekommen,
was es will. Das ist jedoch irreführend: Die Lage Russlands ist in Wahrheit
sehr viel komplizierter, als sie wirkt. Tatsächlich gibt es im Kreml wenig
Grund für Optimismus.
Nach fast drei Jahren Krieg in der Ukraine bestreitet kaum
jemand, dass Russland gerade die Oberhand auf dem Kriegsschauplatz hat. Die
russischen Truppen kommen immer weiter voran. Sie haben nicht nur mehr Waffen
und Soldaten, sondern setzen Kiew auch mit den Angriffen auf die kritische
Infrastruktur unter Druck. Die Chancen einer erneuten ukrainischen
Gegenoffensive scheinen minimal zu sein. Und in Russland gibt es keinerlei
Anzeichen für eine politische Krise. Einfach ausgedrückt: Putin ist am Drücker.
Viele erwarten, dass Trumps Wahlsieg zu einer Wiederaufnahme
der hochrangigen Kontakte zwischen Washington und Moskau führen wird. Zudem
glaubt man, dass die USA die Unterstützung für die Ukraine reduzieren werden
und dass es zu Uneinigkeit in der NATO kommen wird. All das läuft jedoch nicht
zwangsläufig auf einen Sieg für den Kreml hinaus. Das Problem für Putin ist,
dass keine westliche Führung – einschließlich Trump – einen Plan zur Beendigung
des Krieges im Sinn hat, der für den russischen Staatschef annähernd akzeptabel
wäre. Keine der angedachten Lösungen kommen auch nur in die Nähe der russischen
Forderungen, dass die NATO die Ukraine niemals aufnehmen wird oder dass in Kiew
eine pro-russische Regierung eingesetzt wird.
Auch wenn es mehrere Wege gibt, die Putin einschlagen
könnte, um diese Ziele zu verfolgen und zu erreichen, scheint keiner davon
wirklich erfolgversprechend. Der erste ist natürlich der militärische Weg. Aber
führende Fachleute sind sich einig, dass Russland zwar zuletzt vorrücken
konnte, aber nicht genug Soldaten und Ausrüstung hat, um die ukrainischen
Städte einzunehmen. Alles, was Russland tun könne, sei die langsame
Verschiebung der Front nach Westen, wobei es dabei hohe Verluste mache.
Der zweite Weg wäre die Kapitulation Kiews. Anders gesagt,
wäre das die Ablösung von Wolodymyr Selenskij durch einen Regierungschef von
fragwürdiger Legitimität, der bereit wäre, Putin das Land auf einem silbernen
Tablett zu überreichen. So eine vollständige Kapitulation würde nicht nur einen
Waffenstillstand beinhalten, sondern auch die Anerkennung aller russischen
Forderungen, darunter die Neutralität der Ukraine, eine drastische
Verkleinerung der ukrainischen Armee, eine Verfassungsänderung, um den pro-russischen
Gruppen Begünstigungen einzuräumen, und natürlich der Verzicht auf Gebiete.
In der Tat versucht Moskau, sowohl die Ukrainerinnen und
Ukrainer als auch den Westen davon zu überzeugen, Selenskij „abzuservieren“ und
einen gefügigeren Regierungschef ins Amt zu hieven. Aber trotz all der
Probleme, vor denen die Regierung in Kiew steht, weist nichts darauf hin, dass
es eine spürbare Bewegung in diese Richtung geben würde. Und die
Wahrscheinlichkeit, dass die politischen Verhältnisse in Kiew sich dahingehend
ändern, dass die russischen Forderungen ernsthaft in Erwägung gezogen werden,
scheint sehr gering.
Der dritte Weg sind größere politische Veränderungen im
Westen, die dazu führen, dass die westlichen Regierungen die Ukraine dazu
drängen, eine für Moskau akzeptable Regierung zu bilden. Viele glauben, dass
dies das Szenario ist, auf das der Kreml jetzt setzt. Hört man jedoch zu, wie
sich die westlichen Regierungen – einschließlich Trump – gerade zur Ukraine
äußern, wird deutlich, dass niemand einen Regierungswechsel in Kiew auch nur
erwähnt. Selbst diejenigen, die für Verhandlungen sind, wollen weder eine Kapitulation
der Ukraine noch eine Marionettenregierung in Kiew.
Der Kreml bereitet die russische Bevölkerung schon seit
einiger Zeit auf einen letzten Vorstoß in der Ukraine vor, mit dem ein
strategischer Durchbruch gelingen soll, der zu Verhandlungen über eine
Kapitulation der Ukraine führt. Sollte dies nicht bald passieren, ist Russland
zu einer weiteren Mobilisierung mit allen damit einhergehenden politischen
Risiken gezwungen, um eine größere Eskalation auf dem Kriegsschauplatz zu
suchen. Die russischen Behörden haben immer wieder die Rekrutierungsprämien
erhöht, um neue Soldaten zu verpflichten, aber der Mangel an Rekruten wird
immer größer. Bei den erheblichen Verlusten an Männern und Ausrüstung wird es
für Russland schon schwer, das derzeitige Vormarschtempo in der Ukraine
aufrechtzuerhalten.
All das bedeutet, dass die Wahl von Trump den Kreml in eine
schwierige Lage bringt. Wie Putins Sprecher Dmitri Peskow bereits äußerte,
werden die russischen Verantwortlichen genau beobachten, was der designierte
Präsident macht. Sie werden Trumps erste Schritte abwarten, um zu sehen, ob das
Gerede von der „günstigen Gelegenheit“ zu etwas führt oder nicht.
Theoretisch könnte dieses Abwarten bedeuten, dass Russland
auf eine weitere Eskalation verzichtet. Der Kreml könnte sogar den Druck auf
Kiew verringern, um ein Zeichen zu setzen, dass er für neue Ideen offen ist.
Aber es gibt auch viele in der russischen Politik, die es für Zeitverschwendung
halten, auf Trumps Aktionen zu warten. Sie sind der Meinung, dass Russland
seinen derzeitigen Vorteil im Kriegsgeschehen nicht für leere Versprechungen
über Gespräche mit Washington aufs Spiel setzen sollte. Denn ihrer Logik
zufolge gehen im politischen Establishment der USA sowieso immer die Hardliner
als Sieger hervor.
Im Endeffekt hängt Russlands Siegesstrategie – genau wie die
der Ukraine – von Prozessen ab, über die es keine Kontrolle hat. Von daher
schwankt Russland zwischen der Möglichkeit eines Waffenstillstands und weiterer
militärischer Eskalation hin und her. Jeder falsche Schritt Moskaus geht mit
enormen Risiken einher, etwa zu einer neuen Mobilisierung gezwungen zu sein, zu
radikaleren Maßnahmen greifen zu müssen, um die Kontrolle im Inland zu
bewahren, oder gar die direkte Konfrontation mit NATO-Soldaten. Trotz der
aktuellen Fassungslosigkeit über Trumps Wahlsieg hat der Westen immer noch eine
maßgebliche Rolle bei der Entscheidung über die Zukunft der Ukraine zu spielen.
IPG 19
Ringen um Lösungen. G20 zwischen
globalem Hunger und Steuer für Superreiche
Vom globalen Hunger bis zur Steuer für Superreiche: In Rio
ringen die G20-Staaten um Einigkeit. Gastgeber Brasilien will mutige Beschlüsse
– doch Dauerkonflikte drohen die Agenda zu überschatten. Von Stella Venohr
Brasilien will auf dem G20-Gipfel in Rio de Janeiro den
Kampf gegen den Hunger und den Klimawandel sowie die Besteuerung von
Superreichen vorantreiben. Doch es werden wohl wieder geopolitische Konflikte
sein, die die Gespräche dominieren. Die wichtigsten Fragen und Antworten zum
Treffen der Staats- und Regierungschefs der 20 wichtigsten Industrie- und
Schwellenländer:
Welche Themen werden bei dem Gipfel besprochen?
Ein zentrales Thema bei dem zweitägigen Treffen ist der
Kampf gegen den weltweiten Hunger. Brasiliens Präsident Luiz Inácio Lula da
Silva möchte die „Globale Allianz gegen Hunger und Armut“ auf den Weg bringen.
Ziel ist es, Initiativen zur Steigerung der
Lebensmittelproduktion und zur Bekämpfung von Hunger voranzutreiben. Als
Vorbild dienen auch Maßnahmen der Politik Lulas in Brasilien. Dazu zählen
Programme für arme Familien und Mikrokredite für Kleinbauern.
Deutschland, die USA sowie die EU haben ihre Unterstützung
für die Allianz bereits zugesagt. „Zunächst einmal werden wir auf nationaler
Ebene die erste Strategie zur Armutsbekämpfung in der EU entwickeln, aber auch
auf globaler Ebene werden wir uns engagieren“, sagte Kommissionspräsidentin
Ursula von der Leyen dem brasilianischen TV-Sender Globonews vor Beginn des
Gipfels.
Hunger gehört weltweit zu einem der größten Fluchtursachen.
Millionen Menschen sind aufgrund von Armut gezwungen, ihre Heimat zu verlassen
und ihr Glück woanders zu suchen, um dem Tod durch Verhungern zu entkommen.
Was könnte noch in der Gipfel-Erklärung stehen?
Auch ein Umbau des internationalen Systems gehört zu den
erklärten Zielen der brasilianischen G20-Präsidentschaft. Lula versteht
Brasilien als Sprachrohr des globalen Südens und will den Schwellenländern mehr
Gehör verschaffen.
Lula will auch eine Einigung der Länder auf einen Rahmen für
eine Vermögenssteuer für Superreiche erreichen. Die G20-Finanzminister hatten
sich im Juli bereits in einer gemeinsamen Erklärung darauf geeinigt, sich für
eine wirksame Besteuerung der Superreichen einzusetzen.
Die Idee spaltete jedoch schon damals die G20-Staaten.
Während etwa Frankreich, Spanien und Südafrika ihre Unterstützung zum Ausdruck
brachten, sind die USA dagegen. Es ist fraglich, ob es ein Passus zur
Vermögenssteuer in die Abschlusserklärung schaffen wird.
Die G20 fassen bei ihren Gipfeltreffen in der Regel
gemeinsame Beschlüsse der Staats- und Regierungschefs, die zwar rechtlich nicht
bindend sind, politisch aber trotzdem eine starke Signalwirkung haben.
Wie steht es um das Thema Klimaschutz?
Für Gastgeber Lula hat das Anliegen hohen Stellenwert, er
schreibt sich seit Amtsantritt Klimaschutz auf die Fahne. Eine der drei
Arbeitssitzungen ist der nachhaltigen Entwicklung und Energiewende gewidmet.
Von den G20 könnte ein Signal ausgehen – in beide Richtungen, positiv wie
negativ – für die weiteren Verhandlungen bei der aktuell parallel laufenden
Weltklimakonferenz (COP29) im aserbaidschanischen Baku, bei der die
Verhandlungen bislang äußerst zäh laufen.
Mit US-Präsident Joe Biden hat Lula einen Mitstreiter an der
Seite. Letzterer ist aber nur noch wenige Wochen im Amt. Sein designierter
Nachfolger Donald Trump will verstärkt Öl fördern und hatte sich in seiner
ersten Amtszeit vom Pariser Klimaabkommen abgewendet. Auch Argentinien wird in
Rio mit am Tisch sitzen und es wird befürchtet, dass das Land aus dem
internationalen Pariser Klimaschutzabkommen aussteigen könnte.
Trump ist also nicht beim G20-Gipfel dabei?
Nein. Bis zur Amtseinführung im Januar ist Joe Biden
Präsident der USA. Der Republikaner und die Erwartungen an seine Amtszeit
werden aber sicherlich immer wieder am Gipfel eine Rolle spielen. Trump setzt
in der Außenpolitik auf Isolationismus und „America First“ – Kooperation und
Kommunikation auf Augenhöhe gehören nicht zu seinem Politikstil. Die anderen
G20-Mitglieder werden sich darauf vorbereiten müssen.
Mit großem Interesse wird etwa die Haltung der USA zur
Ukraine nach der Rückkehr von Trump ins Weiße Haus erwartet. Er hat
angekündigt, den russischen Angriffskrieg innerhalb kurzer Zeit zu beenden und
deutlich gemacht, dass die US-Militärhilfe für Kiew bald austrocknen dürfte.
Russland ist G20-Land. Kommt Wladimir Putin?
Nein. Der russische Präsident hat abgesagt und schickt
Außenminister Sergej Lawrow als Vertretung – wie schon in den vergangenen
beiden Jahren nach der russischen Invasion in die Ukraine. Die G20-Gruppe der
führenden Wirtschaftsmächte aller Kontinente ist das einzige Gesprächsformat,
in dem Russland und die Nato-Staaten noch mit hochrangigen Vertretern an einem
Tisch sitzen.
Bundeskanzler Olaf Scholz plant dort kein Gespräch mit
Lawrow, wird nach Angaben aus seinem Umfeld aber mit dem chinesischen
Präsidenten Xi Jinping über den Ukraine-Krieg sprechen, der als wichtigster
Verbündeter Putins gilt.
Putin selbst hat seine Teilnahme am Gipfel abgesagt, um
nicht „die normale Arbeit des Forums zu stören“, das andere Themen habe. Gegen
ihn liegt ein internationaler Haftbefehl des Weltstrafgerichts in Den Haag vor,
weil ihm Kriegsverbrechen in der Ukraine zur Last gelegt werden. Daher würde
Putin in Brasilien eine Festnahme riskieren.
Die Ukraine gehört nicht zur G20. Der ukrainische Präsident
Wolodymyr Selenskyj wurde von den brasilianischen Gastgebern auch nicht als
Gast nach Rio eingeladen. (dpa/mig 19)
Die zersetzende Kraft der Inflation
Kriege, Klimawandel, Pandemie: Krisen sind die neue
Normalität und heizen die Preise an. Wo bleibt der wirtschaftliche
Katastrophenschutz? Isabella M. Weber
Arbeitslosigkeit schwächt Regierungen. Inflation bringt sie
zu Fall. Das hat mir einmal ein Regierungsbeamter aus Brasilien gesagt. Aber
reiche Länder wie die Vereinigten Staaten haben die politische Zerstörungskraft
der Inflation aus dem Blick verloren. Mit den herkömmlichen politischen
Instrumenten waren wir nicht ausreichend vorbereitet, und die Biden-Regierung
reagierte zu langsam. Donald Trumps Wiederwahl sollte demokratischen
Regierungen eine Warnung sein.
In diesen Zeiten, in denen die Katastrophen – Wirbelstürme,
Ausbruch der Vogelgrippe, zwei regionale Kriege – sich gegenseitig überlagern,
gehören gefährdete Lieferketten mittlerweile zum Alltag. Jede Bedrohungslage
bringt das Risiko einer Inflation und eine Destabilisierungsgefahr für
Regierungen mit sich. Solche Krisensituationen sind die neue Normalität, und
wenn überhaupt etwas aus dem Wahlergebnis in den USA gelernt werden muss, dann
dies: Wir müssen neue Wege finden, um unsere Gesellschaft und Demokratie zu
schützen.
Eines der drängendsten Probleme, die es zu lösen gilt, ist,
dass viele Wirtschaftszweige inzwischen von Großkonzernen beherrscht werden,
die aus diesen Einmalereignissen Profit schlagen können. In einem demnächst
erscheinenden Artikel haben mehrere Co-Autoren und ich mit Hilfe von KI
und natürlicher Sprachverarbeitung mehr als 130 000 „Earnings Calls“ (Webcasts
zu den Quartalsberichten) börsennotierter US-Unternehmen analysiert und
festgestellt, dass Unternehmen koordiniert die Preise erhöhen können, sobald es
zu Kostenschocks kommt. Dadurch konnten Unternehmen die Auswirkungen der
externen Schocks, die durch die Corona-Pandemie und den Krieg in der Ukraine
verursacht wurden, im Großen und Ganzen weitergeben oder verstärken. Mit
anderen Worten: Die plötzliche Nachricht von Kostenschocks wie dem Ausbruch
einer Pandemie oder eines Krieges eröffnet Unternehmen einen größeren
Spielraum, sektorübergreifend Preiserhöhungen zu koordinieren, weil sie wissen,
dass ihre Konkurrenten mit hoher Wahrscheinlichkeit dasselbe tun werden.
Skeptiker wenden ein, die Konzernkonzentration sei schon vor
der Pandemie hoch gewesen und dennoch hätten dieselben mächtigen Unternehmen
die Preise über viele Jahre stabil gehalten – obwohl die Zinssätze nahe Null
lagen. Der Grund dafür war: Wenn ein Unternehmen sich unter normalen Umständen
für eine Preiserhöhung entscheidet, ohne zu wissen, ob seine Konkurrenten
nachziehen werden, läuft es Gefahr, Marktanteile an die Konkurrenz zu
verlieren. So sah die Welt vor der Pandemie aus. Die Globalisierung hatte die
effizientesten Just-in-Time-Produktionsnetzwerke aller Zeiten hervorgebracht,
und unter dem Druck des Wettbewerbs hielten selbst Riesenkonzerne die Preise
größtenteils stabil.
Wenn aber Lieferengpässe entstehen, kommt das gesamte
Räderwerk zum Stillstand. Jeder, der etwas produziert, kann natürlich nur eine
begrenzte Anzahl an Produkten herstellen. Das bedeutet: Selbst wenn ein
Unternehmen die Preise anhebt, können die Wettbewerber nicht einfach ihr
Angebot erhöhen, um ihm seine Marktanteile streitig zu machen. Außerdem weiß
jedes Wirtschaftsunternehmen, dass die logische Reaktion auf einen Preisschock
eine Preiserhöhung ist. Preiserhöhungen sind jetzt eine sichere Sache und für Unternehmen,
die auf Gewinnmaximierung ausgerichtet sind, eine rationale Konsequenz.
Im Zuge der Corona-Krise gelang es den meisten Unternehmen,
ihre höheren Kosten an die Verbraucher weiterzugeben und ihre Gewinnspannen zu
halten, wobei einige Konzerne ihre Margen sogar noch steigern konnten. Selbst
wenn Unternehmen nach einem Kostenschock ihre Gewinnmargen lediglich stabil
halten, steigen ihre Gewinne. Das leuchtet ein, wenn man sich klarmacht, dass
für ein teureres Haus auch dann höhere Maklergebühren anfallen, wenn die
prozentualen Konditionen dieselben sind. Konzernchefs wissen um diesen
Sachverhalt. Genau deshalb konnten wir feststellen, dass bei großen
Kostenschocks, die die gesamte Wirtschaft treffen, Führungskräfte durchaus
optimistisch klingen.
Massive Schocks können für die direkt betroffenen Sektoren
sogar eine gute Nachricht sein. Nehmen wir das Beispiel Öl. Als die Nachfrage
über Nacht einbrach, weil die Menschen während der Lockdowns zu Hause blieben,
waren die Fossilbrennstoffunternehmen plötzlich mit einem nie dagewesenen
Nachfrageeinbruch konfrontiert und schlossen einige ihrer kostenintensivsten
Ölfelder und Raffinerien. Als die Nachfrage sich wieder erholte, kam es deshalb
zu einer Verknappung, die zu Rekordmargen führte. In einem weiteren demnächst
erscheinenden Artikel gehen meine Co-Autoren und ich davon aus, dass die
amerikanischen Aktionäre börsennotierter Öl- und Gasunternehmen 2022
Nettoerträge von 301 MilliardenUS-Dollar verbuchen konnten – eine
Versechsfachung gegenüber dem Durchschnitt der vier Jahre vor der Pandemie. Die
Gewinne aus dem Öl- und Gassektor überstiegen in diesem Jahr auch die
Investitionen der USA in die kohlenstoffarme Wirtschaft in Höhe von 267
Milliarden Dollar.
Öl ist grundsätzlich ein Sektor mit Boom-Bust-Zyklen, aber
in Krisenzeiten können wir uns so extreme Gewinnsprünge nicht leisten. Sie
stützen einen Sektor, der zurückgefahren werden muss, um den Klimawandel
einzudämmen. Zudem verstärken sie die Ungleichheit. Laut unserer neuen Studie
strich das reichste Prozent der Bevölkerung 2022, als die Preise für fossile
Brennstoffe ihren Höchststand erreichten, durch Aktienbeteiligungen und private
Unternehmensbeteiligungen 51 Prozent der Öl- und Gasgewinne ein. Die weniger
Wohlhabenden mussten mit einer höheren Inflation zurechtkommen und bekamen nur
einen kleinen Teil der Übergewinne aus dem Öl- und Gasgeschäft ab.
Ohne eigenes Verschulden sind Arbeitnehmer und
Arbeitnehmerinnen die Leidtragenden. Selbst wenn ihre Löhne sich irgendwann
angleichen, geraten sie finanziell in Bedrängnis und fühlen sich vor allem
betrogen. Das ist der Grund, warum die Anbieterinflation die wirtschaftliche
Ungleichheit und die politische Spaltung, die ohnehin schon die Demokratie
bedrohen, noch verschärft.
Präsident Joe Biden ergriff einige unkonventionelle
Maßnahmen zur Inflationsbekämpfung – unter anderem die neuen Leitlinien des
Kartellrechts, die sich gegen zu große Unternehmensmacht richten, und die
Erhöhung des Ölangebots durch die Freigabe der strategischen Erdölreserve. Das
war eine wichtige Abkehr von der bisherigen Politik, aber die Maßnahmen waren
nur punktuell und retroaktiv. Das wichtigste politische Steuerungsinstrument
war nach wie vor die Erhöhung der Zinssätze. Drastische Zinserhöhungen führten
zu einer Verschärfung der Immobilienkrise und zur Verschlimmerung der
Schuldenkrise für Länder des Globalen Südens. Sie trieben die Kosten für
Investitionen, die zur Bewältigung der Klimakrise dringend benötigt werden, in
die Höhe.
Die wirtschaftliche Stabilisierung war früher fester
Bestandteil der Katastrophenvorsorge. Es ist an der Zeit, sie wieder mit
einzubeziehen. So wie nach der globalen Finanzkrise einige Banken als „too big
to fail“ galten, müssen wir jetzt einige andere Sektoren als „too essentialto
fail“ einstufen. In essenziellen Sektoren sollte von einer reinen
Effizienzlogik zu strategischen Redundanzen übergegangen werden. Das erfordert
politisches Handeln.
Häfen und andere kritische Infrastrukturen sollten
ausreichende Reservekapazitäten und gut bezahlte Arbeitskräfte vorhalten, damit
der Betrieb bei Bedarf hochgefahren werden kann. Die Strategische Erdölreserve
(Strategic Petroleum Reserve, SPR), ein staatlicher Ölpuffer, muss systematisch
dafür genutzt werden, bei abstürzenden Preisen zu kaufen und bei explodierten
Preisen zu verkaufen, um auf diese Weise Preisextreme zu vermeiden. Öl sollte
bei zu geringer Nachfrage auf dem freien Markt gekauft werden, damit die Preise
nicht einbrechen, und bei drohender Unterversorgung verkauft werden, um eine
Preisexplosion zu verhindern. Solche antizyklischen Käufe und Verkäufe von
Pufferbeständen auf den Rohstoffmärkten funktionieren nach demselben Prinzip
wie die Offenmarktgeschäfte der Zentralbanken auf den Geldmärkten.
Einfach nur Ölvorräte freizugeben, wenn die Preise in die
Höhe schießen, greift zu kurz. Die Erfahrungen während der Pandemie lehren,
dass ein Preisverfall zu einem plötzlichen Rückgang der Produktionskapazitäten
führen kann, was wiederum zu drastischen Preissteigerungen führt, sobald die
Nachfrage wieder anzieht. Und noch eine weitere Lehre lässt sich ziehen: Auf
globalen Märkten ist es sinnvoll, Stabilisierungsmaßnahmen international zu
koordinieren – wie es die Internationale Energieagentur für ihre Mitgliedstaaten
getan hat. Und in den Bereichen, in denen Terminmärkte existieren, können die
Pufferbestände Termingeschäfte kaufen, wenn die Preise fallen, und sie bei
steigenden Preisen verkaufen, um für Stabilisierung zu sorgen.
Eine antizyklische Preisstabilisierung durch Pufferbestände
ist nicht nur für Öl wichtig. Es braucht sie auch für kritische Mineralien, um
Anreize für Investitionen in die grüne Lieferkette zu schaffen, und für
Grundnahrungsmittel wie Getreide, damit starke Rohstoffpreisschwankungen
infolge von Extremwetterereignissen vermieden werden können. Zusätzlich zur
Bevorratung mit lebensnotwendigen Gütern brauchen wir außerdem Maßnahmen, mit
denen staatliche und private Interessen auf das Ziel der Krisenfestigkeit ausgerichtet
werden. Solange Unternehmen in Katastrophenzeiten mit steigenden Gewinnen
rechnen, weil Versorgungsengpässe drohen, können wir nicht davon ausgehen, dass
sie sich im bestmöglichen Interesse der Allgemeinheit auf Notfälle vorbereiten.
Gesetze gegen Preistreiberei und Übergewinnsteuern sind hier relevante
politische Instrumente.
Die wichtigste Hauptaufgabe bleibt natürlich die Bekämpfung
der Ursachen von Krisensituationen. Das ist vor allem in Zeiten des
Klimawandels eine Mammutaufgabe. Einstweilen braucht es ein systemisches
Gesamtpaket von Puffervorräten, Regulierungen und Notfallgesetzen. Ohne diesen
wirtschaftspolitischen Katastrophenschutz sind die Lebensgrundlagen der
Menschen und der Ausgang von Wahlen auch dem nächsten Schock schutzlos
ausgeliefert. TNYT/IPG 19
Suche nach gangbaren Wegen zum
Frieden für die Ukraine
Eine Reflexion tausend Tage nach Beginn des Konflikts in der
Ukraine – von unserem Chefredakteur Andrea Tornielli.
Tausend Tage. Tausend Tage sind seit dem 24. Februar 2022
vergangen, als die Armee der Russischen Föderation auf Befehl von Präsident
Wladimir Putin die Ukraine angriff und dort einmarschierte. Tausend Tage und
eine unbestimmte - aber sehr hohe - Zahl von Toten, Zivilisten und Militärs,
von unschuldigen Opfern wie Kindern, die auf den Straßen, in Schulen und in
ihren Häusern getötet wurden. Tausend Tage und Hunderttausende von Verwundeten
und Traumatisierten, die ein Leben lang behindert bleiben werden, Familien, die
obdachlos geworden sind. Tausend Tage und ein gemartertes und verwüstetes Land.
Nichts kann diese Tragödie rechtfertigen, die schon früher hätte gestoppt
werden können, wenn alle auf das gesetzt hätten, was Papst Franziskus die
„Friedenspläne“ nannte, anstatt sich der vermeintlichen Unausweichlichkeit des
Konflikts zu ergeben. Ein Krieg, der wie jeder andere immer von Interessen
begleitet wird, in erster Linie von dem einzigen Geschäft, das keine Krise
kennt und auch während der jüngsten Pandemie nicht kannte, dem globalen und
transversalen Geschäft derjenigen, die sowohl im Osten als auch im Westen
Waffen herstellen und verkaufen.
Der traurige Markierungspunkt von eintausend Tagen seit
Beginn der militärischen Aggression gegen die Ukraine sollte nur eine einzige
Frage aufwerfen: Wie kann dieser Konflikt beendet werden? Wie kann man einen
Waffenstillstand und dann einen gerechten Frieden erreichen? Wie können
Verhandlungen zustande kommen, jene „ehrlichen Verhandlungen“, von denen der
Papst kürzlich sprach, die es ermöglichen würden, „ehrenhafte Kompromisse“ zu
erzielen und einer dramatischen Spirale ein Ende zu setzen, die uns in den
Abgrund eines Atomkriegs zu ziehen droht?
Man kann nicht so tun, als ginge einen das nichts an. Das
Enzephalogramm der Diplomatie scheint flach zu sein, das einzige Aufflackern
von Hoffnung scheint in den Aussagen des neuen Präsidenten der Vereinigten
Staaten von Amerika zu liegen. Aber der Waffenstillstand und dann der
ausgehandelte Frieden sind ein Ziel, das von allen verfolgt wird - oder besser
gesagt werden sollte - und nicht den Versprechungen eines einzelnen Führers
überlassen werden kann.
Was ist also zu tun? Wie kann insbesondere Europa wieder
eine Rolle spielen, die seiner Vergangenheit und den Führern würdig ist, die
nach dem Krieg eine Gemeinschaft der Nationen aufgebaut und dem alten Kontinent
Jahrzehnte des Friedens und der Zusammenarbeit garantiert haben? Der so
genannte Westen sollte, anstatt sich nur auf das verrückte Wettrüsten und die
Militärbündnisse zu konzentrieren, die heute überholt und ein Erbe des Kalten
Krieges zu sein scheinen, vielleicht die wachsende Zahl von Nationen berücksichtigen,
die sich in diesem Schema nicht wiedererkennen.
Es gibt Länder, die ihre Beziehungen zu Russland auf hoher
Ebene aufrechterhalten und sogar intensiviert haben: Warum sollten sie nicht
gründlich die Möglichkeiten für gemeinsame Friedenslösungen prüfen? Warum nicht
diplomatische Maßnahmen und einen ständigen Dialog durch nicht sporadische,
nicht bürokratische, sondern intensive Konsultationen mit diesen Ländern
entwickeln? Und wenn sich die europäischen Regierungen schwertun, diesen Weg zu
beschreiten, ist es dann möglich, eine größere Rolle für die Kirchen, für die
religiösen Führer ins Auge zu fassen? Darüber hinaus würde man von den Ländern,
die die Ukraine finanziell und militärisch unterstützen, neben den offiziellen
Kontakten, die im Übrigen minimal sind, eine größere Initiative der Analyse und
des Vorschlags erwarten: Es besteht ein dringender Bedarf an internationalen
„Denkfabriken“, die fähig sind, etwas zu wagen, mögliche und konkrete
Lösungswege aufzuzeigen und Pläne für einen für alle akzeptablen Frieden
vorzuschlagen. Dazu bedarf es, wie Kardinal Parolin vor den Vatikanmedien
sagte, „weitsichtiger Staatsmänner, die zu mutigen Gesten der Demut fähig sind
und an das Wohl ihrer Völker denken“. Niemals mehr als an diesem Tag ist es
notwendig, dass die Völker ihre Stimme erheben, um Frieden zu fordern. Andrea
Tornielli, vn 18
Wiesbaden,
agah-Landesausländerbeirat hat einen neuen Landesvorstand
Die Arbeitsgemeinschaft der Ausländerbeiräte Hessen
–Landesausländerbeirat (agah) hat am vergangenen Wochenende ihren Vorstand neu
gewählt.
Am Samstag, den 16.11.2024 wurde Herr Enis Gülegen
(Frankfurt/Main) als
agah-Vorsitzender bestätigt. Weiterhin wurden in der
agah-Delegiertenversammlung in Mühlheim am Main bekannte und neue Gesichter
wie Natalia Bind (Oberursel), Dr. Evelina Tolpina
(Eschwege), Samer Aboutara
(Friedrichsdorf), Sarantis Biscas (Ausländerbeirat
Neu-Isenburg), Hüsamettin
Eryilmaz (Mühlheim/Main) und Furkan Aktas (Haiger) als
stellvertretende agah-Vorsitzende gewählt.
Als wiedergewählter Vorsitzender des Landesausländerbeirats
(agah) bedankt
sich Enis Gülegen – auch im Namen aller
Vorstandskolleg*innen – bei allen
hessischen Ausländerbeiräten ganz herzlich.
„Die Wahlbeteiligung am 16.11.2024 war erfreulicher Weise
sehr hoch“, erklärte Gülegen heute in Wiesbaden. „Dieses große Interesse
bestärkt uns als Vorstand in unserer bisherigen Arbeit und zeigt auf, welche
politischen Herausforderungen in den nächsten Jahren auf uns warten. Die Wahlen
der Ausländerbeiräte im Jahre 2026 wird dabei ganz bestimmt im Fokus unserer
Arbeit sein“, so Gülegen weiter.
Der agah-Vorstand freut sich nun auf die Fortsetzung der
guten Zusammenarbeit
mit allen hessischen Ausländerbeiräten, der hessischen
Landesregierung und
allen weiteren Akteur*innen.
„Die Aufgaben, die vor uns liegen, sind sehr groß und
bedeutsam. Für die
Stärkung der partizipativen Demokratie lohnt sich jede Mühe.
Wir werden sie
gemeinsam angehen“, so Gülegen abschließend.
Der Landesausländerbeirat (agah) ist der Dachverband von
über 80 gewählten
kommunalen Ausländerbeiräten in Hessen. Zu ihren Aufgaben
gehören u.a. die
politische Interessenvertretung von Menschen mit
Migrationsgeschichte auf
Landesebene, die Koordination und Unterstützung der Arbeit
der kommunalen
Ausländerbeiräte und der Einsatz für mehr Chancengleichheit,
gegen
Diskriminierung und Rassismus. Agah 18
Hessen. Resolution der
agah-Delegiertenversammlung am 16.11.2024 in Mühlheim a.M.
Die Delegierten der kommunalen Ausländerbeiräte Hessens
stellen fest:
* Der vorliegende Gesetzentwurf wird bezüglich der die
Ausländerbeiräte und Integrationskommissionen betreffenden Inhalte den Aussagen
der schwarz-roten Koalitionsvereinbarung nicht gerecht.
* Die beabsichtigte Änderung des § 89 HGO mit dem Ziel, die
Integrationskommissionen auf ein Minimum zu verkleinern, ist
integrationspolitischer Rückschritt und Bankrotterklärung zugleich!
* Die erwartbare Reduzierung der Zahl von „sachkundigen
Einwohnern“ auf zwei zementiert das Ungleichgewicht in der Zusammensetzung der
Integrationskommissionen zu Gunsten von Mandats- und Funktionsträgern.
* Der „Betroffenen-Perspektive“ wird nur rudimentäre
Bedeutung beigemessen. Die Möglichkeit der politischen Teilhabe für Menschen
mit Zuwanderungsgeschichte reduziert sich faktisch erheblich!
* Statt einer Aufwertung und Ausweitung von
Partizipationsangeboten erfolgt sehenden Auges deren Abbau! In Zeiten eines
mittlerweile fest etablierten Rechtsextremismus in Gesellschaft und Politik
sowie angesichts der AfD-Wahlerfolge ein fatales Signal!
* Erneut wurde die Chance vertan, im Rahmen einer
HGO-Änderung die zahlreichen Vorschläge der hessischen Ausländerbeiräte zu
deren Weiterentwicklung und Modernisierung aufzugreifen. Diese Ignoranz ist
unerträglich!
* Die Verankerung der Briefwahl und die Möglichkeit, dass
zukünftig auch wohnsitzlose Menschen an den Ausländerbeiratswahlen teilnehmen
können, als Fortschritt zu verkaufen, ist nicht nur durchsichtig, sondern auch
infam. Agah 19
Ein Jahr Fachkräftegesetz. Bundesregierung
sieht Erfolg bei Einwanderung von Fachkräften
Der Kampf gegen den Fachkräftemangel läuft auf Hochtouren.
Das Gesetz ist bereits ein Jahr alt. Bundesinnenministerin Faser zieht ein
erstes Fazit: Die Zahl der sozialversicherungspflichtig Beschäftigten steigt –
dank Ausländer. Und das Interesse sei weiter hoch.
Ein Jahr nach der Gesetzesreform zur Fachkräfteeinwanderung
sieht die Bundesregierung erste Erfolge. Seit November 2023 seien nach
vorläufigen Zahlen etwa 200.000 Visa zu Erwerbszwecken erteilt, teilten das
Innenministerium, das Auswärtige Amt und das Arbeitsministerium am Sonntag mit.
Im Vergleich zum Vorjahr (177.578) sei dies ein Anstieg um über zehn Prozent.
„Wir sorgen dafür, dass wir die Arbeits- und Fachkräfte gewinnen, die unsere
Wirtschaft seit Jahren dringend braucht“, erklärte Bundesinnenministerin Nancy
Faeser (SPD).
Besonders erfreulich sei das große Interesse von Menschen,
die in Deutschland studieren, eine Berufsausbildung machen oder ihren
ausländischen Abschluss anerkennen lassen wollen, erklärten die Ministerien.
Die Visazahlen seien in diesem Bereich um über 20 Prozent bei Studierenden aus
Drittstaaten, um zwei Drittel bei Auszubildenden und um knapp 50 Prozent bei
Maßnahmen zur Anerkennung ausländischer Berufsqualifikationen gestiegen.
Das Gesetz wirke, erklärte Bundesarbeitsminister Hubertus
Heil (SPD), „die Visaerteilung und die Beratungsgespräche im Ausland sind auf
Rekordniveau“. Die deutschen Betriebe suchten händeringend fleißige Hände und
kluge Köpfe. Anfang November hatte bereits die Bundesagentur für Arbeit (BA)
mitgeteilt, dass die Zahl der Beratungen für Interessentinnen und Interessenten
aus dem Ausland gestiegen sei.
Mehr Beschäftigte Danke Ausländer
Das Fachkräfteeinwanderungsgesetz ist seit November 2023
schrittweise in Kraft getreten. Es erleichtert die Einwanderung aus
Nicht-EU-Staaten und ermöglicht etwa eine Einreise zur Jobsuche oder die
Aufnahme einer Arbeit ohne einen zuvor durch Deutschland anerkannten
Berufsabschluss. Ziel ist es, die Zahl aus dem Ausland kommender Arbeitskräfte
deutlich auf bis zu 400.000 pro Jahr zu erhöhen.
Laut der Bundesregierung ist die
sozialversicherungspflichtige Beschäftigung in den vergangenen fünf Jahren
insgesamt um 1,6 Millionen gestiegen (Dezember 2023 gegenüber Dezember 2018).
Dabei ist der Anstieg zu 89 Prozent auf Ausländer (1,45 Millionen) zurückzuführen
(dazu zählen EU-Bürgerinnen und Bürger sowie Drittstaatsangehörige). Davon geht
über die Hälfte des Anstiegs auf Drittstaatsangehörige zurück (995.000). Von
Dezember 2022 bis Dezember 2023 ist die Zahl Ausländerinnen und Ausländer mit
sozialversicherungspflichtiger Beschäftigung um 290.000 gestiegen. (epd/mig 18)
Italien auf dem Teller: so schmeckt
das Bel Paese
Essen und Trinken gehören zu Italien wie der Strand zum
Meer: Jede der 20 italienischen Regionen verfügt über lokale Spezialitäten,
einzigartige Gerichte und eine nahezu unbegrenzte Rezepte-Vielfalt.
Italien steht für einzigartige Kulturschätze, atemberaubende
Landschaften und facettenreiche Kunststädte. Darüber hinaus beeindruckt das Bel
Paese mit seiner weltbekannten Kulinarik, die so vielfältig wie das Land selbst
ist. Ob klassische Pizza Margherita, Risotto alla Milanese oder cremiges
Tiramisu – die Traditionsgerichte verkörpern das Dolce Vita perfekt. Entdecken
Sie, welche kulinarischen Highlights Italien zu bieten hat und worauf Sie in
Ihrem nächsten Urlaub keinesfalls verzichten sollten.
Kulinarische Vielfalt und weltbekannte Qualität
Zu den italienischen Traditionsgerichten reihen sich
unzählige heimische Spitzenprodukte, die in den Küchen Italiens nicht fehlen
dürfen: So zum Beispiel hochwertiges natives Olivenöl, Balsamico-Essig, Pesto
Genovese, Trüffel aus Alba, Prosciutto, Mozzarella di Bufala DOP oder die
legendären Zitronen von der Amalfiküste - die Produkte stehen nicht nur für
jahrhundertelange Tradition, sondern vor allem für die Qualität Italiens. Über
500 italienische Weine sind mit DOCG, DOC oder IGT - zertifiziert und mehr als
300 Lebensmittel tragen das Siegel der geschützten Ursprungsbezeichnung oder
geschützten geografischen Angabe, die garantieren, dass die Nahrungsmittel
ausschließlich im Herkunftsland hergestellt worden sind.
Die »Woche der italienischen Küche in der Welt«
Jedes Jahr im November wird die authentische italienische
Küche im Rahmen der »Settimana della Cucina Italiana nel Mondo« weltweit
zelebriert: zahlreiche Veranstaltungen wie Workshops, Degustationen und
Kochkurse präsentieren das Beste der italienischen Küche. Das Motto
»Mediterranean Diet and Cuisine of the Origins: Health and Tradition« der
diesjährigen Ausgabe von 16. – 22. November unterstreicht die wichtige Rolle
der UNESCO-geschützten Mittelmeerdiät »Dieta mediterranea«, die für einen
gesunden, nachhaltigen Ernährungsstil steht und auf der Verwendung saisonaler,
lokaler Produkte basiert.
Schlemmerrouten und Genussfeste
Wer sich durch die kulinarische Vielfalt von Italien kosten
möchte, braucht nicht lange zu suchen: Landauf und landab finden sich
Hinweisschilder, die auf »Strade del Gusto« im Zeichen von Speis und Trank
aufmerksam machen. Namen wie Strada del Prosciutto, Strada del Riso Piemontese,
Strada del Radicchio Rosso oder Strada dei Formaggi delle Dolomiti, die
Käsestraße in den Dolomiten, lassen die Herzen von Feinschmeckern
höherschlagen.
In ganz Italien feiert man zudem je nach Jahreszeit die
lokalen Erzeugnisse mit speziellen Festen und Märkten, den sogenannten »sagre«.
Genussmenschen haben Gelegenheit, die vielfältigen Produkte der neuen Saison zu
probieren, kleine Dörfer zu entdecken und in ihren Gassen kulinarische
Spezialitäten zu erleben.
Edle Tropfen und Weinstraßen
Dass zu gutem Essen auch guter Wein gehört, versteht sich in
Italien von selbst. Mit einem Glas Chianti, Brunello di Montalcino, Barbera,
Barolo, Prosecco di Valdobbiadene oder Lambrusco lässt es sich absolut
landestypisch auf das Dolce Vita anstoßen. Ob kräftige Rotweine, frische
Weißweine oder spritziger Prosecco – die Weinstraßen Italiens bieten eine
Auswahl, für deren Verkostung man ausreichend Zeit einplanen sollte. Sie
schlängeln sich durch malerische Weinberge und führen zu traditionsreichen Weinkellereien.
Die wunderbaren Weinanbaugebiete Langhe-Roero und Monferrato im Piemont und der
Proseccostraße im Veneto wurden sogar zum UNESCO-Weltkulturerbe ernannt. Enit
18
Grünen-Parteitag. Arbeitsverbote
für Ausländer sollen vollständig fallen
Wer als Ausländer arbeitet und keine Straftaten begeht, soll
grundsätzlich in Deutschland bleiben und später auch Staatsbürger werden
können. Das halten die Grünen in einem Parteitagsbeschluss fest.
Nach intensiven Verhandlungen und einer kurzen strittigen
Debatte haben die Grünen mit sehr großer Mehrheit beschlossen, dass
Arbeitsverbote für Ausländer vollständig abgeschafft werden sollen. „Außerdem
soll im Aufenthaltsrecht verankert werden, dass all jene, die hier arbeiten,
eine Ausbildung machen oder studieren und sich nichts zu Schulden kommen lassen
haben, hier bleiben dürfen“, heißt es in dem Antrag, der beim Bundesparteitag
in Wiesbaden abgestimmt wurde.
Wer kein Aufenthaltsrecht habe und die angebotenen Chancen
für einen Spurwechsel in den Arbeitsmarkt oder andere Möglichkeiten nicht
nutze, müsse Deutschland dagegen verlassen. In solchen Fällen sei eine gute
„Rückkehrberatung“ sinnvoll. Eine freiwillige Ausreise sei besser als eine
Abschiebung, denn wer ohne eine Perspektive oder eine Idee für eine eigene
Zukunft anderswo abgeschoben werde, sei oft schnell wieder da.
Die Grünen hielten weiter fest: „Doch besonders bei schweren
Straftätern oder religiösen Extremisten muss der Rechtsstaat hart
durchgreifen.“ Und: „Unser Rechtsstaat muss alle Möglichkeiten ausschöpfen, um
zu verhindern, dass von diesen Menschen weiterhin eine Gefahr ausgeht.“
Migration kein Problem
Mehrere Delegierte wiesen in ihren Redebeiträgen auf den
Wert von Migration hin. Diese sei nicht das Problem, sagte etwa Helge
Piepenburg aus dem Kreisverband Schaumburg. „Fehlende Integration, das ist ein
Problem.“
Dass die Debatte am späten Samstagabend recht knapp ausfiel,
bedeutet allerdings nicht, dass es keinen Diskussionsbedarf gegeben hätte. Wie
bei Parteitagen üblich, wurden die allermeisten Änderungsanträge
„wegverhandelt“ – sie standen also nicht mehr zur Abstimmung, sondern wurden
abgeändert, zurückgezogen oder im Original in den Antrag übernommen. (dpa/mig
18)
Gesetzliche Neuregelungen. Was
ändert sich im Dezember 2024?
Schwangere werden vor Gehsteigbelästigung durch
Abtreibungsgegner geschützt. Verbraucherinnen und Verbraucher müssen bei einem
Produktrückruf besser informiert werden. USB-C-Kabel werden für Smartphones,
Tablets und andere Geräte zur Pflicht.
Mehr Schutz für Schwangere und Ärzte
Wer Schwangere vor Beratungsstellen und Arztpraxen
belästigt, dem kann ein Bußgeld von bis zu 5.000 Euro drohen. Gleiches gilt,
wenn jemand Ärztinnen und Ärzte, die Schwangerschaftsabbrüche vornehmen, bei
ihrer Arbeit behindert. Die Belästigung wird als Ordnungswidrigkeit geahndet.
Dies sind Regelungen aus der Reform des Schwangerschaftskonfliktgesetzes.
Weitere Informationen zum Schwangerschaftskonfliktgesetz
[https://www.bundesregierung.de/breg-de/aktuelles/mehr-schutz-fuer-schwangere-2255398]
Mehr Produktsicherheit
Mit der neuen Allgemeinen Produktsicherheits-Verordnung
sollen Verbraucherinnen und Verbraucher sicherere Non-Food-Produkte erhalten.
So muss zusätzlich zum bisherigen Sicherheitserfordernis ab dem 13. Dezember
2024 etwa beim Rückruf eines Verbraucherproduktes besser informiert werden. Und
das unabhängig davon, ob das Produkt im Handel oder im Online-Shop erworben
wird.
Weitere Informationen zur Produktsicherheits-Verordnung
[https://www.bmuv.de/themen/verbraucherschutz/sicherheit-bei-produkten/sicherheit-bei-verbrauchernahen-produkten]
EU-einheitliches Ladekabel kommt
Schluss mit dem Kabelchaos: Ab dem 28. Dezember 2024 wird
der USB-C-Ladestandard für Smartphones, Tabletsund andere Geräte zur Pflicht.
Übrigens: Das einheitliche Ladekabel gilt ab 2026 auch fürLaptops.
Weitere Informationen zum einheitlichen Ladekabel
[https://www.bundesregierung.de/breg-de/aktuelles/einheitliches-ladekabel-2137658]
Frosthilfen im Obst- und Weinbau
Obst- und Weinbauern, die durch den Frost im April 2024
Teile ihrer Produktion und somit ihres Einkommens verloren haben, werden
entschädigt. Die entsprechende Verordnung ist bereits am 12. November 2024 in
Kraft
getreten. Damit stehenEU‑Krisenhilfen von insgesamt
46,5 Millionen Euro zielgerichtet für die betroffenen Bäuerinnen und Bauern
bereit.
Weitere Informationen zu den Frosthilfen
[https://www.bmel.de/SharedDocs/Pressemitteilungen/DE/2024/128-frosthilfen.html]
pib 28