Webgiornale 16-31
marzo 2023
Immigrazione: i punti principali del nuovo decreto legge italiano
Il Consiglio dei
ministri ha approvato un nuovo provvedimento. La riunione del governo si è
svolta a Cutro, in Calabria, nell’evidente tentativo di rimediare alla mancata
presenza di membri dell’esecutivo nei giorni successivi alla
tragedia. Vediamo i passaggi principali del decreto così come sono stati
presentati nel comunicato di Palazzo Chigi, in attesa di conoscere il testo
effettivo che sarà pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Stefano De Martis
Il Consiglio dei
ministri ha approvato un nuovo decreto-legge in materia di immigrazione. La
riunione del governo si è svolta a Cutro, in Calabria, nell’evidente tentativo
di rimediare alla mancata presenza di membri dell’esecutivo nei giorni successivi
alla tragedia (si ricorderà, invece, la visita tempestiva ed estremamente
significativa del presidente Mattarella). A Bruxelles, alla contemporanea
riunione dei ministri europei degli interni proprio sul dossier immigrazione,
l’Italia è stata quindi rappresentata dal sottosegretario del dicastero.
Vediamo quindi i
passaggi principali del decreto, così come sono stati presentati nel comunicato
di Palazzo Chigi, in attesa di conoscere il testo effettivo che sarà pubblicato
sulla Gazzetta Ufficiale.
Viene introdotto
il nuovo reato di “morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di
immigrazione clandestina”, con pene che vanno da 10 a 20 anni per lesioni gravi
o gravissime a una o più persone; da 15 a 24 anni per morte di una persona; da
20 a 30 anni per la morte di più persone.
Il decreto
abolisce la necessità di convalida del giudice di pace per l’esecuzione dei
decreti di espulsione in seguito a condanna.
Per quanto
riguarda gli ingressi, le quote di stranieri da ammettere in Italia per lavoro
subordinato saranno definite, non più solo per un anno ma per un triennio
(2023-2025), con decreto del presidente del Consiglio dei ministri, previo
parere delle Commissioni parlamentari competenti. In via preferenziale – spiega
sempre la nota di Palazzo Chigi – le quote saranno assegnate ai lavoratori di
Stati che promuovo per i propri cittadini campagne mediatiche sui rischi per
l’incolumità personale derivanti dall’inserimento in traffici migratori
irregolari. Sono previsti ingressi fuori quota per stranieri che hanno
superato, nel Paese di origine, i corsi di formazione riconosciuti dall’Italia,
che saranno promossi dal Ministero del lavoro. Viene inoltre semplificato
l’avvio del rapporto di lavoro degli stranieri con aziende italiane e si
accelera la procedura di rilascio del nulla osta al lavoro subordinato, anche
per esigenze di carattere stagionale. I rinnovi del permesso di soggiorno
rilasciato per lavoro a tempo indeterminato, per lavoro autonomo o per
ricongiungimento familiare avranno durata massima di tre anni, anziché due come
oggi.
Il decreto
contiene norme per il commissariamento della gestione dei centri governativi
per l’accoglienza o il trattenimento degli stranieri in caso di gravi
inadempimenti. Nel comunicato di parla di individuazione, acquisizione o
ampliamento dei Centri di permanenza per i rimpatri (i controversi Cpr saranno
quindi potenziati), con facoltà di derogare al codice dei contratti pubblici,
consentendo una maggiore speditezza nello svolgimento delle procedure, fatto salvo
il rispetto delle disposizioni del codice delle leggi antimafia e delle misure
di prevenzione.
Sui permessi di
protezione speciale, che si sono rivelati uno strumento molto importante per
tutelare chi non ha avuto ancora il riconoscimento dello status di rifugiato,
si prefigura una stretta ma bisognerà attendere il testo in Gazzetta per capire
esattamente in che termini. Il comunicato di Palazzo Chigi si limita ad
affermare che “si definisce meglio la protezione speciale per evitare
interpretazioni che portano a un suo allargamento improprio”. Sir 10
Le guerre dimenticate alimentano le migrazioni
«Dobbiamo
ripartire dal dolore e da questo deve scaturire una determinazione rinnovata
capace di vedere le responsabilità e anche le omissioni che possono favorire
tragedie come queste». Le parole del presidente della Conferenza episcopale
italiana, cardinal Matteo Zuppi, ci invitano a superare il mero scontro
politico e ad analizzare la tragedia dei migranti morti annegati a pochi metri
dalle coste italiane con il cuore e la ragione.
«Dobbiamo
ripartire dal dolore e da questo deve scaturire una determinazione rinnovata
capace di vedere le responsabilità e anche le omissioni che possono favorire
tragedie come queste». Le parole del presidente della Conferenza episcopale
italiana, cardinal Matteo Zuppi, ci invitano a superare il mero scontro
politico e ad analizzare la tragedia dei migranti morti annegati a pochi metri
dalle coste italiane con il cuore e la ragione.
Il cuore ci impone
di immedesimarci in quanti mettono a rischio la propria vita per costruire un
futuro migliore per sé e per i propri figli. Non è retorica, è la verità. La
stessa verità che suggerisce alla parte ricca del mondo di impegnarsi con
sempre maggior determinazione a governare un fenomeno che è planetario e non si
potrà fermare. Ce lo insegna il passato: nel corso dei millenni migrazioni si
sono sempre registrate e fanno parte della storia dell’uomo. «Il Mediterraneo –
ha detto ancora il cardinal Zuppi – ha sempre rappresentato un grande spazio
d’incontro. Dovremmo dire, l’Italia in particolare, che questa è la vocazione
per governare il fenomeno migratorio».
La ragione ci
dovrebbe invece spingere a considerare i motivi dei fenomeni migratori, spesso
dimenticati. Abbiamo la memoria corta, eppure dovremmo rammentare che pochi
mesi fa noi Occidentali abbiamo letteralmente abbandonato il popolo afghano
nelle mani dei talebani, aprendo la strada a un esodo di massa reso peraltro
assai difficile da uno dei peggiori regimi attualmente esistenti al mondo.
E ancora, negli
scaffali dei nostri supermercati nell’ultimo anno non sono mai mancati pane e
pasta perché per molti Paesi europei, Italia compresa, l’Ucraina non era il
primo mercato di riferimento per il grano. Invece ci sono economie popolose e
giovani, come quelle dei Paesi del Nordafrica, che acquistavano una parte
significativa del grano dall’Est Europa: la riduzione delle esportazioni
conseguente alla guerra ha contratto le quantità disponibili e fatto innalzare
i prezzi aggravando la condizione economica di Stati come l’Egitto, che da solo
conta 109 milioni di persone.
Non ce lo
ricordiamo abbastanza, ma ci sono nazioni come il Mali, il Burkina Faso e la
Costa d’Avorio che devono fronteggiare l’avanzata dell’integralismo islamico:
sono Paesi poveri in guerra contro un nemico ben attrezzato sotto l’aspetto
ideologico e militare, nei quali le popolazioni rurali sono in balia della
violenza.
Non fa notizia, ma
il panorama del Corno d’Africa è drammatico. La Somalia da anni è un
“non-stato” nel quale i civili subiscono inermi la guerra tra bande armate e in
epoca più recente (da almeno un decennio) gli effetti dell’estremismo islamico.
In Etiopia il conflitto “tigrino” ha provocato decine di migliaia di profughi.
In Eritrea è instaurata una dittatura e il presidente Isaias Afwerki è stato
accusato di crimini e violazione dei diritti umani sulla popolazione civile in
Tigray.
La Siria non
conosce pace e sta sperimentando in queste ultime settimane il dramma di un
terremoto devastante che si abbatte su un’economia e una società già duramente
colpite dalla guerra e all’epoca dell’Isis dalla parziale occupazione dei
fondamentalisti islamici. La Libia resta fortemente instabile, senza un governo
riconosciuto in maniera univoca sull’intero territorio statuale: le denunce per
le carceri lager nelle quali vengono rinchiusi i profughi che arrivano dal
Sahara non accennano a fermarsi.
A pochi chilometri
da noi, in Serbia, Bosnia e Croazia, famiglie siriane e afgane camminano nella
neve per giorni lungo la “rotta balcanica”, puntando verso Italia, Germania e
Francia, nella speranza di non essere intercettati dalla polizia e dalle
milizie private che danno loro la caccia.
Non illudiamoci,
dalle coste africane e turche partiranno nuovi barconi perché siamo di fronte a
un fenomeno epocale che non può essere governato da un solo Stato. Così come
proseguirà l’afflusso di migranti che dall’America centrale raggiungono gli
Stati Uniti, la prima potenza mondiale. E dalle zone più povere dell’India e
del Pakistan si continuerà a guardare ai facoltosi paesi del Golfo Persico: il
clamore sul rispetto dei diritti umani scatenatosi durante i Mondiali di calcio
del Qatar sembra essersi ridotto a una flebile voce. Forse era solo parte dello
spettacolo. Lorenzo Rinaldi, sir 4
Perché la transizione energetica europea va accelerata
In risposta
all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, i Paesi occidentali hanno
imposto sanzioni finanziarie a Mosca e l’embargo sulle esportazioni di
petrolio. Per ritorsione, la Russia ha tagliato le sue massicce forniture di
gas all’Europa, minacciando di lasciarla al freddo per l’inverno. La
prospettiva di una catastrofica crisi energetica nel vecchio continente si è
però indebolita grazie alle misure emergenziali messe in piedi dai governi e
dalle istituzioni europee, soluzioni favorite anche da temperature
eccezionalmente miti durante gran parte dell’autunno e dell’inverno.
Occorre però
essere molto cauti: l’Europa non è affatto fuori dal pericolo creato dalla
Russia ed il quadro per il prossimo inverno rimane assai incerto. Non potendo
contare sul gas russo e in competizione per il gas naturale liquefatto (gnl)
con la Cina appena uscita dalla sua politica zero-covid, il rischio per la
sicurezza energetica europea è concreto. L’Ue deve per questo prolungare le
misure di contenimento della domanda di gas oltre che, naturalmente, accelerare
al massimo la transizione energetica.
I nuovi flussi
dell’energia
Dal divorzio
euro-russo sta intanto emergendo una nuova mappa dei flussi dell’energia. In
primis, è evidente il cambio radicale della posizione russa nei mercati
energetici globali e il riorientamento per molti paesi dei propri legami
commerciali su logiche securitarie. Con lo scoppio della guerra i paesi europei
hanno stretto alleanze con nuovi partner energetici e ne hanno consolidate di
tradizionali. I
l legame con Stati
Uniti, Azerbaijan, Qatar, Norvegia, Algeria e molti altri paesi africani si è
rafforzato. Contemporaneamente, sono sorte opportunità e rischi, sia politici
(tra i partner c’è chi è più coerente con gli interessi europei e chi meno, chi
è istituzionalmente più solido e chi meno) che ambientali (il livello di
attenzione per le politiche climatiche e la coerenza con la visione verde
dell’Europa non è uguale per tutti). Mosca nel frattempo sta cercando di
riorientare parte dei volumi precedentemente destinati all’Europa verso l’Asia,
ma permangono strozzature infrastrutturali, amministrative ed economiche che
potrebbero rallentare questa volontà.
Povertà energetica
e disuguaglianze
Le conseguenze
energetiche della guerra hanno inoltre esacerbato le disuguaglianze sociali
all’interno dei paesi. L’aumento dei prezzi dell’energia ha contribuito a
un’inflazione elevata e l’aumento dei prezzi del carburante si è riversato sui
mercati alimentari, spingendo molte famiglie vulnerabili verso la povertà,
costringendo alcune fabbriche a ridurre la produzione, e rallentando la
crescita economica di molti paesi.
Inoltre, la guerra
ha acuito il divario tra paesi sviluppati e in via di sviluppo. Da una parte i
Paesi industrializzati, intenzionati ad accelerare la propria transizione
energetica (si pensi alla strategia RepowerEU presentata dalla Commissione, o
al dibattuto Inflaction Reduction Act statunitense). Dall’altra le economie
emergenti o in via di sviluppo, che in molti casi avevano riservato al gas un
ruolo importante per ridurre l’uso del più inquinante carbone e che adesso
potrebbero dover frenare i loro piani.
Dallo scoppio
della guerra infatti la diversione dei flussi di gnl dai Paesi meno
industrializzati verso l’Europa ha acuito la povertà energetica in molti paesi
emergenti e in via di sviluppo (si pensi al Bangladesh, al Pakistan o allo Sri
Lanka). Data la ridotta capacità di gnl sbloccabile nel breve termine, la
tensione rischia di acutizzarsi ancora di più nei prossimi mesi, aggravando la
povertà energetica e indebolendo la strategia climatica in molti di questi
paesi. La corsa europea al gas alternativo in questo anno di guerra può anche
per questo apparire incoerente con gli appelli per una più rapida
decarbonizzazione a livello globale, messaggio di cui l’Ue si fa – giustamente
– portavoce.
Un trend simile si
nota negli squilibri degli investimenti in energia pulita – che continuano a
essere indirizzati per la stragrande maggioranza verso paesi industrializzati
(e verso la Cina). Le promesse di finanza climatica avvenute in passato da
parte dei paesi industrializzati sono inoltre sempre state disattese. È dunque
assolutamente necessario ricostruire la fiducia tra Paesi mettendo a disposizione
di quelli in via di sviluppo più denaro per supportare un accesso all’energia
più ampio e più pulito possibile. In questi due anni molto delicati che ci
aspettano i paesi industrializzati, a partire dall’Ue, dovranno provare ad
affrontare in maniera più ordinata queste dinamiche. Margherita Bianchi, AffInt
2
Strage di migranti: l’Anpi Berlino Brandeburgo aderisce alla protesta
contro il cinismo del Governo
Berlino. Il
Comitato di Sezione ANPI Berlino Brandeburgo ha scritto ad amici e simpatizzanti
dell’Associazione per mobilitarsi domenica 5 marzo, per protestare contro la
posizione assunta dal governo italiano dopo l’ennesima, brutale strage di
migranti avvenuta di fronte alle coste italiane. La mobilitazione, che si è
svolta davanti all’Ambasciata d’Italia, è stata chiamata dall’Ong italiana
Mediterranea Saving Humans.
“Facciamo sentire
forte lo sdegno, il dolore, la protesta per questo ennesimo crimine di fronte
al quale il popolo italiano ed europeo dovrebbe provare solo vergogna respingendo
con tutta la forza necessaria l'arroganza e il cinismo esibiti dal Governo
italiano – si legge nella nota dell’ANPI -. Raccogliamo l'appello di
Mediterranea riflettendo sulle parole di Don Ciotti, presidente di Libera: ‘Non
sono più migrazioni ma deportazioni indotte’”.
Queste le parole
di Don Ciotti: “La tragedia avvenuta al largo delle coste calabresi ci dice che
quella barca che dovrebbe farci sentire con-sorti, accomunati da una simile
sorte, resta per ora una speranza: il mondo continua a essere diviso in
transatlantici e zattere, benestanti e disperati, stanziali e migranti per
forza. Bisognerebbe smetterla di chiamarle migrazioni: sono deportazioni
indotte. Nessuno lascia di sua spontanea volontà gli affetti, la casa,
affrontando viaggi rischiosi in mano a organizzazioni criminali e in balia
degli eventi atmosferici. Lo fa solo perché costretto da un sistema economico
intrinsecamente violento, sistema che colonizza e sfrutta. Lo fa perché
l'Occidente globalizzato, in nome dell'idolo profitto, gli fa terra bruciata
attorno offrendogli in alternativa sfruttamento se non schiavitù - sottolinea
don Ciotti -. Ed ecco la silenziosa carneficina che si sta consumando da almeno
trent'anni sotto gli occhi di un ricco Occidente che finge di non vedere”. (dip)
“Amara terra mia”: ad Amburgo il documentario sull’emigrazione italiana
Amburgo - Il 18
marzo la Missione italiana di Amburgo ospiterà, a partire dalle 18.00, la
proiezione di “Amara terra mia – Mein bitteres Land”, film documentario in
tedesco e in italiano con i sottotitoli in tedesco.
Girato da Eduard
Erne, Dania Hohmann, Ulrich Waller, il film sarà presentato da Ulrich Waller,
direttore artistico “St.Pauli Theater”. La proiezione sarà introdotta da
Giuseppe Scigliano che presenterà le sue “Composizioni e sonorità in versi”.
“Studiate una
lingua e andatevene!”. Così il premier italiano De Gasperi, nei primi anni 50,
spinse i giovani dell’Italia centrale e meridionale a lasciare la loro terra
per cercare fortuna in terra straniera. L’Italia non riusciva più a sfamarli.
Tanti di loro arrivarono in Germania come “Gastarbeiter”, lavoratori ospiti.
Che cosa hanno vissuto quando sono arrivati, com’è stata allora la
“Willkommenskultur”, la cultura d’accoglienza? Come è stato per loro dover
lasciare la famiglia, la patria e la propria lingua?
Il docufilm cerca
di dare una risposta a queste domande sulla base della storia fittizia di un
migrante toscano.
Due donne
(rappresentate da Adriana Altaras e Daniela Morozzi) si trovano a Wolfsburg per
ritirare le ceneri del padre deceduto. Che siano sorellastre, che il loro padre
avesse due famiglie, una in Germania e l’altra in Italia, lo scoprono solo sul
momento. Insieme si mettono in viaggio verso la casa natale del padre. Lì rivivono
le tappe più importanti della sua vita vissuta tra due paesi e due culture.
I racconti dei
testimoni della prima e seconda generazione di lavoratori emigrati a Wolfsburg,
Rocco Artale, Lorenzo Annese, Antonino Spinello e Luigi Cavallo, e il materiale
documentario dagli anni 60 completano il lavoro di Eduard Erne, Dania Hohmann e
Ulrich Waller.
L’integrazione
degli italiani, oggi considerata riuscita, ha incontrato molte difficoltà
iniziali. Pregiudizi come: “Gli italiani sono inaffidabili e lesti con i
coltelli”, “ci hanno traditi durante la guerra” e “in tanti di loro si nasconde
un maniaco sessuale”, erano diffusi e ricordano discussioni del tutto simili in
seguito all’ondata di rifugiati del 2015.
Il film si basa
sul dramma “La grande gelata/Der grosse frost”, un progetto teatrale sugli
emigranti italiani in Germania di Matteo Marsan, Dania Hohmann e Ulrich Waller.
Nato sotto il
patronato dell‘Ambasciata della Repubblica Federale in Italia, in
collaborazione con il Goethe-Institut Rom, con l’aiuto di ZEIT-Stiftung
Hamburg, Chianti-Festival, Comune di Castelnuovo Berardenga e di Annette e Wolf
Römmig e Thomas Reimann. Al termine della proiezione sarà offerto un rinfresco
a cura dell’A.C.I. – Associazione Cuochi Italiani.
Organizzano
Missione Cattolica Italiana Amburgo, Comites Hannover, Istituto Italiano di
Cultura Amburgo, Patronato Ital Uil Germania e Associazione “Prima Persona”.
(aise/dip 4)
Colonia. Billi (Lega) incontra la Comunità e le Istituzioni Italiane locali
Colonia - “Ho
partecipato ad una serie di incontri italiani a Colonia per sostenere ed
ascoltare la Comunità Italiana locale. Sono stato alla presentazione di tre
romanzi, “Baumafia” di Maurizio Del Greco, “Io sono Gabriele” di Gabriele
Italia e “Gli ostacoli del mio corpo ed il coraggio del mio spirito” di Maria
Russo, tre bravi scrittori italiani residenti in Germania, e pubblicati da
Graus Editore, casa editrice fucina di talenti italiani.
Al Cinedom di
Colonia ho assistito alla proiezione del film “Baumafia, incontro 3”, ultima
opera della trilogia dall’omonimo romanzo, diretto dal bravissimo
scrittore/regista Maurizio Del Greco.
Conduttori della
serata Vittoriana Abate, giornalista di RAI1, e Maurizio Giangreco, giornalista
di Antenna Dusseldorf.
Inoltre, ho
visitato il Consolato di Colonia che, con 134.000 iscritti AIRE, è tra i più
grandi in Europa. Mi complimento con il Console Generale Luis Cavalieri per il
lavoro attento e scrupoloso nell’interesse della Comunità Italiana.
A Colonia ho
trovato una Comunità viva e intraprendente, legatissima alla Madrepatria e con
tanta voglia di Italianità. Con orgoglio ribadisco che è importante far sentire
alle nostre Comunità all’estero la vicinanza delle istituzioni italiane” - così
dichiara l’On. Simone Billi, capogruppo della Lega in Commissione Esteri. dip
ENIT a ITB Berlino 2023: nei primi mesi dell’anno + 90 % di prenotazioni
dalla Germania
Berlino – A ITB
l’Italia dà sfoggio delle proprie performance, dettando buoni pronostici per
l’anno in corso.
Un mercato che
promette bene per il 2023, se a gennaio gli arrivi aeroportuali dalla Germania,
pari a 32.972, (+88,5% sul 2022) incidono per il 9,0% sul totale internazionale
in Italia. Nella classifica dei principali mercati di provenienza, i
viaggiatori tedeschi si posizionano secondi dopo gli statunitensi (47.236
arrivi, +91,4%) e a parimerito con i britannici (33.240 arrivi, +78,1%). Nel
mese di gennaio è Milano la prima destinazione dei tedeschi con il 28% circa
dei flussi aeroportuali totali. Segue Roma che accoglie il 26,2% dei viaggiatori
e Venezia con una quota parte del 10,3%.Per i viaggiatori tedeschi Roma si
conferma la principale destinazione: accoglie il 22% circa degli arrivi
aeroportuali dalla Germania, oltre 254.300, con un aumento del +75,5% sul
2021. Nella TOP 3 seguono Milano e Napoli raggiunte da 175.200 (+145,7%
sul 2021, il 15,1% sul totale 2022) e 119.400 (+51,1% sul 2021, il 10,3% sul
totale 2022) viaggiatori tedeschi nel 2022.Tra le mete più ambite in termini di
aumenti, anche Bologna (48.748 arrivi; +136,2% 2022/2021), Pisa (22.092;
+134,3%) e Torino (18.040; +128,9%).
I tedeschi
viaggiano verso l’Italia soprattutto in economy: 729 mila passeggeri in classe
economica nel 2022 (+62,3% sul 2021), il 62,8% del totale. Tuttavia, sono in
aumento anche coloro che viaggiano in business (391.517 arrivi, +26,7% nel 2022
sul 2021) e prima classe (1.580 arrivi, +300%). Oltre il 61% degli
acquisti dei biglietti viene effettuato direttamente presso le compagnie aeree
e circa il 18% presso le agenzie di viaggio tradizionali.
Tra febbraio e
aprile 2023, la Germania risulta il secondo mercato di provenienza, dopo gli
USA, con 124.485 prenotazioni aeroportuali previste al momento verso l’Italia,
ossia un + 90 per cento sul medesimo periodo del 2022.
Uno dei cinque
viaggi prenotati attraverso i tour operator tedeschi mostra la regione alpina
con il lago di Garda come meta di viaggio di preferenza. Sono soprattutto i
viaggiatori provenienti dalla Baviera e dalla Renania a scegliere maggiormente
l’Italia. Con il 40% di volume di prenotazioni in più, la regione sta
acquisendo ancora più importanza. La crescita maggiore si registra dalla
Germania orientale.
“La nostra
presenza qui significa anche cementificare ulteriormente il rapporto amichevole
e di rispetto reciproco che storicamente lega Italia e Germania sia in termini
più generali di relazioni internazionali che, nella fattispecie, in termini
squisitamente turistici. La Germania, infatti, rappresenta la quarta Nazione
più visitata dagli italiani e, inoltre, è il primo mercato incoming per
l’Italia. Nel 2022, per esempio, si sono registrati 9,4 mln di visitatori
tedeschi nel Belpaese, con 58,5 mln di pernottamenti e una permanenza media di
6,2 giorni. Si tratta di un turismo sempre più diversificato, di persone che
vengono e tornano in Italia per scoprire ogni volta nuove destinazioni e
provare nuove esperienze ed esplorare sempre anche destinazioni minori e meno
conosciute. I rapporti tra queste due Nazioni, però, sono ancora più profondi,
se consideriamo gli oltre 800 mila italiani che risiedono in Germania; è un
qualcosa che va oltre il turismo ma che, al contempo, ne è fortemente correlato
anche in relazione al turismo delle radici di cui, nel 2024, ci sarà appunto un
anno dedicato” commenta il Ministro del Turismo Daniela Santanchè.
“E’ un mercato
fiorente che alimenta anche l’indotto. I viaggiatori dalla Germania amano
restare in Italia almeno una settimana: circa il 25% degli arrivi aerei del
2022 copre soggiorni da 6 a 8 notti (26,5% per il 2021). Scelgono l’Italia
soprattutto per vacanza. Nel 2022 l’81% degli arrivi aeroportuali dalla
Germania è legato al profilo leisure. Segue il target gruppo con una quota
dell’11,5%, mentre il segmento business ha un’incidenza del 5,3% sul totale
flussi” commenta la Presidente e Ceo Enit Ivana Jelinic.
“Il turismo non è
solo una voce fondamentale nel rapporto economico tra Italia e Germania, ma
anche e soprattutto un preziosissimo veicolo di conoscenza reciproca tra
persone e nazioni. Il turista viaggia e diventa a sua volta ‘Ambasciatore’ e
promotore del Paese visitato. Per questo motivo siamo felici e orgogliosi del
legame speciale che unisce i nostri due Paesi e che ogni anno porta milioni di
visitatori a muoversi nelle due direzioni”, commenta l’Ambasciatore d’Italia in
Germania Armando Varricchio. (Inform/dip)
Ad Amburgo il Festival letterario “Reading without Nuclear Power”
Amburgo –
L’Istituto Italiano di Cultura di Amburgo segnala che nell’ambito del 10°
Festival letterario “Reading without Nuclear Power” il 9 marzo si è tenuto un
incontro di lettura e discussione con Leoluca Orlando, Donatella Di Cesare,
Giusi Nicolini, Georg Restle e Katja Riemann. L’incontro, tenuto presso il
Kultur- und Kommunikationszentrum Fabrik di Amburgo, si è svolto in italiano e
in tedesco sul tema “L’Europa dovrà rispondere alla storia”.
Il festival è
organizzato da “Lesen ohne Atomstrom” (“Leggere senza il nucleare”) e si è
tenuto dal 1° al 10 marzo con un titolo preso in prestito da Hermann
Hesse: “Affinché il possibile si realizzi, bisogna sempre tentare
l’impossibile”. Per dieci giorni, la cultura è stata presente in tutta Amburgo:
letture sceniche, cabaret, podi, film, concerti. Più di 3.000 posti in eventi
esclusivi con la partecipazione di circa 60 autori e artisti provenienti da
tutto il mondo.
Per l’Italia hanno
partecipato l’ex sindaco di Palermo Leoluca Orlando, l’ex sindaco di Lampedusa
e Linosa Giusi Nicolini e la filosofa e autrice del libro “Per una nuova
ospitalità!” Donatella Di Cesare.
Dal 2011, autori e
artisti di spicco provenienti da tutto il mondo si esibiscono regolarmente sui
palcoscenici più attraenti di Amburgo, per la fine del nucleare, per la
transizione energetica. E come tributo all’impegno della società civile. Da
allora, più di 39.000 spettatori hanno visto dal vivo 313 scrittori, attori e
musicisti di fama in 84 eventi.
Il festival è stato
organizzato dall’iniziativa cittadina no-profit “Cultura per tutti”, fondata
nel 2011 da lettori impegnati e autori famosi come Feridun Zaimoglu, Nina Hagen
e Günter Grass. Sostenuta da teatri, centri culturali, biblioteche,
Goethe-Institut, fondazioni, World Future Council, mecenati.
In questi dieci
anni autori di successo, star del cinema e del rock, diplomatici dell’ONU,
premi Nobel e Grammy hanno manifestato ad Amburgo la loro opposizione al
nucleare: Svetlana Alexievich ,da Minsk, l’ex capo di Stato giapponese Naoto
Kan da Tokyo, Jean Ziegler da Ginevra, Marc Elsberg da Vienna, Vandana Shiva da
Nuova Delhi, da Reykjavik Birgitta Jonsdottir, da Londra Jakob von Uexküll, da
Parigi Beate Klarsfeld, Leoluca Orlando da Palermo, Graeme Maxton da Taiwan,
Lord Martin Rees da Cambridge, Tima Kurdi dall’Ontario, da Boston Dennis
Meadows, da Buenos Aires Juan Martin Guevara, da Nairobi Auma Obama.
“Leggere senza
nucleare” è apartitico. I costi per la realizzazione del festival vengono
coperti dalle sole donazioni. (dip)
8 marzo: “Italiane in Germania: le arti” in Ambasciata a Berlino
Berlino - In
occasione della Giornata Internazionale della Donna, l’Ambasciata d’Italia a
Berlino ha ospitato l’8 marzo il secondo appuntamento di “Italiane in
Germania”, serie dedicata alle connazionali che vivono, lavorano e si sono
affermate nel Paese, contribuendone allo sviluppo economico, scientifico, culturale
e sociale. Dopo l’evento dedicato lo scorso anno alle donne nelle scienze, la
serata 2023 è stata riservata alle arti.
Quattro rinomate
artiste italiane hanno raccontato il loro percorso professionale e discusso,
moderate da Lucia Conti de “Il Mitte”, del ruolo delle donne nel mondo
dell’arte. Ospiti dell’Ambasciata l’artista Rosa Barba, l’arpista Loredana
Gintoli, la coreografa Sofia Nappi - tutte attive in Germania - e la
compositrice Lucia Ronchetti, al momento Fellow al Wissenschaftskolleg zu Berlin.
L’incontro è stato accompagnato da alcuni momenti musicali affidati alla stessa
Gintoli.
“È difficile
trovare un settore nel quale le italiane non si siano contraddistinte e non
abbiano dimostrato la loro professionalità, sempre accompagnata da impegno e
profonda passione, perché le “Italiane in Germania” fanno la differenza”, ha
detto l’ambasciatore Armando Varricchio. “Il loro lavoro esula dalla sola
dimensione artistica e diventa strumento di promozione del Made in Italy in un
mondo, come quello tedesco, che parla sempre più italiano”, ha aggiunto.
L’evento si
collega alla mostra “Muse oder Macherin - Le donne nel mondo dell’arte
italiana, 1400-1800” inaugurata sempre nel pomeriggio di ieri al
Kupferstichkabinett di Berlino e dedicata a vita e lavoro di donne come Rosalba
Carriera, Artemisia Gentileschi e Isabella d’Este. All’evento in Ambasciata ha
partecipato quindi anche la curatrice della mostra e direttrice
dell’istituzione museale berlinese, Dagmar Korbacher. (aise/dip 9)
Saarbrucken: il Comites in visita alla Cancelleria di Stato
Saarbrücken – L’8
marzo il Comites Saar ha visitato la Cancelleria di Stato dove ha incontrato il
Primo Ministro Anke Rehlinger.
Durante l’incontro
“costruttivo e amichevole”, riporta il Comites, sono stati affrontati e
discussi temi che riguardano la vita sociale degli italiani nel Saarland; si è
discusso sui servizi consolari e della digitalizzazione delle richieste online
che porta tutt’ora a disagi per gli analfabeti digitali, le persone anziane e i
disabili.
Il Presidente
Patrizio Maci, il Vice Presidente Giuseppe Bua e la consigliera Caterina Mela,
membro dell’esecutivo, hanno presentato al Primo Ministro il prezioso lavoro
delle Commissioni Pubbliche relazioni, - Salute e Prevenzione, Scuola del
Comites e i progetti per il futuro che si potrebbero realizzare anche in
collaborazione con i singoli ministeri del Land.
A margine della
visita, il Presidente Maci ha ringraziato la Cancelleria di Stato per
l`ospitalità e ha consegnato una mimosa, simbolo delle conquiste politiche,
sociali ed economiche femminili, al Primo Ministro Anke Rehlinger.
La mimosa è stata
offerta dal Consiglio Consultivo degli stranieri della Città di Saarlouis e dal
loro portavoce Pietro Tornabene. (aise/dip 13)
Evento del Comites di Dortmund il 26
marzo sulla parità di genere
Il Comites di
Dortmund lancia “Storie da Urlo - Fai sentire la tua voce”, evento dal vivo
sulla parità di genere. “Le donne sono una risorsa fondamentale e metà della
popolazione mondiale. Eppure, ancora molti sono gli ostacoli che impediscono
una vera parità di genere”, rileva il Comites. “Per questa ragione, il 26
marzo, alle ore 18.00, ci ritroveremo tutti insieme, uomini e donne, a ribadire
il nostro impegno nella direzione giusta”.
Molti gli ospiti dell’evento.
Italia Altrove
Düsseldorf organizza il 23 aprile una visita guidata in italiano della mostra
“La Germania dal 1945 ad oggi” all’Haus Der Geschichte Museumsmeile di Bonn.
“Il dopoguerra, la
fondazione delle due Germanie, la costruzione del muro di Berlino, la Guerra
Fredda, la caduta del muro… questi ed altri temi importanti della storia
tedesca fino ai giorni nostri ci verranno spiegati da una guida in lingua
italiana”, spiegano gli organizzatori. “Potremo sederci sulle poltrone del
primo parlamento tedesco, ammirare un grande magazzino degli anni del boom
economico, salire su uno degli aerei degli alleati chiamati “Rosinenbomber”,
ascoltare le testimonianze dei “Gastarbeiter” e capire meglio la storia del
paese che ci ospita”.
L’appuntamento è
domenica 23 aprile, dalle 11.00 alle 12.30, presso il museo “Haus der
Geschichte” in Willy-Brandt-Allee 14 a Bonn. La visita guidata è prevista solo
per i soci di Italia Altrove per un gruppo di massimo 25 persone. Dopo il museo
chi vorrà potrà unirsi agli altri per pranzare insieme e per fare una
passeggiata nel centro di Bonn. L’ingresso al museo è gratuito,
l’organizzazione del viaggio è a proprio carico. dip
Brevi di cronaca e politica tedesca
Unità interna per
l’alleanza semaforo “Parlare con maggiore calma di alcune questioni
fondamentali”: così il Cancelliere Scholz (SPD) aveva annunciato la riunione a
porte chiuse della coalizione semaforo tenuta nei giorni scorsi nei pressi di
Berlino. Di recente soprattutto tra Verdi e FDP sono emerse pubbliche
controversie, ma alla fine della riunione nel castello di Meseberg i partner
dell’alleanza di governo hanno ritrovato unità. Il Cancelliere ha dichiarato
che nel primo anno la coalizione semaforo ha raggiunto molti traguardi, per
questo si è augurato di “portare avanti lo slancio del primo anno”. Adesso il
più grande obiettivo è la ripresa economica. La Germania si lascerà presto alle
spalle il problema della disoccupazione, per cui si renderà urgente la
richiesta di nuova forza lavoro. Un’altra questione importante affrontata nella
riunione è stata la transizione ecologica, riguardo alla quale il Cancelliere
Scholz ha affermato che “bisogna procedere con velocità. Entro il 2030 si
dovranno installare da quattro a cinque nuove turbine eoliche al giorno, e
sempre per giorno costruire una quantità di pannelli solari da ricoprire
l’equivalente di oltre 40 campi da calcio. Per il futuro la Germania fissa
l’obiettivo di gestire la propria economia in modo neutrale dal punto di vista
climatico e creare buone opportunità lavorative”.
Anche il ministro
dell’Economia Robert Habeck ha sottolineato il positivo clima di
collaborazione. “L’isolamento di cui abbiamo goduto nel castello di Meseberg ha
dimostrato a tutti, ancora una volta, quanto siamo privilegiati a far parte di
questo governo”, ha affermato a nome dei Verdi, mostrando fiducia nel fatto che
la coalizione semaforo e la Germania riusciranno a superare le grandi sfide del
futuro. Il Vicecancelliere ha posto l’accento soprattutto su un grande successo:
“Non siamo più dipendenti dalle forniture di gas russo. Le aziende tedesche non
acquisteranno più gas naturale liquefatto dalle aziende russe”. Niente da
temere nemmeno per il prossimo inverno, dato che i serbatoi sono più pieni
rispetto allo scorso anno. Secondo il ministro delle Finanze, Christian Lindner
(FDP), i partner hanno concordato su questioni urgenti riguardanti il futuro
della politica interna ed europea, trascurate dalla guerra in Ucraina.
CDU/CSU
vogliono riorganizzare l'immigrazione
I vertici
del gruppo parlamentare CDU/CSU nel Bundestag vogliono riorganizzare
l’immigrazione di lavoratori qualificati in Germania proponendo l’istituzione
di una “Agenzia federale per l’immigrazione”. In un documento prodotto da CDU e
CSU si legge che “i lavoratori qualificati riceveranno assistenza da un’unica
fonte: quella del servizio di collocamento, al controllo dei requisiti per
l’ingresso, passando per il visto necessario al permesso di soggiorno, dopo
l’arrivo in Germania”. Secondo il capogruppo parlamentare Friedrich Merz,
l’agenzia si porrà l’obiettivo di reclutare lavoratori qualificati provenienti
dall’estero. Il Presidente della CDU ha inoltre chiesto che in futuro le
procedure di asilo dei lavoratori specializzati vengano chiaramente separate
dalle procedure di immigrazione.
Merz ha criticato
il governo per la sua incapacità di fronte al drammatico sovraffollamento degli
alloggi per rifugiati: “La coalizione non vuole ammettere la drammaticità della
situazione in molti comuni della Germania”, e ha inoltre tenuto a ribadire che
“la CDU si fa carico dell’impegno di responsabilità umanitaria della Germania
nei confronti delle persone in cerca di protezione”, ma che il partito intende
“proporre un pacchetto di misure nazionali, europee e internazionali per la
gestione e la limitazione della migrazione clandestina”. La CDU chiede inoltre
l’istituzione di un’unità di crisi e coordinamento nella Cancelleria federale.
Il leader dell’opposizione Merz ha a cuore i problemi legati all’accoglienza
dei rifugiati e vuole invitare a Berlino per un tavolo di consultazioni circa
700 tra sindaci e consiglieri provinciali: “Solo nel 2022, in Germania sono
state presentate 244.000 richieste di asilo. In molte località le capacità di
accoglienza sono giunte al limite. Dobbiamo affrontare questa realtà”.
I Länder
meridionali mettono in discussione il patto finanziario federale
I
governatori della Baviera e del Baden-Württemberg chiedono negoziati per
rivedere il Länderfinanzausgleich, termine con cui si designa il sistema di
compensazione finanziaria che regola la distribuzione di risorse tra Länder
ricchi, meno ricchi o strutturalmente deboli. I due Stati chiedono un attento
riesame del modello e, se necessario, possibili emendamenti. Winfried
Kretschmann (Verdi), governatore del Baden-Württemberg, Land dell’industria
automobilistica tedesca, ha affermato che “non tutto può filare liscio se, in
linea di principio, tre Länder (Baviera, Assia e Baden-Württemberg) contribuiscono
per ben oltre il 90% della perequazione finanziaria”.
L’omologo di
Kretschmann, il governatore della Baviera Markus Söder (CSU), aveva annunciato
che entro la prima metà dell’anno avrebbe intentato un’azione giudiziaria
contro tale sistema di compensazione finanziaria “semplicemente iniquo e
ingiusto”. Lo scorso anno cinque Länder donatori, quindi economicamente più
agiati, hanno versato un totale di 18,5 miliardi di euro nelle casse degli
undici Länder più deboli dal punto di vista finanziario, cifra alla quale la
Baviera ha contribuito per più della metà, destinando 9,9 miliardi di euro. Il
governatore Söder, che in autunno si presenterà alle elezioni regionali con la
sua CSU, sembra aver definitivamente perso la pazienza: “La soglia di sopportazione
del dolore è stata raggiunta”.
Iraq: il Ministro
Baerbock mostra il suo sostegno
A breve
ricorrerà il 20° anniversario dell’entrata americana in Iraq, e in questo
momento il Paese sta tornando al centro della politica estera dell’Occidente.
Martedì scorso il ministro degli Esteri Annalena Baerbock (Verdi) e il ministro
della Difesa statunitense Lloyd Austin si sono recati in visita a Baghdad. Dopo
il suo arrivo nella capitale, la Baerbock ha ribadito che l’Iraq rimane un
fattore chiave per la stabilità della regione, e che la Germania continuerà a
garantire una prospettiva pacifica per il futuro del Paese.
“Se il nuovo
terrorismo, l’influenza dell’Iran o la distruzione dei mezzi di sussistenza
causata dalla crisi idrica dovessero sfociare di nuovo in violenza e divisione
politica, le conseguenze colpirebbero pesantemente anche i Paesi limitrofi”, e
infine ha aggiunto che “se si riuscirà a raggiungere stabilità e sviluppo
all’insegna della democrazia e della diversità, l’Iraq potrà assurgere a modello
per la regione”. Il ministro degli esteri ha voluto inoltre visitare un centro
di documentazione dei crimini perpetrati dallo “Stato islamico”. La milizia
terroristica ha ancora cellule attive in Iraq e in Siria che continuano a
compiere attacchi.
Crollo di
fedeli per la Chiesa evangelica
La Chiesa
evangelica in Germania continua a registrare un numero di defezioni come mai
prima d’ora. L’associazione delle chiese protestanti in Germania, la EKD, ha
dichiarato che nel 2022, circa 380.000 membri hanno lasciato la Chiesa. Si
tratta di un ulteriore forte aumento, dopo che nel 2021 il numero di dimissioni
era di 280.000 membri, mentre nel 2005 erano poco meno di 120.000. La
Presidente del Consiglio dei vescovi evangelici, Annette Kurschus, ha definito
le nuove cifre “deprimenti”. Nemmeno negli anni successivi alla Riunificazione,
l’EKD aveva registrato così tante dimissioni quante ne sta subendo negli ultimi
anni. Si aggiunge poi, il fatto che il numero dei membri che muoiono supera più
del doppio quello dei nuovi accolti nella Chiesa evangelica all’atto del
battesimo.
Nel complesso, lo
scorso anno il numero di cristiani evangelici in Germania è diminuito del 2,9%,
arrivando a contare 19,15 milioni di membri. Nei prossimi anni, questi sviluppi
non potranno che colpire duramente la Chiesa anche dal punto di vista
finanziario. Se si guarda alla Chiesa cattolica, anche questa non se la passa
molto meglio. In Germania, l’appartenenza a una confessione religiosa viene
registrata all’ufficio anagrafico federale che poi riscuote l’imposta annuale
per conto delle rispettive chiese, e per questo sempre più contribuenti
dichiarano la loro uscita dall’ ”organizzazione ecclesiastica” per risparmiare
sulle tasse. Il sistema è oggetto di critiche da molto tempo, soprattutto
perché il numero di membri della Chiesa ufficialmente registrati presso
l’autorità competente è ormai scivolato sotto la soglia del 50%.
Luoghi da
visitare in Germania: Frisinga
Nella città
di Frisinga, situata a nord-est di Monaco, si erge su una collina la
concattedrale romanica del famoso duomo di Monaco, che ospita al suo interno un
notevole complesso museale. Sole cinque settimane dopo la prima grande mostra
dedicata al culto dei santi napoletani, che ne ha accompagnato la meravigliosa
riapertura, il duomo di Frisinga presenta una mostra sulla relazione tra Chiesa
e sessualità, che promette già di voler dimostrare la sua audacia e vivacità
nei confronti della scena artistica di Monaco. Il “rapporto spesso molto
sofferto di tante persone nella nostra Chiesa con la fisicità e la sessualità –
ha dichiarato nel suo saluto l’arcivescovo di Monaco e Frisinga, il cardinale
Reinhard Marx – deve essere riconosciuto e affrontato quale problematica
fondamentale. Cerchiamo quindi di farlo partendo proprio dal punto di vista
dell’arte, che per secoli è stata creata esclusivamente perché appannaggio
della Chiesa, che commissionava e pagava le opere artistiche”. Nella mostra si
possono ammirare dipinti in cui l’erotismo e la sensualità si fondono con la
spiritualità e che rimandano a secoli di arte, con particolare attenzione per
la pittura barocca.Fondo speciale all’esercito: il governo batte la
fiacca Pochi giorni dopo l’aggressione russa in Ucraina, Scholz aveva
annunciato al Bundestag un cambio di direzione nella politica estera, di
sicurezza tedesca e un fondo speciale di 100 miliardi di euro per la
modernizzazione dell’esercito, ricevendo anche applausi dalla CDU/CSU. A un
anno dal clamoroso discorso della “svolta epocale” del Cancelliere,
l’opposizione CDU/CSU gli rimprovera le opportunità mancate. Il leader della
CDU Friedrich Merz ha criticato l’eccessiva lentezza delle sue azioni e il non
aver fornito alcuna spiegazione ai suoi tentennamenti. Il suo Vice Jens Spahn
(CDU) ha ricordato che il discorso del Cancelliere era fondamentalmente nel
giusto e che avrebbe potuto segnare una nuova era, ma sfortunatamente il
governo della coalizione semaforo “si è lanciato in un volo che il giorno
successivo ha perso subito quota”. Il Cancelliere non ha tenuto fede alle sue
promesse, e finora del fondo speciale destinato alle forze armate non è stato
stanziato pressoché nulla.
L'esperto di
politica estera della CDU, Roderich Kiesewetter, ha espresso critiche:
“L’esercito soffre di enormi deficit e la svolta epocale non è iniziata. Le
truppe hanno perso un anno di tempo e ora sono ‘più al verde’ di quanto non
fossero nel 2022”, parole che riprendono la dichiarazione del Capo di Stato
maggiore dell’esercito Alfons Mais, che il giorno dell’inizio della guerra
aveva dichiarato: “l’esercito di cui sono alla guida, è più o meno al verde”.
Secondo Kiesewetter, il Cancelliere Scholz aveva ipotizzato che le truppe russe
avrebbero potuto conquistare l’Ucraina in pochi giorni e “poi ritrovarsi sul
confine polacco”. Ma le cose sono andate diversamente. “Quando ci si è resi
conto che l’Ucraina si stava difendendo nel migliore dei modi, questo slancio
si è immediatamente affievolito”. Nell’esercizio di bilancio del 2022 non sono
state utilizzate le risorse provenienti dal fondo speciale, ma secondo il
ministero della Difesa sono stati pianificati circa 30 miliardi di euro.
L’industria degli armamenti ha inoltre più volte sottolineato la lentezza nel
conferimento delle commesse.
Pistorius
chiede più fondi per la difesa
Il ministro
della Difesa Boris Pistorius (SPD) ha annunciato che in futuro le aziende
produttrici di armi riceveranno anticipi per le commesse e non verranno pagate
alla consegna. “In futuro agiremo in questo modo. Fosse anche solo per
documentare il flusso di denaro in uscita”, ha chiarito Pistorius, che ha
inoltre ribadito la sua richiesta di un aumento del bilancio destinato alla
Difesa, restando fermo il fatto che i 100 miliardi di fondo speciale saranno
spesi entro i prossimi tre anni.
Tuttavia, per il
periodo successivo l’esercito avrà comunque bisogno di maggiori risorse. Il
bilancio del ministero della Difesa deve aumentare in modo significativo,
“altrimenti non saremo in grado di svolgere i nostri compiti”. Anche
l’organismo che cura gli interessi dei soldati tedeschi (Bundeswehrverband) si
è schierato dalla parte di Pistorius chiedendo più soldi su base permanente:
“Dobbiamo riprendere a investire nelle capacità militari. Questo è il motivo
per cui abbiamo bisogno di più di 100 miliardi, e quindi un aumento del
bilancio della difesa, altrimenti le cose non funzioneranno”.
Il Land di
Berlino verso la Grande Coalizione
Nel Land di
Berlino si attendono le prime delibere sull’avvio dei negoziati di coalizione
per la formazione di un nuovo governo regionale. Lo scorso 12 febbraio la CDU
ha vinto l'elezioni con netto distacco, e i colloqui esplorativi tra i partiti
sono ormai conclusi. Il sindaco di Berlino e Presidente regionale della SPD,
Franziska Giffey, anela a una coalizione con la CDU vincitrice delle elezioni.
Nell’eventualità
di un’alleanza con la CDU, il sindaco Giffey, il cui partito ha raggiunto solo
il 18% delle preferenze alle ultime elezioni, dovrebbe rinunciare al suo
mandato, e il nuovo capo del governo del Land, facente parte di una coalizione
nero-rossa sarebbe il vincitore, Kai Wegner, capogruppo parlamentare della CDU
e suo Presidente regionale. I Verdi e la Sinistra, con i quali l’SPD ha
governato dal 2016, si ritroverebbero tra le file dell’opposizione. Tuttavia,
se non dovesse funzionare con l’SPD, la CDU ha un’altra opzione: governare
insieme ai Verdi.
La Baerbock
lancia il suo monito al governo israeliano
Il ministro
degli Esteri Annalena Baerbock (Verdi) ha ricevuto a Berlino il suo nuovo
omologo israeliano Eli Cohen. Si è trattato del primo incontro da quando il
governo nazional-conservatore del Primo ministro Benjamin Netanyahu è entrato
in carica a dicembre. Durante l’incontro sono stati affrontati diversi temi
controversi che al momento mettono a dura prova le relazioni
tedesco-israeliane, tra cui la riforma della giustizia del governo israeliano.
Il ministro
Baerbock ha criticato il piano in presenza del ministro israeliano. “Non
nascondo il fatto che all’estero siamo preoccupati”, ha dichiarato il ministro.
“Tra i valori che ci accomunano c’è la difesa dei principi dello stato di
diritto, nonché l’indipendenza della magistratura”. Da settimane in Israele
sono in corso proteste contro la riforma che, tra le altre cose, conferirebbe
al governo maggiore potere nella selezione dei giudici. Inoltre, Baerbock ha
espresso preoccupazione per l' introduzione della pena di morte. Dalla sua
fondazione, lo Stato d’Israele ha eseguito una sola volta la pena di morte,
contro il criminale nazista e pianificatore dell’Olocausto Adolf Eichmann.
“Sono convinta che sarebbe un grave errore spezzare la storia del passato”, ha
concluso il ministro degli Esteri esprimendo tutta la sua preoccupazione.
La Germania
critica il veto europeo ai motori a combustione
Il ministro
dei Trasporti, Volker Wissing (FDP), minaccia il veto tedesco al bando di nuove
immatricolazioni di automobili con motore a combustione interna, previsto
nell’Unione europea a partire dal 2035, chiedendo che l’utilizzo di carburanti
sintetici (i cosiddetti “e-fuel”) per le auto possa essere consentito anche
dopo, in totale accordo con il governo italiano. Il ministro Wissing ha
ribadito che “considerato l’enorme parco di autovetture che abbiamo solo in
Germania, i Liberali potranno giungere a un compromesso solo se si riterrà
idoneo l’uso di carburanti e-fuel, altrimenti la Germania confermerà il proprio
dissenso”, oltre a sottolineare come la Commissione europea abbia ricevuto un
chiaro mandato di lavoro per consentire l’uso di e-fuel rispettosi del clima
nei motori a combustione interna, sia per i veicoli attualmente in circolazione
sia per quelli che verranno immatricolati dopo la fatidica data del 2035.
“Finora a Berlino non siamo venuti a conoscenza di proposte costruttive, ma
abbiamo sentito solo dichiarazioni negative da parte del Commissario Frans
Timmermans", ha espresso in tono critico il ministro.
Secondo i piani
correnti, a partire dal 2035 nell’UE non saranno più immatricolati nuovi
veicoli con motori a combustione interna. Nel frattempo, il ministro
dell’Economia Robert Habeck (Verdi) ha annunciato un disegno di legge che
prevede il divieto d’installazione di sistemi di riscaldamento a gasolio in
Germania a partire dal 2024. Il partner di coalizione FDP ha già annunciato una
forte resistenza al riguardo, e nella coalizione semaforo il progetto di legge
finirà per suscitare aspri dibattiti.
Crisi tra
Vaticano e Conferenza episcopale tedesca
Il conflitto
tra ampie sezioni della Conferenza episcopale tedesca e il Vaticano continua ad
aggravarsi. In occasione del Consiglio di primavera dei vescovi a Dresda, il
Presidente Georg Bätzing ha nuovamente respinto le obiezioni provenienti da
Roma all’istituzione di un cosiddetto “Consiglio sinodale”. Il nunzio
apostolico in Germania, l’arcivescovo Nikola Eterovic, ha ribadito il suo
rifiuto alla riforma, e in un saluto rivolto ai vescovi, Eterovic ha scritto
che il “Consiglio sinodale pianificato dalla Chiesa tedesca, composto da
esponenti del clero e da laici, in quanto organo decisionale non è pensabile a
nessun livello gerarchico della Chiesa e che la sua istituzione danneggia la
funzione dirigenziale svolta dai vescovi”.
Nella sua lettera
Eterovic prende spunto dalla discussione scatenata da una lettera di diversi
cardinali della Curia a nome di Papa Francesco, nella quale si nega alla
Conferenza Episcopale l’autorità di istituire tale organismo. I timori avanzati
da Roma vengono condivisi anche da una minoranza di vescovi tedeschi, ma il
Presidente della Conferenza episcopale tedesca Bätzing, pur non temendo la
minaccia di una separazione della Chiesa cattolica tedesca dalla Chiesa
universale, continua a manifestare la sua ostinazione.
Luoghi da
visitare in Germania: Abbazia di Münsterschwarzach
Per i
cattolici la Quaresima è anche tempo di esercizi spirituali, da praticare
soprattutto nei monasteri. Famosa per la sua accoglienza è l’abbazia
benedettina di Münsterschwarzach, in Baviera (Regione della Bassa Franconia).
Il complesso monastico romanico con le sue quattro torri, ben visibile sulle
rive del Meno, vanta già 1200 anni di storia ed è una delle testimonianze più
antiche di vita monastica in Germania.
L’abbazia può
contare sull’autosufficienza alimentare garantita dalla coltivazione di prodotti
agricoli al suo interno, oltre a essere conosciuta per la produzione di oggetti
di oreficeria e altri manufatti artigianali e, ovviamente, per accogliere gli
ospiti che desiderano unirsi alla vita monastica della comunità – anche se solo
per qualche giorno – o che desiderano volgersi in contemplazione della vita
interiore durante gli esercizi spirituali. Kas 9
Le due piazze di Berlino contro la guerra
In questo
finesettimana a Berlino decine di migliaia di persone sono scese in piazza contro
la guerra in due diverse manifestazioni. Venerdì contro Putin e in solidarietà
all’Ucraina, sabato per chiedere a “entrambe le parti” il cessate il fuoco
immediato e l’avvio di negoziati di pace. Cinzia Sciuto
Quando esattamente
vent’anni fa attraversai questa stessa Unter den Linden, il vialone di Berlino
che da Alexanderplatz porta alla Porta di Brandeburgo, nessuno immaginava
potessero esistere due piazze contro la guerra. La guerra era una, quella di
Bush contro l’Iraq, e uno era il sentire pacifista di allora: contro la guerra
di Bush. Vent’anni dopo, quando la guerra ci tocca molto più da vicino e
imporrebbe una unità e compattezza ancora maggiore, il fronte “contro la
guerra” si sfalda, e la linea di divisione non è come potrebbe superficialmente
sembrare, solo la questione “armi sì, armi no”. Se fosse solo questo, si
tratterebbe di una mera questione strategica, una risposta diversa alla
domanda: “Come facciamo a fermare la guerra di Putin?”. Ma invece è la domanda
stessa che divide, perché non tutti riconoscono che questa è una guerra
unilaterale di stampo imperialista di Putin contro l’Ucraina, e non sono pochi
nel fronte pacifista a condividere l’analisi di Silvio Berlusconi: “Bastava che
[Zelens’kyj] cessasse di attaccare le due repubbliche autonome del Donbass e
questo non sarebbe avvenuto”. Che non è molto diverso da quello che sostiene
Putin: “Chiediamo al regime di Kiev di cessare immediatamente il fuoco, tutte
le ostilità, la guerra che ha scatenato nel 2014 e di tornare al tavolo dei negoziati”,
così aveva detto il presidente russo il 30 settembre 2022 nel discorso con il
quale spiegava al suo popolo la decisione della mobilitazione parziale. È
dunque la diversa lettura della realtà che spacca il movimento: una guerra
unilaterale di stampo imperialista di Putin contro l’Ucraina, da una parte, una
guerra di reazione di Putin alle varie “provocazioni” (della Nato, di
Zelens’kyj ecc.), dall’altra.
Se questa è una
guerra unilaterale di stampo imperialista di Putin contro l’Ucraina, allora il
movimento contro la guerra non può che rivolgersi alla Russia di Putin,
esattamente come hanno fatto le decine di migliaia di persone che hanno
attraversato la Unter den Linden il 24 febbraio scorso. Avvolte nelle bandiere
ucraine, scandendo “Slava Ukraini! (Gloria all’Ucraina)”, si sono fermate
davanti l’ambasciata russa, a indicare in maniera chiara chi è l’unico
responsabile di questa guerra e chi è che deve dunque deporre le armi per farla
cessare. “Se la Russia smette di combattere non c’è più la guerra, se l’Ucraina
smette di combattere non c’è più l’Ucraina”, recita uno degli slogan più
efficaci, che riassume perfettamente lo spirito della manifestazione del 24.
Molto orgoglio nazionale attraversava il corteo, ma non nazionalista. Orgoglio
per un piccolo Paese avviato nel tortuoso percorso democratico che tiene testa
al grande aggressore autoritario e imperialista che non vuole cancellare solo i
confini geografici ma anche la storia democratica dell’Ucraina. È l’Ucraina che
viene difesa in questa piazza, sì, ma l’Ucraina democratica. Non un solo
accenno sciovinista, non un solo simbolo nazionalista ha circolato fra le
migliaia di bandiere azzurre e gialle che hanno inondato le vie di Berlino dal
Cafe Moskau (un centro congressi eretto nel 1961 come simbolo del legame fra la
Ddr e l’Unione Sovietica e per l’occasione, e solo momentaneamente,
ribattezzato Cafe Kyïv) fino alla Brandeburger Tor. E chissà quante di queste
persone non avevano mai indossato prima i colori nazionali ucraini, chissà
quante hanno scoperto uno spirito patriottico che non gli apparteneva. Chissà
quanti di noi si riscoprirebbero improvvisamente attaccati alla proprio Paese
se questo venisse aggredito da una potenza straniera.
Se invece la
lettura della guerra è “più complicata” perché le responsabilità sono certo di
Putin “ma anche” (se non soprattutto) di altri, allora il “contro la guerra”
non può che rivolgersi a “entrambe le parti” che però nei fatti significa a una
parte sola: l’Occidente che sostiene l’Ucraina e che deve invece smettere di
inviare armi e mettersi alla testa di “una alleanza per il cessate il fuoco e
negoziati di pace”, come si legge nell’appello firmato da Alice Schwarzer,
storica figura del femminismo tedesco, e Sara Wagenknecht, ex leader del
partito Die Linke, e sottoscritto da più di 600mila persone, che ha anch’esso
portato in piazza il giorno dopo, sabato 25 febbraio, decine di migliaia
persone. “Negoziare”, si legge ancora nell’appello, “non significa capitolare.
Negoziare significa scendere a compromessi, da entrambe le parti. Con
l’obiettivo di evitare altre centinaia di migliaia di morti e peggio”.
Una piazza, quella
di sabato, dove non sventolava neanche una bandiera ucraina e dove nessun
cartello, nessuno slogan era rivolto a Putin. L’obiettivo dei manifestanti
raccolti da Schwarzer e Wagenknecht era completamente un altro: l’Occidente e
la Nato. E a scanso di equivoci ad aprire la manifestazione di sabato un
videomessaggio di Jeffrey Sachs che ha senza mezzi termini sostenuto che la
colpa di questa guerra è degli Stati Uniti responsabili della caduta di
Janukovy? (alle proteste di Euromaidan neanche un accenno) nel 2014. La
sensazione che si avvertiva in questa piazza è che la guerra in Ucraina venisse
usata per regolare un po’ di conti “interni” all’Occidente e per portare avanti
lotte ideologiche e politiche che con l’attuale conflitto hanno poco a che
fare.
A rispondere nella
maniera più chiara all’appello di Schwarzer e Wagenknecht è stato dai microfoni
della manifestazione del giorno prima il leader dei Verdi tedeschi, Omid
Nouripour: “Questa è la vera grande manifestazione per la pace che si tiene
questo weekend a Berlino. Fra di noi ci sono tanti che vengono dalla Georgia,
dalla Bielorussia, dalla Cecenia e che sono qui perché sanno cosa accade se Putin
non viene fermato. La pace non è semplice. La pace non si ottiene dicendo
indistintamente a tutti ‘mettete giù le armi’. La pace non è fare come se
diplomazia e armi fossero in contrapposizione. Pace è quando un popolo che
viene aggredito in completa violazione del diritto internazionale è messo nelle
condizioni di difendersi. Putin ripete sempre che la Germania ha una
responsabilità storica nei confronti della Russia, ed è vero. Ma abbiamo una
responsabilità storica anche nei confronti dell’Ucraina. E oggi che quelle
stesse città ucraine dove il regime nazista ha perpetrato crimini orrendi
vengono bombardate dalla Russia di Putin è nostro dovere stare al loro fianco.
Se non lo facciamo vuol dire che non abbiamo imparato niente dalla nostra
storia”.
C’è un dato che
dovrebbe chiarire in maniera inequivocabile quale sia la giusta lettura di
questa guerra: secondo i dati delle Nazioni Unite, dall’inizio dell’invasione
sono morti almeno 8mila civili ucraini, più di 13 mila sono rimasti feriti, 18
milioni di civili hanno quotidiano bisogno di assistenza umanitaria per
mancanza di acqua ed elettricità e 14 milioni hanno dovuto abbandonare le loro
case. Niente di tutto questo riguarda i civili russi, e tanto dovrebbe bastare
per capire che non ci sono due Paesi in guerra che si combattono reciprocamente
ma un tentativo da parte di una grande potenza militare autoritaria di
annientare un altro Paese.
Nouripour ha
concluso il suo intervento con queste parole: “Certo, alla fine ci sarà un
tavolo delle trattative ma se consideriamo gli ucraini come un soggetto
politico a quel tavolo di fronte alla Russia siederà il presidente
dell’Ucraina, e noi saremo al suo fianco. Non ci potrà essere un accordo fra
grandi potenze che ignori la soggettività dell’Ucraina. Mai più accordi al
prezzo del sacrificio di altri Stati, non dell’Ucraina né di altri. C’è chi
dice che se l’Ucraina smette di combattere si arriverà alla pace. A costoro
dico: non c’è pace sotto l’occupazione russa”. MicroMega 25.2.
Cosa significa la sospensione del trattato New START
Il 21 febbraio, la
Russia ha annunciato la decisione di sospendere la sua partecipazione al
trattato New START, mettendo così a rischio l’ultimo accordo di controllo degli
armamenti nucleari ancora in vigore tra Russia e Stati Uniti. Sospendere la
partecipazione non equivale a un ritiro dal trattato. Mosca ha inoltre
sottolineato che la sua decisione è reversibile.
Il confronto Mosca
– Washington
Già prima di
quest’annuncio, negli ultimi mesi gli Stati Uniti avevano ripetutamente
accusato la Russia di violare le disposizioni del trattato, in particolare il
regime di ispezioni. La Commissione consultiva bilaterale, l’organo di verifica
del trattato, avrebbe dovuto riunirsi lo scorso novembre per discutere la
questione, ma la Russia si è rifiutata di parteciparvi.
Tuttavia, la
Russia ha annunciato che manterrà il suo arsenale nucleare entro i limiti
numerici previsti dal trattato e che continuerà lo scambio di informazioni con
gli Stati Uniti, in particolare il meccanismo di notifica con gli Stati Uniti
dei lanci di missili intercontinentali basati a terra (ICBM) e in mare (SLBM).
Se la Russia mantiene questi suoi impegni, non c’è una vera e propria
violazione del trattato. Si tratta quindi di una mossa politicamente simbolica,
senza immediate implicazioni pratiche.
Allo stesso tempo,
è discutibile che la mossa della Russia sia legale poiché il trattato non
prevede la possibilità di sottrarsi al rispetto di nessuno dei suoi obblighi.
Ciò che è chiaro è che il trattato rimane legalmente vincolante per Mosca, che
non l’ha denunciato e non ha invocato i requisiti di eccezionalità previsti
dalla Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati.
D’altra parte,
Mosca ha lasciato intendere di essere disposta a negoziare un accordo sul
controllo degli armamenti che includa tutte le forze nucleari della Nato,
quindi anche gli arsenali britannici e francesi, ma senza specificare come le
riduzioni di tali arsenali verrebbero conteggiate e verificate.
Che cos’è il New
START?
Il New START è
stato firmato a Praga nel 2010 ed è entrato in vigore l’anno successivo. Il
trattato è inteso come un rinnovo e/o una continuazione del trattato START I
del 19911, scaduto nel 2009, ma riduce ulteriormente i limiti previsti da quest’ultimo.
Il New START
limita a 1.550 le testate nucleari che ciascuno dei due paesi può schierare e
fissa anche limiti quantitativi al numero di missili balistici
intercontinentali a capacità nucleare, ai bombardieri e ai lanciatori
schierati. Il New START prevede un meccanismo di ispezioni (18 ispezioni a
breve termine all’anno) e di notifiche reciproche, nonché incontri regolari per
discutere l’attuazione del trattato.
Lo START I
(Strategic Arms Reduction Treaty) è stato, invece, un trattato bilaterale tra
gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica sulla riduzione e la limitazione delle
armi strategiche offensive. Il trattato è stato firmato il 31 luglio 1991 ed è
entrato in vigore il 5 dicembre 1994. Il trattato vietava ai firmatari di
schierare più di 6 mila testate nucleari e un totale di 1.600 missili balistici
intercontinentali (ICBM) e bombardieri.
Da Trump a Biden:
la strategia Usa
L’amministrazione
Trump aveva criticato il New Start, definendolo un “cattivo accordo”. Il
trattato è stato però rinnovato nel 2021. su sollecitazione
dell’amministrazione Biden. Nell’agosto dello scorso anno la Casa Bianca ha
anche annunciato di voler negoziare un nuovo trattato con la Russia per
un’ulteriore limitazione degli arsenali nucleari. Dopo l’ultima mossa russa questa
prospettiva si è fatta però alquanto remota. Resta il fatto che entrambi i
Paesi hanno finora rispettato i limiti quantitativi stabiliti dal Trattato.
Mosca ha
giustificato la sospensione delle ispezioni con il timore che gli Stati Uniti
forniscano all’Ucraina informazioni ottenute attraverso le ispezioni che le
possano consentire di attaccare gli arsenali nucleari russi. Secondo il
Cremlino, gli Usa hanno inoltre intenzione di riprendere i test nucleari,
un’accusa che non trova però alcun riscontro.
L’annuncio di
Putin è l’ennesima mossa per costringere, attraverso la minaccia nucleare, gli
Stati Uniti e l’Ucraina a negoziare alle sue condizioni. Tuttavia, la
probabilità che la Russia usi le armi nucleari in questo conflitto è bassa.
Potrebbe usarle solo se si trovasse in una situazione disperata. La domanda è
in quali circostanze Mosca potrebbe arrivare a considerare il nucleare l’unica
via d’uscita in caso di nuove sconfitte sul campo.
Nuova corsa agli
armamenti?
Negli ultimi
cinquant’anni, c’è sempre stata una forma di accordo tra Washington e Mosca per
il controllo degli armamenti nucleari. La fine del Trattato New START
determinerebbe una situazione inedita. Tra un paio d’anni potremmo trovarci in
una situazione molto simile a quella degli anni Cinquanta, con le potenze
nucleari intente a modernizzare e potenziare i loro arsenali nucleari senza
alcun controllo. Questo scenario sarebbe caratterizzato da un delicato
equilibrio di tra Stati Uniti, Russia e Cina basato sulla reciproca deterrenza
nucleare.
La crisi del New
START dovrebbe indurre la comunità internazionale a ripensare i processi di
controllo e riduzione degli armamenti. Le future iniziative diplomatiche per il
controllo degli armamenti dovrebbero coinvolgere anche la Cina e mirare anche a
limitare il suo programma nucleare sempre più incontrollabile e pericoloso.
Cosa faranno gli
Stati Uniti di fronte all’annuncio della Russia: si ritireranno dal trattato?
Washington potrebbe scegliere questa opzione se ritenesse che la sospensione
della Russia rende il trattato non più efficace. Questo non significa che
inizierà necessariamente una nuova corsa agli armamenti tra Stati Uniti e
Russia, poiché quest’ultima non è in realtà in grado di sostenere un tale
sforzo finanziario. È più probabile che la Russia continui a rispettare le
limitazioni stabilite dal trattato, anche se non possono essere verificate.
Di certo questo
sviluppo rafforza l’idea che solo la deterrenza nucleare può garantire
l’equilibrio tra le grandi potenze. Ma nel mondo reale non è detto che tutti i
giocatori siano razionali e che in situazioni critiche dispongano di tutte le
informazioni necessarie per prendere decisioni gravide di conseguenze. Manuel
Herrera, AffInt. 2
Migranti, sì a decreto flussi. Meloni: "Non converrà entrare
illegalmente"
La premier a Cutro
dopo il Cdm: "Andremo a cercare gli scafisti in tutto il mondo. Ringrazio
Piantedosi, governo non poteva fare di più". L'invito alle famiglie delle
vittime a Palazzo Chigi
Con il Consiglio
dei ministri a Cutro, "volevamo dare un segnale simbolico e concreto allo
stesso tempo. E' la prima volta che un Cdm si svolge sul luogo in cui si è
consumata una tragedia legata al tema migratorio". A dirlo è la premier
Giorgia Meloni al termine della riunione dei ministri che ha visto
l'approvazione all'unanimità del decreto con disposizioni urgenti in materia di
flussi di ingresso e di prevenzione e contrasto dell'immigrazione irregolare,
contenente la stretta sugli scafisti e nuove norme. La presidente del Consiglio
inviterà nelle prossime ore i familiari delle vittime della tragedia a Palazzo
Chigi.
"La presenza
dell'intero Cdm a Cutro è un modo per ribadire quanto questo governo sia
attento e concentrato su questo dossier", ha rimarcato quindi la
presidente del Consiglio. La presenza del governo a Cutro oggi "è un modo
per esprimere compatti il nostro cordoglio per le vittime della tragedia.
Abbiamo voluto apporre all'ingresso del Comune una targa in memoria delle
vittime perché il ricordo non sia semplicemente un fatto transitorio", ha
inoltre sottolineato Meloni.
Non potevamo"
rispondere alla strage di migranti "senza dare un segnale concreto, perché
noi siamo il governo, il nostro compito è trovare soluzioni ai problemi. Penso
che il modo migliore per onorare le vittime è fare quel che si può fare
affinché non si vadano a ripetere tragedie come queste". Dunque il via
libera a un "dl che affronta la materia per ribadire che siamo determinati
a sconfiggere la tratta di essere umani, trafficanti di vite umane che sono i
responsabili di questa tragedia. La nostra risposta è maggiore fermezza",
ha spiegato.
"Lo dico per
rispondere anche ad alcune ricostruzioni surreali, secondo cui si starebbe
modificando la linea governo. Chi pensa che i fatti" avvenuti a Cutro
possono modificarla "si sbaglia", quanto accaduto è "la conferma
che non c'è politica più responsabile di quella finalizzata a rompere la tratta
e mettere fine alla schiavitù del terzo millennio".
Il decreto
immigrazione varato oggi dal governo, continua Meloni, "prevede un aumento
delle pene per il traffico di migranti e l'introduzione di una nuova
fattispecie di reato relativa a morte o lesioni gravi in conseguenza del
traffico di clandestini, con una pena fino a 30 anni di reclusione nel caso in
cui muoiano persone in una di queste traversate. Il reato verrà perseguito
dall'Italia anche se commesso fuori dai confini nazionali. E' un reato che noi
consideriamo universale".
L'obiettivo del
governo, sottolinea quindi la premier, è "colpire non solamente quei
trafficanti che troviamo su quelle barche ma anche quelli che ci sono dietro.
Questo cambia completamente l'approccio del governo italiano rispetto a quanto
abbiamo visto negli ultimi anni. Andremo a cercare gli scafisti lungo tutto il
globo terracqueo, perché vogliamo rompere questa tratta".
"Un altro
modo per combattere i trafficanti è dare il messaggio che in Italia non
conviene entrare illegalmente, non conviene pagare gli scafisti, non conviene
rischiare di morire", afferma ancora la premier, che continua: "Non
intendiamo replicare l'approccio di quanti hanno lasciato che i trafficanti di
morte agissero indisturbati. Mi stupisce l'atteggiamento di quanti hanno
lanciato strali contro il governo, quando il ministro Piantedosi - che ringrazio
- ha dimostrato che il governo non poteva fare nulla di più e nulla di diverso
per salvare quelle vite, come ha sempre fatto".
"Quelle
stesse persone che hanno attaccato il ministro Piantedosi - va avanti - non
spendono una sola parola contro trafficanti che si fanno pagare fino a 9mila
euro per una barca che alla prima difficoltà è andata in mille pezzi e che
hanno lasciato che una" delle persone a bordo "fosse abbandonata
legata al timone. Io questa tratta la voglio sconfiggere e combattere. E' la
ragione per cui il governo ha varato questo decreto".
Il governo quindi
ripristina "i decreti flussi, che consentono l'ingresso per lavorare di
immigrati regolari" e "che sono stati azzerati perché tutte le quote
erano coperte da chi entrava illegalmente". "Criteri" di
ingresso e "quote saranno su base triennale", ha spiegato la
presidente del Consiglio. Sono previste "corsie preferenziali per gli
stranieri che in patria hanno fatto corsi di formazione riconosciuti dal governo
italiano", ha proseguito Meloni.
"Solidarietà
non è far entrare chiunque arrivi e poi tenerlo ai semafori per pulire i vetri.
Per me solidarietà è dare le stesse possibilità dei cittadini italiani",
ha rimarcato la premier.
"Cutro per me
- ha poi aggiunto - è un punto di passaggio. La materia migratoria oggi è
estremamente complessa. Quel che sta accadendo introno da noi, dalla guerra in
Ucraina al terremoto in Turchia, tutto ci coinvolge e ci stiamo lavorando a 360
gradi. Quello approvato oggi è uno dei provvedimento varati da questo governo,
altri sono stati fatti prima e altri verranno dopo. E' un tema che va
affrontato a livello internazionale e non solo a livelli di bilaterali, e
soprattutto un tema europeo, che diventa ancora più centrale".
"All'indomani
della tragedia - ricorda - io ho scritto una lettera ai vertici europeo, una
lettera che arrivava anche all'indomani di un Consiglio europeo in cui c'p
stato un cambio di passo. Ora io al prossimo Consiglio Ue io chiederò azioni
concreto, l'Italia non può affrontare da sola" l'emergenza, "non può
restare sola. Nelle parole di von der Leyen c'è la conferma di un cambio di
passo, in cui le istanze dell'Italia sono considerate centrali, ma per noi è
fondamentale che dal prossimo Consiglio Ue arrivino atti concreti. Abbiamo impegnato
tutto il governo in questo, ma la nostra volontà è stabilire un principio per
cui non ci mettiamo nelle mani dei trafficanti di vite umane, non accettiamo la
tratta, la schiavitù del terzo millennio".
"Noi - ha
detto ancora - intendiamo fare una campagna di comunicazione nei paesi di
origine per spiegare quanto la realtà sia diversa da quanto raccontato da
questi criminali, e quali sono i rischi che corrono se si mettono nelle mani di
questi trafficanti", prevedendo "quote privilegiate per quei paesi
che ci aiutano" in queste campagne di comunicazione.
"Il tentativo
di uniformare le altre nazioni alla fattispecie del nuovo reato sarà oggetto di
tutti i nostri bilaterali con i paesi in cui questa tratta viene
organizzata", dice quindi la premier, aggiungendo: "Più tu mi aiuti a
combattere la tratta e uniformi la tua giurisdizione alla mia, più io ricambio
lo sforzo con i flussi legali".
CONTESTAZIONE -
All'arrivo del corteo di auto della presidente del Consiglio e dei ministri,
lancio di peluche e contestazione da parte di un gruppo di persone. Altri
cittadini, sistemati a bordo strada, hanno invece applaudito. Ad accogliere
Meloni al palazzo del comune di Cutro il sindaco Antonio Ceraso, il presidente
della regione Calabria Roberto Occhiuto, il presidente della provincia di
Crotone Sergio Ferrari, il prefetto di Crotone Carolina Ippolito e il vescovo
Angelo Panzetta.
LA TARGA SUL
NAUFRAGIO CON LE PAROLE DEL PAPA - Riporta le parole di Papa Francesco contro i
trafficanti la targa che la premier Giorgia Meloni ha svelato oggi nell’atrio
del comune di Cutro e dinanzi alla quale ha deposto una corona di fiori.
"I trafficanti di esseri umani siano fermati, non continuino a disporre
della vita di tanti innocenti! I viaggi della speranza non si trasformino mai
più in viaggi della morte! Le limpide acque del Mediterraneo non siano più
insanguinate da tali drammatici incidenti!", le parole del Papa
pronunciate nell’Angelus di domenica scorsa.
"L’Italia
onora la memoria delle vittime del naufragio del 26 febbraio 2023, si unisce al
dolore delle loro famiglie e dei loro cari. Il governo rinnova il suo massimo
impegno per contrastare la tratta di esseri umani, per tutelare la dignità
delle persone e per salvare le vite umane"’, si legge sulla targa.
Adnkronos 9
Riteniamo che sia
logico formulare delle ipotesi sulla “vita” di questo Esecutivo. Certo è che le
incombenze della Meloni sono parecchie e di difficile concertazione.
Minimizzarlo, sarebbe inutile. Chiaro è che rimangono a rischio quelle riforme
che riteniamo fondamentali per la ripresa d’Italia. Oggi, come ieri, fare delle
critiche è facile; ma sin troppo scontato. L’importante sarebbe, invece,
proporre un programma realizzabile. Quello che proprio non siamo riusciti a
cogliere nel recente passato.
Il Paese, oggi più che mai, ha bisogno di
certezze. A questo punto, come si andrà a evolvere la politica nazionale? Pur
con la “varietà” dei partiti che costruiscono l’Esecutivo, non intravediamo,
per ora, doti di particolari rilievo. Non c’è né il tempo, né la voglia, di
fare delle previsioni. Sono le “interferenze” che ci preoccupano.
Ci siamo resi conto che gli italiani sono
disciplinati quando è indispensabile. Quindi, senza disconoscerne interamente
il passato, dobbiamo convenire che la Penisola ha bisogno di certezze
economiche di sostegno; pur se l’UE è coinvolta, come noi, nella tragedia di un
conflitto vicino. A buon intenditore bastano poche parole: questo Esecutivo
dovrà prenderne atto. Senza condizionamenti e ripensamenti. Esserne
consapevoli, da subito, eviterà amare sorprese per il dopo.
Giorgio Brignola,
de.it.press
Migrazioni: italiani che rischiarono il tutto per tutto
Tutta la nostra
storia è piena di italiani che se ne andarono dalle nostre terre - di Gian
Antonio Stella
Valli a capire, i
nostri nonni emigrati. Sostiene oggi Matteo Piantedosi, il ministro degli
interni, che «la disperazione non può mai giustificare condizioni di viaggio
che mettono in pericolo la vita dei propri figli». Ma tutta la nostra storia è
piena di italiani che se ne andarono dalle nostre terre rischiando il tutto per
tutto. «Angela Vitale maritata Di Rosa, da Canicattì, era rimasta sola con sei
bimbi, mentre il marito, espatriato clandestinamente, aveva trovato lavoro in
Francia» e lì, raccontava una copertina della Domenica del Corriere del
dicembre 1947, aveva cercato di raggiungerlo, «valicando le Alpi a piedi. A
questo scopo si era messa in viaggio dalla lontana Sicilia con i suoi sei
bambini. Avventuratasi su per le montagne del Piemonte, in compagnia di
viandanti trovati cammin facendo, priva di equipaggiamento da montagna e di
viveri sufficienti, la povera donna si è trovata al cader della notte in mezzo
alla bufera in alta montagna e, mentre i due sconosciuti proseguivano la strada
verso la Francia, la poveretta rimaneva sola con i suoi piccoli che le si
stringevano attorno per ripararsi dal gelo. Verso l’alba veniva rinvenuta da un
contrabbandiere che pensava a chiamare aiuti. Ma oramai uno dei suoi bambini
era morto assiderato».
E tutti gli altri
italiani morti sulle «navi di Lazzaro» infestate dalle malattie (96 decessi per
colera sul solo piroscafo Remo respinto dal Brasile) o negli innumerevoli
naufragi come quello nel 1906 del vapore Sirio diretto in Sudamerica, oltre 500
vittime nell’urto contro lo scoglio di Capo Palos, in Spagna, tra i quali sei
figli e la moglie incinta di Felice Serafini che scappavano da un Veneto
poverissimo? Tutti sconsiderati? E quanti furono i poveretti che partirono
dall’ Irpinia o magari proprio dalla contrada Piantedosi da dove sarebbe
originario il titolare del Viminale? Denunciò allora la commissione d’inchiesta
parlamentare guidata da Stefano Jacini che lì non c’era lavoro, «la miseria e
la fame erano un po’ per tutti», le case erano «poco luminose, poco aerate ed
anguste; scarse le masserizie e tutto affumicato e lurido, e spesso nelle ore
della notte tale abituro è diviso fraternamente coi polli e col maiale…» Cosa
dovevano fare, i poveretti: aspettare, come suggerisce oggi il ministro,
«politiche responsabili e solidali degli Stati ad offrire la via di uscita al
loro dramma»? CdS
Le ragioni dell’accoglienza: un’emergenza mondiale?
I dati offerti
dalle Istituzioni internazionali che operano nel contesto della mobilità umana,
con particolare riferimento alle situazioni di emergenza collegate a tale
fenomeno, mostrano come l’accoglienza deve confrontarsi con l’impatto di
esigenze, fatti e realtà che costituiscono la principale causa degli
spostamenti di popolazione, sia per motivi volontari che involontari
I dati offerti
dalle Istituzioni internazionali che operano nel contesto della mobilità umana,
con particolare riferimento alle situazioni di emergenza collegate a tale
fenomeno, mostrano come l’accoglienza deve confrontarsi con l’impatto di
esigenze, fatti e realtà che costituiscono la principale causa degli
spostamenti di popolazione, sia per motivi volontari che involontari.
Se nei motivi
volontari si stimano come prevalenti l’insufficienza dei mezzi di sussistenza,
le condizioni di vita, il ricongiungimento con precedenti immigrazione, come
pure la ricerca di migliori opportunità educative e di formazione, tra le cause
che involontariamente spingono a lasciare la propria terra, spiccano certamente
il conflitto, l’instabilità politica, la violenza e la persecuzione,
accompagnati dalle calamità naturali oggi sempre più collegate alla questione
ecologica ed ambientale. Non mancano poi le situazioni di violenza collegate a
fenomeni di sfruttamento, di tratta clandestina o di tratta di esseri umani che
giunge fino a strutturare forme di lavoro forzato.
Le dinamiche di
crescita della popolazione mondiale, tra tassi di fertilità e aspettative di
vita, sono ulteriore fattori di preoccupazione e certamente elementi da
considerare per proporre una lettura organica e strutturata, ma soprattutto
rinnovata, della accoglienza.
La domanda è se
possano ancora essere erette barriere o se l’accumulo di regole poste a
regolare i flussi di ingressi sia sufficiente a far parlare di coerente
accoglienza. Sembra infatti che nonostante gli sforzi sia ancora lontana l’idea
di includere nelle politiche e nelle attività di accoglienza ogni elemento che
possa consentire la previsione di situazioni non ordinariamente previsti e la
conseguente operatività. Basti pensare alla diversa qualificazione attribuita a
chi giunge o bussa alle porte di altri Paesi, con i termini immigrato,
esiliato, richiedenti asilo, rifugiato, migrante, turista, studente… che richiedono
necessariamente un diverso modo o approccio da parte delle Istituzioni sia per
i profili più direttamente legali che per quelli di inclusione sociale, dal
momento che ad ogni termine corrisponde diversità di significato e di
trattamento.
Ordine pubblico,
diversità culturale, differente religione non possono porsi come ostacolo, né
l’accoglienza può essere subordinata alla perdita della credibilità umanitaria
che le regole internazionali hanno elaborato come fattore essenziale per
garantire la tutela della persona in ogni situazione. Parimenti ha la sua forza
il criterio di vulnerabilità che significa individuare i bisogni specifici
dell’accoglienza, che si pone così anche come uno dei criteri su cui fondare i
diritti umani. Questo apre diverse sfide non solo in termini di sicurezza o di
risorse, ma di linea politica più generale, come mostra l’evoluzione del
diritto di asilo e l’attenzione ad esso rivolta (oggi nel contesto europeo
trova, per la prima volta, l’attenzione dalla recente iniziativa dei cittadini
dell’Ue per la raccolta di un milione di firme con cui chiedere provvedimenti
nuovi da parte dell’Ue).
Dall’accoglienza
va eliminato, almeno attenuandone il rischio, ogni orientamento
discriminatorio, quello di un’accoglienza selettiva o quello della dualità di
approccio da parte delle politiche e dei trattamenti riservati a chi lascia il
proprio Paese approda in altri Stati.
Costruire
l’accoglienza diventa il modo per favorire la resilienza di chi si muove, e di
garantirgli i bisogni specifici. Sul terreno questo significa monitorare il
percorso della mobilità, la dimensione della resilienza, la tipologia di
sostegno evitando irrigidimenti e soprattutto l’assenza di governance (che è
poi la questione essenziale).
La mobilità umana
infatti e fenomeno che va governato in termini di continuità, strutturazione e
ordinarietà e non più vista come forma di emergenza da affrontare con attività
emergenziali.
In questo quadro
l’accoglienza diventa il passaggio dalla compassione alla cura. Vincenzo
Buonomo, Sir 7
In politica
ciascuno è libero d’avere un su modo di pensare. Con questo prologo, non ci
sono limiti nell’elaborare previsioni sugli sviluppi socio/economici della
realtà italiana. Dato che, però, nessuno è ”perfetto”, non è detto che le
nostre argomentazioni siano più valide di quelle d’altri.
Ciò che, da subito, abbiamo fatto nostra è una
forma di logica informativa; lasciando agli opinionisti il compito di
commentarla. Quindi, uno stesso evento può apparire con diversi profili.
Dipende, principalmente, da com’è affrontato. Da tanti anni ci siamo
organizzati per offrire spunti di meditazione e fare nostre proposte
d’interesse per i Lettori “altrove”.
Chi legge è libero di farsi una sua opinione e
confrontarla, se del caso, con quella d’altri. Del resto, non è detto che
“informazione” e “opinione” non siano in grado d’essere frutto di una stessa
penna. Basta evitare, e questo è più difficile, d’essere di parte. Giorgio
Brignola, de.it.press
Ismu: presentato il Rapporto 2022. Oltre 6 milioni gli stranieri in Italia
Milano –
Poco più di sei milioni gli stranieri presenti in Italia, al 1 gennaio
2022: 88mila in più dell’anno precendente. E’ la stima di Fondazione ISMU ETS
che questa mattina ha presentato il rapporto 2022. Il bilancio
demografico mostra quindi una moderata ripresa della crescita della popolazione
straniera in Italia, evidenza l’Ismu. Diminuisce invece la componente
irregolare, che si attesta sulle 506mila unità, contro le 519mila dell’anno
precedente (-2,5%). Il calo degli irregolari è dovuto principalmente
all’avanzamento delle pratiche relative alla sanatoria 2020. Il 2021
segna un significativo aumento di nuovi permessi di soggiorno (circa 242mila,
+127% rispetto all’anno precedente). Sul fronte lavorativo, nel 2021 assistiamo
a una crescita sia del tasso di attività degli stranieri sia del tasso di
occupazione. Non migliorano invece i dati sulla povertà: nel 2021 quella
assoluta interessa il 30,6% delle famiglie di soli stranieri, quasi quattro
punti percentuali in più rispetto al dato rilevato nel 2020. Inoltre si osserva
che l’alta incidenza di famiglie immigrate in condizioni di povertà assoluta e
relativa, anche tra gli stranieri regolarmente occupati, è la spia del
diffondersi del lavoro “povero”, non più in grado di generare integrazione, ma
che anzi produce disagio sociale. Le numerose criticità che
caratterizzano il mercato del lavoro degli immigrati evidenziano la necessità
di una nuova governance dei processi migratori e di inclusione. Sul fronte
scolastico, nell’anno 2020/2021, per la prima volta da circa 40 anni si
registra una diminuzione del numero degli alunni con background migratorio
(sono circa 865mila, con una flessione di 11.413 rispetto al precedente anno
scolastico). Si segnala inoltre che i nati in Italia rappresentano il 66,7%
degli alunni con cittadinanza non italiana.
Per quanto
riguarda le confessioni religiose, ISMU stima che al 1° luglio 2022 i cristiani
nel loro complesso rappresentino la maggioranza assoluta (53,1%) tra gli
stranieri residenti in Italia, con una presenza di immigrati cattolici che si
attesta al 17,1% (i musulmani sono il 29,4%).
Alla
presentazione, realizzata in collaborazione con Fondazione Cariplo e moderata
dalla giornalista del Corriere della Sera, Marta Serafini, hanno partecipato
Franco Anelli, Rettore Università Cattolica del Sacro Cuore; Valeria Negrini,
Vicepresidente Fondazione Cariplo; Gian Carlo Blangiardo, Presidente Fondazione
ISMU; Vincenzo Cesareo, Segretario Generale Fondazione ISMU; Livia Elisa
Ortensi, Responsabile Settore Statistica Fondazione ISMU; Marcello Flores,
Storico. A chiusura del convegno la tavola rotonda su “Migrazioni, donne
e libertà” con gli interventi di Samirà Ardalani, Rappresentante Associazione
Giovani Iraniani Residenti in Italia; Laura Silvia Battaglia, Direttore Testate
Scuola di giornalismo Università Cattolica del Sacro Cuore; Yaryna Grusha
Possamai, Scrittrice e docente di Lingua e Letteratura ucraina Università
Statale di Milano; Mariagrazia Santagati, Responsabile Settore Educazione
ISMU e docente Università Cattolica del Sacro Cuore.
Nel corso del
convegno è assegnato il riconoscimento Fondazione CARIPLO – Fondazione ISMU ETS
2023 a Pinda Kida, stilista di origini maliane e testimonial dell’Associazione
Italiana Sclerosi Multipla, che presenta la sua nuova collezione di abiti
femminili, “per il suo impegno nel contrastare il razzismo, la xenofobia e le
discriminazioni multiple attraverso la sua creatività e il suo lavoro”. Mig.on.1
ROMA –
“Nell’ultima legge di bilancio, il Governo ha ridotto i fondi per il
funzionamento dei Comites (Comitati per gli Italiani all’estero), a oggi ben
118 funzionanti in tutto il mondo, da 2.248.138 euro del 2022 a 1.248.138 del
2023, una riduzione di quasi il 50% che rappresenta una dotazione di poco più
di 10000 euro per Comites per il 2023, appena sufficienti a garantire il
funzionamento ordinario. Con questa riduzione si impedisce di fatto ai Comites
di svolgere il compito di antenna sul territorio per la tutela e l’integrazione
dei connazionali, la promozione della lingua e cultura italiana, e del Made in
Italy, portando a un grande impoverimento dei mezzi a disposizione delle
comunità italiane all’estero”. Così, in una nota, i deputati del Pd Di
Sanzo, Porta, Ricciardi e Carè (eletti nella circoscrizione Estero).
I
deputati segnalano anche che “il Governo ha tagliato i fondi per il
funzionamento del CGIE da 1.107.500 a 607.500, un taglio di quasi il 50%
considerevole anche in previsione che il CGIE, eletto ad aprile scorso non si è
ancora insediato e avrà bisogno, quest’anno, di un’ulteriore Assemblea generale
in presenza per eleggere e far funzionare gli organi interni”. Di Sanzo, Porta,
Ricciardi, Carè fanno presente che il ritardo dell’Esecutivo nella procedura di
designazione dei rappresentanti di nomina governativa “sta paralizzando il
CGIE che dalle elezioni dello scorso aprile non è ancora stato in grado di
insediarsi e funzionare”.
Pertanto, in
occasione del voto sul provvedimento Milleproroghe, “abbiamo presentato un
Ordine del Giorno, a prima firma Christian Di Sanzo, chiedendo al Governo di
prevedere, nei prossimi provvedimenti, l’integrazione finanziaria necessaria a
garantire il normale e corretto funzionamento di questi organismi di
rappresentanza degli italiani all’estero, impegno che il Governo ha deciso di
non prendere esprimendo un parere contrario alla Camera”
I deputati del Pd
sottolineano la necessità “di assicurare il funzionamento di Comites e CGIE,
con un congruo finanziamento di queste strutture”, anche in considerazione del
fatto che questi organismi sono stati profondamente rinnovati con le ultime
elezioni, “rinnovamento visibile – aggiungono – nel grande attivismo di tanti
nuovi Comites eletti e che necessita di essere adeguatamente finanziato
affinché i Comites possano organizzare attività per le nostre comunità”.
“Siamo
profondamente preoccupati di come questo Governo si stia ponendo verso i
Comites ed il CGIE. Crediamo – concludono Di Sanzo, Porta, Ricciardi, Carè –
che sia necessario un serio ripensamento e lavorare tutti insieme per la grande
e bella comunità italiana nel mondo”. Dip 7
L’attuale fragilità sociale dovrà, pur col
tempo, essere sostituita col varo di nuovi programmi anche per ridurre la
fragilità di un sistema che non avrebbe più ragione d’esistere senza
sostanziali mutamenti. La ripresa che immaginiamo dovrà puntellarsi su fattori
di grande carisma economico. Dalla sanità, dall’occupazione e dal varo di un
piano finanziario capace di sostenere gli obiettivi prioritari di una penisola
che vuole riemergere da una situazione che non consente di fare programmi solo
teorici. Ci saranno dei beni comuni da potenziare; a discapito di quelli
personali che dovranno essere ridimensionati. L’Italia dovrebbe essere al
centro d’iniziative capaci d’ampliare l’immagine di bene comune.
La Ricostituire una società del “rinnovamento”
non sarà facile. Le difficoltà potranno essere superate dall’impegno di tutti
nel seguire una strada condivisa. Le trasformazioni socio/economiche hanno
sempre avuto un loro prezzo che anche noi saremo chiamati a pagare. La lezione
della Pandemia e la volontà di riscatto nazionale dovranno fornirci la volontà
per superare le incertezze, le politiche ambigue e chi, tutto considerato, non
ha ancora le idee chiare sul futuro nazionale. Il rilancio dell’Italia
chiederà, indubbiamente, sacrifici. Questa volta, però, non saranno a fondo
perduto come, invece, è stato per il passato.
Giorgio Brignola,
de.it.press
Naufragio migranti a Crotone. Procura apre inchiesta su macchina soccorsi
La Procura di
Crotone vuole vederci chiaro sulla catena della macchina dei soccorsi nella
notte tra il sabato e la domenica mattina quando l'imbarcazione con a bordo
almeno 180 migranti è naufragata e per questo motivo, come apprende
l'Adnkronos, ha aperto un fascicolo, al momento contro ignoti. La delega è
stata data dal Procuratore Giuseppe Capoccia ai Carabinieri che stanno
raccogliendo del materiale sul 'buco' di almeno sei ore, tra le 22.30 di sabato
25 febbraio, quando l'aereo di Frontex ha emesso il dispaccio con cui segnalava
la presenza di una imbarcazione nello Ionio per ora non è stata ipotizzata
alcuna ipotesi di reato ma si cerca di fare luce su eventuali omissioni di
soccorso.
E ieri, il
Comandante della Capitaneria di Porto di Crotone, Vittorio Aloi, parlando con i
giornalisti che gli chiedevano se sono stati sentiti dalla Procura crotonese ha
replicati: "Saremo sentiti e ci farà piacere chiarire, chiariremo a chi
dovere quando ce lo chiederanno". E alla domanda sul perché non abbiano
agito nonostante la segnalazione della sera prima, il sabato 25 febbraio, di
una imbarcazione 'distress', cioè in pericolo, nello Ionio, replica: "Non
mi risulta che si trattasse di una segnalazione di distress, sapete che le
operazioni le conduce la Guardia di finanza finché non diventano comunicazione
di Sar (di salvataggio ndr). Io non ho ricevuto alcuna segnalazione".
Sul rimpallo di
responsabilità, il capitano di vascello dice: "Non posso dire nulla, la
Guardia costiera ha fatto un comunicato stampa e c'è scritto tutto e bene e lo
capiamo tutti. C'è una inchiesta della Procura che non riguarda noi. Se e
quando saremo chiamati a dare la nostra versione atti alla mano, brogliacci
etc, noi riferiremo". E poi ricorda che quel giorno "c'era mare forza
4". "Le motovedette avrebbero potuto navigare anche con mare forza
8". Ma oggi c'è stata una svolta con l'apertura di un fascicolo della
Procura anche sulla macchina dei soccorsi.
E' stato un
tragico errore di valutazione? O un intervento ipotizzato troppo tardi? Sono
alcune delle domande che si stanno facendo gli inquirenti che hanno aperto il
fascicolo. Il Centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo,
l'Imrcc, è stato informato prima da Frontex della presenza del barcone
individuato a 40 miglia dalle coste calabresi e poi dalla Guardia di finanza.
Ma l'evento Sar, cioè ricerca e soccorso, non è stato mai aperto.
Ieri sera, da
Vespa, il capo della Comunicazione della Guardia costiera, Cosimo NIcastro, ha
rotto il silenzio e ha detto: "È stata una tragedia non prevedibile alla
luce delle informazioni che pervenivano. Gli elementi di cui eravamo a
conoscenza noi e la Guardia di Finanza non facevano presupporre che ci fosse
una situazione di pericolo per gli occupanti. Non erano arrivate segnalazioni
telefoniche né da bordo né dai familiari". La segnalazione di Frontex
"è stata trasmessa all’International coordination center, che è il punto
di contatto non per le operazioni di ricerca e soccorso ma per le operazioni di
polizia in mare". ha spiegato anche che quando le motovedette della
Finanza sono rientrate in porto c'è un contatto via radio tra la Capitaneria di
Porto di Reggio Calabria e la Guardia di Finanza. E "non vengono segnalate
situazioni critiche che facciano pensare che l’operazione di polizia si stia
trasformando in un’operazione di emergenza". Ma "la Guardia Costiera
incomincia ad attivare tutta la sua catena affinché fosse predisposto il
dispositivo Sar".
La Procura di
Crotone, guidata da Capoccia, sta cercando ci capire se quella notte ci siano
state delle omissioni di soccorso. Al momento non c'è ancora una ipotesi di
reato. Ma i Carabinieri stanno raccogliendo delle informazioni, delegando i
Carabinieri di Crotone che indagano su quella notte.
Ecco cosa accadde
quella notte: sono le 22.30 quando un aereo Frontex, l’Agenzia europea della
Guardia di frontiera e costiera, segnala la presenza di un barcone a 40 miglia
dalle coste crotonesi e indica le coordinate. Fa anche sapere che a bordo c’è
un telefono cellulare turco. Dunque, è ipotizzabile che si tratti di una
imbarcazione di migranti. Poco dopo la mezzanotte partono due mezzi della
Guardia d finanza, la V5006 da Crotone e il pattugliatore Barabrese da Taranto.
Ma il mare è troppo agitato, forza 5 a tratti forza 6, e le motovedette delle
Fiamme gialle rientrano. Le loro imbarcazioni non sono destinate ai salvataggi,
ma da ‘intercettazione’, dunque non sono equipaggiate adeguatamente. Verso le
due un nuovo tentativo, anche questa vano. Mentre fino a quel momento le
motovedette della Guardia costiera rimangono al porto.
Alle 4.10 arriva
al 112 una telefonata da un numero internazionale, in inglese. La chiamata,
presa dal vicebrigadiere Lorenzo Nicoletta, arriva dalla imbarcazione che si
trova a meno di centro metri dalla costa di Steccato di Cutro (Crotone). Sul
posto arrivano i Carabinieri del Nucleo Radiomobile, capiscono immediatamente
la gravità del fatto. Il vicebrigadiere Gianrocco Tievoli e il carabiniere
Gioacchino Fazio si gettano in acqua in divisa e riescono a salvare cinque
migranti. Ma davanti ai loro occhi ci sono corpi ovunque. Anche di un neonato
di sei mesi. “L’ho preso in braccio sperando che fosse ancora vivo”, dice
Tievoli con un filo di voce. Invece il piccolo era già morto. Come la coppia di
gemellini. E tante altre vittime innocenti, tra cui un bimbo siriano di sei
anni morto per ipotermia mentre il fratello ventenne si è salvato e ora è sotto
choc. Adesso sarà la Procura a fare luce su quanto successo quella notte.
Elvira Terranova, Adnkronos 3
Autonomia differenziata: rischi e vantaggi
All’inizio del
mese di febbraio è riemerso il grande tema dell’autonomia differenziata
che, invece di unire le diversità nell’unità dello Stato, sta dividendo il
Paese. Eppure, la Costituzione prevede che lo Stato possa attribuire alle
Regioni ordinarie maggiore autonomia su alcune materie legislative. Il
Parlamento, infatti, può trasferire la competenza legislativa su temi specifici
alle Regioni attraverso un’intesa. Oggetto dell’autonomia è la competenza
legislativa che diventa esclusiva per la Regione e non è concorrente (ex art.
117 Cost.).
È noto che
Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto, all’inizio del 2018, avevano sottoscritto
con il Governo tre accordi preliminari. Poco tempo dopo, anche Piemonte,
Liguria, Toscana, Umbria, Marche e Campania avevano chiesto al Governo lo
stesso trattamento. Nel corso del 2019 il procedimento s’è poi arenato davanti
a un ostacolo: la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni per
garantire lo stesso trattamento ai cittadini italiani rispetto alle prestazioni
pubbliche in diversi territori della Repubblica.
Così dopo
l’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri, il disegno di legge
sull’autonomia differenziata è destinato a un duro percorso prima della sua
attuazione: il ministro Calderoli prevede per fine anno, dopo l’analisi del
Governo e del Parlamento, della Conferenza unificata e delle Regioni.
Da una parte
l’autonomia territoriale ben temperata valorizza i territori secondo il
principio di sussidiarietà, dall’altra troviamo il potere-dovere dello Stato di
garantire in ogni parte del Paese i diritti basilari dei cittadini, secondo i
princìpi di equità e di uguaglianza sostanziale. La partita vera si gioca sul
modello di contabilità pubblica che l’autonomia differenziata capovolge.
Attualmente le tasse dei cittadini le gestisce lo Stato centrale, che le
ridistribuisce ai territori rispettando dei parametri di equità e solidarietà
tra le Regioni. L’autonomia differenziata, invece, permetterebbe alle Regioni
di gestire la maggior parte del denaro pubblico che si raccoglie nella Regione
e di cederne allo Stato centrale ciò che avanza. Questo modello potrebbe
portare a formare uno Stato nello Stato l’area geografica formata da
Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia, Trentino-Alto Adige, Friuli e Valle
d’Aosta.
La scelta voluta
dalla Lega non ha entusiasmato FdI ed è stata criticata anche da
economisti e sociologi. Gli studiosi ne contestano sia gli aspetti tecnici, sia
i possibili effetti sociali in grado di aumentare le disuguaglianze
inter-regionali col rischio di dividere in due il Paese, in cui le Regioni
Calabria, Basilicata, Molise, Abruzzo, Lazio, Liguria diventerebbero al traino
delle Regioni del Nord.
Non mancano gli
osservatori che si chiedono se sia giusto scommettere sull’autonomia
differenziata in tempo di inflazione, crisi economica, pandemia, problematica
gestione dell’immigrazione e della guerra in Europa. È maturo il tempo per
giustificare venti centri decisionali che scelgono autonomamente di regolare
materie come
il commercio, il lavoro, la scuola, la sanità, il trasporto, la protezione
civile...? Sia la Costituzione, sia il disegno di legge del Governo,
ribadiscono la
necessità
che l’autonomia differenziata delle Regioni avvenga in un ecosistema di
garanzie minime di diritti e prestazioni economiche equivalenti. Tuttavia,
autonomia non significa maggiore sviluppo ma maggiore responsabilità, che può
essere esercitata nel rapporto tra maggioranze di governo statale e regionale.
Ci chiediamo: occorre investire su un policentrismo regionale o su un’autonomia
nazionale che rafforzi Bruxelles?
La risposta
non può essere data solo dai politici. Francesco Occhetta
Vita Past. marzo
Siamo solo a marzo del nuovo anno la nostra
percezione sul futuro nazionale s’è aggravata. I problemi d’Italia si sono
ampliati e accelerati. Il numero dei senza lavoro è aumentato e chi tuttora
svolge un’attività, non riesce più, nella maggioranza dei casi, a fronteggiare
i tanti, troppi, impegni quotidiani. La fiducia nell’Italia “sociale” è calata
e recuperare il terreno perduto appare arduo.
. Non siamo
economisti, né saremmo in grado d’improvvisarci tali. Però, qualche conto è
presto fatto. Se il carico fiscale serve
per non bloccare la mastodontica macchina dello Stato, che prende molto e
restituisce poco, bisognerebbe anche rivedere alcuni parametri necessari per
garantire una liquidità che proprio manca. Perseguire l’evasione fiscale è una
delle strade da perfezionare, ma non è la sola.
L’imponibile
tassabile dovrebbe essere modificato. In pratica, si dovrebbe facilitare le
prospettive di vita di chi è costretto a tirare avanti con poco più d’Euro 900
il mese o, purtroppo, anche con meno. Stesso ragionamento per quanto attiene i
canoni di locazione a uso abitativo. Dato che aumenta il numero degli inquilini
che non riescono più a tener fede ai loro impegni contrattuali, gli affitti
registrati dovrebbero essere detraibili ai fini fiscali dall’inquilino e
tassati solo al 20% per il locatore.
Per far fronte
alle esigenze alimentari, si potrebbe “riscoprire” una tessera sociale (a
scalare) per un importo annuo di 1000 Euro. Poco più di 80 Euro al mese per
nucleo familiare di “base” (moglie e marito). Sempre per redditi sino a 15.000
Euro (al lordo delle trattenute previdenziali). Giorgio Brignola, de.it.press
Nuove fonti di energia: un salto nel vuoto?
“Fit for 55” il
nuovo piano europeo alla riduzione delle emissioni CO2
Quello che ci pare
preoccupante nel grandioso piano europeo riguardante la politica energetica,
piano col nome di sapore smaccatamente propagandistico „Fit for 55“, è che vi
si disquisisce accanitamente sul come limitare la spesa di energia, ma non si
dice quasi nulla su come procurarsene delle fonti alternative. Niente più
benzina, né carbone, né gas, né uranio, cosa ci resta? Le fonti rinnovabili: le
centrali eoliche (che non producono energia quando c’è bonaccia), quelle
fotovoltaiche (che non producono energia di notte), a cui si dovrebberero
aggiungere pure quelle idroelettriche (che non producono energia quando c’è la
siccità). Ultimamente ci è giunta la notizia che Greta Thunberg sta facendo il
diavolo a quattro affinché venga rasa al suolo una centrale eolica in Norvegia
peché sembra che disturbi gli allevatori di alci. Si dà il caso che questa
centrale eolica sia parte integrante del programma europeo per le energie
alternative.
Si consideri che
non solo esse sono insufficienti a coprire l’attuale fabbisogno di elettricità,
ma che detto fabbisogno aumenterà drasticamente quando verranno imposte sul
mercato le auto elettriche. Ve lo immaginate il sovraccarico delle reti
elettriche quando tutti partono per le vacanze? Naturalmente a Bruxelles hanno
„previsto“ la creazione di numerosi distributori di corrente lungo gli
itinerari principali: ma chi avrebbe interesse a costruirli? Ed anche se entro
il 2035 si riuscisse ad averne altrettanti a disposizione quanti sono oggi i
benzinai, poiché la ricarica più veloce dura non meno di quattro ore 4, ci si
può immaginare le enormi code che si formerebbero. Oggi, se davanti a te c‘è un
paio di veicoli a fare rifornimento, aspetti una decina di minuti; nel roseo
futuro dell‘EU potresti aspettare una decina di ore. Se i partiti che oggi
hanno la maggioranza al parlamento si fossero presentati alle elezioni con
siffatti programmi, il risultato sarebbe stato tutto diverso.
No, i conti non
tornano
Naturalmente è
vero che l‘abbandono dei motori a combustione è una necessità obiettiva, perché
le risorse mondiali degli idrocarburi, per quanto grandi possano essere, sono
fatalmente destinate a finire, prima o poi. E questo avverrà indipendentemente
dal fatto che si voglia credere al cambiamento climatico oppure no. Ma quando
si parla di un cambiamento, si deve trattare sempre di qualcosa che cambia in
funzione di qualcos’altro. E quando ci mettiamo in cerca di fonti alternative di
energia, ci viene da metterci le mani nei capelli.
Infatti, benché le
fonti rinnovabili costituiscano sicuramente una tecnologia molto pregevole,
comunque la si rigiri, non potranno mai essere esclusive, come le vorrebbero i
verdi, ma sarà necessario sostenerle con una tecnologia complementare che ci
assicuri una fornitura di base indipendente dai capricci metereologici e dai
ritmi circadiani. Questa tecnologia complementare potrebbe essere quella
nucleare così bene sviluppata in Francia ma che in Germania è molto malvista.
La soluzione ideale sarebbe la fusione termonucleare, ma questa possibilità,
derivata dalla tecnologia della bomba all’idrogeno, dopo numerosi decenni di
studi ed esperimenti, manca ancora di un eureka risolutivo. Un eureka
autentico: infatti il successo annunciato della fusione laser ottenuta in un
laboratorio americano (National Ignition Facility) del dicembre scorso era
basato solo su dei trucchi di calcolo fra l’energia sviluppata nell’apparecchio
e quella realmente consumata dall’intero impianto che era necessario al
funzionamento del medesimo apparecchio. In un articolo apparso nel gennaio
scorso sul mensile tedesco Spektrum der Wissenschaft (equivalente allo
Scientific American) viene presentata la ditta Gauss Fusion GmbHb di proprietà
del multimiliardario Frank Laukien.
L‘articolo è
completato da una lunga intervista con lo stesso Lauren in cui egli si dichiara
sicuro che entro il 2045 la prima centrale termonucleare costruita da loro
dovrebbe entrare in funzione e produrre energia a più non posso. Ai molti
scettici egli risponde che l’Europa dispone della tecnologia più avanzata in
questo campo e che tutti i ritardi nello sviluppo dei progetti multinazionali,
come ITER, dipendono più che altro da intralci burocratici e politici anziché
tecnici. „Adesso è cominciata una fase di concorrenza delle nazioni riguardo
alla fusione termonucleare, cioè dal nostro punto di vista Cina, Corea,
Giappone ed anche gli USA. Quasi che tutta questa concorrenza fosse una
garanzia di successo. Per secoli le più importanti nazioni marinare europee si
sono fatte concorrenza per trovare un passaggio a nord-ovest, e ciò malgrado
non l‘hanno trovato. Comunque sia, è un dato di fatto che a tutt‘oggi non si è
ancora trovato né un sistema efficiente per produrre energia termonucleare né
per trasformarla, una volta ottenuta, in energia elettrica.
Nel pacchetto „Fit
for 55“ ci sono diversi provvedimenti draconiani che hanno mandato in visibilio
i verdi: ad esempio Oliver Krischer e Lisa Badum hanno dichiarato che questo è
un cambiamento in direzione di fare dellEuropa la prima area economica
climaticamente sostenibile, mentre altri politici hanno invece previsto che in
quell’area l’Europa non avrà più nulla da commercializzare.
IL VIK (Verband
der Industriellen Energie- und Kraftwirtschaft) ha fatto notare che i
provvedimenti punitivi per tutti i procedimenti industriali che sviluppano un
surplus di CO2 rispetto ai limiti imposti entro l’EU alla fine possono
svantaggiare solo i prodotti europei nella concorrenza internazionale, dato che
il resto del mondo (USA, Cina, India, ecc.) non è così pretenzioso in materia
di questioni climatiche come la Commissione Europea. Si noti che gran parte
della bilancia commerciale europea è data dall’esportazione, ma nello stesso tempo
le industrie europee per funzionare devono importare prodotti dall’estero che
non rispettano gli alti standard del pacchetto „fit for 55“. È ormai deciso che
a partire dal 2035 non saranno più immatricolate nell’EU auto col motore a
combustione, benché alcuni temano, ed altri sperino che, se nelle prossime
elezioni europee del 2024 la maggioranza parlamentare si spostasse decisamente
verso destra, la scadenza potrebbe venire procrastinata, se non rimandata alle
calende greche.
Naturalmente la
Commissione Europea non potrà impedire che in Cina, in India e negli Stati
Uniti si continui tranquillamente a vendere auto col motore a combustione anche
dopo il 2035 e che le loro industrie continuino a produrre alla barba agli
standard europei; però i loro prodotti – proprio per questo motivo – non
potranno più venire importati nell‘EU. Il problema è solo addossato sulle
spalle delle industrie europee che per la loro produzione hanno bisogno proprio
di quei prodotti. Cosa faranno, da Bruxelles manderanno ispettori in Cina a
controllare se le loro industrie si sottomettono al diktat ecologico?
Un punto
particolarmente dolente riguarda l’efficienza termica degli edifici. A partire
dal 2030 tutti i nuovi edifici dovranno venire costruiti in rispetto alle
normative sulla neutralità climatica. E quelli vecchi dovranno venire adattati
dai proprietari a loro spese (che poi verranno trasferite agli eventuali
affittuari): per questo la scadenza è il 2050. Senonché la Commissione Europea
ha pubblicato una nuova parte del pacchetto dalla quale si evince che tutti gli
edifici già costruiti -anche da secoli- sul continente europeo, da Lisbona a
Tallin, da Stoccolma a Palermo, dovranno realizzare almeno una parte degli
adattamenti previsti dalle normative entro il 2030.
Come mai questo
meraviglioso pacchetto non contiene alcuna stima, anche approssimata al
ribasso, di quanto tutto questo verrebbe a costare?
Eppure ogni
politico serio è tenuto a calcolare i costi delle sue proposte legislative.
Invece gli aspetti burocratici sono ben presi in considerazione: a questo scopo
verrà introdotto un nuovo documento ufficiale, una specie di passaporto di
efficenza energetica per ogni edificio che ne testimoni la legittimità
ecolologica. Questo al limite potrebbe trasformarsi in una espropriazione
strisciante della parte più povera della popolazione, che vive nella propria
casetta avita, ma non dispone di fondi per soddisfare alle pretese di Bruxelles
e forse sarà costretta a farseli prestare a condizioni dalle banche o dagli
usurai, che assieme ai verdi, saranno d’accordissimo sulle alte mete
ambientali.
Guglielmo Ciani,
CdI marzo
La grande
caratteristica che abbiamo come specie vivente è proprio il fatto di inventare.
Quando settantamila anni fa abbiamo iniziato a colonizzare il pianeta, abbiamo
fatto qualcosa di diverso da ogni altra specie animale: siamo stati in grado di
adattarci a qualsiasi condizione, grazie alla nostra inventiva. Pensiamo, per
esempio, ai mammut nella steppa siberiana: quando si sono spostati a Sud hanno
dovuto aspettare una mutazione genetica in elefante per essere in grado di
sopravvivere a quelle latitudini. Noi no, non abbiamo aspettato che nascesse
una discendenza con una folta pelliccia per sopravvivere ai climi freddi, ci
siamo semplicemente messi addosso la pelliccia di un mammut.
Questo esempio ci
mostra come l’essere umano abbia una capacità unica: trasmettere competenze,
conoscenze e valori mediante antefatti tecnologici. Uno di questi antefatti è
il libro con cui tramandare competenze che non sono contenute nel nostro Dna.
Un altro salto importante che racconta dell’unicità umana è avvenuto dodicimila
anni fa quando per la prima volta un contadino della Mesopotamia ha scambiato
un secchio d’orzo per un disco di metallo. Dobbiamo pensare che dodicimila anni
fa l’accesso al cibo non era facile. Cosa ha convinto un uomo a scambiare orzo
con una moneta che in caso di emergenza non si mangia? L’idea che quel pezzo di
metallo potesse poi essere riconvertito in cibo e svariate volte. Un atto di
fiducia ha portato alla nascita del denaro che era una garanzia solo perché su
quel pezzo di metallo c’era la faccia del re. E questo ci porta a definire la
nostra essenza: fiducia nello scambio e mediazione di valore sono
intrinsecamente connessi in ciò che ci fa uomini. Se di questo parliamo quando
prendiamo in considerazione nuovi e innovativi antefatti digitali – il sistema
bancario, per esempio, è un sistema di fiducia mediato dalla tecnologia –
vediamo che non hanno sempre la stessa forma: a volte sono macchine che
prendono il posto di un utensile, a volte sono macchine capaci di surrogare
l’uomo nel suo decidere. Che cosa cambia tra le mediazioni di persone è il
processo di riconoscimento del valore.
Faccio un esempio
che vien dalla prassi: abbiamo delle intelligenze artificiali che sono molto
abili a elaborare un paradigma di risk assessment su chi chiede un prestito.
Ecco che la fiducia, il valore di una persona non è più affidata all’uomo ma a
un sistema di Intelligenza artificiale (Ai) che è come un microscopio che
analizza e ci racconta le correlazioni tra i dati. Un sistema di Ai non è mai
neutrale, è una narrativa di dati tenuti insieme grazie alla prospettiva di chi
l’ha programmato. Nei confronti del settore economico finanziario ha un impatto
importante. Se negli anni ’50 si andava dal direttore di banca, oggi è un flag
che si accende sullo schermo a decidere se si è affidabili. Ciò che sta alla
base del valore etico e finanziario che è una mediazione di fiducia dell’uomo
oggi viene intermediato da una macchina. Possiamo avere delle macchine che
semplicemente amplificano le capacità di giudizio della persona o possiamo
avere delle macchine a cui diamo totale fiducia, eliminando il giudizio fallace
dell’uomo. La scelta di una delle due macchine è una decisione politica e
business, non è una scelta puramente tecnologica e di programmazione che
semplicemente ottimizza il processo.
La direzione che
prendono le macchine è una scelta strategica, non tecnologica. Pensiamo a
Langdon Winner, un teorico politico il cui lavoro si concentra sul pensiero
contemporaneo, sulla razza, sulla tecnologia e sulla teoria sociale, che nel
1980 scrisse un articolo dal titolo Do artifacts have politics? ovvero I
manufatti fanno politica? In esso l’autore afferma che gli artefatti, gli
oggetti tecnici, hanno proprietà politiche e possono incarnare forme di
autorità e subordinazione. Suggerisce di prestare molta attenzione alle
proprietà delle tecnologie che ci circondano e al significato di quelle
proprietà. Se guardiamo alla realtà abbiamo dimostrazioni di questo pensiero: i
ponti costruiti sulla strada per raggiungere Long Island, per esempio, non
erano abbastanza alti per permettere il passaggio di autobus. Non era un caso:
sugli autobus viaggiavano i neri e si voleva evitare che raggiungessero le
spiagge.
Il ragionamento
non è diverso se parliamo di digitale: l’artefatto algoritmo sarà uno strumento
per distribuire forme di potere nella società. Chi oggi decide deve fare i
conti con questo. C’è bisogno di un’analisi critica etica di chi sceglie
l’algoritmo e di quale sia lo scopo intrinseco dell’artefatto digitale: solo se
entrambi i fattori sono orientati al bene allora si può parlare di etica
tecnologica. Pensare l’etica come un guinzaglio non è etica, perché l’etica è
un’istanza critica dinamica. Le istituzioni si stanno muovendo rapidamente in
questa direzione, hanno cominciato a fare passi importanti, mentre i manager a
ogni livello non sono ancora del tutto consapevoli del salto che devono fare.
Manca una vera cultura di digitale, ma molto si sta muovendo dal punto di vista
del diritto, che va quasi sempre a braccetto con l’etica. L’impatto che le
grandi piattaforme hanno sulla vita pubblica sta spingendo il regolatore a
pensarlo come uno spazio pubblico e regolamentato da norme di diritto pubblico
che, a mio parere, dovrebbero essere transnazionali.
Possiamo pensare
di formulare una nuova modalità algoritmica che presuppone un’algoretica. Se la
macchina è capace di surrogare l’umano, da sempre l’uomo conosce e sa se
un’azione è lecita o illecita. Se la macchina agisce da sola dobbiamo darle dei
confini etici. Come si fa? Bisogna assumere la capacità di rendere
comprensibile alla macchina, quindi computabili, quelli che sono criteri etici.
Questo nuovo capitolo dell’etica si propone con un termine che è algoretica e
che altro non è se non rendere comprensibili alle macchine i princìpi etici
dell’uomo. Preferiamo un algoritmo giusto o ingiusto? Questo presuppone una
ripartizione di un certo tipo che immetta nelle macchine criteri di giustizia
come, per esempio, l’inclusione. In questa trasformazione dell’etica la società
civile ha grande voce in capitolo. Penso alla stessa coscienza civile che ha
preteso scelte ecologiche e adesso ci siamo arrivati. Tutto parte da un livello
di consapevolezza del nostro presente. La pandemia e i lockdown hanno
risvegliato le coscienze digitali un po’ come aveva fatto Chernobyl per le
coscienze ambientali.
In questa
direzione va l’impegno preso, lo scorso 10 gennaio, dal Forum per la pace di
Abu Dhabi e dalla Commissione per il dialogo interreligioso del Gran Rabbinato
di Israele. È stato firmato il Rome Call for Ai ethics, un documento per un
approccio etico all’Intelligenza artificiale e per promuovere un senso di
responsabilità in un futuro in cui innovazione digitale e progresso tecnologico
siano al servizio della creatività umana e non della sua graduale sostituzione.
Paolo Benanti, Vita
Past. marzo
La Giornata dei Giusti in ricordo di Gareth Jones e Holodomòr
La Giornata dei
Giusti è stata istituita nel 2012 dal Parlamento Europeo per celebrare
l’esempio degli uomini e delle donne che, in ogni parte del mondo, nei momenti
più bui della storia, hanno salvato vite umane in tutti i genocidi e difeso la
dignità umana durante i totalitarismi. Un momento per ricordare non solo i
Giusti del passato, ma anche quelli del presente. A dimostrazione
dell’attualità che questa Giornata assume nel contesto odierno, la cerimonia al
Giardino dei Giusti di tutto il mondo al parco Monte Stella di Milano del 3
marzo 2023 si è svolta in presenza di Andrii Kartysh, Console Generale
d’Ucraina a Milano.
In questa
occasione, una targa di commemorazione è stata dedicata a Gareth Jones,
giornalista gallese, che fu il primo a documentare l’Holodomòr del popolo
ucraino, scontrandosi con l’indifferenza dell’occidente e la censura sovietica,
fino alla sua misteriosa morte nel 1935.
Holodomòr è un
termine ucraino composto dalla parola Hòlod (fame, carestia) e morýty
(uccidere, provocare una morte lenta e dolorosa), il cui significato è
“sterminio per fame”. Il termine è utilizzato per designare il genocidio del
popolo ucraino perpetrato dal governo di Stalin negli anni 1932-1933.
Stalin e la
persecuzione degli ucraini
Per l’Unione
Sovietica gli ucraini rappresentavano una minaccia reale all’esistenza del
sistema: il forte patriottismo, il desiderio di indipendenza, le idee
dell’elite (la cosiddetta intellighenzia) ucraina, l’indomabile opposizione dei
contadini alla collettivizzazione forzata delle terre erano a dir poco scomodi
al regime.
Con l’ascesa al
potere di Stalin si scelse di rimuovere il problema con la violenza. Tra i
provvedimenti presi ricordiamo l’introduzione di massicce requisizioni di tutti
i generi alimentari da parte di attivisti; il divieto di vendita degli
alimenti; lo spiegamento delle truppe interne e di confine per impedire agli
affamati di spostarsi in altre regioni dell’Urss in cerca di cibo.
In pochi mesi – tra
il 1932 e il 1933 – la fame portò via milioni di vite umane in Ucraina. Lo
sterminio per fame si intrecciò con la persecuzione e lo sradicamento
dell’elite intellettuale e della cultura del sentimento nazionale del popolo
ucraino.
Di questa
tragedia, una delle maggiori del XX° secolo, si parlò poco all’estero. Gareth
Jones, unico testimone indipendente delle atrocità dell’Holodomor, mai
riconosciute ufficialmente dall’Unione sovietica prima e dalla Russia poi,
venne fucilato in circostanze misteriose il 12 agosto 1935.
Ricordando Jones
in occasione della Giornata dei Giusti, ripensiamo a tutte le vittime delle
scellerate politiche nei confronti della popolazione ucraina dei regimi che si
sono succeduti in Russia e, involontariamente, volgiamo lo sguardo alla
deliberata e crudele aggressione che gli ucraini tentano coraggiosamente di
fermare e respingere da oltre un anno.
Il riconoscimento
di Holodomòr
L’Ucraina è
immensamente grata alla comunità internazionale per la solidarietà, per il
supporto e per il riconoscimento e la condanna del genocidio degli anni
1932-1933. Oltre al riconoscimento dell’Ucraina, l’Holodomòr è stato
riconosciuto come genocidio del popolo ucraino dal Parlamento Europeo e da
Australia, Brasile, Bulgaria, Canada, Colombia, Repubblica Ceca, Ecuador,
Estonia, Georgia, Germania, Ungheria, Irlanda, Latvia, Lituania, Messico,
Moldova, Paraguay, Peru, Polonia, Portogallo, Romania, Slovacchia, Stati Uniti,
Vaticano.
Vogliamo sperare
che, nelle circostanze attuali, anche l’Italia voglia finalmente, a distanza di
anni dalla caduta dell’Urss e la conseguente pubblicazione di informazioni
provenienti dagli archivi segreti, riconoscere l’Holodomòr come genocidio
contro il popolo ucraino e contro l’umanità.
Restiamo
fiduciosi, nell’attesa che vi sia una reazione ufficiale all’appello al
Parlamento italiano da parte della comunità ucraina e alla petizione sottoposta
al Senato della Repubblica e sottoscritta dai nostri amici italiani, tra cui lo
stimato Gabriele Nissim, presidente della Fondazione Gariwo, iniziatore della
creazione del Giardino dei Giusti di tutto il mondo al Monte Stella di Milano.
Ripensiamo con
riconoscenza ai tanti Giusti, a tutte quelle persone, la cui coscienza ha
spinto a opporsi, con ogni mezzo, ai totalitarismi, alle autocrazie e ai regimi
che svalutano la vita umana e ne denigrano i valori. Ai tanti uomini e alle
tante donne che hanno scelto di non tacere di fronte alle ingiustizie. Ieri,
come oggi. AffInt 6
Covid, Fbi conferma: "Virus sfuggito da laboratorio di Wuhan"
Gli analisti del
Federal Bureau of Investigation nel loro rapporto considerano "il
potenziale incidente" la spiegazione "più probabile" e accusano
Pechino di "ostacolare l'inchiesta"
E' ''molto
probabile'' che il Covid-19 sia uscito da un laboratorio cinese, ovvero sia il
risultato di un errore in un laboratorio a Wuhan. Lo ha dichiarato il capo
dell'Fbi Christopher Wray, che in una intervista a Fox News ha spiegato che
''l'Fbi da tempo ritiene che le origini della pandemia sono molto probabilmente
legate a un incidente di laboratorio a Wuhan''. Già nel 2021 due fonti dell'Fbi
citate dalla Cnn avevano detto di ''essere abbastanza convinte'' che il virus
del Covid-19 fosse uscito da un laboratorio in Cina.
Wray non ha poi
esitato a puntare il dito contro Pechino: "Il governo cinese, a mio
parere, ha fatto del suo meglio per ostacolare e confondere il lavoro che
stiamo facendo, e questo è spiacevole per tutti", ha detto.
Le dichiarazioni
del capo del bureau sono destinate ad accendere ulteriormente il dibattito sul
lab leak, prepotentemente riaperto nei giorni scorsi con le rivelazioni su un
rapporto del dipartimento dell'Energia che, sulla base di nuove valutazioni
dell'intelligence, rilancia la come probabile la tesi dell'incidente di
laboratorio. Rivelazioni che hanno scatenato l'attacco dei repubblicani, da
sempre sostenitori della tesi del lab leak, che la prossima settimana
avvieranno un'inchiesta alla Camera sulle origini del virus e la risposta
dell'amministrazione Biden.
Nell'intervista,
Wray ha detto che un team di esperti dell'Fbi è concentrato sui rischi di altri
possibili pericoli biologici, per scongiurare che finiscano "nelle mani
sbagliate", comprese quelle di "nazioni ostili". E per quanto
riguarda il coronavirus ha ricordato che "stiamo parlando di un possibile
incidente in un laboratorio controllato dal governo cinese che ha provocato la
morte di milioni di americani". Wray ha comunque concluso gran parte
dell'indagine dell'Fbi rimane classificata, ribadendo comunque la difficoltà di
lavorare con Pechino per indagare le origini del Covid.
REPLICA DI PECHINO
- "La Cina si oppone categoricamente a qualsiasi forma di manipolazione
politica finalizzata a individuare l'origine del Covid. Il coinvolgimento dei
servizi di intelligence in questioni scientifiche è di per sé una
politicizzazione di questo problema", ha affermato Mao Ning, portavoce del
ministero degli Esteri cinese, in una conferenza stampa.
Già ieri la
portavoce aveva sottolineato che la Cina è stata "aperta e
trasparente" sulla questione dell'origine del Covid "ed ha condiviso
informazioni e data con la comunità internazionale in modo veloce".
Adnkronos 1
E’ Operatore
dell’Informazione chi rende pubblici fatti d’interesse nel rispetto del
classico quadrinomio ben noto agli addetti ai lavori: Quando, Dove, Perché e
Come. Quest’enunciato, ovviamente, è solo una traccia sommaria di ciò che
intendiamo per informazione in voce, video, carta e on-line.
Quando, per una
serie di contemporaneità, si riesce ad andare oltre gli schemi canonici, allora
il giornalismo è partecipazione. Insomma, se c’è stoffa e ispirazione,
l’occasione per “comunicare” è una naturale conseguenza. Il difficile, almeno
secondo noi, è restare “neutrali” circa gli avvenimenti trattati.
Solo
un’informazione fine a se stessa riesce a interessare tutti. Senza seguiti
politici che, poi, ciascun lettore può, se lo ritiene, esaminare. Dato che
informarsi, è un diritto e informare anche un dovere, c’è anche da tener conto
che le notizie sono destinate a chi le legge. Essere opinionisti, invece, è
tutt’altra storia.
Per quanto ci
riguarda, intendiamo dare accessibilità ai nostri interventi. Obiettivo che
desideriamo estendere a chi sente di condividere lo spirito di comunicazione.
Anche questo percorso può costituire “opinione” da considerare. Questo
quindicinale è aperto, anche sotto tale profilo, alla libera compartecipazione.
Giorgio Brignola,
de.it.press
Le nostre comunità all'estero: una risorsa di autentici ambasciatori
dell'italianità
Intervista a
Goffredo Palmerini sul suo nuovo libro “Il mondo che va” e anche altro - di Giovanna
Chiarilli
Un impegno
nell'emigrazione che gli ha permesso di conoscere e valorizzare le comunità
all'estero: una risorsa di autentici ambasciatori dell'italianità
Occorrono
politiche di lungo respiro per un rapporto finalmente maturo, e non
paternalistico, tra l'Italia e le comunità degli italiani nel mondo
L'essenziale ruolo
della stampa italiana all'estero per promuovere, edificare una concezione
dell'Italia più lata rispetto a Paese chiuso nei propri confini
***
Leggendo l'ultimo
libro di Goffredo Palmerini, “Il Mondo che va”, edito da One Group Edizioni e
dedicato a Papa Francesco, ho avuto la conferma che il giornalismo è nel suo
DNA vista l'abilità del padre, Vinicio, nello scrivere, nel fare cronaca. Il
fante Vinicio Palmerini ha raccontato i drammatici giorni di guerra con una
dovizia di particolari degni di un grande cronista; una storia tra le più
toccanti custodite in queste pagine.
Quella di Goffredo
è una vita all'insegna dell'impegno... in politica, nell'associazionismo, nella
cultura, nel giornalismo... all'insegna del suo Abruzzo. Quasi trent'anni
trascorsi come amministratore al Comune dell'Aquila, e "quando nel 2007
non mi ricandidai – racconta – mi chiesi come potessi in altra veste servire la
mia città e l'Abruzzo, soprattutto per far conoscere la straordinaria bellezza
e le singolarità dell'Aquila come le meraviglie di una regione ricca d'arte, di
tradizioni secolari, di magnifici borghi e di un incomparabile patrimonio
naturalistico ed ambientale protetto, pari ad un terzo del territorio regionale".
Fu l'ANCI regionale, l'associazione dei comuni abruzzesi, a designarlo come
membro del Consiglio Regionale Abruzzesi nel Mondo (CRAM).
Ed è proprio
grazie a questo incarico, che inizia l'"avventura" di Palmerini nel
mondo dell'emigrazione, non solo abruzzese, che l'ha portato a conoscere da
vicino "il fenomeno migratorio italiano che in un secolo e mezzo
dall'Unità d'Italia ha portato fuori i confini circa 30 milioni d'italiani,
sparsi in ogni angolo del mondo, la più grande diaspora della storia dell'umanità.
Dalle varie generazioni della nostra emigrazione – afferma Goffredo Palmerini –
è nata un'Italia ben più numerosa di quella dentro i confini: 80 milioni di
oriundi che in ogni angolo del mondo onorano al meglio la terra da dove sono
emigrati loro o i propri avi. Ho incontrato, da allora, le nostre comunità
all'estero conoscendone il valore, la ricchezza morale, l'amore per l'Italia
ben più forte di chi ci vive, il prestigio e la stima che i nostri emigrati,
dopo immani sacrifici, sono riusciti a conquistarsi nelle terre d'emigrazione
con la loro laboriosità, con il loro talento e con testimonianze di vita
esemplari".
Da allora, il suo
impegno per gli abruzzesi, gli italiani all'estero, è andato amplificandosi:
Consigliere CRAM per otto anni, presidente dell'Osservatorio dell'Emigrazione
della Regione Abruzzo, membro della storica associazione ANFE, "fondata
nel 1947 da Maria Agamben Federici, Madre costituente che fece parte del gruppo
dei 75 che approntò la bozza della Costituzione, poi approvata dall'Assemblea
Costituente ed entrata in vigore il 1° gennaio 1948", come tiene a
precisare, senza dimenticare il suo contributo alla FAIM, il Forum delle
associazioni italiane nel mondo.
E in questa
"nuova vita" grande spazio è stato riservato alla scrittura. Con 'Il
Mondo che va', siamo arrivati alla dodicesima pubblicazione, sempre a cura
della One Group Edizioni... un annuario che raccoglie il meglio dei tuoi
articoli... quali sono i temi, gli elementi che caratterizzano questa edizione?
"I contatti
con il mondo dell'emigrazione mi hanno portato a cercare di far conoscere
sempre più le meraviglie dell'Italia all'estero da un lato, e dall'altro a
raccontare le più belle storie d'emigrazione, le qualità della nostra gente, i
personaggi più significativi che con il loro talento rendono onore all'Italia.
Questa assidua comunicazione bidirezionale, fatta soprattutto attraverso la
straordinaria rete della stampa italiana nel mondo e le numerose testate
giornalistiche in Italia, assolve efficacemente a quel bisogno di far conoscere
o stimolare l'interesse per la storia e l'attualità della nostra emigrazione,
spesso trascurata proprio dalle classi dirigenti che dovrebbero avere
un'adeguata attenzione verso le nostre comunità nel mondo, una risorsa di
autentici ambasciatori dell'italianità, nella promozione delle nostre
eccellenze, della nostra lingua e del patrimonio artistico e culturale
italiano. Scrivo molto su questi temi, cercando di comunicare la più bella
Italia, dentro e fuori i confini. Ogni anno o poco più, una selezione ragionata
dei miei scritti diventa un annuario. 'Il mondo che va' è un volume che
nell'ottimismo vuole celebrare ciascun italiano che nell'esercizio del proprio
quotidiano dovere, in Italia o all'estero, dà il meglio di sé e fa crescere il
nostro Paese e la terra delle proprie radici. Le storie hanno un filo rosso che
le unisce, diversamente e intimamente, a quelle dei libri
precedenti".
In ogni libro, ci
sono profili su italiani all'estero che nel mondo sono riusciti a realizzare
importanti progetti, ad affermare le loro passioni o capacità... quali
personaggi hai contribuito a far conoscere in 'Il Mondo che va'?
"Di
quest'ultimo libro cito due casi di aquilani all'estero: Omero Sabatini e
Maurizio Cirillo. Sabatini è stato un diplomatico, vive negli Stati Uniti nei
pressi della capitale federale. Ha operato per il governo americano in molti
paesi del mondo occupandosi di sviluppo agricolo. Ma soprattutto ne parlo per
il singolare merito d'aver fatto conoscere agli americani il grande romanzo
manzoniano, facendo dei “Promessi Sposi” una mirata riduzione, tradotta in
inglese in un linguaggio accessibile alla generalità degli americani visto che,
fino ad allora, l'opera del Manzoni era nota solo ad una ristretta minoranza di
studiosi. Maurizio Cirillo, invece, è un manager nel campo della telefonia che
ha operato in Brasile, in Angola e in Italia. Ma in Brasile ha anche creato
altre attività industriali, mentre a L'Aquila, la città natale che fortemente
ama, porta avanti con la famiglia attività ricettive di elevata qualità che
assecondano uno sviluppo turistico che vuole prediligere le eccellenze
artistiche, architettoniche e ambientali del capoluogo d'Abruzzo, come le
singolarità che hanno accompagnato gli otto secoli della sua storia".
Ammetto che, come
autore dei programmi Rai per gli italiani all'estero, i libri di Goffredo
Palmerini sono stati una fonte preziosissima di spunti, proprio per conoscere e
far conoscere profili di italiani all'estero di grande eccellenza. Come questi
appena raccontati.
Goffredo Palmerini
è davvero molto conosciuto e stimato, sia tra gli addetti ai lavori, sia tra le
comunità all'estero. Con il suo impegno fatto di continue relazioni si può
definire un piccolo costruttore di ponti che alimenta con un flusso quotidiano
di notizie, messaggi, incontri e visite all'estero. Ed i suoi racconti, trovano
spesso spazio sulle testate all'estero.
"La stampa
italiana nel mondo – conferma – che già di per sé assolve una funzione
fondamentale per le nostre comunità, ha un ruolo rilevante anche per me nel
comunicare suo tramite fatti, argomenti e notizie che nutrono il desiderio di
conoscenza e, in fondo, il bisogno d'una relazione costante e non
episodica". Un costante "lavoro", che è soprattutto una
grande passione e ammirazione verso le comunità all'estero, che gli ha permesso
di essere largamente conosciuto come un autentico Ambasciatore d'Abruzzo nel
mondo.
Lo abbiamo già
accennato, ma vorrei sottolineare ancora che grazie a te, ogni giorno vengono
diffusi articoli, che raccontano l'Italia in tutte le sue sfaccettature, sui
giornali in lingua italiana che, con grandi sacrifici, continuano a
rappresentare in ogni angolo del mondo un "pezzo" d'Italia. Eppure
non c'è un'adeguata attenzione verso questo settore... qual è il futuro della
stampa italiana nel mondo?
"Ho pochi
elementi per immaginare quale possa essere il futuro della stampa italiana nel
mondo. Posso solo testimoniare, per la mia esperienza e per la conoscenza che
ho maturato verso l'emigrazione italiana, che la funzione della stampa italiana
all'estero è essenziale nel promuovere, edificare una concezione dell'Italia
più lata rispetto a Paese chiuso nei propri confini. Un'Italia di 140 milioni
d'italiani, dentro e fuori i confini, che potrebbe recitare un ben diverso
ruolo nel mondo se solo le Istituzioni italiane, dal Parlamento al Governo alle
Regioni e agli Enti locali, conoscessero le nostre comunità all'estero
investendo su esse in politiche di promozione e sostegno, della lingua come
della stampa, perché soprattutto attraverso di loro cammina il Made in Italy e
su di loro può costruirsi un fecondo progetto di turismo delle radici.
Occorrono quindi politiche di lungo respiro, non occasionali ma sistemiche.
Solo con un'attenzione assidua possono svilupparsi quelle straordinarie
opportunità potenzialmente presenti, in un rapporto finalmente maturo e non
paternalistico tra l'Italia e le comunità degli italiani nel mondo". La
Gente d’Italia - Uruguay
https://www.genteditalia.org/2023/03/03/goffredo-palmerini-e-il-mondo-che-va/
Entro il 31 marzo le domande per i contributi per i periodici all’estero
ROMA- Il 31 marzo
2023 scade il termine per la presentazione delle domande e della relativa
documentazione per l’ammissione ai contributi per l’anno 2022 a sostegno della
stampa periodica italiana all’estero. È quanto ricorda con una nota stampa la
Fusie – Federazione Unitaria della Stampa Italiana all’Estero all’indomani
della pubblicazione della nuova modulistica sul sito del Dipartimento per
l’Informazione e l’Editoria della Presidenza del Consiglio.
Per i periodici
italiani editi e diffusi all’estero – precisa la Fusie – le domande e la
relativa documentazione devono pervenire, entro il 31 marzo, all’ufficio
consolare italiano di prima categoria territorialmente competente per il luogo
della sede legale dell’editore che provvede a trasmetterle al Dipartimento, e
per conoscenza al Ministero degli affari esteri e della cooperazione
internazionale, entro il successivo 30 aprile.
Come previsto
dalla legge (articolo 21, comma 3, lettera b), decreto legislativo 70/2017),
insieme alla documentazione, le Autorità diplomatiche devono trasmettere la
dichiarazione che attesti la diffusione della testata presso la comunità
italiana presente nel Paese di riferimento e la rilevanza della sua funzione
informativa per la promozione del sistema Paese e della lingua e cultura
italiana all’estero, allegando il parere reso dal Comites della circoscrizione
consolare di riferimento.
Tutta la
documentazione in lingua straniera – così come previsto dall’art. 16, comma 3,
del decreto legislativo 70/2017 – deve essere accompagnata dalla relativa
traduzione in lingua italiana conforme al testo straniero, certificata dal
competente ufficio consolare o da un traduttore ufficiale; i documenti in
lingua privi di adeguata traduzione non saranno presi in considerazione in sede
istruttoria. Inoltre gli importi indicati nei Prospetti devono essere espressi
nella moneta locale.
Per i periodici
editi in Italia e diffusi prevalentemente all’estero, domande e la relativa
documentazione devono pervenire entro la data del 31 marzo 2023 al
Dipartimento, all’indirizzo di posta elettronica certificata:
archivio.die@mailbox.governo.it . Gli editori, secondo le prescrizioni della
normativa, devono utilizzare esclusivamente la modulistica pubblicata sul sito
del Dipartimento Editoria e Informazione della Presidenza del Consiglio e
compilarla digitalmente.
Sempre entro il
termine del 31 marzo 2023 devono essere inviate, a cura e spese dell’editore,
le copie delle riviste all’indirizzo:
Presidenza del
Consiglio dei Ministri – Dipartimento per l’informazione e l’editoria – Ufficio
per il sostegno all’editoria – Servizio per il sostegno diretto alla stampa –
UFFICIO ACCETTAZIONE – Via dell’Impresa, 90 – 00187 Roma.
Nel caso di
domanda presentata per la prima volta, è necessario inviare anche le copie
della rivista relative alle due annualità precedenti a quella della
domanda. (Inform/Fusie 1)
Inps: al via l’accertamento dell’esistenza in vita dei pensionati
all’estero
Roma - A partire
dal 20 marzo 2023, i pensionati residenti in America, Asia, Estremo Oriente,
Paesi scandinavi, Stati dell’Est Europa e Paesi limitrofi riceveranno da
Citibank N.A. - l’Istituto di credito che attualmente esegue i pagamenti al di
fuori del territorio nazionale per conto dell’Inps - i moduli di richiesta di
attestazione dell’esistenza in vita, da restituire alla banca entro il 18
luglio 2023.
I pensionati,
pertanto, avranno quattro mesi a disposizione per attestare l’esistenza in vita
e potranno avvalersi di numerosi soggetti qualificati autorizzati ad attestare
l’esistenza in vita ai sensi delle legislazioni locali. Nei casi in cui il
pensionato non possa produrre l’attestazione standard, Citibank N.A. accetta le
certificazioni di esistenza in vita rilasciate da autorità locali, quali
testimoni accettabili, le cui liste, distinte per Aree geografiche, sono
consultabili nel sito di Citibank N.A. alla pagina web dedicata.
Qualora
l’attestazione non sia prodotta, il pagamento della rata di agosto 2023 avverrà
in contanti presso gli sportelli Western Union e, in caso di mancata
riscossione personale o di mancata produzione dell’attestazione entro il 19
agosto 2023, il pagamento della pensione sarà sospeso a partire dalla
successiva rata di settembre 2023.
Il processo di
accertamento dell’esistenza in vita per gli anni 2023 e 2024, per i pensionati
residenti in Europa, Africa e Oceania, prenderà invece avvio dal 20 settembre
2023.
Nel messaggio Inps
n.794 del 23 febbraio 2023 sono riportate tutte le modalità per l’attestazione
dell’esistenza in vita da parte dei pensionati. La campagna di verifica
prevede, infatti, diversi sistemi che, utilizzati in modo combinato,
garantiscono l’efficacia dell’accertamento e consentono di limitare i possibili
disagi ai pensionati, contribuendo ad assicurare la correttezza dei flussi di
pagamento e nello stesso tempo costituiscono un valido strumento di prevenzione
e contrasto al fenomeno dell’indebita percezione delle prestazioni.
In particolare,
l’Inps e il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale
hanno condiviso un progetto che prevede la possibilità per i pensionati di
rapportarsi con gli uffici consolari tramite un servizio di videochiamata,
descritto in dettaglio nel messaggio 794/2023. I pensionati, per rendere
operativo tale servizio, sono invitati ad indicare l’indirizzo di posta
elettronica e il recapito telefonico nel modulo di attestazione dell’esistenza
in vita da inviare a Citibank N.A.
La modalità di
attestazione dell’esistenza in vita tramite videochiamata si aggiunge, ma non
sostituisce, le consuete modalità, che prevedono la presenza fisica del
pensionato presso un soggetto qualificato cd. testimone accettabile abilitato
ad avallare la sottoscrizione del modulo di dichiarazione dell’esistenza in
vita, e potrà essere utilizzata anche dagli operatori di patronato accreditati
come testimoni accettabili, abilitati al Portale Agenti.
Sul portale
internet dell’Istituto è consultabile un’apposita pagina dedicata, intitolata Accertamento
esistenza in vita dei pensionati che riscuotono all'estero, contenente
informazioni aggiornate sul processo di verifica dell’esistenza in vita dei
pensionati che riscuotono all’estero. (aise 1)
Veneti nel mondo. Approvato il bando 2023 per sostegno alle iniziative
È stato approvato
con delibera dalla Giunta Regionale, su proposta dell’assessore ai Veneti nel
mondo Cristiano Corazzari il bando 2023 per la concessione di contributi per
progetti e iniziative e attività culturali finalizzate a conservare e a
tutelare fra le comunità venete nel mondo il valore dell’identità veneta e
della terra di origine e a rinsaldare i rapporti culturali con il Veneto.
Il bando rientra
tra gli interventi a favore dei veneti nel mondo previsti dalla legge regionale
2/2003. Lo stanziamento, fissato per quest’anno dal Programma annuale 2023,
approvato sulla base del Piano triennale 2022-2024, è di 102 mila euro.
Possono
partecipare amministrazioni pubbliche venete, istituzioni culturali,
associazioni con sede in Veneto che operano a favore dei veneti nel mondo, i
comitati e le federazioni di circoli veneti all’estero iscritti al registro
regionale.
Sono ammesse a
contributo le proposte progettuali riguardanti l’emigrazione veneta con la
finalità di conservare e di valorizzare la cultura e l’identità veneto presso
le comunità venete all’estero attraverso organizzare convegni, seminari,
mostre, festival e ogni altro evento anche on-line.
“Rendere la
cultura e le tradizioni venete veicolo per mantenere il legame con le nostre
comunità nel mondo è tra gli obiettivi di questa amministrazione regionale e
nello specifico questo bando è dedicato a progettualità culturali che ci
permettono di valorizzare la cultura e le tradizioni venete nel mondo. Si
tratta di un patrimonio identitario insostituibile – evidenzia l’assessore
regionale ai flussi migratori e veneti nel mondo Cristiano Corazzari - È
fondamentale proseguire nel prezioso lavoro che tutti insieme stiamo svolgendo
per mantenere vivo il legame con le nostre comunità nel mondo nella
consapevolezza che i valori di un popolo sono i valori di ciascuna persona che
si riconosce in quel popolo. Queste
progettualità, come quelle avviate nel corso degli anni, sono certo contribuiranno
a rafforzare e valorizzare ulteriormente le radici culturali venete”.
È possibile
presentare la domanda utilizzando la modulistica disponibile nel sito della
Regione del Veneto nella sezione “Bandi, Avvisi, Concorsi” La delibera su https://bur.regione.veneto.it/BurvServices/pubblica/DettaglioDgr.aspx?id=497440
dip 3
Impatriati. Porta (Pd): agevolazioni negate se si ritorna allo stesso
lavoro
ROMA - “Per chi
rientra dall’estero e va a prestare la propria attività dal datore di lavoro
per cui lavorava prima del trasferimento è precluso il regime di agevolazioni
fiscali previsto dalla legge a favore degli “impatriati””. È quanto spiega
Fabio Porta, deputato Pd eletto in Sud America, alla luce del recente
“Principio di diritto n. 6/2023” dell’Agenzia delle Entrate.
L’Agenzia,
chiarisce Porta, “ribadisce quello che già era stato stabilito dalle importanti
circolari n. 17/2017 e n. 33/2020, e cioè che si ritiene non in linea con la
vis attrattiva sottesa alla normativa agevolativa, la posizione lavorativa
assunta dal lavoratore al rientro in Italia che si pone in “continuità” con
quella precedente al trasferimento all’estero. Certamente – commenta il
deputato – se da una parte la questione di principio sembra avere una sua
logica di carattere generale (l’Agenzia ritiene che quando il lavoro del
soggetto impatriato sia una prosecuzione dell’attività svolta prima del suo
trasferimento viene meno quella capacità di attrarre lavoro richiesta dalla norma
e di fatto preclude la fruizione del regime di favore), dall’altra parte non
sarà semplice per l’Agenzia dover determinare se esiste tale continuità ogni
qualvolta il lavoratore dovesse svolgere al rientro una attività in qualche
modo “collegata” a quella che svolgeva prima del trasferimento. L’Agenzia
dovrebbe forse fornire una interpretazione più precisa e circostanziata del
concetto di “continuità””.
Porta ricorda,
quindi, che “per fruire del regime speciale di agevolazioni fiscali introdotte
dall’articolo 16 del decreto legislativo in. 147 del 2014 (e successive
modifiche) è necessario che il lavoratore: a) trasferisca dall’estero la
residenza in Italia ai sensi dell’articolo 2 del TUIR; b) non sia stato
residente in Italia nei due periodi d’imposta antecedenti al trasferimento e si
impegni a risiedere in Italia per almeno 2 anni; c) svolga l’attività
lavorativa prevalentemente nel territorio italiano”.
“Sono destinatari
del beneficio fiscale – ricorda ancora Porta – i cittadini dell’Unione europea
o di uno Stato extra UE con il quale risulti in vigore una Convenzione contro
le doppie imposizioni o un accordo sullo scambio di informazioni in materia
fiscale i quali: a) sono in possesso di un titolo di laurea e abbiano svolto
“continuativamente” un’attività di lavoro dipendente, di lavoro autonomo o di
impresa fuori dall’Italia negli ultimi 24 mesi o più, ovvero b) abbiano svolto
“continuativamente” un’attività di studio fuori dall’Italia negli ultimi 24
mesi o più, conseguendo un titolo di laurea o una specializzazione post
lauream”.
“L’agevolazione –
conclude il parlamentare dem – è fruibile dai contribuenti per un quinquennio a
decorrere dal periodo di imposta in cui trasferiscono la residenza fiscale in
Italia e per i quattro periodi di imposta successivi”. (aise 1)
Confsal-Unsa Esteri: no alla precarizzazione del lavoro nella rete estera
del Maeci
ROMA - “In queste
ore abbiamo denunciato al nuovo Segretario Generale della Farnesina il trend di
precarizzazione in atto presso le nostre sedi estere attraverso il ricorso
crescente, continuo e ramificato agli impiegati temporanei di cui all’articolo
153 del dpr 18/67, che si colloca ben oltre i termini attuativi scanditi dalla
norma, la quale prevede la sostituzione temporanea degli impiegati a contratto
qualora si trovino in una delle situazioni che comportano la sospensione del trattamento
economico”. È quanto si legge in una nota della Confsal Unsa Esteri, in cui il
sindacato denuncia che “rispetto al carattere straordinario previsto dalla
norma, si riscontra in tutte le sedi una sorta di sistematico rimpiazzo degli
impiegati a contratto in congedo, in pensione o entrati nei ruoli del MAECI,
con impiegati temporanei, la cui permanenza è limitata dalla norma medesima ad
un massimo di 6 mesi, prorogabili di altri 6”.
Quindi, sostiene
la Confsal Unsa, “si sta rafforzando una consuetudine in molte sedi, che sono
prive di personale, del tutto atipica e anomala peraltro su un fronte sensibile
e complesso come quello dell’operatività della rete estera del MAECI, che
potrebbe determinare rischi non trascurabili per la sicurezza del sistema Paese,
in ragione del coinvolgimento in azioni e servizi delicati e sensibili di
profili dalla dubbia provenienza e dall’effimera durata dei contratti, la quale
contribuirebbe ad innescare un meccanismo di perdita sistematica di dati,
expertise, informazioni e conoscenze tali da mettere a serio rischio la
funzionalità della rete segnatamente in una stagione di complessità geopolitica
e internazionale, alla luce della quale lo Stato dovrebbe garantire l’integrità
e la tracciabilità del personale deputato ad azioni sensibili”.
“Se a ciò –
continua la nota – aggiungiamo il fatto che gli impiegati temporanei sono
retribuiti con le risorse destinate anche al riadeguamento retributivo del
personale a contratto a tempo indeterminato, la criticità assume dei tratti di
maggiore complessità, poiché si comprende bene quanto la già esigua
disponibilità di risorse si riduca al lumicino per far fronte all’impulso di
cosiddetti “tappabuchi” presso l’Amministrazione, che predilige soddisfare un
bisogno immediato (colmare un vuoto d’organico) piuttosto che risolvere il
problema a monte (intervento sistemico sul fronte delle risorse umane di ruolo
e valorizzazione economica di entrambe le categorie) in un circolo vizioso in
cui si alternano perdite economiche, possibili fughe di informazioni e
incapacità di garantire una continuità operativa presso le sedi”.
E ancora: “ai
temporanei bisogna poi associare i collaboratori esterni, comunemente definiti
“digitatori” in molti casi assunti con contratti interinali, con mandato
semestrale e con retribuzioni che oscillano tra i 200 e i 500 euro mensili.
Essi costituiscono manodopera a “basso costo”, facilmente rimpiazzabile e con
garanzie contrattuali non tracciate e non trasparenti. Senza poi trascurare il
fenomeno degli stagisti MAE-CRUI che coinvolge circa 1000 ragazzi ogni anno, e
che, stando alle informazioni in nostro possesso, sono utilizzati talvolta come
“tappa buchi” in assenza di personale di ruolo e/o a contratto. Tutto questo in
deroga alla preminente tutela della sicurezza e salvaguardia dei dati
sensibili”.
“Così operando, -
stigmatizza il sindacato – il MAECI si avvarrebbe di personale inesperto, non
formato e privo di vincoli di segretezza e di esclusività per tamponare le
vacanze di organico proprio in quei Paesi dove il livello di operatività
dovrebbe essere più performante, pagati con risorse del MIUR con un ammontare
che in taluni casi supera quello previsto per i cosiddetti digitatori reclutati
localmente. Pertanto si potrebbe parlare di sostanziale, anche se non formale,
assimilabilità tra i due profili. Ci troviamo dinanzi al funerale della PA
all’estero, che se da un lato si impegna in progetti faraonici (basta pensare
alla compartecipazione ai progetti del PNRR), dall’altro impoverisce i propri
lavoratori, impedendo che si costruisca una visione di lungo periodo”.
“La Confsal Unsa
non ci sta e pretende chiarezza da parte dell’amministrazione. In queste
settimane – annuncia il sindacato – si organizzeranno assemblee di lavoratori
in tutte le sedi estere per manifestare il disappunto, la delusione e la
protesta per quanto realizzatosi finora, e per evidenziare quelle che sono le
istanze finora inascoltate di migliaia di lavoratori che ad oggi sono il motore
della nostra rete estera”. (aise/dip)
EU-Finanzminister erzielen
Durchbruch bei Schuldenregeln
Die Finanzminister der EU-Staaten
einigten sich am Dienstag (14. März) auf einen gemeinsamen Standpunkt zur
Reform der europäischen Fiskalregeln. Sie lehnten sich dabei eng an den Ansatz
der Europäischen Kommission an, die auf länderspezifische Pläne zum
Schuldenabbau setzt. Von: János Allenbach-Ammann
Während die Zielwerte aus den EU-Verträgen unverändert
bleiben – ein maximales öffentliches Defizit von 3 Prozent des
Bruttoinlandsprodukts und ein Schuldenstand von 60 Prozent des
Bruttoinlandsprodukts – wird die 60-Prozent-Regel künftig weniger relevant
sein.
Die Regeln werden durch mittelfristige Pläne ergänzt, die
mehr Investitionen ermöglichen sollen.
„Wir haben uns darauf geeinigt, dass der neue
wirtschaftliche Rahmen die Haushaltsanpassung mit Reformen und Investitionen
kombinieren sollte“, sagte die schwedische Finanzministerin Elisabeth
Svantesson am Dienstag (14. März) nach dem Ministertreffen in Brüssel.
Das Abschlussdokument der Finanzminister entsprechen im
Großen und Ganzen dem von der Europäischen Kommission im November
vorgeschlagenen Vorgehen zur Reform der sogenannten wirtschaftspolitischen
Steuerung in der EU. Die derzeitigen Regeln wurden als investitions- und
wachstumsfeindlich und gleichzeitig als unwirksam bei der Eindämmung der
Staatsverschuldung kritisiert.
Beide Probleme sollten nun in den neuen Regeln angegangen
werden, so der Vizepräsident der EU-Kommission, Valdis Dombrovskis.
„Die heutigen Schlussfolgerungen spiegeln das Ziel der
Kommission wider, das System zu vereinfachen, die Eigenverantwortung der Länder
zu stärken und mehr Spielraum für den Schuldenabbau zu schaffen, verbunden mit
einer stärkeren Durchsetzung“, sagte er.
Der Einfachheit halber konzentrieren sich die Regeln nun auf
die Netto-Primärausgaben. Diese messen die Ausgaben eines Staates abzüglich der
Staatseinnahmen, wobei die Staatsausgaben für Zinszahlungen und konjunkturelle
Arbeitslosigkeit nicht berücksichtigt werden.
Die nationalen fiskalischen Pfade, die anhand der
Netto-Primärausgaben definiert werden, müssen dabei nicht zu einem sofortigen
Schuldenabbau führen, sondern zu einem langfristigen Schuldenabbau.
Es wird Aufgabe der Europäischen Kommission sein, zu
analysieren und zu bestimmen, ob dies gegeben ist. Dabei wird sie Reformen und
Investitionspläne berücksichtigen, die das Wirtschaftswachstum fördern könnten.
Die Kommission kann zwar die nationalen Haushaltspläne
einzeln prüfen, muss sich aber auf eine „gemeinsame Methodik“ stützen, die
„wiederholbar, vorhersehbar und transparent“ ist.
Das Beharren auf Replizierbarkeit macht die Aufgabe der
Kommission, eine akzeptable Methodik zu entwickeln, besonders schwierig, da sie
auch in der Lage sein muss, eine Vielzahl von länderspezifischen Investitionen
und Reformen zu berücksichtigen.
Dieses Gleichgewicht zwischen einer individuellen und
qualitativen Bewertung der Fiskalpolitik der Mitgliedstaaten und einer leichter
zu reproduzierenden quantitativen Messung wird wahrscheinlich weiterhin
Gegenstand von Meinungsverschiedenheiten zwischen den Mitgliedstaaten sein.
EU-Wirtschaftskommissar Paolo Gentiloni und
Bundesfinanzminister Christian Lindner diskutierten am Montag (29. Januar) über
die EU-Vorschriften für nationale Staatsschulden und -defizite. Während die
Kommission diese flexibler gestalten will, besteht Lindner auf „überprüfbare“
Regeln.
Auf Druck Deutschlands haben die EU-Finanzminister eine
weitere Verzögerung bei der Fertigstellung der Steuervorschriften in Kauf
genommen.
Im Abschlussdokument heißt es, dass „die EU-Kommission vor
der Veröffentlichung ihrer Gesetzesvorschläge die übereinstimmenden Ansichten
der Mitgliedstaaten berücksichtigen und die Gespräche mit den Mitgliedstaaten
in den Bereichen fortsetzen muss, in denen zusätzliche Diskussionen
erforderlich sind.“
Damit verzögert sich der ohnehin schon sehr enge Zeitplan,
den sich die EU-Kommission selbst gesetzt hat, weiter. Ursprünglich wollte die
EU-Kommission bis Ende März einen Gesetzesvorschlag vorlegen mit dem Ziel, die
Änderung der Regeln bis Ende des Jahres abzuschließen.
Die Frist ergibt sich auch aus der Tatsache, dass die
allgemeine Ausnahmeregel, die 2020 aktiviert wurde, um die Durchsetzung der
Fiskalregeln zu unterbrechen, 2024 deaktiviert wird.
In den fiskalischen Leitlinien der letzten Woche kündigte
die EU-Kommission an, dass sie die Überwachung der öffentlichen Haushalte im
Jahr 2024 wieder aufnehmen werde.
Im Idealfall, so die Europäische Kommission, wären dann
bereits die neuen Regeln in Kraft. EA 15
Im militärischen Ernstfall versteckt
sich die EU hinter den USA. Doch für die Abwehr militärischer Bedrohungen
braucht es dringend Alternativen. Jan Zielonka
Kurz bevor Russlands Großoffensive auf sein Land sich zum
ersten Mal jährte, reiste der ukrainische Präsident Wolodymyr Selenskyj am 9.
Februar nach Brüssel. Dort bereiteten Spitzenvertreter der Europäischen Union
ihm einen warmherzigen Empfang und beteuerten einmal mehr, die Ukraine gehöre
zu Europa. Nicht zufällig war Selenskyj allerdings zuerst nach Washington und
London gereist. Die EU unterstützt die Ukraine zwar insgesamt im gleichen
Umfang wie die USA, aber die Amerikaner liefern weitaus mehr Waffen – und
Waffen sind das, was die Ukraine im Augenblick am nötigsten braucht.
Die EU ist kein militärischer Akteur. Sie hält sich
stattdessen etwas auf ihre Konfliktprävention zugute, die darin besteht, dass
sie wirtschaftliche und gesetzliche Rahmenbedingungen schafft, die dem Frieden
zuträglich sind. Zudem kann sie, was den Wiederaufbau in Nachkriegszeiten
angeht, beeindruckende Erfolge vorweisen – etwa auf dem Balkan. Trotzdem konnte
die EU die russische Invasion nicht verhindern, und eine besiegte Ukraine würde
nicht von der EU, sondern von Russland „wiederaufgebaut“. Kein Wunder also,
dass Selenskyj die EU zu schnellerem und mutigerem Handeln drängt.
Dieser Krieg ist mehr als ein Konflikt, der an den Grenzen
der EU stattfindet und sich in den Strom- und Gasrechnungen der Europäerinnen
und Europäer bemerkbar macht: Russlands Angriff ist eine Antwort darauf, dass
die Ukraine immer näher an Europa heranrückt. Vergessen wir nicht, was 2014 der
Anlass für die erste russische Invasion war: Damals floh der pro-russische
Präsident der Ukraine, Wiktor Janukowytsch, vor den Massenprotesten, die er
dadurch ausgelöst hatte, dass er sich – auf Geheiß Moskaus – in letzter Minute
geweigert hatte, das Assoziationsabkommen zwischen der EU und der Ukraine zu
unterzeichnen.
Die EU ist unausweichlich in diesen Krieg verstrickt und
kann sich nicht hinter dem großen Beschützer USA verstecken. Heidi Mauer und
ihre Kollegen sehen Europa angesichts der russischen Aggression in einer
„kollektiven Handlungsverantwortung“. Aber ist die EU dieser Verantwortung auch
gewachsen? Wolfgang Streeck ist nicht der einzige europäische Intellektuelle,
der diese Frage verneint: „Sobald die Realpolitik ihr hässliches Haupt erhoben
hatte, verwandelte sich die EU in Nullkommanichts in eine Hilfsorganisation der
NATO, beauftragt unter anderem mit der Ausarbeitung von Sanktionen gegen
Russland, die großenteils nach hinten losgingen.“ Sanktionen verhängen – das
war das Mindeste, was die EU in Reaktion auf eine widerrechtliche und brutale
Invasion tun konnte, aber mit Sanktionen allein wird der Lauf der Dinge an der
Ostgrenze der EU sich nicht steuern lassen.
Das Problem ist: Dieser Krieg wirft so wie einst die Kriege
im ehemaligen Jugoslawien existenzielle Fragen auf, denen pragmatische – oder
sollte man sagen: kurzsichtige – europäische Politiker lieber aus dem Weg
gehen. Wo verlaufen Europas Grenzen? Sind die USA in Europa eine Macht sui
generis? Kann eine zivile Macht wie die EU in einem unzivilisierten politischen
Umfeld bestehen? Sollten Europas Wirtschaftsinteressen Vorrang haben vor
rechtlichen und moralischen Normen? Wer führt Europa, wenn Kriege ausbrechen?
Solange die EU auf diese fundamentalen Fragen keine überzeugenden Antworten
hat, wird sie wie gelähmt dastehen, wenn die ersten Bomben einschlagen.
Die Grenzen der EU sind seit jeher fließend. Zu den sechs
Gründungsmitgliedern der Europäischen Gemeinschaften gesellten sich im Laufe
der Zeit 22 Staaten, nachdem sie einen umfassenden Katalog europäischer Gesetze
und Vorschriften übernommen hatten. (Einer dieser Staaten ist inzwischen
ausgetreten.) Die Ukraine ist zwar weit davon entfernt, die rechtlichen
Voraussetzungen zu erfüllen, aber dennoch verkündete die
EU-Kommissionspräsidentin auf Twitter: „Die Ukrainerinnen und Ukrainer sind
bereit, für die europäische Perspektive zu sterben. Wir wollen, dass sie mit
uns den europäischen Traum leben.“
Dieser Traum ist nicht dasselbe wie eine EU-Mitgliedschaft,
aber Millionen ukrainische Flüchtlinge innerhalb der EU-Grenzen kommen in
gewisser Weise einer stillschweigenden Erweiterung der Union gleich. Wenn die
EU am Wiederaufbau der Ukraine nach dem Krieg mitwirkt, würde das Land auch
dadurch zum Teil der EU, wenn auch vorerst nur de facto und nicht de jure. Ist
die EU dafür bereit, die Faktenlage vor Ort anzuerkennen und die Ukraine aus
rein strategischen Erwägungen in ihren Reihen zu begrüßen?
Der Krieg in der Ukraine liefert die Bestätigung, dass die
USA bei Entscheidungen der EU (virtuell) mit am Tisch sitzen. Das gefällt nicht
allen, aber ohne die USA wäre Europa militärisch ein noch zahnloserer Tiger und
politisch noch tiefer gespalten. Dass Amerika sich für Europa engagiert, ist
keine Selbstverständlichkeit. Sollte Donald Trump zum zweiten Mal Präsident
werden, könnten er und Xi Jinping, Chinas Präsident auf Lebenszeit, eine
Situation entstehen lassen, die die USA zwingt, ihre strategischen Prioritäten
zu ändern. Dies wäre zum Beispiel dann der Fall, wenn Xi beschließt, in Taiwan
einzumarschieren. Dann hätte die EU keine Führungsmacht mehr, die gewillt und
in der Lage wäre, für den alten Kontinent einzustehen.
Der Krieg macht einmal mehr deutlich, dass Deutschland
dieser Führungsaufgabe nicht gewachsen ist. Das Land ist innerlich gespalten
und muss sich der einen oder anderen Anfeindung von außen erwehren. Zudem
sitzen bei Entscheidungen der EU allzu viele „Souveränisten“ mit am Tisch, die
nicht zulassen werden, dass Befugnisse im relevanten Umfang auf Brüssel
übertragen werden.
In den ersten Kriegsmonaten machte Mario Draghi – der
ehemalige Präsident der Europäischen Zentralbank und spätere italienische
Ministerpräsident – dann aber doch vor, dass es durchaus möglich ist, den
scheinbar widerspenstigen Club der Europäer durch informelle Führung zu lenken.
Führung ist nicht allein eine Frage von persönlichem Charisma, sondern hat auch
oder sogar ganz wesentlich damit zu tun, ob jemand in der Lage ist, einen
gemeinschaftlichen politischen Standpunkt zu formulieren, der Europas Werte
abbildet. Wie lässt sich eine Brücke schlagen zwischen jenen Europäern, für die
die Ukrainer Helden sind, weil sie Europas Sicherheit bewahren, und jenen, für
die die Ukrainer nichts weiter sind als fanatische Nationalisten, die Russlands
berechtigte Sicherheitsinteressen infrage stellen?
Ebenso schwer wäre es auch, die Wirtschaftsinteressen mit
rechtlichen und moralischen Standpunkten unter einen Hut zu bringen. Nach der
illegalen Annexion der Krim durch Russland 2014 hatte die EU ihren Handel mit
Moskau nicht zurückgefahren, und die politischen Maßnahmen, mit denen Europas
Abhängigkeit von russischen Öl- und Gaslieferungen reduziert werden sollte,
wurden bis 2022 nur halbherzig umgesetzt. Sogar jetzt gibt die EU immer noch
mehr Geld für Importe aus Russland aus als für Hilfen an die Ukraine. Ich
stimme nicht in den Chor derer ein, die für das gegenwärtige Dilemma die
deutschen Handelsbeziehungen zu Russland verantwortlich machen. Doch „Business
as usual“ mit Leuten, die mit ihren Verbrechen das Völkerrecht verletzen, ist
nicht nur unmoralisch, sondern Selbstmord auf Raten.
Gibt der Krieg in der Ukraine den Anstoß für die Schaffung
einer europäischen Armee? Nach den jugoslawischen Nachfolgekriegen beschloss
die EU den Aufbau einer schnellen Eingreifgruppe mit 60 000 Soldaten, doch
Taten gefolgt sind diesem Beschluss bis heute nicht. Seit dem Brexit stehen die
Chancen auf eine ernst zu nehmende europäische Armee noch schlechter. Nach dem
russischen Einmarsch in die Ukraine haben zwar mehrere Mitgliedstaaten – allen
voran Deutschland und Polen – beschlossen, ihre Rüstungsetats aufzustocken,
aber ob sie in absehbarer Zeit das Kapazitätsniveau der britischen Militärmacht
erreichen werden, ist höchst fraglich.
Gleichwohl könnte die EU viel mehr tun, um die gemeinsame
Beschaffung von Rüstungsgütern oder gar die gemeinsame Waffenproduktion zu
forcieren. Zum Beispiel könnte sie die Aufgabenstellung der Europäischen
Verteidigungsagentur erweitern und ihr Budget aufstocken. Sie kann auch der
Europäischen Friedensfazilität deutlich mehr Geld in die Hand geben, die die
von Mitgliedstaaten in die Ukraine gelieferten Waffen bezahlt und in Zukunft
friedenschaffende Militäreinsätze unterstützen könnte.
Wer die amerikanische Hegemonie in Europa beklagt, sollte
belastbare Alternativen für die Abwehr militärischer Bedrohungen parat haben.
Ohne konkretes sicherheitspolitisches Engagement wird die EU weder von Russland
noch von Amerika und auch nicht von Iran, Syrien und der Türkei ernst genommen.
Die EU wird nie ein klassischer militärischer Akteur sein,
aber Europas Sicherheit ist nicht nur eine Frage der Truppenstärke einer
möglichen europäischen Armee. Sie ist ebenso eine Frage der
Sicherheitsinfrastruktur, zu der auch Bereiche wie die nachrichtendienstliche
Aufklärung, Logistik, Kommunikation und Energie gehören – also lauter Bereiche,
in denen Europa politisch noch stärker an einem Strang ziehen kann. Vor allem
aber erfordert Sicherheit einen klaren Kompass und eine Führungskultur, die
sich nach Europas gemeinsamem Willen richtet.
„Dies ist die Stunde Europas“, verkündete der damalige
EG-Ratspräsident und luxemburgische Außenminister Jacques Poos, als er 1991 mit
zwei weiteren EG-Außenministern kurz nach Kriegsbeginn nach Jugoslawien flog.
Leider wurde Europa diesen hehren Ambitionen damals nicht gerecht und ließ
ihnen nicht die entsprechenden Taten folgen. Der Gang der Geschichte wird durch
einschneidende Ereignisse wie Kriege geprägt. Und es ist durchaus legitim, auch
jetzt wieder von einer „Stunde Europas“ zu sprechen. Doch die Gräuel von
Sarajevo und Mariupol, Srebrenica und Butscha lehren uns, dass es mit
beruhigenden Worten nicht getan ist. Gefordert sind mutige und schnelle
Entscheidungen, denen konkrete Taten folgen – sonst gerät die EU ins Wanken. IPG 14
Migrant
Acceptance and Citizenship matter for Champions League
Deutschland verliert im globalen Wettbewerb um Top-Talente
an Boden. Dabei sind die Kriterien für den Einzug in die Champions-League
bekannt: Einwanderer:innen besser akzeptieren und schneller einbürgern. Von
Ulrich Kober
Deutschland ist ein relativ offenes und attraktives Land für
internationale Top-Talente, denn es befindet sich im globalen Wettbewerb im
oberen Drittel der 38 OECD-Länder. Ein zweiter Platz bei internationalen
Studierenden ragt heraus. Soweit die gute Nachricht. Weniger erfreulich sind
die Ergebnisse bei Start-up Gründer:innen (12. Platz), Unternehmer:innen (13.
Platz) und Hochqualifizierten (15. Platz) aus dem Ausland. Das zeigt die
Neuauflage der OECD „Indicators of Talent Attractiveness“ (ITA).
„Das kann nicht unser Anspruch sein“, könnte jetzt im
Fussball-Deutsch angemerkt werden – eine oft verwendete Floskel von
Verantwortlichen bei empfindlichen Niederlagen. Denn Deutschland ist bei drei
von vier begehrten Zielgruppen von Top-Talenten aktuell nicht konkurrenzfähig
in der Champions League der attraktivsten OECD-Staaten.
Wie nach einem verlorenen Fußballspiel kommt es jetzt auf
die Fehleranalyse an! Zunächst einmal ist festzuhalten, dass Deutschland nicht
schlecht ist, die anderen aber einfach besser geworden sind. Um Anschluss an
die attraktivsten Top-5-Länder zu finden, kann die Bundesrepublik an einigen
Schrauben der „Hard- und Software“ der Migrations- und Integrationspolitiken
drehen.
„Die Visaverfahren sind eine wichtige Baustelle, denn diese
sind in Deutschland immer noch nicht vollständig digitalisiert.“
Die Visaverfahren sind eine wichtige Baustelle, denn diese
sind in Deutschland immer noch nicht vollständig digitalisiert. Es gibt auch
keine maßgeschneiderten Visa für Start-up Gründer:innen wie in anderen Ländern,
die um diese Zielgruppe intensiv werben.
In der ITA-Dimension „Qualität der beruflichen Chancen“
schneidet die Bundesrepublik z. B. bei den Hochqualifizierten nur mittelmäßig
ab, weil sie hierzulande oft in Jobs arbeiten, für die sie eigentlich
überqualifiziert sind. Insgesamt trübt weiter die schleppende Digitalisierung
die deutsche Bilanz.
„Neben diesen harten regulativen und ökonomischen Aspekten
zählen aber auch sozio-kulturelle Faktoren. Dazu gehört der Umgang mit
ethnischer und kultureller Heterogenität.“
Neben diesen harten regulativen und ökonomischen Aspekten
zählen aber auch sozio-kulturelle Faktoren. Dazu gehört der Umgang mit ethnischer
und kultureller Heterogenität, der mit der Einbürgerungspraxis zusammenhängt.
In der Dimension „Umgang mit Diversität“ berücksichtigen die ITA die Akzeptanz
von Migrant:innen in der Gesellschaft, die mit dem Gallup-Index gemessen wird.
Dabei werden drei Fragen gestellt: Finden Sie es gut oder
schlecht, dass ausländische Einwander:innen in ihrem Land leben, dass sie Ihre
Nachbarn werden und dass sie einen nahen Verwandten heiraten? Maximal können 9
Punkte erreicht werden, weil jede „gut“-Antwort drei Punkte erhält. Kanada als
Spitzenreiter hat rund 8,5 Punkte und bildet mit Island, Neuseeland, Australien
und den USA die Top-5-Spitze. Deutschland befindet sich mit 6,5 Punkten nur auf
dem 20. Platz der 38 OECD-Länder (World Grows Less Accepting of Migrants).
„Ebenfalls nur Mittelmaß ist Deutschland bei der
Einbürgerung, die bei den ITA in der Dimension „Zukunftsaussichten“
berücksichtigt wird.“
Ebenfalls nur Mittelmaß ist Deutschland bei der
Einbürgerung, die bei den ITA in der Dimension „Zukunftsaussichten“
berücksichtigt wird. Der Indikator zeigt, wie viele Einwanderer:innen immer
noch keine Staatsbürger sind, obwohl sie schon seit 10 Jahren rechtmäßig im
Land leben. In Deutschland waren dies 2020 45 Prozent, in den meisten
„ITA-Champions“ sind es deutlich weniger: in Kanada 9,5 Prozent, in Schweden 13
Prozent, in Australien 18,6 Prozent, in den USA 36,6 Prozent sowie in Norwegen
und Neuseeland jeweils 38,7 Prozent (Deutschland im internationalen Wettbewerb
um Talente 2023, S. 4).
Lediglich die Schweiz fällt aus dem Rahmen: Obwohl ihre
Punkte für Einbürgerungspraxis und Migrant Acceptance Index noch bescheidener
sind als die für Deutschland, schaffen es die Eidgenossen zweimal in die TOP 5
der attraktivsten Staaten. Aber trotz dieser alpinen Ausnahme bewahrheitet sich
die These, dass Akzeptanz von Migrant:innen und zügige Einbürgerung
charakteristisch sind für „ITA-Spitzennationen“. Wenn Deutschland in dieser
Champions League mitspielen will, dann sollten die Einbürgerungsregeln geändert
werden. Diese Reform hätte auch einen positiven Einfluss auf die
gesellschaftliche Akzeptanz von ethnischer und kultureller Heterogenität. Die
Pläne dafür liegen auf dem Tisch! Mig 14
EU-Asylpolitik. Nicht nur über
Grenzschutz reden, sondern über Reformen
Seit Jahren streiten die EU-Staaten über die
Migrationspolitik. Zuletzt ging es immerhin langsam voran. Kann trotzdem die
ganz große Reform gelingen? Die deutsche Innenministerin sagt „Ja“ und mahnt
an, nicht nur über Grenzschutz zu reden.
Ungeachtet nur zäher Fortschritte in der europäischen Asyl-
und Migrationspolitik setzt Bundesinnenministerin Nancy Faeser auf eine
umfassende Reform bis zur Europawahl im Frühjahr 2024. „Die Asylpolitik in
Europa auf gemeinsame Füße zu stellen, das ist immer noch mein größtes Ziel und
auch das größte Ziel vieler anderer Länder“, sagte die SPD-Politikerin am
Donnerstag in Brüssel. Es seien bereits viele Teile der Reform beschlossen.
Diese Arbeit müsse noch in diesem Jahr zu Ende gebracht werden. Dies ist
notwendig, damit die Gesetze noch in dieser Legislaturperiode angenommen werden
können.
Hintergrund sind die Vorschläge der EU-Kommission für eine
Reform der Asyl- und Migrationspolitik vom September 2020, die einen langen
Streit der Mitgliedstaaten überwinden sollten. Tatsächlich umgesetzt sind
bislang nur kleinere Teile wie ein ausgeweitetes Mandat der EU-Asylagentur. Der
genaue Termin für die Europawahl im nächsten Frühjahr steht noch nicht fest.
Die EU-Staaten verständigten sich im Sommer zwar auf
verschärfte Regeln an den europäischen Außengrenzen und eine Reform der
Datenbank zur Abnahme von Fingerabdrücken. Einigungen mit dem EU-Parlament bei
diesen Themen stehen jedoch noch aus. Hinzu kommt, dass die 27 Staaten beim
Kern einer möglichen Reform – der Frage nach einer Verteilung von
Schutzsuchenden und anderen Formen der Solidarität – weit von einer Lösung
entfernt sind.
Kaum Fortschritte in der Verteilungsfrage
Derzeit ist nach den Dublin-Regeln meist jener EU-Staat für
einen Asylantrag zuständig, auf dessen Boden der Schutzsuchende zuerst
europäischen Boden betritt. Länder wie Deutschland und die Niederlande dringen
darauf, dass diese Regeln befolgt werden. Staaten an den Außengrenzen fordern
dagegen mehr Unterstützung. Ihnen wird vorgeworfen, sich nicht an die Dublin-Regeln
zu halten.
Weil es bei der Frage der Verteilung von Schutzsuchenden
kaum vorangeht, konzentrierten sich die EU-Staaten zuletzt darauf, die
Außengrenzen besser zu schützen. Zudem soll durch Zusammenarbeit mit Transit-
und Herkunftsländern etwa in Afrika dafür gesorgt werden, dass sich möglichst
wenige Menschen auf den Weg machen.
Faeser: Nicht nur über Grenzschutz reden
Faeser sagte nun: „Es kann nicht sein, dass wir nur darüber
reden, ob die Grenzen rund um Europa hochgezogen werden, sondern es geht darum,
ein gemeinsames Asylsystem zu haben mit einer gerechten Verteilung.“ Ohne eine
solche gerechte Verteilung werde es keine Lösung geben. Die Ministerin kündigte
an, dass Deutschland Überlebende des Bootsunglücks mit mehr als 70 toten
Migranten vor der Küste Süditaliens Ende Februar aufnehmen werde. Eine konkrete
Zahl nannte sie nicht.
Auch EU-Innenkommissarin Ylva Johansson machte deutlich,
dass sie an eine Einigung bis Anfang 2024 glaubt. „Wir stehen unter Zeitdruck.
Aber es ist kein unrealistischer Zeitplan, den wir verfolgen.“ (epd/mig 10)
Mächtig, mächtiger, EU-Kommission?
Die EU will ihre Möglichkeit zur wirtschaftspolitischen
Steuerung ausbauen. Um erzwungene Sparkurse zu verhindern, braucht es
demokratische Kontrolle. Dominika Biegon
In Brüssel wird derzeit auf Hochtouren an einer Reform der
wirtschaftspolitischen Steuerung gearbeitet. Im November vergangenen Jahres hat
die EU-Kommission erste Reformvorschläge skizziert, konkrete
Gesetzesinitiativen sollen im ersten Halbjahr 2023 folgen. Was wie ein Thema
für Insider klingt, hat es aber in sich. Es geht darum, die Stellschrauben für
die Finanzpolitik der Mitgliedstaaten neu zu justieren.
Ein zentraler Aspekt ist dabei die Stärkung öffentlicher
Investitionen. Je nachdem, wie die Details der Reform ausfallen, werden die
Mitgliedstaaten in den nächsten Jahren mehr oder weniger Spielraum haben, um
mit öffentlichen Investitionen die sozial-ökologische Transformation zu
finanzieren. Hier gehen die Reformvorschläge nicht so weit, wie Gewerkschaften
und andere zivilgesellschaftliche Organisationen es sich gewünscht hätten. Eine
goldene Regel für öffentliche Investitionen, wonach Nettoinvestitionen durch
Kreditaufnahme finanziert werden können, ist nicht Bestandteil des
Reformvorschlags. Dennoch beinhalten die Vorschläge der Kommission wichtige
Neuerungen im Bereich der Investitionspolitik. Ob diese ausreichen, um die
immense Investitionslücke zu schließen, hängt von vielen Details ab. Unter
anderem auch davon, ob die Vorschläge von weiteren, auch industriepolitischen
Maßnahmen flankiert werden.
Aus gewerkschaftlicher Perspektive ist im anstehenden
Reformprozess ein weiterer Aspekt zentral: Im Kontext der COVID-19-Pandemie und
der Energiekrise sind die Schuldenstände in vielen Mitgliedstaaten deutlich gestiegen.
Das heißt, der Konsolidierungsdruck auf die Haushalte der Mitgliedstaaten wird
in den nächsten Jahren deutlich zunehmen. Währenddessen hat die Europäische
Zentralbank in den letzten Monaten eine historisch einmalige geldpolitische
Straffung vollzogen und das Ende der Fahnenstange scheint noch lange nicht
erreicht zu sein. Dabei haben sich die Refinanzierungskosten der
Mitgliedstaaten schon jetzt deutlich erhöht. Hinzu kommt, dass die
Inflationsraten im Euroraum insbesondere zwischen Ost- und Westeuropa zunehmend
auseinanderdriften, was das Funktionieren der einheitlichen Geldpolitik
erschweren könnte. Die Situation in der Währungsunion ist also mehr als
angespannt und eine erneute Währungskrise ist nicht ausgeschlossen.
Viele erinnern sich noch genau an die letzte Eurozonenkrise
und die darauffolgende Sparpolitik, die durch die sogenannten Troika aus
EU-Kommission, Europäischer Zentralbank und dem IWF verordnet wurde. Für die
Gewerkschaften ist klar: Nie mehr sollte eine technokratische Institution wie
die Troika die Mitgliedstaaten unter Druck setzen, um Rentenkürzungen,
Lohneinsparungen im öffentlichen Dienst und eine Schwächung der Tarifbindung
umzusetzen. Eine Reform der EU Economic Governance muss deshalb so ausgestaltet
werden, dass dieses Mal eine rigide Sparpolitik effektiv ausgeschlossen ist.
Natürlich muss es in einer Währungsunion Regeln geben, die
sicherstellen, dass die Mitgliedstaaten der Währungsunion eine tragfähige
Haushaltspolitik verfolgen. Nach der Finanzkrise wurde der Bogen aber deutlich
überspannt. Die von der Troika verordnete Sparpolitik hatte fatale soziale
Folgen. Gleichzeitig wurde das Ziel der Haushaltskonsolidierung nicht erreicht,
weil die Strukturreformen auch das wirtschaftliche Wachstum dämpften.
Wissenschaftliche Studien belegen mittlerweile, dass das Euro-Regime – also die
Institutionen und Regeln der Währungsunion – einen enormen makroökonomischen
Anpassungsdruck ausgeübt hat, der zu Lasten der Beschäftigten ging. Das galt
nicht nur für die sogenannten Programmländer, die Finanzhilfen aus dem
Europäischen Stabilitätsmechanimus bekamen, sondern auch für viele Kernländer
der Währungsunion.
Kann das von der EU-Kommission vorgeschlagene Regelwerk
verhindern, dass es zu einer Austeritätspolitik 2.0 kommt und Strukturreformen
forciert werden, die einseitig auf eine Stärkung der preislichen
Wettbewerbsfähigkeit setzen, welche vor allem darauf abzielt, Löhne und soziale
Rechte zu schwächen? Die Antwort darauf fällt gemischt aus. Fakt ist, dass die
EU-Kommission eine leichte Abkehr von einer regelbasierten Fiskalpolitik
vorschlägt. Das heißt: Politische Verhandlungen zwischen den Mitgliedstaaten
und der EU-Kommission sollen ins Zentrum der wirtschaftspolitischen
Koordinierung rücken. Der Schuldenabbaupfad soll nicht mehr „mechanisch“ auf
der Basis makroökonomischer Eckwerte ermittelt, sondern in einem
Aushandlungsprozess mit den Mitgliedstaaten vereinbart werden.
Das bedeutet auch, dass der Ermessensspielraum der
EU-Kommission in der EU-Fiskalpolitik deutlich steigt. Würden die Reformen so
umgesetzt, wie von der Kommission vorgeschlagen, käme das einem Freibrief für
die EU-Kommission gleich. Damit hätte sie die Befugnisse, den Mitgliedstaaten
eine Haushaltspolitik nach ihrem eigenen Gusto zu verordnen. Denn die
Kommission definiert die Parameter der Schuldentragfähigkeitsanalyse und
formuliert im Wesentlichen die länderspezifischen Empfehlungen, welche die
Mitgliedstaaten umsetzen müssen, um eine Verlängerung des Schuldenabbaus
gestattet zu bekommen. Außerdem führt sie die Verhandlungen mit den
Mitgliedstaaten über die Vier-Jahrespläne in denen Ausgabenpfade,
Strukturreformen und Investitionsvorhaben fixiert und nur in Ausnahmefällen
verändert werden. Können sich die EU-Kommission und die Mitgliedstaaten nicht
einigen, soll automatisch die von der EU-Kommission definierte
Ausgabenobergrenze gelten.
Welche konkreten Politikinhalte daraus folgen, ist offen.
Einerseits kann der Fokus auf politische Verhandlungen eine Chance darstellen.
Eine solche Vorgehensweise könnte eine stärkere Differenzierung der
fiskalpolitischen Vorgaben zur Folge haben. Länderspezifische Herausforderungen
könnten beim Schuldenabbau stärker berücksichtigt werden. Richtig umgesetzt
könnte so mit den Mitgliedstaaten ein behutsamer Schuldenabbau vereinbart
werden, der mehr Spielraum zur Finanzierung öffentlicher Investitionen lässt
und Wachstumsimpulse setzt. Damit könnten die Kommissionvorschläge ein
Türöffner für eine flexiblere Anwendung der Regeln sein. Es ist genau dieses
Szenario, dass das Bundesfinanzministerium offensichtlich fürchtet, wenn es
unterstreicht, dass Fiskalregeln nicht zur Verhandlungssache werden dürfen.
Andererseits ist auch ein umgekehrtes Szenario denkbar: Man
stelle sich vor, die makroökonomischen Bedingungen verschlechtern sich weiter
zum Nachteil der hochverschuldeten Mitgliedstaaten. Die
Finanzierungsbedingungen trüben sich ein und Spekulanten fangen an auf den
Staatsbankrott Italiens zu wetten. Die EU-Kommission stünde gewaltig unter
Druck die Mitgliedstaaten dazu zu bringen, ihre Sparanstrengungen zu erhöhen.
Oder: die politischen Mehrheitsverhältnisse innerhalb der EU-Kommission ändern
sich und neoliberale Hardliner definieren die länderspezifischen Empfehlungen
und säßen am Verhandlungstisch. Nichts kann die EU-Kommission daran hindern,
wieder eine rigide Sparpolitik in den Mitgliedstaaten zu forcieren und anders
als vor zehn Jahren, hat sie jetzt eine ganze Reihe an Sanktionsmöglichkeiten,
um die Umsetzung ihrer Politikempfehlungen durchzusetzen. Sie kann den
Mitgliedstaaten mit dem Entzug von Strukturfondsmitteln und Geldern aus der
Aufbau- und Resilienzfazilität drohen und finanzielle Strafen verhängen. Jetzt
sollen auch noch weitere Sanktionen dazu kommen, die darauf abzielen, die
Reputation des betreffenden Mitgliedstaates zu treffen.
Das Problem der Reformagenda der EU-Kommission besteht aus
Sicht der Gewerkschaften nicht darin, dass die EU-Fiskalpolitik stärker zur Verhandlungssache
wird, sondern daran, dass sie in einer politischen Arena verhandelt wird, die
sich jeglicher demokratischen Kontrolle entzieht. Mit anderen Worten: Es ist
gut, wenn die zukünftige europäische Fiskalpolitik stärker von politischen
Aushandlungsprozessen geprägt ist und weniger von einer mechanischen
Regelanwendung. Die Fiskalpolitik ist keine technische Angelegenheit, die man
an Experten delegieren kann. Wie Mark Dawson und Adina Marikut-Akbik
unterstreichen, wendet die EU-Kommission in diesem Bereich bislang Methoden an,
welche eher dem Selbstverständnis einer unabhängigen Regulierungsbehörde
entsprechen, die über technische Sachverhalte zu befinden hat. Diese
Steuerungsmechanismen passen nicht zu den hoch politischen Inhalten, die im
Rahmen der wirtschaftspolitischen Koordinierung verhandelt werden. Der
technokratische Charakter der politischen Steuerung hat unter anderem auch dazu
beigetragen, dass die EU-Vorgaben im Bereich der Fiskalpolitik in den
Mitgliedstaaten häufig als „von Brüssel auferlegt“ wahrgenommen und nicht
effektiv umgesetzt wurden.
Mehr politische Verhandlungen sind also der richtige Weg,
diese müssen aber demokratisch eingebettet werden. Der Deutsche
Gewerkschaftsbund fordert deshalb in einer aktuellen Stellungnahme, dass bei
den anstehenden Reformen auch die politischen Steuerungsmechanismen der EU
Economic Governance auf den Prüfstand kommen. Die anstehende Reform muss
begleitet werden von einer umfassenden Demokratisierung.
Der DGB fordert unter anderem, dass erstens der Gesetzesvorschlag,
den die EU-Kommission voraussichtlich in der ersten Jahreshälfte 2023 vorlegen
wird, in einem ordentlichen Gesetzgebungsverfahren unter Beteiligung des
EU-Parlaments verabschiedet wird. Zweitens müssen im zukünftigen Gesetzestext
Mindeststandards der parlamentarischen Einbindung bei der Erstellung der
Vier-Jahrespläne definiert werden. Auch eine effektive Einbindung der
Sozialpartner und anderer zivilgesellschaftlicher Organisationen muss
sichergestellt werden. Drittens muss die Rolle des Europäischen Parlaments im
Europäischen Semester für die Koordinierung der Wirtschaftspolitik aufgewertet
wird. Unter Einbeziehung des Europäischen Parlaments sollten Prozesse
installiert werden, die sicherstellen, dass die Reformempfehlungen der EU-Kommission
nicht gegen grundlegende Politikziele der EU wie den Green Deal oder die
Europäische Säule sozialer Rechte verstoßen. Viertens muss eine Änderung der
Vier-Jahrespläne bei einem Regierungswechsel oder eine Veränderung der
makroökonomischen Bedingungen problemlos möglich ist. Auch eine Erhöhung der
Staatsausgaben muss bei einer entsprechenden steuerlichen Gegenfinanzierung
unkompliziert möglich sein, ohne den gesamten Prozess neu aufrollen zu müssen.
Und fünftens müssen die Details der Schuldentragfähigkeitsanalyse in einem
transparenten und demokratischen Verfahren bestimmt werden.
Im Ergebnis würde eine stärkere Demokratisierung und
Politisierung der europäischen Fiskalpolitik auch gewerkschaftliche
Machtressourcen stärken. Wenn Politikentscheidungen nicht auf der Basis
vermeintlich objektiver Daten von Experten getroffen werden, sondern im
politischen Raum darüber verhandelt und gestritten wird, können wir unsere
etablierten Netzwerke und Einflusskanäle nutzen, um unseren politischen
Forderungen Gehör zu verschaffen.
Gleichwohl ist klar, dass eine Demokratisierung nicht alle
Probleme der Währungsunion lösen wird. Es bleibt das Problem, dass
Mitgliedstaaten der Währungsunion dem Druck der Märkte im besonderen Maße
ausgesetzt sind, weil es so etwas wie einen Kreditgeber der letzten Instanz
nicht gibt. Dieses strukturelle Problem ließe sich nur lösen, wenn man
Eurobonds einführt – eine Maßnahme für die sich der DGB seit langem einsetzt.
Und natürlich ist eine Demokratisierung keine Garantie für eine bessere soziale
Balance bei den Politikempfehlungen der EU-Kommission. Aber die Stärkung der
demokratischen Kontrolle kann zumindest dazu führen, dass technokratische
Fehlentscheidungen in der Öffentlichkeit stärker in Frage gestellt und
kritisiert werden. Die Kontrolle über die Staatsfinanzen gehört zum Königsrecht
der Parlamente. Auf europäischer Ebene muss dieser Grundsatz endlich umgesetzt
werden. IPG 10
Italien könnte Partnerschaft mit
China aufgeben
Die italienische Regierung zeigt sich weiter unentschlossen
darüber, ob man eine Partnerschafts-Erklärung zwischen Rom und Peking, die im
nächsten Jahr ausläuft, erneuern will. Von: Federica Pascale
Im Jahr 2019 hatte die frühere Regierung von Giuseppe Conte
die Absichtserklärung mit China unterzeichnet. Italien hat sich seitdem Chinas
Gruppe von Partnerländern im Rahmen der „neue Seidenstraße“ angeschlossen und
war damit einer der ersten EU-Mitgliedstaaten, die hieran teilnahmen.
Das Abkommen, das bis März 2024 gilt, soll die politischen
Beziehungen und den Handel zwischen Rom und Peking stärken und umfasst Dutzende
von Vereinbarungen zwischen Institutionen und Unternehmen. Der Austritt aus dem
Abkommen müsste mindestens drei Monate vorher schriftlich angekündigt werden,
sonst verlängert es sich automatisch um weitere fünf Jahre.
Der Handel zwischen Italien und China hat in den letzten
drei Jahren „neue Rekorde aufgestellt und erreichte im Jahr 2022 ein Volumen
von 73,55 Milliarden Euro, womit Rom unter den Ländern, die Handelsbeziehungen
mit China unterhalten, auf europäischer Ebene an der Spitze steht“, erklärte
der chinesische Botschafter in Italien Jia Guide.
Laut Silvia Menegazzi, Professorin für Chinastudien an der
LUISS Guido Carli Universität, haben sich jedoch die Rahmenbedingungen sowie
die Wahrnehmung Chinas durch den Westen verändert.
„Aus politischer Sicht hat das Abkommen der Regierung Conte
bereits im Jahr 2019 offensichtliche Schwierigkeiten bereitet, obwohl es für
die italienische Wirtschaft von großem Nutzen war“, sagte sie gegenüber
EURACTIV Italien.
Ein geleaktes Dokument skizziert das Ausmaß, in dem China im
Rahmen seiner „Neuen Seidenstraße“ künftig in Italien investieren und mit Rom
bei Infrastrukturprojekten kooperieren will.
„Heute hat sich der internationale Kontext erheblich
verändert, und die Rolle Chinas ist eine andere. Das kann die politische
Debatte nur weiter verschärfen, während sich die Regierung Meloni in einer
Sackgasse befindet“, so Menegazzi.
Die einfachste Lösung sei, das Abkommen selbst zu
verlängern, da ein Ausstieg mehr Schlagzeilen machen würde.
Schließlich „profitieren alle von den Geschäften mit China“,
so die Professorin.
Regierung uneins
Vor ihrer Wahl war Meloni dafür bekannt, China gegenüber
distanziert eingestellt zu sein, sie bezeichnete das Abkommen zwischen Conte
und China damals als „großen Fehler.“
Als Premierministerin scheint sie nun jedoch vorsichtiger zu
sein, wenn es darum geht, klar Position zu beziehen.
„Wenn ich morgen früh die Verlängerung dieses Memorandums
unterzeichnen müsste, würde ich kaum die politischen Bedingungen sehen“, sagte
Meloni im September gegenüber der taiwanesischen Nachrichtenagentur Cna und
bezog sich dabei auf die geplante Verlängerung im Jahr 2024.
„Ich hoffe, die Zeit wird Peking dazu dienen, seinen Ton zu
mäßigen und etwas Konkretes für die Achtung der Demokratie, der Menschenrechte
und der internationalen Legalität zu tun“, betonte sie und übte scharfe Kritik
an den von China verursachten Spannungen in Taiwan.
In diesen Tagen jedoch, so Meloni, werde das China-Dossier
„noch ausgewertet.“ In ihrer Partei hätten sich einige Mitglieder skeptisch
gegenüber Peking geäußert.
Landwirtschaftsminister Francesco Lollobrigida sagte, die
Regierung werde „mit viel Umsicht“ handeln, was unter der Regierung Conte nicht
der Fall gewesen sei.
China biete „Vorteile, da es ein sehr wichtiger
Handelspartner ist, aber auch Nachteile: ein Entwicklungsmodell, das sich von
unserem unterscheidet, andere Regeln für die Achtung der Arbeitnehmerrechte,
eine andere Herangehensweise an den russisch-ukrainischen Konflikt, an das
Klima und an Afrika“, sagte er.
„Wir müssen uns im Einklang mit den europäischen Staaten und
auch mit den Vereinigten Staaten, mit den NATO-Ländern, bewegen, denn ein
Bündnis ist ein Bündnis, nicht nur ein militärisches“, sagte Lollobrigida in
einem Interview mit Il Messaggero.
Im November 2022 sagte Verteidigungsminister Guido Crosetto,
dass die Position von Melonis Partei Fratelli d’Italia feststehe, das Abkommen
nicht zu verlängern.
„Unsere Position wird sich nicht ändern, daher halte ich
eine mögliche Verlängerung für unwahrscheinlich“, sagte Crosetto gegenüber Il
Foglio, nachdem Meloni im November am Rande des G20-Gipfels auf Bali den
chinesischen Premierminister Xi Jinping getroffen hatte.
Crosetto betonte, dass Italien die wirtschaftliche
Zusammenarbeit mit China nicht vernachlässigen dürfe, da es bestrebt sein
sollte, die Exporte nach Peking zu steigern, jedoch vermeiden müsse, dass die
Handelsbeziehungen „zu einseitig“ seien.
Der ehemalige Botschafter Giulio Terzi di Sant’Agata, jetzt
Senator für die Fratelli d’Italia, erklärte gegenüber Formiche.net: „Ich möchte
nicht einmal in Erwägung ziehen, dass es zum Zeitpunkt des Ablaufs der Frist
keine gründliche Überprüfung und enge Konsultation mit den europäischen und
atlantischen Partnern geben wird, um die Gewichte mit Peking neu zu verteilen.“
Der Minister für Unternehmen und Made in Italy, Adolfo Urso,
hat ebenfalls wiederholt gewarnt, dass eine technologische Abhängigkeit von
Peking um jeden Preis vermieden werden sollte, um nicht den gleichen Fehler zu
begehen, den man mit Wladimir Putins Russland in Sachen Gas gemacht habe.
In Bezug auf den Welthandel sagte Urso, dass China versuche,
„unsere Demokratien zu unterwerfen“ und man sich dessen bewusst sein müsse.
„Positive“ Gespräche
Im Februar dieses Jahres traf Chinas oberster Diplomat Wang
Yi in Rom mit Vizepremier und Außenminister Antonio Tajani zusammen.
Tajani bezeichnete die Gespräche, die sich auf den
Handelsaustausch und den Menschenrechtsdialog konzentrierten, als positiv
bezeichnete, jedoch erklärte, für Diskussionen über eine Verlängerung des
Abkommens sei es „zu früh.“
„Wir evaluieren das Abkommen“, erklärte der Minister
kürzlich.
Mit Peking habe man „gute Beziehungen, wir sehen, dass es
viele Formen der Zusammenarbeit gibt, auch im Handel“, so Tajani. „Wir müssen
mit allen gute Beziehungen haben, aber Indien wird immer mehr zu einem
strategischen Partner Italiens in diesem Bereich“.
Nach Ansicht von Menegazzi ist Indien, das vom Westen in den
letzten zwei Jahren als nützliches Gegengewicht zum Aufstieg Chinas angesehen
wurde, jedoch in mehreren Bereichen kein idealer Partner.
„Indien vertritt in wichtigen Fragen, vom Krieg bis zum
Handel, oft eine eindeutige Position. Es hat seine eigenen Interessen, die sich
meistens nicht mit denen der westlichen Länder decken“, sagte sie gegenüber
EURACTIV Italien.
EU ändert ihren Ton
Der Krieg in der Ukraine und die mühsame Abnabelung von
russischem Öl und Gas haben viele EU-Länder dazu veranlasst, wirtschaftliche
Abhängigkeiten von einzelnen Ländern infrage zu stellen.
In dem Bemühen, denselben Fehler in Zukunft nicht zu
wiederholen, überprüft die EU nun ihre Handelsbeziehungen zu China.
Premierminister Edi Rama sagte, dass die 17+1
Wirtschaftskooperation zwischen China und den osteuropäischen Ländern keine
wirtschaftlichen Vorteile mit sich bringe, aber Albanien werde in der Gruppe
bleiben, um den Dialog mit Peking aufrechtzuerhalten
Peking sah sich gezwungen, sich gegen den Vorwurf der
„Schuldenfallen-Diplomatie“ zu wehren, weil es Ländern und Projekten, die nicht
realisierbar waren, erhebliche Summen geliehen hat. Im Fall von Montenegro
hätte die Unfähigkeit des Landes, seine Raten zurückzuzahlen, fast dazu geführt,
dass es einen Teil seines Territoriums abtreten musste, bis drei internationale
Banken intervenierten.
China beteuert jedoch, dass es sich nicht auf solche
Schuldenfallen einlasse.
Europa ist bei vielen kritischen Rohstoffen, die als
entscheidend für den Erfolg des grünen und digitalen Wandels gelten, stark von
China abhängig. China liefert beispielsweise 86 Prozent der weltweiten
Versorgung mit Seltenen Erden – ein entscheidendes Element für Autobatterien.
Die EU plant, in Kürze ihre Akte zu kritischen Rohstoffen
vorzulegen, mit der die Abhängigkeit von nicht-demokratischen Staaten
verringert und die europäische Autonomie gestärkt werden soll. EA 10
Studie. Deutschland verliert im
Werben um Fachkräfte an Boden
Wie attraktiv ist Deutschland für internationale Fachkräfte
und Unternehmen? Das hat eine Studie beleuchtet und festgestellt: Die
Bundesrepublik fällt zurück, weil andere Staaten besser werden. Grund sind
vergleichsweise schlechtere berufliche Chancen, komplizierte Visaverfahren
sowie geringere Akzeptanz von Migranten.
Deutschland verliert laut einer Studie im Kampf um
hochqualifizierte Fachkräfte und Start-up-Gründer weiter an Boden. Nach einer
Auswertung der Bertelsmann Stiftung ist die Bundesrepublik unter den 38 Ländern
der Organisation für wirtschaftliche Zusammenarbeit und Entwicklung, kurz OECD,
seit 2019 beim Ansehen von Platz 12 auf 15 zurückgefallen. Das teilten Stiftung
und OECD gemeinsam am Donnerstag in Berlin mit.
Bewertet wurden dazu in einem Index die Rahmenbedingungen,
die für qualifizierte Migranten attraktiv sind. Dabei geht es um berufliche
Chancen, Einkommen und Steuern, Zukunftsaussichten, Möglichkeiten für
Familienmitglieder oder die Visavergabe.
Die OECD-Staaten Neuseeland, Schweden, Schweiz, Australien
und Norwegen sind laut Index am attraktivsten für hochqualifizierte Fachkräfte.
Die Bedingungen in Deutschland haben sich demnach zwar seit der letzten
Auswertung im Jahr 2019 nicht verschlechtert, aber andere Länder haben zugelegt
und damit Deutschland in der Rangliste überholt.
Akzeptanz von Migranten geringer ausgeprägt
Für Unternehmer liegen Schweden, die Schweiz, Kanada,
Norwegen und Neuseeland ganz vorne. Hier ist Deutschland vom 6. auf den 13.
Platz abgerutscht. Hauptärgernis sei die schleppende Digitalisierung. Und
anders als andere Länder fordere Deutschland ein Mindestkapital. Außerdem sei
die Akzeptanz von Migranten geringer ausgeprägt.
Erstmals wurden 2023 für den OECD-Index auch die
Rahmenbedingungen für Unternehmensgründer untersucht. Hier haben Kanada, USA,
Frankreich, Großbritannien und Irland die größte Anziehung. Deutschland liegt
abgeschlagen auf Platz 12. Als Gründe sehen die Studienautoren hier geringe
berufliche Chancen, zu wenige Erfinder und fehlende maßgeschneiderte Visa.
Studienstandort Deutschland weiter attraktiv
„Deutschland braucht zur Sicherung seines Wohlstands
Fachkräfte, auch aus dem Ausland. Der internationale Vergleich zeigt deutlich,
was Deutschland tun muss, um die für unser Land so wichtige Fachkräftemigration
noch besser zu gestalten“, sagt Ralph Heck, Vorstandsvorsitzender der
Bertelsmann Stiftung zum Ergebnis der Studie.
Positiver ist das Bild bei der Hochschulbildung. Hinter den
USA liegt Deutschland auf Platz 2, wenn es um die Attraktivität für Studierende
aus der ganzen Welt geht. Im Kampf um internationale Talente folgen
Großbritannien, Norwegen und Australien auf den Plätzen 3 bis 5. Deutschland
punktet hier mit herausragenden Universitäten, geringen Kosten für das Studium
und guten Arbeits- und Bleibemöglichkeiten, wie die Stiftung mitteilte.
(dpa/mig 10)
Macron will Recht auf Abtreibung in
französische Verfassung aufnehmen
Der französische Präsident Emmanuel Macron spricht sich
dafür aus, das Recht auf Abtreibung in der Verfassung zu verankern, und plant,
in den nächsten Monaten einen entsprechenden Gesetzentwurf ins Parlament
einzubringen. Von: Clara Bauer
Macrons Ankündigung kam am Mittwoch (8. März), dem
Internationalen Frauentag. Gleichzeitig würdigte der französische Präsident die
verstorbene Anwältin und Feministin Gisèle Halimi, aufgrund deren Kampagne in
den 1970er Jahren die ersten Abtreibungsgesetze in Frankreich durchgesetzt
wurden.
„Heute möchte ich, dass die Kraft ihres Kampfes uns hilft,
unsere Verfassung zu ändern, um die Freiheit der Frauen zur Abtreibung zu
verankern“, sagte er.
Der Gesetzesentwurf solle „in den nächsten Monaten“
eingebracht werden, so Macron. Dieser werde sich eng an einen Gesetzesvorschlag
des Senats vom Februar anlehnen.
Die Ankündigung sei „ein Sieg für die Feministinnen“, die
überwältigende Mehrheit von 80 Prozent der Franzosen unterstütze den
Gesetzentwurf, erklärte die Frauenstiftung, eine Nichtregierungsorganisation,
in einer Pressemitteilung.
„Ohne den Zugang zu einer kostenlosen und sicheren Abtreibung
gibt es keine Gleichberechtigung zwischen Männern und Frauen“, heißt es in der
Erklärung der NGO weiter.
Wenn Macrons Vorschlag alle gesetzgeberischen Hürden
überwindet, wäre Frankreich das erste Land der Welt, das das Recht auf
Abtreibung in der Verfassung verankert – ein Schritt, der dieses Recht auch vor
der Beschneidung durch zukünftigen Regierungen schützen würde.
Zuletzt hatte im vergangenen Sommer der Oberste Gerichtshof
der USA den Bundesstaaten erlaubt, Abtreibungsrechte gesetzlich zu regeln, und
damit den bundesstaatlichen Schutz des Rechts auf Schwangerschaftsabbruch
aufgegeben.
In der EU erlauben alle Mitgliedsstaaten außer Malta
Abtreibungen, wenn auch teils mit großen Hürden und Hindernissen.
Während Malta Schwangerschaftsabbrüche ausnahmslos unter
Strafe stellt, müssen Frauen, die abtreiben wollen, in Ungarn zunächst den
Herzschlag des Fötus anhören, während in Polen eine Abtreibung nur dann erlaubt
ist, wenn die Frau in Lebensgefahr schwebt oder wenn die Schwangerschaft das
Ergebnis einer Vergewaltigung ist.
Damit das von Macron vorgeschlagene Abtreibungsgesetz in
Kraft treten kann, ist sowohl in der Nationalversammlung als auch im Senat eine
Zweidrittelmehrheit erforderlich. Sollte diese nicht erreicht werden, kann
Macron stattdessen ein Referendum zu dem Thema ansetzen. EA 9
Neues britisches Asylgesetz geht an
Grenzen internationalen Rechts
Üblicherweise haben Schutzsuchende in Europa das Recht, Asyl
zu beantragen. Doch Großbritannien will dieses Recht soweit wie möglich
einschränken. Die radikalen Pläne stoßen auf Entsetzen - der Sprachgebrauch
erinnert an Debatten in Deutschland.
Mit ihrer geplanten Verschärfung der Asylgesetze begibt sich
die britische Regierung auf einen umstrittenen Kurs. Man werde „die Boote
stoppen, die Zehntausende an unsere Küsten bringen“, sagte Innenministerin
Suella Braverman, die das neue Gesetz am Dienstag ins Londoner Unterhaus
einbrachte. „Wir haben die Grenzen des internationalen Rechts ausgereizt, um
diese Krise zu lösen“, bekannte sie zuvor im Gespräch mit dem „Telegraph“.
Konkret sollen fast alle Ankommenden, die ohne offizielle
Erlaubnis einreisen, zunächst in Unterkünften wie früheren Militärbasen oder
Studierendenheimen festgehalten. Premierminister Rishi Sunak sagte am Abend vor
Journalisten, die Betroffenen sollten „binnen Wochen“ nach Ruanda oder in
andere Staaten ausgewiesen werden. Das Recht, Asyl zu beantragen, soll ihnen
entzogen werden. Die Pläne könnten gegen die Europäische Menschenrechtskonvention
verstoßen. Sunak betonte, er sei bereit, seine Pläne vor Gericht durchzuboxen.
„Illegale“
Die konservative britische Regierung bezeichnet die Ankünfte
als illegal – so wie es auch in Deutschland gepflegt wird. Nach der
UN-Flüchtlingskonvention hat jedoch jeder Verfolgte das Recht, in einem
sicheren Land seiner Wahl Asyl zu beantragen – unabhängig davon, wie er dort
hingelangt. Diese Vereinbarung gilt auch für Großbritannien.
Sunak verteidigte das Vorhaben. Falls die nicht erwünschte
Zuwanderung nicht gestoppt werden könne, schränke dies die Möglichkeit ein,
echten Geflüchteten in Zukunft zu helfen, sagte er. „Ich verstehe, dass es
Diskussionen über die Härte dieser Maßnahmen geben wird. Ich kann nur sagen,
wir haben es auf jede andere Weise versucht und es hat nicht funktioniert.“
„Invasion“
Innenministerin Braverman sagte: „Sie werden erst dann
aufhören, hierher zu kommen, wenn die Welt weiß, dass jeder, der illegal nach
Großbritannien einreist, verhaftet und schnell abgeschoben wird.“ Braverman
hatte die Ankünfte einst als „Invasion“ bezeichnet. Tatsächlich gibt es für
Menschen, die ins Vereinigte Königreich flüchten, kaum legale Wege ins Land.
Mit Ruanda hat Großbritannien bereits einen umstrittenen
Pakt geschlossen und dem Land dafür 140 Millionen Pfund (derzeit rund 156
Millionen Euro) gezahlt. So sollen Migranten in Ruanda Asyl beantragen und –
wenn es ihnen gewährt wird – dort leben können. Eine Rückkehr nach
Großbritannien ist nicht vorgesehen. Da der Europäische Gerichtshof für
Menschenrechte einschritt, gab es bisher aber keine Abschiebeflüge von
Großbritannien nach Ruanda.
Empörung
Opposition und Menschenrechtler reagierten empört:
Großbritannien verrate seine Verpflichtung im Rahmen der Genfer
Flüchtlingskonvention, Menschen unabhängig von ihrem Ankunftsweg eine faire
Anhörung zu gewähren, kritisierte der britische Flüchtlingsrat. Der Chef der
Labour-Partei, Keir Starmer, zweifelte an, dass die Pläne rechtlich überhaupt
Bestand haben werden.
„Das Gesetz wird Menschen nicht davon abhalten, den Ärmelkanal
zu überqueren. Es wird nur das Trauma der Menschen in diesen Booten vergrößern
und Großbritanniens Ruf weltweit schädigen“, sagte Laura Kyrke-Smith von der
Rettungsorganisation International Rescue Committee UK.
„Ping-Pong“
Bis das Gesetz tatsächlich in Kraft tritt, könnten Monate
vergehen. Es wird mit Widerstand im Oberhaus gerechnet, was ein „Ping-Pong“
zwischen beiden Kammern auslösen könnte.
In diesem Jahr kamen der britischen Nachrichtenagentur PA
zufolge bisher fast 3000 Migranten über den Ärmelkanal ins Land – 2022 waren es
45 755 und damit 60 Prozent mehr als im Vorjahr.
Priorität
Der Anstieg ist der Regierung in London seit langem ein Dorn
im Auge. Den Zuzug einzuschränken und die Kontrolle über die eigenen Grenzen zu
erhalten, war eines der Kernversprechen des Brexits. Premier Sunak hat dies zu
einer der Prioritäten seiner Politik erklärt.
Sunak will am Freitag den französischen Präsidenten Emmanuel
Macron treffen. Auf britischer Seite besteht die Hoffnung, auch durch stärkere
Kontrollen auf französischer Seite die Überfahrten von Schutzsuchenden zu
verhindern.
(dpa/mig 9)
So will die EU-Kommission den
Zugang zu kritischen Rohstoffen sichern
Um die Autonomie der EU zu stärken, strebt die Europäische
Kommission die Einführung von Zielvorgaben bei Abbau, Recycling und der
Veredelung von kritischen Rohstoffen an. Je nach Bereich werden Zielvorgaben
zwischen 10 und 40 Prozent vorgegeben. Von: Oliver Noyan
Ein von EURACTIV eingesehener Entwurf des EU-Gesetzes über
kritische Rohstoffe, der am kommenden Dienstag (14. März) von der Europäischen
Kommission vorgestellt werden soll, sieht Ziele für die Selbstversorgung
Europas entlang der gesamten Wertschöpfungskette vor.
Die Verordnung zielt darauf ab, „die wachsenden
Versorgungsrisiken der Union zu verringern, indem […] die Kapazitäten der Union
auf allen Stufen der Wertschöpfungskette für strategische Rohstoffe,
einschließlich Gewinnung, Verarbeitung und Recycling, gestärkt werden“, heißt
es in dem Dokument.
Dem vorläufigen Gesetzesentwurf zufolge sollten „10 Prozent
des Verbrauchs der Union an strategischen Rohstoffen“ in der EU abgebaut
werden. Darüber hinaus sollten 15 Prozent des jährlichen Verbrauchs aller
kritischen Rohstoffe in der Union aus Recycling stammen.
Die Kommission will sogar noch höhere Ziele setzen, wenn es
um die Verarbeitung von als kritisch eingestuften Rohstoffen geht. Mindestens
„40 Prozent des Jahresverbrauchs aller kritischen Rohstoffe“ sollten innerhalb
der Union veredelt werden.
Gegenwärtig ist die EU in hohem Maße auf den Import von
Rohstoffen, die als kritisch eingestuft werden, angewiesen. Bei 14 von 27
kritischen Rohstoffen ist die EU derzeit zu 100 Prozent von ausländischen
Lieferanten abhängig und bei weiteren drei kritischen Rohstoffen zu 95 Prozent,
wie ein Bericht des Deutschen Instituts für Wirtschaftsforschung (DIW) zeigt.
Da kritische Rohstoffe als Voraussetzung für den Erfolg der
digitalen und Energiewende gelten, wird die Nachfrage laut Weltbank bis 2050
drastisch um rund 500 Prozent steigen. So sind beispielsweise Seltene Erden
nicht nur ein notwendiger Bestandteil von Smartphones oder Computern, sondern
auch von Autobatterien.
China-Klausel
Die EU ist derzeit besonders abhängig von China, das bei
vielen dieser kritischen Rohstoffe eine Quasi-Monopolstellung innehat. So
importiert die EU beispielsweise derzeit etwa 93 Prozent ihres Magnesiums und
86 Prozent ihrer Seltenen Erden aus der Volksrepublik.
Diesem Umstand wird in der Verordnung ebenfalls Rechnung
getragen. Um potenzielle Versorgungsengpässe zu vermeiden und die
Widerstandsfähigkeit zu erhöhen, will die EU „einen Richtwert festlegen, um bis
2030 bei keinem strategischen Rohstoff mehr als 70 Prozent der Importe von
einem einzigen Drittland abhängig zu sein.“
Lieferengpässe aus China haben bereits 2021 die europäische
Industrie gebremst, als China die Produktion für Magnesium, einem wesentlichen
Material in der Aluminiumindustrie, drosselte.
Um diese Abhängigkeiten zu verringern, zielt das Gesetz über
kritische Rohstoffe außerdem darauf ab, die europäische Lieferkette zu
diversifizieren. Um die Diversifizierung voranzutreiben und die Versorgung zu
stärken, beabsichtigt die Kommission auch, strategische Projekte in
Drittländern zu identifizieren. Damit diese Projekte im Ausland angekurbelt
werden, will die Kommission sie finanziell über die Global-Gateway-Strategie
unterstützen – eine 300 Milliarden Euro schwere Initiative, die der
chinesischen Belt and Road Initiative entgegenwirken soll.
Außerdem werden große Unternehmen aufgefordert, ihre
bestehenden Lieferketten zu überprüfen und Strategien zu entwickeln, um besser
auf Unterbrechungen in den Lieferketten vorbereitet zu sein.
Strategische Projekte
Das Gesetz über kritische Rohstoffe sieht auch eine
Sonderbehandlung für Projekte vor, die als „strategisch wichtig“ eingestuft
werden. Diese „strategischen Projekte“ werden von der Europäischen Kommission
zusammen mit einem noch zu gründenden Europäischen Ausschusses für kritische
Rohstoffe ermittelt.
Die strategischen Projekte werden von einem strafferen und
vorhersehbaren Genehmigungsverfahren profitieren. Die langwierigen
Genehmigungsverfahren gelten als eines der wesentlichen Hürden für die
Umsetzung von europäischen Bergbauprojekten. Nach Angaben von Führungskräften der
Industrie dauert es im Durchschnitt 10 Jahre, bis eine neue Mine in Betrieb
genommen werden kann.
Das Gesetz über kritische Rohstoffe zielt auf eine
drastische Verkürzung dieser Genehmigungszeit ab.
„Die Mitgliedstaaten sollten sicherstellen, dass das Genehmigungsverfahren
für solche Projekte die vorgegebenen Fristen nicht überschreitet“, heißt es in
dem Dokument.
„Für strategische Projekte sollte die Dauer des
Genehmigungsverfahrens in Anbetracht der Komplexität und des Ausmaßes der
potenziellen Auswirkungen keine zwei Jahre überschreiten“, heißt es weiter.
Diese strategischen Projekte werden auch zusätzliche
finanzielle Unterstützung erhalten. Der Verordnungsentwurf geht davon aus, dass
„private Investitionen allein nicht ausreichen“ und stellt fest, dass „die
effektive Einführung von Projekten entlang der kritischen
Rohstoffwertschöpfungskette öffentliche Unterstützung erfordern wird.“
Der Entwurf sieht vor, dass die Mitgliedsstaaten die
finanziellen Lücken dieser Projekte füllen werden. „Diese öffentliche
Unterstützung kann in Form von staatlichen Beihilfen erfolgen“, heißt es in dem
Dokument, und es wird hinzugefügt, dass die jüngste Überarbeitung der
EU-Beihilfevorschriften öffentliche Investitionen durch die Mitgliedsstaaten
leichter ermöglichen würde. EA 8
Fachkräftemangel. Internationale
Studierende sind Fachkräfte von morgen
Der Deutsche Akademische Austauschdienst (DAAD) fordert,
mehr internationale Studierende als zukünftige Fachkräfte für den deutschen
Arbeitsmarkt zu gewinnen. In einem heute
veröffentlichten Positionspapier legt er dazu zehn Empfehlungen für
ein gemeinsames Handeln von Politik, Hochschulen und Wirtschaft vor.Bonn. „Wir
steuern in Deutschland seit mehreren Jahren auf eine immer größere
Fachkräftelücke auf dem Arbeitsmarkt zu. Gleichzeitig wird die Bundesrepublik
als Studienstandort immer beliebter: Wir liegen seit mehreren Jahren auf Rang 4
weltweit und führen die Liste bei den nicht-englischsprachigen Ländern an.
Beide Entwicklungen müssen wir zusammendenken und internationalen Studierenden
effektiver und in größerer Zahl den Weg in eine berufliche Karriere in
Deutschland aufzeigen. Sie sind hochqualifiziert und gut integriert, ihr großes
Potenzial als Fachkräfte sollten wir in Deutschland strategischer nutzen. Als
DAAD sehen wir dabei Politik, Hochschulen und Wirtschaft in einer gemeinsamen
Verantwortung“, sagte DAAD-Präsident Prof. Dr. Joybrato Mukherjee. „Zugleich
ist es für uns als Austauschorganisation unerlässlich, dass wir alle
Aktivitäten zur Fachkräftegewinnung nach den Prinzipien einer fairen Migration
gestalten.“
Verdopplung bis 2030
Pro Jahr beginnen derzeit rund 75.000 internationale
Studierende ein Studium in Deutschland. Rund die Hälfte von ihnen belegt dabei
einen Studiengang in den auf dem Arbeitsmarkt besonders nachgefragten
MINT-Fächern (Mathematik, Informatik, Naturwissenschaft und Technik). Zehn
Jahre nach einem erfolgreichen Studienabschluss lebt und arbeitet noch rund ein
Drittel von ihnen in Deutschland: Bei den aktuellen Studienanfängerzahlen sind
dies rechnerisch rund 25.000. Der DAAD sieht bei einem entschlossenen und
gemeinsamen Vorgehen von Politik, Hochschulen und Wirtschaft die Chance, diese
Zahl bis zum Jahr 2030 auf rund 50.000 zu verdoppeln.
Drei zentrale Stellschrauben
Um einen solchen Zuwachs zu erreichen, müssen politische und
strukturelle Hindernisse für internationale Studierende systematisch abgebaut
werden. Der DAAD empfiehlt daher Politik, Hochschulen und Wirtschaft drei
zentrale Stellschrauben in den Blick zu nehmen, die es ermöglichen, noch
systematischer internationale Absolventinnen und Absolventen deutscher Hochschulen
als Talente für den Arbeitsmarkt zu gewinnen:
1. Die Zahl der internationalen Studienanfängerinnen und
-anfänger muss weiter wachsen: Hierfür braucht es mehr weltweites Marketing für
den exzellenten Studienstandort Deutschland, einfachere Einreisebedingungen,
eine systematische Studienorientierung bereits im Heimatland und eine Reform
des Hochschulzugangs in Deutschland.
2. Der Studienerfolg internationaler Studierender muss
gesteigert werden: Derzeit liegt ihre Erfolgsquote noch deutlich unter der
deutscher Studierender. Für eine Verbesserung müssen Unterstützungs- und
Betreuungsangebote für internationale Studierende an den Hochschulen ausgebaut
und die Hochschulen für diese Aufgaben finanziell besser ausgestattet werden.
Zudem ist die Vermittlung guter Deutschkenntnisse für einen Erfolg auf dem
Arbeitsmarkt unerlässlich.
3. Die Integration internationaler Studierender in den
deutschen Arbeitsmarkt muss konsequent gefördert werden und muss bereits
während des Studiums beginnen: Dazu bedarf es einer Stärkung der Kooperationen
zwischen Wirtschaft und Hochschulen. Die Vermittlung arbeitsmarktrelevanter
Kompetenzen sowie Praxisphasen und Karriereberatung während des Studiums sind
hierbei ebenso wichtig wie der Ausbau von Integrationsstrukturen und Willkommenskultur
in den Betrieben.
Förderprogramme und Faire Migration
Neben dem gemeinschaftlichen Engagement von Politik,
Hochschulen und Wirtschaft braucht es passende Förderprogramme, um die
deutschen Hochschulen als Motoren der Fachkräftezuwanderung zu stärken. Der
DAAD hat der Bundesregierung dazu einen Vorschlag für ein Förderprogramm
vorgelegt, das gezielt die Qualifikation internationaler Studierender und
Nachwuchswissenschaftlerinnen und -wissenschaftler als Fachkräfte von morgen in
den Blick nimmt.
Der DAAD steht beim Thema Fachkräfte zugleich zu seiner
Verantwortung gegenüber den Partnerländern im Globalen Süden: Grundlage allen
Engagements zur Fachkräftegewinnung sind die Prinzipien einer fairen Migration,
die die Weiterentwicklung und den Nutzen sowohl für die jungen Menschen als
auch die Herkunfts- und Gastländer mitdenkt. Daad 7
Seenotretter fordern Frontex-Stopp.
Geflüchtete im Mittelmeer hätten gerettet werden können
In einem offenen Brief an den neuen Frontex-Direktor fordern
20 Organisationen ein Ende des Mittelmeer-Einsatzes. EU-Abgeordneter Markquardt
wirft Frontex Mitschuld am Sterben im Mittelmeer vor. Die EU-Grenzschutzagentur
bleibe bei Notfällen untätig.
20 Organisationen haben ein Ende des Mittelmeer-Einsatzes
der EU-Grenzschutzagentur Frontex gefordert. „Ihre Agentur war in unzählige
Skandale verwickelt“, schreiben die NGOs in einem offenen Brief an den neuen
Frontex-Direktor Hans Leijtens. Darin zählen die Seenotrettungs- und
Menschenrechtsorganisationen unter anderem die Beteiligung von Frontex an
gewaltsamen und illegalen Zurückweisungen an der EU-Außengrenze auf sowie die
Manipulation interner Berichte über Menschenrechtsverletzungen von Migranten.
Leijtens trat sein Amt als Frontex-Direktor am Mittwoch
vergangener Woche an. Bei seiner ersten Pressekonferenz im Januar hatte der
Niederländer ein Ende des Zurückdrängens von Migranten versprochen. „Ich bin
dafür verantwortlich, dass meine Leute sich nicht an etwas beteiligen, das
Pushback genannt wird.“ Zudem hatte er angekündigt, sich gerne mit den
nichtstaatlichen Organisationen austauschen und Vertrauen wiederherstellen zu
wollen.“
Die NGOs wollen in dem Brief an Leijtens unter anderem
wissen, wie Frontex in Zukunft mit Informationen über Menschen in Seenot
umzugehen gedenke. Denn obwohl seit 2015 fast ausschließlich Organisationen der
Zivilgesellschaft im Mittelmeer Flüchtlingen in Seenot zu Hilfe kämen und
Tausende Menschen gerettet hätten, informiere Frontex die privaten Seenotretter
meist nicht, wenn Hilfe gebraucht werde. Stattdessen koordiniere die Agentur
Pushbacks mit der sogenannten libyschen Küstenwache.
Markquardt: „Die Menschen hätten gerettet werden können.“
Zudem kritisierten die Organisation erneut die
Zusammenarbeit von Frontex mit Libyen, mit der sich die Agentur an Menschenrechtsverletzungen
beteilige. Die müssten aufgeklärt und somit verhindert werden, dass Beamte
weiter mitverantwortlich für Verbrechen gegen die Menschlichkeit seien.
Bei einem Bootsunglück vor der italienischen Küste waren
Ende Februar mindestens 60 Geflüchtete ums Leben gekommen. In diesem
Zusammenhang war erneut Kritik an Frontex aufgekommen. Der EU-Abgeordnete Erik
Markquardt etwa erklärte: „Lange vor dem Unglück wusste Frontex offenbar
bereits von dem Boot, aber es wurde keine koordinierte Rettung eingeleitet. Die
Menschen hätten gerettet werden können.“ (epd/mig 7)
EU-Beitrittsprozess: Albanischer
Premierminister trifft Scholz
Der albanische Premierminister Edi Rama wird sich mit
Bundeskanzler Olaf Scholz zu einem direkten Gespräch treffen, bei dem der
sogenannte Berlin-Prozess und der EU-Beitritt Albaniens die bestimmenden Themen
sein werden. Von: Alice Taylor
Deutschland und Albanien haben seit langem gute Beziehungen,
und Rama stand Scholz‘ Vorgängerin Angela Merkel besonders nahe. Albanien hat
im Sommer 2022 formell den EU-Beitrittsprozess begonnen.
Neben den Gesprächen über Albaniens Weg in die EU werden die
beiden Staatsoberhäupter voraussichtlich auch über den Tourismus sprechen,
unter anderem über die in Berlin stattfindende Tourismusmesse ITB, auf der
albanische Reiseziele vorgestellt werden sollen.
Auf die Frage, wann Albanien seiner Meinung nach der EU
beitreten wird, sagte Rama am Montag (6. März), der Prozess werde davon
abhängen, wie schnell das Land in den einzelnen Verhandlungskapiteln
Fortschritte machen könne.
„Im gesamten Integrationsprozess gibt es zwei Wege:
einerseits den Weg über Brüssel und die Interaktion der Arbeitsgruppen und
anderseits den Weg, diesen Prozess durch bilaterale Treffen zu unterstützen, um
die notwendigen Erfahrungen und Kenntnisse zu sammeln“, sagte er.
Rama fügte hinzu, dass es vor allem darauf ankomme, dass
Albanien gut und schnell lernt, denn wenn dies nicht der Fall sei, „wird es am
Ende auf uns zurückfallen.“ „Wenn wir gute Lerner sind und schnell lernen, wird
dies den Prozess beschleunigen“, sagte er.
„Aber es wird auch von der Entscheidung der Europäischen
Union abhängen, die nicht nur technischer, sondern auch politischer Natur ist.
Ich denke, man kann nicht um einen Führerschein bitten, wenn man nicht weiß,
wie man ein Auto verleiht, denn das wird sich am Ende auf uns zurückführen
lassen“, so Rama weiter.
„Dieser Prozess ist für unsere zukünftigen Generationen, und
wir müssen ihn richtig machen, auch wenn es vielleicht viel mehr Zeit in
Anspruch nimmt“, sagte er.
In einem Exklusivinterview mit EURACTIV im Dezember sagte
Rama, die Beitrittskandidaten sollten die Erfüllung der EU-Beitrittskriterien
nicht wie das Schummeln bei einem Test behandeln, und nannte als Beispiel ein
„Nachbarland“, das er auf Nachfrage mit „Griechenland“ konkretisierte.
Die Äußerungen verbreiteten sich bald in ganz Griechenland,
und der albanische Premierminister sprach das Thema bei einem bilateralen
Treffen zwischen Rama und Mitsotakis auf dem EU-Westbalkangipfel in Tirana an.
„Es tut mir leid, dass ich etwas gehört habe, dass ich
einige seltsame Dinge über Griechenland gesagt habe, darüber, wie es einige
Dinge erreicht hat – vielleicht gehen wir zurück in die Zeit von Troja – aber
das ist nichts, was die Gegenwart betrifft, und es betrifft in keiner Weise das
heutige Griechenland“, sagte er.
„Wir sollten nicht vergessen, dass der Integrationsprozess
ein individueller, leistungsorientierter Prozess ist“, sagte er in dem
Interview.
„Wir müssen die Standards der Hausaufgaben-Kriterien
erfüllen. Und es ist keine Prüfung, bei der man schummeln kann“, fügte er
hinzu. Griechenland habe „Geld von Europa bekommen“, habe „eine Zeit des
Überflusses gelebt“ und sei „dann wirklich schlecht geendet“.
Vor seinem Flug nach Deutschland empfing Rama die dänische
Premierministerin Mette Frederiksen in der albanischen Hauptstadt Tirana. Dabei
sprachen sie über die Spannungen in der Region und die Notwendigkeit einer
Annäherung an die EU.
„Wir sollten uns alle der sehr fragilen Situation der Länder
des westlichen Balkans bewusst sein“, sagte Frederiksen.
„Ich denke, dass Ihr Bekenntnis zu den europäischen Werten
wichtig ist, und dies ist auch ein sehr wichtiger Teil der Aufnahme von
Verhandlungen über die EU-Mitgliedschaft Albaniens. Ich weiß, dass es sich um
eine große Aufgabe handelt, die viele Lösungen und Reformen erfordert, aber ich
weiß, dass Sie dazu in der Lage sind, und wir unterstützen Sie nachdrücklich
auf Ihrem Weg“, sagte Frederiksen. EA 7
Studie zum Weltfrauentag: Droht die
Gleichstellung ins Stocken zu geraten?
Hamburg – Eine deutliche Mehrheit von 62 Prozent der
Deutschen findet, dass derzeit eine Ungleichheit zwischen Frauen und Männern in
Bezug auf soziale, politische und wirtschaftliche Rechte besteht. Allerdings
sagen weitere 46 Prozent, dass in Deutschland hinsichtlich der Gleichstellung
von Männern und Frauen schon genug getan wurde – ein Anstieg von 16
Prozentpunkten im Vergleich zur Studie aus dem Jahr 2019. Einige (39%)
befürchten sogar, dass durch die Förderung der Gleichstellung nun Männer
diskriminiert würden. Das zeigen die Ergebnisse einer weltweiten Studie
anlässlich des Weltfrauentages, die vom Markt- und Meinungsforschungsinstitut
Ipsos in Zusammenarbeit mit dem King’s College London durchgeführt wurde.
Große Meinungsunterschiede zwischen Männern und Frauen
Erwartungsgemäß ist der Anteil der Frauen bei den Befragten,
die eine Geschlechterungleichheit in Deutschland sehen, mit 68 Prozent deutlich
höher als der der Männer (57%). Bei der Frage, ob die Förderung der
Gleichstellung von Frauen bereits so weit ging, dass nun Männer diskriminiert
werden, stimmen die Hälfte aller deutschen Männer (49%), aber lediglich 30
Prozent der befragten Frauen zu. Frauen (38%) sind außerdem deutlich
pessimistischer als Männer (49%), dass die Gleichstellung zwischen Männern und
Frauen noch zu ihren Lebzeiten erreicht wird.
Ein ähnliches Meinungsbild zeigt sich bei der Zustimmung zur
Aussage, dass von Männern zu viel erwartet wird, um Gleichberechtigung zu
unterstützen. 51 Prozent der Männer (51%) und 36 Prozent der Frauen finden,
dass dieses Statement zutrifft. Eine Mehrheit der Deutschen sieht jedoch die
Beteiligung von Männern als entscheidend für die Geschlechtergerechtigkeit an.
So sind 56 Prozent der Befragten der Meinung, dass Frauen in Deutschland keine
Gleichstellung erreichen werden, wenn nicht auch die Männer für die Rechte der
Frauen kämpfen.
Zustimmung zur Förderung der Gleichberechtigung sinkt seit
Corona
Seit Ausbruch der COVID-19-Pandemie verschlechtern sich die
Zustimmungswerte zur Förderung der Gleichberechtigung in Deutschland. Auch
Teilaspekte dessen, wie beispielsweise die Akzeptanz von Männern, die zuhause
bleiben und sich um die Kinder kümmern, sinkt. So stimmen inzwischen mehr als
ein Viertel (27%) der Deutschen der Aussage zu, dass ein Mann, der zuhause
bleibt und sich um die Kinder kümmert, nicht wirklich ein Mann sei. In der
Umfrage des Jahres 2019 waren lediglich 18 Prozent dieser Meinung.
Außerdem trauen sich auch immer weniger Menschen, die
Gleichberechtigung von Frauen öffentlich zu unterstützen. Aktuell berichten 29
Prozent der Deutschen, dass sie Konsequenzen befürchten, wenn sie für die
Gleichberechtigung von Frauen eintreten. Im Jahr 2017 hatten nur 13 Prozent
diese Befürchtung.
Etwas Optimismus bleibt
Dennoch sind 45 Prozent der Befragten in Deutschland davon
überzeugt, dass es Maßnahmen gibt, die sie ergreifen können, um die
Gleichstellung zwischen Frauen und Männern zu fördern. Das sind acht
Prozentpunkte mehr als noch 2018. Nur 13 Prozent finden, dass es nichts gibt,
was sie tun könnten, um wirklich etwas zu bewirken. Schließlich sind 42 Prozent
der Ansicht, dass junge Frauen in Deutschland ein besseres Leben führen werden
als die Generation ihrer Eltern. Lediglich 16 Prozent meinen, es werde ein
schlechteres Leben, während weitere 31 Prozent der Ansicht sind, dass sich
nichts ändern werde. Ipsos 7
Lufthansa und Ita. Win-Win für
Deutschland und Italien
Die Lufthansa Group strebt eine Beteiligung an ITA Airways
an. Eine weitere Airline, noch ein zusätzliches Drehkreuz – eine gute Idee? Ja!
Italien wird über eine solide und international angebundene Airline verfügen,
wenn die Synergien der LHG-Familie genutzt werden.
Traditionell ist Italien starker Anziehungspunkt
für Privatreisende aus der ganzen Welt und zugleich ein wichtiges
Geschäftsreiseziel aufgrund der stark exportorientierten Wirtschaft. Daher
passt die italienische Fluglinie, die eine tiefgreifende Restrukturierung
durchlaufen hat, mit ihrem Drehkreuz in Rom exzellent zum Streckennetz der
Lufthansa Group. Bereits heute ist Italien nach den vier Heimatmärkten und den
USA der wichtigste Markt für die Lufthansa Group.
Ende Januar haben Lufthansa und das italienische Ministerium
für Wirtschaft und Finanzen (MEF) eine Absichtserklärung zum Erwerb von
Anteilen an ITA Airways durch Lufthansa unterschrieben. Seitdem laufen die
Verhandlungen über die Ausgestaltung einer möglichen Beteiligung, die
kommerzielle und operative Einbindung der ITA in die Lufthansa Group und
die sich daraus ergebenden Synergien.
Internationalisierung braucht Größe
Skeptiker befürchten eine zu hohe Komplexität bei einer
weiteren Beteiligung. Doch Lufthansa hat bei den Übernahmen von SWISS,
Edelweiss, Austrian Airlines, Brussels Airlines und Air Dolomiti bereits
gezeigt, wie das für beide Seiten erfolgreich umgesetzt werden kann. Um als
Luftfahrtunternehmen global erfolgreich zu sein, ist Größe entscheidend. Die
Lufthansa Group mit ihren insgesamt elf Fluglinien ist dem Umsatz nach die
viertgrößte Airline Gruppe der Welt – hinter den drei großen amerikanischen
Airline Konzernen. Lufthansa allein liegt nicht einmal in der Top Ten der
internationalen Konkurrenz. Unsere Airlines in Österreich, Belgien und der
Schweiz stärken die Lufthansa und umgekehrt. Aus Sicht dieser einzelnen Länder
ist es volkswirtschaftlich und industriepolitisch wichtig, ein stabiler Teil
dieses Luftfahrtverbundes zu sein.
Eigenständige Airlines profitieren von den Synergien der
Gruppe
Durch das Streckennetz der einzelnen Airlines sowie die fünf
Drehkreuze in Frankfurt und München sowie Wien, Zürich und Brüssel hat sich die
Lufthansa Group einen Heimatmarkt quer durch Mitteleuropa aufgebaut und bietet
ein breites internationales Flugangebot. Der Vorteil: hohe Flexibilität bei der
Routensteuerung und weniger Abhängigkeiten von einzelnen Standorten.
Entscheidend für den Erfolg der Multi-Brand-Strategie ist, dass jede Marke für
sich steht und ein eigenes Profil hat. Jede Konzernairline wird von einem
Management vor Ort geführt und spricht Kundinnen und Kunden in ihren lokalen
Märkten mit ihrer individuellen Identität und Marke an.
Jede Fluggesellschaft spielt damit ihre eigene Rolle im
Netzwerk der Lufthansa Group. Lufthansa und SWISS bieten als Premium Carrier
mit vielen Zielen – die in hoher Frequenz angeflogen werden – die höchste
Konnektivität im Vergleich zu anderen europäischen Airlines. Austrian Airlines
verbindet als National Carrier Österreich mit Europa und der Welt. Kernmarkt
von Brussels Airlines ist Afrika mit 17 Zielen südlich der Sahara.
Erfolgsrezept der Airlines aus Wien und Brüssel ist die Kombination aus einem
qualitativ hochwertigen Angebot und niedrigen Kosten, um im Wettbewerb mit
Low-Cost-Carriern auf ihren Heimatmärkten zu bestehen. Lufthansa Cityline
bedient die Zubringer nach Frankfurt und München und kleinere Europastrecken.
Eurowings ist der Value Carrier der Lufthansa Group und einer der größten
Ferienflieger in Europa. Eurowings Discover ergänzt das touristische Programm
von Lufthansa. Edelweiss stärkt das Angebot am Hub Zürich. Air Dolomiti bedient
über das Drehkreuz München den norditalienischen Markt. ITA würde als
integriertes Mitglied der LHG-Familie Italien international anbinden. LG 6
Positionspapier. Spitze der
Unionsfraktion will „Bundesagentur für Einwanderung“
Die Union wirft der Ampel-Regierung seit langem vor,
Arbeitsmarkt- und Asylpolitik vermischen zu wollen. Nun legt sie einen eigenen
Vorschlag vor. Auch die Probleme bei der Flüchtlingsunterbringung sollen
thematisiert werden.
Die Spitze der Unionsfraktion im Bundestag will die
Einwanderung von Fachkräften nach Deutschland mit einer eigenen Bundesagentur
für Einwanderung neu regeln. „Fachkräfte erhalten so Service aus einer Hand:
Von der Arbeitsplatzvermittlung, der Prüfung der Voraussetzungen für die
Einreise, über das nötige Visum bis hin zum Aufenthaltstitel nach Ankunft in
Deutschland“, heißt es in einem der Deutschen Presse-Agentur in Berlin
vorliegenden Positionspapier des geschäftsführenden Vorstands der
Unionsfraktion.
Unionsfraktionschef Friedrich Merz sagte der „Frankfurter
Allgemeinen Zeitung“, die Agentur solle aktiv um ausländische Fachkräfte
werben. Der CDU-Vorsitzende betonte, Asylverfahren sollten künftig klar von
Einwanderungsverfahren für Fachkräfte getrennt werden. Die Ampel-Koalition
vermische Asyl- und Arbeitsmarktpolitik systematisch miteinander. Die
Bundesregierung „will offenkundig nicht wahrhaben, wie dramatisch die Lage in
vielen Kommunen in Deutschland ist“.
„Faktische Aufnahmekapazität“
Die Union bekenne sich zu Deutschlands humanitärer
Verantwortung für Schutzsuchende, unterstrich Merz. „Zugleich schlagen wir ein
Bündel an nationalen, europäischen und internationalen Maßnahmen zur Steuerung
und Begrenzung von irregulärer Migration vor.“ Unter anderem solle ein Krisen-
und Koordinierungsstab im Bundeskanzleramt eingerichtet werden.
Wegen der Probleme bei der Unterbringung von Flüchtlingen
lädt Merz nach Angaben des Boulevardblattes „Bild“ rund 700 Bürgermeister und
Landräte nach Berlin ein. In der Einladung heißt es: „Allein im Jahr 2022
wurden in Deutschland 244 000 Asylanträge gestellt. Die faktischen
Aufnahmekapazitäten stoßen vielerorts an ihre Grenzen. Wir müssen uns diesen
Realitäten annehmen.“
Bamf und Ausländerbehörden sollen sich auf Asylbewerber konzentrieren
Im Positionspapier der Unionsfraktionsspitze heißt es, das
Bundesamt für Migration und Flüchtlinge sowie die kommunalen Ausländerbehörden
sollten sich auf die Gruppe der Asylbewerber konzentrieren. Die Bundesagentur
für Einwanderung solle alle Verfahren übernehmen, die derzeit bei den
Auslandsvertretungen, den Bundesländern sowie den Landkreisen und Kommunen
geführt würden und keine Asylverfahren seien. „Sie ist auch
Arbeitsvermittlungsagentur für alle Arbeitskräfte aus dem europäischen und nicht-europäischen
Ausland.“
Die stellvertretende Vorsitzende der Unionsfraktion, Andrea
Lindholz (CSU), forderte am Samstag, die Einwanderungsagentur müsse von Beginn
an mit digitalen Verfahren und modernster Technik arbeiten, um schnelle
Verfahren garantieren zu können. Sie warnte: „Die derzeit ungeordnete und
ungebremste irreguläre Migration gefährdet den gesellschaftlichen Rückhalt für
die humanitäre Verantwortung Deutschlands, Schutzsuchenden zu helfen.“
Schließung der Fachkräfte-Lücke mit Einwanderung
Die Ampel-Koalition will die immer größere Lücke an
Fachkräften mit viel mehr Arbeitskräften aus dem Ausland füllen. Anders als
heute sollen verstärkt Nicht-EU-Bürgerinnen und -Bürger ohne anerkannten
Abschluss ins Land kommen dürfen. Auswahlkriterien sollen etwa Berufserfahrung
oder Deutschlandbezug sein. Als wohl größte Änderung soll
„Drittstaatsangehörigen mit gutem Potenzial“ möglich gemacht werden, zur
Arbeitsplatzsuche einzureisen. Vergeben werden soll dafür eine Chancenkarte.
Zwei Wochen lang sollen Nicht-EU-Bürger damit eine Probebeschäftigung während
der Arbeitsplatzsuche machen dürfen.
Seit 2020 gibt es schon ein Fachkräfteeinwanderungsgesetz.
Fachkräfte mit einer ausländischen Berufsausbildung erhalten für sechs Monate
das Recht zum Aufenthalt zur Arbeitsplatzsuche. (dpa/mig 6)
Kindern im Erdbebengebiet droht
neben Krankheiten auch psychischer Zusammenbruch
World Vision weitet Hilfe aus und erhält dafür eine Million
Euro vom Auswärtigen Amt
Infolge der Erdbeben, die sich heute vor einem Monat ereigneten,
und des Konflikts, der in diesem Monat 12 Jahre alt wird, sind besonders Kinder
im Nordwesten Syriens psychisch schwer traumatisiert. Experten für psychische
Gesundheit bei der internationalen Kinderhilfsorganisation World Vision warnen
davor, dass viele Menschen, insbesondere die Kinder, einen psychischen
Zusammenbruch erleiden könnten, wenn ihnen nicht schnell geholfen würde. Die
weitere humanitäre Hilfe muss den Schutz ihrer körperlichen und mentalen
Gesundheit in den Mittelpunkt stellen, fordert die Kinderhilfsorganisation.
Ein 38jähriger Bewohner berichtet aus Nordwestsyrien über
die Erlebnisse am Tag des Bebens: „Von der Morgendämmerung bis zur
darauffolgenden Nacht suchten wir nach Menschen unter den Trümmern. Der
Bürgersteig vor dem Krankenhaus war voll von Leichen, die in schwarze Säcke
gehüllt waren. Ganze Familien wurden unter den Trümmern begraben. Es gibt
niemand, der ihre Leichen beerdigen kann. Ich versuche, meine Gefühle
zurückzuhalten, aber mein psychischer Zustand ist überhaupt nicht gut. Ich bin
nicht in der Lage, mich um Überlebende oder Kinder zu kümmern.“
Eine von World Vision durchgeführte Bedarfsermittlung bei
322 Familien in Nordwestsyrien ergab, dass die Häuser und Wohnungen von 94 %
der befragten Familien durch das Erdbeben beschädigt und 51 % der Häuser
zerstört wurden. 82 % der Familien sind nun in Sammelunterkünften
untergebracht. 84 % der Befragten gaben an, dass ihre Kinder gar nicht oder nur
selten Bildungseinrichtungen besuchen können. Dies erhöht wiederum das Risiko
der Ausbeutung von Kindern u.a. in Bezug auf Kinderarbeit und
Frühverheiratung.
Studien, die von einem World Vision-Partner auf dem
Höhepunkt der Gewalteskalation in Idlib im Jahr 2021 durchgeführt wurden,
hatten ergeben, dass 100 % der vertriebenen Kinder unter 18 Jahren in der
Region Symptome einer posttraumatischen Belastungsstörung (PTBS)
aufwiesen.
Johan Mooij, Leiter der Syrienhilfe von World Vision,
erklärt: "Die Kameras sind abgezogen, aber die Region ist immer noch
übersät mit Trümmern, unter denen noch Menschen liegen. Viele Kinder sind nun
auf sich allein gestellt und ihre sichere Unterbringung ist unter den aktuellen
Bedingungen mit großen Herausforderungen verbunden."
Einen Monat nach dem verheerenden Erdbeben in der Türkei und
in Syrien reichen die Hilfsmaßnahmen bei weitem nicht aus, um die Nöte der
Familien und Kinder zu verringern, die schon seit 12 Jahren unter dem Krieg
leiden. Es ist von entscheidender Bedeutung, dass alle Zugangskanäle nach
Nordwestsyrien offenbleiben und dass die Hilfslieferungen aufgestockt werden.
World Vision-Hilfe stabilisiert Grundversorgung und
unterstützt Trauma-Verarbeitung
World Vision hat in den ersten Wochen 12.753 Menschen mit
Lebensmitteln und mehr als 19.100 Familien mit Heizöfen und/oder Heizmaterial
versorgt, außerdem knapp 12.000 Menschen mit Bargeld für die dringendsten
Einkäufe ausgestattet und an mehr als 6.600 Familien Dinge des täglichen
Bedarfs, wie z.B. Hygieneartikel oder Decken verteilt. Kinderschutz-Teams
unterstützen die Familienzusammenführung unbegleiteter Kinder und arbeiten am
Aufbau von Kinderschutzzentren in Zeltlagern. Weiterhin unterstützt die
Kinderhilfsorganisation in Nordwestsyrien die medizinische Versorgung in
Basisgesundheitsstationen und in einer Geburtsklinik. In den kommenden Wochen
wird World Vision mit seinen lokalen Partnern vor allem daran arbeiten, die
Grundversorgung von bis zu 500.000 Menschen zu stabilisieren. Dazu zählt auch
die Reparatur von Brunnen, Wassertanks und anderer kritischer Infrastruktur.
Das Auswärtige Amt stellt World Vision hierfür rund eine Million Euro für
die Ausweitung der Hilfe zur Verfügung.
Die Menschen brauchen weiterhin dringend unsere Hilfe.
Spenden Sie jetzt online: worldvision.de/syrien, Oder auf unser Konto:
PAX-Bank eG, IBAN DE72370601934010500007, Stichwort:
Erdbeben Syrien
Das Nothilfe-Bündnis „Aktion Deutschland Hilft“, in dem
World Vision Mitglied ist, bittet ebenfalls um Spenden unter dem Stichwort:
„Erdbeben Türkei und Syrien“
IBAN: DE62 3702 0500 0000 1020 30 (Bank für
Sozialwirtschaft)
Online spenden unter: www.Aktion-Deutschland-Hilft.de
https://news.cision.com/de/world-vision-deutschland-e--v-/r/anhaltende-erschutterungen-und-kaum-schutz--kindern-im-erdbebengebiet-droht-neben-krankheiten-auch-p,c3727901
dip 6
Verbrenner-Streit: Tschechien gibt
Deutschland Rückendeckung
Tschechien wird gemeinsam mit Deutschland das
EU-Verkaufsverbot für neue Benzin- oder Dieselfahrzeuge ab 2035 nicht
unterstützen, wenn keine synthetischen Kraftstoffe verwendet werden können, so
der Verkehrsminister auf Besuch in Berlin. Von: Ondej Plevák
Ab 2035 sollte eigentlich der Verkauf neuer Verbrenner-Autos
verboten werden. Nach einer Intervention aus Berlin wurde die letzte Abstimmung
auf EU-Ebene inzwischen allerdings abgeblasen.
„Dies ist eine Entwicklung, die wir eindeutig begrüßen und
hinter der wir stehen“, sagte der tschechische Verkehrsminister Martin Kupka.
Er fügte hinzu, dass Tschechien das Gesetz nicht
unterstützen werde, solange keine verbindliche Ausnahmeregelung für
synthetische Kraftstoffe auf dem Tisch liege.
Es ist nicht das erste Mal, dass Deutschland und Tschechien
sich in Auto-Fragen gegenseitig den Rücken stärken. Auch bei den Regeln zu
Auto-Emissionen neben CO2 gab es zuletzt Gemeinsamkeiten.
„In Bezug auf die bevorstehende Euro-7-Abgasnorm der EU, die
von der deutschen Regierung, der Automobilindustrie und den Automobilclubs
heftig kritisiert wird, haben sich Tschechien und Deutschland darauf geeinigt,
den aktuellen Entwurf der Euro-7-Norm eindeutig abzulehnen und zu kritisieren“,
sagte Kupka und erklärte, dass beide Länder den Vorschlag für unrealistisch und
inakzeptabel halten.
Darüber hinaus vereinbarten Kupka und Wissing, dass sie bis
zum Ende dieses Sommers ein Memorandum zur beschleunigten Modernisierung der
Eisenbahnstrecke zwischen Pilsen (Westböhmen) und München ausarbeiten werden.
Kupka sagte vor tschechischen Journalisten, er habe in
seinem Gespräch mit Wissing den möglichen Bau einer Autobatteriefabrik, die
Volkswagen in der Nähe von Pilsen errichten könnte, als eines der Argumente für
die Bedeutung der Strecke genannt. EA 6
Amtliche Statistik. Fast jeder
Vierte in Deutschland hat Einwanderungsgeschichte
Fast ein Viertel der in Deutschland lebenden Menschen hat eine
Einwanderungsgeschichte. 2021 lebten knapp 19 Millionen Menschen in der
Bundesrepublik, die entweder selbst oder deren beide Elternteile seit 1950
eingewandert sind. Ukrainer sind in der Statistik nicht berücksichtigt.
17,3 Prozent der Bevölkerung sind seit 1950 nach Deutschland
eingewandert, weitere 5,7 Prozent sind direkte Nachkommen von Eingewanderten.
Das geht aus einer neuen Statistik des Statistischen Bundesamts hervor, die
nicht die Staatsangehörigkeit zugrunde legt, sondern die Wanderungserfahrung
einer Familie.
Eine Einwanderungsgeschichte haben nach dieser Definition
Personen, die entweder selbst oder deren beide Elternteile seit dem Jahr 1950
eingewandert sind. Die Definition umfasst also zwei Generationen. Das Konzept
wurde von einer Fachkommission der Bundesregierung empfohlen. Diese Definition
sei „weniger komplex und international besser vergleichbar“, so das Amt.
Legt man diese neue Definition zugrunde, hatten nach
Ergebnissen des Mikrozensus 2021 in Deutschland knapp 19 Millionen Personen eine
Einwanderungsgeschichte. Ihr Anteil an der Bevölkerung betrug 23 Prozent, wie
das Statistische Bundesamt am Donnerstag berichtete. 14,2 Millionen Menschen
sind seit 1950 selbst eingewandert. Weitere 4,7 Millionen waren direkte
Nachkommen von zwei Eingewanderten, wurden aber selbst in Deutschland geboren.
Ukrainer nicht in der Statistik
Gemäß der Empfehlung der Kommission zählen Menschen nicht
zur Bevölkerung mit Einwanderungsgeschichte, wenn nur ein Elternteil
eingewandert ist. Diese Gruppe umfasst laut Statistischem Bundesamt 3,7
Millionen Personen (4,5 der Bevölkerung). Da es sich um Ergebnisse für 2021
handelt, sind Wanderungen infolge des russischen Angriffs auf die Ukraine nicht
enthalten.
Im EU-Vergleich lag Deutschland nach Ergebnissen der
Europäischen Statistikbehörde Eurostat mit einem Anteil der Eingewanderten an
der Bevölkerung von 17,3 Prozent über dem Durchschnitt aller 27
Mitgliedstaaten, der 10,6 Prozent beträgt. Die höchsten Anteile hatten Malta,
Zypern und Schweden mit Prozentzahlen um 22 Prozent. Die Länder mit den
geringsten Anteilen Eingewanderter waren Bulgarien, Rumänien und Polen mit
jeweils unter einem Prozent. (dpa/mig 3)
Verbrenner-Aus: Schluss mit den
Spielchen!
Die Reduzierung von CO2-Ausstoß im Verkehr ist hart, denn es
geht um ein ureigenes menschliches Bedürfnis: Mobilität. Umso mehr ist eine
aufrichtige Politik gefragt, die sich nicht hinter Formalitäten oder Scheinlösungen
versteckt. Rund um das Verbrenner-Aus der EU hat sich leider das Gegenteil
gezeigt. Von: Jonathan Packroff
Anders als in anderen wirtschaftlichen Bereichen, etwa der
Stromerzeugung, sind die CO2-Emissionen im Verkehrssektor seit 1990 nicht
nennenswert zurückgegangen.
Dies liegt vor allem daran, dass die Menschen heute mobiler
sind denn je, und dass immer mehr Waren immer weiter transportiert werden.
Eigentlich große Errungenschaften, aber für das Klima werden sie zum Problem.
Grob gesagt, gibt es vier Möglichkeiten, den CO2-Ausstoß im
Verkehrssektor zu reduzieren: Weniger Mobilität, weniger Komfort, andere
Antriebe oder andere Kraftstoffe.
Jede dieser Möglichkeiten hat ihre Probleme – und ist daher
bei Politikern unbeliebt.
Die erste Variante wird sogar von den Grünen ausgeschlossen,
die sonst im Klimaschutz gerne auch auf Verhaltensänderungen setzen.
Stefan Gelbhaar, verkehrspolitischer Sprecher der Grünen im
Bundestag, beschrieb das Ziel seiner Partei bei einer Veranstaltung im Herbst
2022 so: „Mehr Mobilität bei weniger Verkehr“.
Die zweite Variante – weniger Autofahrten, mehr Fahrrad,
Scooter, Bus und Bahn – ist sicher Teil der Lösung. Aber Politiker erzählen
ihren Wählern nur ungern, dass sie auf diese Alternativen umsteigen sollen.
„Ich halte nichts davon, das staatlich zu verordnen“, sagte
Bundeskanzler Olaf Scholz im Januar der TAZ auf die Frage, ob die Zahl der
Autos in Deutschland reduziert werden müsse. „Die Bürgerinnen und Bürger müssen
selbst entscheiden, wie sie sich fortbewegen wollen“, sagte er.
Bleiben alternative Antriebe und alternative Kraftstoffe.
Der Umstieg auf E-Mobilität hat vor allem ein Problem: Durch
die große Bestandsflotte an Dieselautos und Benzinern vollzieht sich der Wandel
nur langsam, werden doch jährlich nur etwa 5 Prozent der Autos durch Neuwagen
ersetzt – von denen bisher nur ein geringer Anteil E-Autos sind. Kurzfristige
CO2-Einsparungen, etwa bis 2030, lassen sich so nur schwer erreichen.
Kein politisches Projekt hatte deshalb eine vergleichbare
Symbolkraft wie das von der EU-Kommission vorgeschlagene Ende des
Verbrennungsmotors ab 2035, auch als Signal an Verbraucher, künftige
Kaufentscheidungen zu überdenken.
Der gewünschte Umstieg trifft jedoch auf ein Image-Problem.
E-Autos gelten für viele Verbraucher als keine attraktive Option, nicht
zuletzt, weil Politiker-Statements immer wieder Hoffnungen auf ein Fortbestehen
des Verbrenners auch in der klimaneutralen Zukunft wecken.
Alternative Kraftstoffe, also Biokraftstoffe und E-Fuels,
haben allerdings ihre ganz eigenen Probleme. Kurz zusammengefasst lauten diese:
Alles, was in großen Mengen verfügbar werden könnte, ist extrem teuer (vor
allem E-Fuels, die mit CO2 aus der Atmosphäre und Wind- oder Solarstrom
produziert werden) – und alles, was günstig ist, ist nur begrenzt vorhanden
(etwa Biokraftstoffe aus Reststoffen).
Kurzum: Klimaschutz im Verkehrsbereich ist verdammt schwer.
Da hilft es nicht, dass Politiker aller Parteien die Debatte
ohne die notwendige Ernsthaftigkeit führen.
Der FDP-Fraktionsvorsitzende Christian Dürr, zum Beispiel,
schlug einen Tausch mit Nordafrika – E-Fuels gegen Migranten – vor, und sein
Parteikollege Wolfgang Kubicki wollte den für Elektro-Ladesäulen unabdingbaren
Netzausbau erst kürzlich in Geiselhaft für FDP-Lieblingsprojekte nehmen.
„Wenn es keinen Straßenbau mehr geben soll, dann gibt es
auch keine Stromleitungen mehr“, zitiert FOCUS Online den FDP-Vize.
So geht es nicht.
Aber auch die Grünen, der Ampel-Gegenspieler der FDP, haben
sich nicht immer aufrichtig verhalten. Beim sogenannten Verbrenner-Aus der EU
(offiziell „CO2-Flottengrenzwerte für PKW und Kleintransporter“), dessen
Blockade Bundesverkehrsminister Wissing nun angekündigt hat, wollten die Grünen
den FDP-Minister austricksen.
Um die FDP zur Zustimmung zu bewegen, hat Deutschland
lediglich eine unverbindliche Klausel in die Gesetzesbegründung hinein
verhandelt, in der die EU-Kommission zu einer Prüfung aufgefordert wird, ob es
nicht doch noch eine Zukunft für Verbrennermotoren mit klimaneutralen E-Fuels
gibt.
Doch gleichzeitig war im Gesetz selbst eine Reduzierung der
erlaubten Emissionen – gemessen am Auspuff – auf null vorgesehen. Ein
faktisches Verbrenner-Aus, das bei Autos und Kleintransportern keine Ausnahme
für mit E-Fuels betriebene Verbrenner macht.
Und auch die EU-Kommission trifft hier eine Mitschuld. Eine
politisch höchst umstrittene Frage (Hat der Verbrenner eine Zukunft?) hinter
öffentlich proklamierter „Technologieneutralität“ und komplizierten
Formulierungen zu verstecken ist keine gute Art, Politik zu machen – und das
fällt ihr nun auf die Füße.
Faktisch hätte Volker Wissing also einem Verbrenner-Aus
zugestimmt, das er eigentlich ablehnt – unter Häme der Grünen und wohl
massivster Kritik der CDU und großer deutscher Zeitungen, die ihm wohl
höchstpersönlich den Tod des Verbrenners angelastet hätten.
Es ist also nicht völlig unverständlich, warum Wissing diese
Woche lieber die Notbremse zog, als einem Gesetz zuzustimmen, dass dem Ziel der
FDP im Kern widerspricht. Dennoch hat Wissings Last-Minute-Aktion Chaos
gestiftet und schadet der wahrgenommenen Zuverlässigkeit Deutschlands.
Auch wenn der grüne Europaabgeordnete Michael Bloss
„überhaupt keine Mitschuld“ seiner Berliner Parteikollegen sieht: Eine
aufrichtige Verhandlung im Vorhinein hätte die jetzige Situation verhindern
können. Denn Deutschland ist nicht das einzige Land, in dem es Bedenken gibt –
im Gegenteil.
Außerdem hat Wissing bei der Bestandsflotte einen Punkt.
Hier wird es ohne E-Fuels wohl kaum gehen – trotz aller energetischen
Ineffizienz. Andererseits ist es eine unbeantwortete Frage, warum ausgerechnet
dieses Eingeständnis beschränkter Möglichkeiten ein Argument sein soll, noch
mehr schwer zu dekarbonisierende Verbrenner zuzulassen.
Weniger Trickserei und Populismus, mehr lösungsorientiertes
Handeln. Nur so kann Klimaschutz im Verkehrsbereich funktionieren.
Kompliziert genug wird es sowieso. EA 3
Annäherung über Nordirland hinaus
Die Europäische Kommission und die britische Regierung legen
einen ihrer zentralen Konflikte bei. Doch der Brexit bleibt eine Belastung.
Jens Zimmermann & Michèle Auga
Drei Jahre ist es nun her, dass das Vereinigte Königreich
mit der Unterzeichnung des Austrittsabkommens als erstes Mitgliedsland in der
Geschichte der Europäischen Union den Staatenverbund wieder verlassen hat – und
so den am 23. Juni 2016 mit dem EU-Mitgliedschaftsreferendum
begonnenen Prozess schließlich beendete. Fast beendete. Denn die versprochene
vollständige Herauslösung aus der Europäischen Union als Beginn eines
wiedererstarkenden Vereinigten Königreiches fand so nie statt. Mit dem
Nordirlandprotokoll als zentraler Vertragsklausel des Austrittsabkommens blieb
Nordirland de facto Teil der Zollunion und damit ein wichtiges
Brexit-Versprechen unerfüllt.
Eigentlich hätte es zwischen der Republik Irland, die Teil
der Europäischen Union ist, und Nordirland, das nicht mehr Teil der EU ist,
eine feste Grenze mit Zollkontrollen geben müssen. Auf diese Weise aber wäre
der mühsam errungene und über lange Zeit hinweg fragile Frieden an der
nordirischen Grenze gefährdet worden und es bestand die reale Gefahr eines
Wiederaufflammens der Gewalt. Das wurde durch den missglückten Bombenanschlag
im nordirischen Strabane im vergangenen Jahr noch einmal deutlich sichtbar.
Um eine Eskalation zu verhindern, war es Teil der
Austritts-Vereinbarung, die Grenze im Meer zwischen der irischen Insel und dem
Rest des Vereinigten Königreiches verlaufen zu lassen. Eine dauerhafte Lösung
war diese Grenzziehung in der Irischen See aber nicht. Sie trennte Nordirland
von Schottland, Wales und England durch Grenzkontrollen und störte die neue
politische Gemeinschaft mit schwerwiegenden Folgen. Die unionistische,
nordirische Partei DUP konnte das Nordirlandprotokoll erfolgreich als Vorwand
nutzen, um eine Regierungsbildung in Belfast über Monate hinweg zu blockieren
und verlieh der Stabilität des britischen Brexit-Konsenses damit eine immer
kürzer werdende Halbwertszeit.
Mit dem sogenannten New Windsor Framework haben die
britische Regierung und die EU-Kommission dieser Blockadehaltung nun
möglicherweise die Grundlage entzogen. Es vereinfacht Ein- und Ausfuhren
insbesondere zwischen Nordirland und Großbritannien etwa für Lebens- und
Arzneimittel. Der Handel wird durch eine Vereinbarung zwischen der EU und dem
Vereinigten Königreich über den Austausch von Daten überwacht. Kontrollen wird
es zukünftig deutlich weniger häufig geben. Änderungen von Mehrwert- und
Verbrauchssteuern, die in Großbritannien vorgenommen werden, gelten nun auch
für Nordirland.
Außerdem bekommt die DUP mit der Stormont Brake ein
Instrument an die Hand, um gegenüber EU-Regelungen ein Votum einlegen zu
können. Damit kommt man der Forderung der Unionisten nach einer Auflösung des
demokratischen Defizits entgegen – allerdings nur im Rahmen der bestehenden
Machtstrukturen des Karfreitagsabkommens. Die realen Verhältnisse in Nordirland
sprechen aber dagegen, dass die DUP hierfür jemals die erforderlichen
Mehrheiten bekommen wird. Dafür fehlt ihr die Unterstützung aus der Business
Community und der Zivilgesellschaft. Ob es sich also bei der Stormont Brake um
einen gelungenen Coup handelt oder ob man der DUP nicht vielmehr einen Grund
gibt, gegen das Abkommen zu votieren, muss sich erst noch zeigen. Sicher ist
aber, dass die DUP angesichts ihrer sinkenden Umfragewerte schwerlich ein
Abkommen ablehnen können wird, das den ihr innewohnenden unionistischen Kern
quasi im Namen trägt. Das Windsor Framework ist nach dem Königssitz im Süden
Englands benannt.
Die mittlerweile sieben Jahre andauernde Überforderung, zu
einer Einigung im Streit um das Nordirland-Protokoll zu gelangen, hat aber
nicht nur auf der irischen Insel Spuren hinterlassen. Der ständige Wechsel von
Premierministern und Regierungen in London hat die eigentlich so
widerstandsfähige Britische Demokratie ganz erheblichem Stress ausgesetzt –
umso wahrnehmbarer ist deshalb in ganz Europa die Erleichterung über den
jüngsten Verhandlungserfolg. Denn die ungelöste Nordirland-Frage bindet
Ressourcen, die Europa auf den imperialistischen Angriffskrieg Russlands gegen
die Ukraine verwenden sollte.
Das Windsor-Abkommen ist aber nicht nur ein Signal der
Europäischen Geschlossenheit gegenüber Moskau. Es darf von all jenen als
Zeichen der Stärke und Geschlossenheit Europas verstanden werden, die sich im
Zuge eines sich andeutenden globalen Regionalisierungstrends sowie der damit
verbundenen drohenden Aufteilung der Weltgemeinschaft in Einflusssphären über
eine schwache und zerstrittene europäische Staatengemeinschaft gefreut haben.
In Europa macht der Kompromiss auch deswegen schon Hoffnung,
weil dem Abkommen wohl monatelange Verhandlungen vorausgegangen waren, ohne
dass hiervon etwas nach außen drang. Das so aufgebaute Vertrauen zwischen der
britischen Regierung und der Europäischen Kommission steht in deutlichem
Kontrast zu all den schrillen Tönen, die in den letzten Jahren aus London und
manchmal auch aus Brüssel zu hören waren. Das Momentum der Einigung zwischen
Brüssel und London gilt es jetzt zu nutzen, um Fortschritte bei der zukünftigen
Zusammenarbeit zu erzielen. Im Zuge des Brexits ist das Vereinigte Königreich
beispielsweise aus dem Bildungsaustauschprogramm der Europäischen Union
Erasmus+ ausgetreten. Die britische Regierung hat mit Turing ein weltweites
Nachfolge-Austauschprogramm angekündigt, welches jedoch nur inländischen
Studierenden zur Verfügung stehen soll. Die vorliegenden Vorschläge, den
rechtlichen Rahmen des Programms an die Verordnung der EU zu Erasmus+
anzulehnen, um Studierenden auf beiden Seiten des Ärmelkanals wieder gegenseitigen
Zugang zu den Universitäten zu erlauben, sollten so schnell wie möglich
umgesetzt werden.
Auch die bilaterale Wissenschaftskooperation blühte bis zum
Brexit. Für das Jahr 2019 wies eine Statistik der deutschen
Hochschulrektorenkonferenz 1 661 offizielle Kooperationen zwischen Deutschland
und dem Vereinigten Königreich aus. Auf britischer Seite gilt der British
Council seit vielen Jahren als wichtiger Mittler. Hinzu kommen unzählige
private Initiativen in Bildung, Forschung, Sprachaustausch oder Journalismus.
Auch die für die bilaterale Verständigung wichtigen deutschen politischen
Stiftungen bilden ein unverzichtbares Fundament des Dialogs.
Das Fortbestehen all dieser Programme oder die Gründung
neuer Institutionen ist nach dem Brexit aber nicht garantiert. Auch nach dem
Ende der Freizügigkeit müssen wir die Arbeitsaufnahme für die genannten
Mittlerorganisationen in unseren beiden Ländern vereinfachen. Sie sind
unverzichtbar. Ungeachtet ihres rapiden Bedeutungsgewinns können soziale Medien
und Online-Kommunikation die Public Diplomacy nicht ersetzen.
Trotz der Einigung auf das Windsor-Abkommen muss sich der
Jubel in Grenzen halten. Faktisch ändert sich nämlich neben der Harmonisierung
des britischen Binnenhandels wenig. Der Brexit ist und bleibt eine große
wirtschaftliche und politische Belastung für Großbritannien, aber auch seine
Nachbarn und Partner. Denn trotz all der Mühen um die Verhandlungen der
vergangenen Monate wird man den Schaden, den der Brexit angerichtet hat, nicht
ohne weiteres wiedergutmachen. Wenn es überhaupt möglich ist, dann nur mit
einer grundlegenden Politikänderung. Vieles hängt also davon ab, wie die
politischen Entscheidungsträger in London und Belfast mit dem Windsor Framework
zukünftig umgehen, oder mit anderen Worten: Es kommt darauf an, was sie daraus
machen – „Windsor is what they make of it“. EA 3
Arbeitsmarkt stabil. Ausländische
Arbeitskräfte sorgen für Beschäftigungszuwachs
Die schwache Konjunktur schlägt sich kaum auf dem
Arbeitsmarkt nieder: Arbeitslosenzahlen und Kurzarbeit steigen nur leicht. Für
Beschäftigungszuwachs sorgen vor allem ausländische Arbeitskräfte. Großteil der
neuen Stellen wurden mit ausländischen Fachkräften besetzt. Von Irena Güttel
Die deutsche Wirtschaft schwächelt, doch der Arbeitsmarkt
bleibt stabil. Im Februar erhöhte sich die Zahl der Arbeitslosen im Vergleich
zum Vormonat leicht um rund 4000 auf 2,62 Millionen. Die Arbeitslosenquote
blieb unverändert bei 5,7 Prozent. Zieht man die ukrainischen Geflüchteten ab,
ergibt sich auch im Vorjahresvergleich bei Arbeitslosigkeit und
Unterbeschäftigung – wo Menschen in Maßnahmen wie Integrationskursen erfasst
werden – kaum Veränderung.
„Der Arbeitsmarkt zeigt sich im Februar auch wie in den
letzten Monaten beständig“, sagte die Vorstandsvorsitzende der Behörde, Andrea
Nahles. Auswirkungen der angespannten wirtschaftlichen Situation seien aber
durchaus erkennbar. Die Bundesagentur hat für ihre aktuelle Statistik Daten
herangezogen, die bis zum 13. Februar vorlagen.
So habe die Kurzarbeit zuletzt erneut zugenommen, sagte
Nahles. Es zeichne sich jedoch keine dramatische Entwicklung ab. Aktuelle
Zahlen, wie viele Beschäftigte Kurzarbeitergeld in Anspruch nahmen, liegen bis
Dezember 2022 vor: Nach hochgerechneten Daten der Bundesagentur erhielten in
diesem Monat 183 000 Menschen Kurzarbeitergeld. „Das ist ein leicht
ansteigender Trend“, sagte Nahles. Vom 1. bis 23. Februar zeigten Unternehmen
für 61 000 Beschäftigte Kurzarbeit an. Erfahrungsgemäß liegt die Zahl derer,
die dann tatsächlich in Kurzarbeit gehen, niedriger.
Beschäftigungszuwachs dank ausländischer Arbeitskräfte
Auch die Nachfrage der Unternehmen nach neuen
Mitarbeiterinnen und Mitarbeitern ging im vergangenen Jahr zurück. Im Februar
waren der Bundesagentur zufolge 778 000 offene Stellen gemeldet, 44 000 weniger
als vor einem Jahr. Dennoch liege der Personalbedarf nach wie vor auf einem
hohen Niveau, betonte Nahles. Eine erfreuliche Entwicklung sieht sie bei den
sozialversicherungspflichtig Beschäftigten, deren Zahl im Dezember nach
Hochrechnungen der Bundesagentur im Vorjahresvergleich auf rund 34,73 Millionen
zunahm.
95 Prozent des Beschäftigungszuwachses gehe auf ausländische
Arbeitskräfte zurück – vor allem aus Ländern wie Indien, Türkei und Russland,
sagte Nahles. Ihre Zahl stieg um 424 000 auf 5,13 Millionen, die der deutschen
sozialversicherungspflichtig Beschäftigten um 14 000 auf 29,59 Millionen.
Großteil der Stellen mit ausländischen Fachkräften besetzt
„Diese Zahlen unterstreichen, dass schon heute ein Großteil
der neuen sozialversicherungspflichtigen Stellen mit ausländischen Fachkräften
besetzt wird“, teilte Bundesarbeitsminister Hubertus Heil (SPD) mit. „Deshalb
werden wir mit dem neuen Fachkräfteeinwanderungsgesetz noch mehr qualifizierten
Fachkräften als bisher in Deutschland eine Perspektive bieten.“
In einigen Bundesländern wie Rheinland-Pfalz, Niedersachsen,
Thüringen oder Schleswig-Holstein gebe es ohne die ausländischen Arbeitskräfte
kein Beschäftigungswachstum mehr, betonte Nahles. Das gelte auch für Branchen
wie verarbeitendes Gewerbe, Logistik, Baugewerbe, Pflege und Handel. „Das heißt
nicht, dass wir keine Potenziale mehr hätten.“ Es müsse aber noch mehr Kraft
investiert werden, um Frauen und Langzeitarbeitslose für den Arbeitsmarkt zu
gewinnen.
Arbeitsagentur blickt optimistisch in die Zukunft
Die Arbeitsagenturen blicken trotz der anhaltenden
konjunkturellen Unsicherheiten optimistisch in die Zukunft. Sie erwarten in den
kommenden Monaten dem Arbeitsmarktbarometer des Instituts für Arbeitsmarkt- und
Berufsforschung zufolge einen Rückgang der Arbeitslosigkeit – vor allem weil
ukrainische Geflüchtete zunehmend die Integrationskurse beenden und eine
Beschäftigung aufnehmen.
143 000 Menschen aus der Ukraine werden nach Angaben von
Nahles im Mai und Juni aus den Integrationskursen kommen. Die Jobcenter
bereiten sich bereits darauf vor, diese zu vermitteln, sagte Nahles. Insgesamt
seien rund 480 000 Menschen aus der Ukraine nach Deutschland gekommen, die
erwerbsfähig seien, hieß es bei der Arbeitsagentur. „Das ist erstmal eine
Verstärkung“, sagte die Behördenchefin. Doch wie lange, ist fraglich: Man hoffe
natürlich für die Menschen, dass diese irgendwann wieder in ihre Heimat
zurückkehren könnten, betonte Nahles. (dpa/mig 2)
Mehrheit auf der Kippe: Italien
lehnt Verbrenner-Aus ab
Italien lehnt die EU-Verordnung zum Ausstieg aus neuen
Fahrzeugen mit Verbrennungsmotor bis 2035 ab. Die EU-Kommission solle ihren
Standpunkt revidieren und ökologisch und wirtschaftlich nachhaltige
Alternativen vorschlagen, so die italienische Regierung. Von: Federica Pascale
Nachdem das Ministerium für Umwelt und Energiesicherheit das
negative Votum Italiens zu der vorgeschlagenen EU-Verordnung bekannt gegeben
hatte, verschob Schweden, das derzeit die rotierende Präsidentschaft der EU
innehat, eine geplante Abstimmung über das Gesetz in der Sitzung der
EU-Botschafter der Mitgliedsstaaten.
Die Abstimmung, die ursprünglich am Mittwoch (1. März)
stattfinden sollte, wurde zunächst auf Freitag (3. März) verschoben.
„Mit unserem ‚Nein‘ haben wir Europa wachgerüttelt. Wir
hoffen, dass andere verstehen werden, dass es Zeit für Vernunft ist, und sicher
nicht für Resignation. Veränderung ist möglich“, kommentierte der italienische
Wirtschaftsminister Adolfo Urso (FDI/EKR) auf Twitter.
Urso unterstützt die Entscheidung der schwedischen
Ratspräsidentschaft, die angesichts der Ereignisse, die Europa auf den Kopf
gestellt haben – zunächst die Pandemie und später der Krieg in der Ukraine –
ein „sinnvolleres Nachdenken“ über das Thema ermöglichen soll.
Italiens Bedingung, um den Knoten zu lösen und ‚Ja‘ zu den
neuen Maßnahmen zu sagen, ist, dass die Europäische Kommission Alternativen mit
„gesundem Menschenverstand“ anbietet, um die Klimaziele der EU zu erreichen,
die von der italienischen Regierung unter der Leitung von Giorgia Meloni
(FDI/EKR) offiziell geteilt werden.
„Wir dürfen uns nicht auf eine einzige Technologie
festlegen, es muss eine Wahlmöglichkeit geben“, sagte der italienische
Abgeordnete Luca Squeri, Energiepolitiker von Forza Italia (EVP), gegenüber
EURACTIV Italien.
E-Fuels als Lösung?
Am Dienstag erklärte auch Bundesverkehrsminister Volker
Wissing (FDP/Renew Europe), Deutschland werde das Abkommen nur akzeptieren,
wenn die EU-Kommission einen Vorschlag vorlege, der die Zulassung von
Fahrzeugen mit Verbrennungsmotor, die ausschließlich mit E-Kraftstoffen
betrieben werden, nach 2035 erlaube.
„E-Fuels sind auch als innovative Mobilitätsquelle absolut
brauchbar. Wenn der Vorschlag Berlins angenommen wird, wird auch Italien grünes
Licht geben“, erklärte Squeri.
„Wenn es uns gelingt, eine Sperrminorität zu bilden, könnten
wir den gesunden Menschenverstand durchsetzen und eine Ideologie besiegen, die
Italien und ganz Europa schaden würde“, sagte er.
Die EU-Verordnung ist Teil des Klimapakets Fit for 55, das
darauf abzielt, bis 2030 -55 Prozent CO2-Emissionen und bis 2050
Klimaneutralität zu erreichen, und befindet sich in den letzten Schritten des
EU-Gesetzgebungsprozesses.
In der letzten Plenarsitzung des Europäischen Parlaments war
der Vorschlag angenommen worden, nachdem sich Mitgliedsstaaten und EU-Parlament
im informellen Trilog-Verfahren auf einen Kompromiss geeinigt hatten.
Die endgültige Abstimmung zur Ratifizierung durch die
Mitgliedsstaaten ist für Dienstag (7. März) vorgesehen.
Das Nein Italiens allein würde die Verabschiedung der
Verordnung nicht beeinträchtigen, da eine sogenannte qualifizierte Mehrheit
ausreichen würde, aber angesichts der Zweifel Berlins, der Enthaltung
Bulgariens und der Nein-Stimme Polens ist das Ergebnis offen.
Zusammen haben diese Länder eine sogenannte Sperrminorität,
und können die Verabschiedung blockieren.
„Unsere so klare und scharfe Haltung, zusammen mit der
anderer Länder wie Polen und Bulgarien, hat zu weiteren Überlegungen geführt“,
sagte Minister Urso und betonte, dass aus einer breiteren Perspektive Lösungen
gefunden werden müssen, um auf die „große systemische Herausforderung Chinas
und die selbstbewusste Politik der Vereinigten Staaten“ zu reagieren.
Mehr Pragmatismus, um gegenüber China nicht nachzugeben
Melonis Minister sind besorgt, dass die Entscheidung China
begünstigen könnte, indem sie eine weitere technologische Abhängigkeit
schaffen, während der Prozess der EU-Mitgliedstaaten, ihre Energieabhängigkeit
von Russland zu beenden, gerade im Gange ist.
„Wir müssen die europäischen Institutionen davon überzeugen,
mit mehr Pragmatismus und einer realitätsnäheren Vision auf die Herausforderung
des ökologischen und industriellen Wandels zu reagieren“, sagte Urso und
betonte, dass es entscheidend sei, „nicht von der energetischen Unterordnung
unter Russland zu einer noch schlimmeren Unterordnung unter die chinesische
Technologie überzugehen“.
Auch Verkehrsminister Matteo Salvini bezeichnete das von der
EU verhängte Verbot als „eine Torheit, die der Umwelt nicht hilft und China
bereichert“.
„Der Übergang, an den wir alle glauben, sollte gefördert und
begleitet werden, aber die Eile birgt das Risiko, das Gegenteil zu bewirken“,
sagte Salvini während eines informellen Treffens der EU-Verkehrsminister, das
von der schwedischen Präsidentschaft in Stockholm organisiert wurde.
„Ich bin davon überzeugt, dass die nächste Europäische
Kommission viele ideologische Axiome dieser Legislaturperiode infrage stellen
wird“, fügte Urso hinzu und betonte, dass derzeit „eine sehr ideologische Sicht
auf die Technologie vorherrscht, die wir bestreiten, weil wir für
technologische Neutralität sind“.
„Indem sie ein Emissionsreduktionsziel von 100 Prozent im
Jahr 2035 festlegt und keine Anreize für die Verwendung erneuerbarer
Brennstoffe bietet, steht die Verordnung nicht im Einklang mit dem Grundsatz
der Technologieneutralität. Daher kann Italien sie nicht unterstützen“, heißt
es in der nationalen Erklärung, die den Vertretern der 27 EU-Mitgliedstaaten
übermittelt wurde. EA 2
Bisher unterstützt die Bevölkerung die Zeitenwende, doch
dass es so bleibt, ist nicht sicher. Drei Lehren für die deutsche Politik.
Alexandra Dienes
Deutsche Flugabwehrpanzer in Kiew, die Ukraine als
EU-Beitrittskandidat, gesprengte Gaspipelines zwischen Deutschland und Russland
und eine deutsche Öffentlichkeit, die in jeder zweiten Talkshow über die
Vor- und Nachteile von Kampfjets diskutiert – ein Jahr nach der historischen
„Zeitenwende“-Rede von Bundeskanzler Olaf Scholz sind schon viele Anzeichen
dieser Zäsur erkennbar. Der entscheidende Punkt ist jedoch, dass es für die
aktuelle Situation keine Blaupause gibt und die weitere Entwicklung der Zeitenwende
offen bleibt. Weder ein Eskalationsszenario noch die Möglichkeit eines lange
andauernden Abnutzungskrieges lassen sich ausschließen.
Die bemerkenswerte Kampfbereitschaft der Ukraine hat im Lauf
des Jahres nicht nachgelassen, auch dank der massiven Militärhilfe aus dem
Westen. Dieser hat eine beachtliche Einigkeit bewiesen, die auf dem
Gipfelmarathon der vergangenen Wochen und Monate eindrücklich bekräftigt wurde.
Nichtsdestotrotz scheint das Ende des Krieges nicht in Sicht zu sein und die
Hoffnung auf eine diplomatische Lösung ist in weite Ferne gerückt. Russland
gibt trotz hoher Verluste nicht auf. Nach Putins jüngster Rede zur Lage der
Nation scheint Russland sich endgültig vom Westen und einer regelbasierten
Ordnung zu verabschieden.
Der russische Angriffskrieg leitete einen tiefgreifenden
Wandel in Deutschland ein, der bis heute andauert. Er umfasst eine Kehrtwende
in der Russlandpolitik und der Energiepolitik, die größte Aufstockung des
Verteidigungshaushalts seit dem Ende des Zweiten Weltkrieges und einen
politischen Tabubruch mit der Lieferung von Waffen in ein Kriegsgebiet.
Angefangen mit 5000 Helmen, bis hin zu Leopard-Kampfpanzern verwandelte sich
Deutschland innerhalb eines Jahres von einem stark kritisierten Nachzügler zu
einem der wichtigsten militärischen Unterstützer der Ukraine. Trotzdem ist
Deutschland weiterhin der Kritik nach dem Motto „too little – too late“
ausgesetzt.
Den Ergebnissen des Security Radar 2023
zufolge unterstützt die deutsche Öffentlichkeit die Zeitenwende. Die
Neubewertung der Sicherheitslage und des Verhältnisses zu Russland (aber auch
China) ist tiefgreifend. Dazu kommt eine starke Bereitschaft, die wirtschaftliche
Abhängigkeit von diesen Staaten zu reduzieren. Erstmals seit Jahrzehnten
befürwortet eine Mehrheit der Deutschen die Steigerung der
Verteidigungsausgaben. Gleichzeitig zeigt die öffentliche Meinung und Debatte
eine starke Kontinuität der Kultur der Zurückhaltung. Die Fokussierung auf
Frieden, die grundsätzliche Skepsis gegenüber militärischen Instrumenten und
die Hoffnung auf eine Verhandlungslösung sind Zeichen dafür. Damit ist die
gegenwärtige öffentliche Unterstützung der Zeitenwende nicht unumstößlich.
Drei Aspekte sind hierbei von Bedeutung: Erstens, die
politisch-militärische Ebene: Der Krieg in der Ukraine ist nicht nur eine
Tragödie für das betroffene Land, sondern bleibt eine potenzielle Bedrohung für
die Sicherheit Deutschlands. Das erzeugt Ängste und Sorgen in der Bevölkerung.
Viele Menschen glauben, dass der Krieg noch lange andauern wird, und setzen auf
eine diplomatische Lösung. Gleichzeitig spaltet die Frage von weiteren
Waffenlieferungen an die Ukraine die Gesellschaft – nur eine hauchdünne
Mehrheit ist dafür. Skepsis herrscht auch im Hinblick auf den Beitritt der
Ukraine zur EU und zur NATO. Möglicherweise fürchten die Menschen eine
Eskalation des Konflikts ins eigene Bündnis oder sie zweifeln an der Eignung
der Ukraine als Mitgliedsland. Eine klare rote Linie ist die Entsendung
deutscher Truppen in die Ukraine. Drei Viertel der Befragten lehnen einen
solchen Schritt ab. Der Wechsel von „Frieden schaffen ohne Waffen“ zu „Frieden
schaffen mit Waffen“ ist in der Gesellschaft mithin nicht erfolgt. Deshalb
sollte hinterfragt werden, ob Frieden langfristig mit mehr Waffen gesichert
werden kann. Vor diesem Hintergrund ist es wichtig, dass die Regierung die
Unterstützung der Ukraine weiterhin sehr genau gegen das Risiko einer möglichen
Kriegseskalation abwägt. Dabei sollte die verantwortungsethische Maxime
handlungsleitend sein: Der Zweck darf nicht jedes Mittel heiligen. So
rechtfertigt die Verteidigung der ukrainischen Souveränität beispielsweise
nicht den Einsatz international geächteter Waffen. Daher ist die deutsche
Absage der ukrainischen Forderung nach Streumunition absolut richtig.
Zweitens: Die wirtschaftliche Dimension der Zeitenwende ist
nicht weniger folgenschwer für Deutschland. Momentan wird eine Reduktion der
Abhängigkeiten von Russland und China in der öffentlichen Meinung befürwortet.
Die langfristigen Kosten des Krieges und der wirtschaftlichen Entkopplung sind
aber den Wenigsten klar. Ohne kompensierende Investitionen in
Produktivitätssteigerung und Innovationen werden die anhaltend hohen
Energiekosten nicht nur die Wettbewerbsfähigkeit des Industriestandorts
Deutschland, sondern auch unzählige Jobs gefährden. Die Abfederung der
unmittelbaren Kriegsfolgen durch den 200 Milliarden Euro schweren „Doppelwumms“
ist folgerichtig und mag für die Bevölkerung vorerst Abhilfe schaffen. Sollte
der Effekt aber nicht ausreichen, um langfristige Kosten und möglicherweise
sinkende Lebensstandards auszugleichen, könnte es kritisch werden. Wenn
Sozialkürzungen notwendig werden, um neue Waffen für die Bundeswehr zu
beschaffen, wird es besonders schwierig werden, die Wählerinnen und Wähler von
langfristig hohen Militärbudgets zu überzeugen. Der vorhandene Spielraum könnte
weiter verengt werden, wenn der Finanzminister auf der Einhaltung der Schuldenbremse
beharrt und sich dieses Dilemma schon in den nächsten Jahren zuspitzt.
Drittens, die europäische Ebene. Der Blick auf die
öffentliche Meinung in Deutschland, Frankreich, Lettland und Polen zeigt, dass
der Krieg zu mehr Gemeinsamkeiten geführt hat. Das betrifft das veränderte Bild
von Russland, die Bereitschaft, die Ukraine zu unterstützen – wobei die gleiche
rote Linie gezogen wird, nämlich Entsendungen eigener Truppen wird abgelehnt –,
sowie der Wunsch nach dem Aufbau einer gemeinsamen europäischen Armee. Die
Einigkeit innerhalb der EU ist somit nicht nur Ergebnis politischer
Entscheidungen, sondern eine echte Annäherung der Wahrnehmungen. Jedoch ist das
Fundament des Vertrauens zwischen den Staaten fragil. Besonders
besorgniserregend ist das tiefe gegenseitige Misstrauen zwischen Polen und
Deutschland. Zudem gibt es sehr unterschiedliche Vorstellungen über Wege
zur Beendigung des Krieges, zur Frage, ob die Ukraine Mitglied der EU werden
sollte, und zum Umgang mit China.
Die Zeitenwende hat begonnen, ist aber keineswegs
abgeschlossen. Sie ist nun vielmehr Gegenstand der politischen
Auseinandersetzung. Der Ausgang des Krieges ist hierbei eine bedeutende
Unbekannte. Daher braucht es für die weitere Gestaltung der Zeitenwende eine
ernsthafte politische Debatte, die sich nicht allein auf die Entwicklungen auf
dem Schlachtfeld und das nächste zu liefernde Waffensystem konzentriert,
sondern die ebenfalls die langfristigen Folgen der Zeitenwende in den Blick
nimmt. Also eine Debatte über europäische Sicherheit, die das zukünftige
institutionelle Gefüge des Kontinents ergebnisoffen in den Blick nimmt, dabei
eine Anknüpfung an die Erfahrungen mit der Konferenz über Sicherheit und
Zusammenarbeit in Europa im Kalten Krieg vorsieht und sich mit einem resilienteren,
nachhaltigen Wirtschaftsmodell Deutschlands befasst, das die Vor- und Nachteile
globaler Abhängigkeiten abwägt.
Bisher hat der Großteil der Öffentlichkeit den
Regierungskurs wohlwollend mitgetragen. Angesichts der Geschwindigkeit und
Gleichzeitigkeit von massiven Herausforderungen ist das beachtlich. Besonders
nachdem zu Beginn des Krieges keine angemessene parlamentarische oder gar
öffentliche Debatte über die schwerwiegenden politischen Entscheidungen,
inklusive einer Grundgesetzänderung, geführt wurde. Dieser Vertrauensvorschuss
in die Arbeit der Regierung galt vor allem den kurzfristigen Maßnahmen in der
akuten Krisensituation. Langfristig ist eine breite und kritische
gesellschaftliche Debatte unabdingbar.
In so einer unsicheren Sicherheitslage mit ungewissen
politischen und wirtschaftlichen Auswirkungen braucht es eine kommunikative
Begleitung der Zeitenwende. Denn sonst können die öffentliche Unterstützung der
Regierungspolitik und vor allem die Bereitschaft bröckeln, den Preis für die
Zeitenwende zu zahlen. IPG 1
Stoltenberg im Interview: „Russland
plant ständig neue Offensiven“
Der NATO-Gipfel in Vilnius im Juli wird wichtige
Entscheidungen für die NATO bringen, sagt der Generalsekretär des
Nordatlantikbündnisses Jens Stoltenberg in einem Interview mit EURACTIVs
Medienpartner LRT. Den ukrainischen Präsidenten Wolodymyr Selenskyj hat er zu
dem Treffen eingeladen. Von: LRT.lt
Welche Entscheidungen können wir vom NATO-Gipfel in Vilnius
im Juli erwarten?
Der Gipfel von Vilnius wird ein sehr wichtiger Gipfel sein.
Und ich möchte Litauen dafür danken, dass es ein so wichtiges Ereignis
austrägt.
Wir haben im letzten Jahr gesehen, dass die NATO ihre
Präsenz im östlichen Teil des Bündnisses, auch in der baltischen Region, mit
Battlegroups, mit mehr Truppen und Kräften sowie unterstützt durch eine
beträchtliche Luft- und Marineeinheiten, deutlich erhöht hat.
Wir werden immer tun, was notwendig ist, um sicherzustellen,
dass wir eine glaubwürdige Abschreckung und Verteidigung haben, die eine klare
Botschaft an Moskau sendet: dass wir hier sind, um alle Verbündeten zu schützen
und zu verteidigen, und dass ein Angriff auf einen Verbündeten eine Reaktion
der gesamten Allianz auslösen wird.
Wir tun dies natürlich nicht, um einen Konflikt zu
provozieren, sondern um einen Konflikt zu verhindern, um einen Angriff auf ein
verbündetes Land zu verhindern.
Neben der verstärkten Präsenz ist das Wichtigste, was wir
jetzt tun – und in Vilnius werden wir uns auf neue Pläne und auch ein neues
Modell für unsere Streitkräfte und die Erhöhung der Verteidigungsausgaben
einigen -, sicherzustellen, dass wir über die Bereitschaft und die Kräfte
verfügen, um bei Bedarf schnell reagieren zu können.
Wir haben [die Präsenz der NATO an der Ostflanke] bereits
erhöht, und wir prüfen ständig, was wir noch tun sollten. Aber das Wichtigste
ist, dass wir über eine erhebliche Anzahl von einsatzbereiten Truppen verfügen,
die bei Bedarf schnell mobilisiert können.
Glauben Sie, dass der Gipfel von Vilnius ein historisches
Ereignis sein wird und einen entscheidenden Moment für die NATO darstellen
wird?
Ja, der Gipfel von Vilnius wird ein sehr wichtiger Gipfel
sein.
Und ich habe letzte Woche mit Präsident Naus?da in Warschau
gesprochen, wo wir beide an dem Treffen mit Präsident Biden und der B9-Gruppe,
den Verbündeten der Ostflanke, teilgenommen haben, und wir haben mit den
Vorbereitungen begonnen.
Ich glaube, dass der Gipfel in Vilnius wichtig sein wird,
denn er wird unsere Einigkeit bei der Unterstützung der Ukraine demonstrieren.
Hoffentlich werden auch neue Schritte und neue Maßnahmen zur langfristigen
Unterstützung der Ukraine und zum Aufbau einer Partnerschaft mit der NATO
vereinbart.
Wir müssen die Verteidigung stärken. Ich erwarte, dass sich
unsere Verbündeten auf neue Pläne einigen, aber auch auf eine neue Rolle für
unsere Streitkräfte und eine weitere Erhöhung der Verteidigungsausgaben.
Es wurden noch keine Entscheidungen getroffen, aber ich
denke, wir sollten 2 Prozent des Bruttoinlandsprodukts nicht als Obergrenze für
unsere Ausgaben betrachten, sondern als Untergrenze, als Minimum dass wir für
unsere Verteidigungsausgaben zur Verfügung stellen sollen.
Wird Präsident Selenskyj beim Gipfeltreffen in Vilnius anwesend
sein und welche Bedeutung würde seine Anwesenheit haben?
Ich habe Präsident Selenskyj eingeladen, am NATO-Gipfel in
Vilnius teilzunehmen. Ich glaube, das wird ein starker Ausdruck unserer
Solidarität und Unterstützung sein. Ich hoffe, dass er dort sein kann. Aber das
hängt natürlich von der Lage in der Ukraine ab, die sich mitten in einem
umfassenden Krieg befindet.
Ich fürchte, dass die einzige Sprache, die Präsident Putin
versteht, unsere Einigkeit und unsere Stärke ist. Und das ist der Grund, warum
wir zusammenstehen müssen.
Präsident Putin hat zwei große strategische Fehler gemacht,
als er in die Ukraine einmarschierte. Er hat die Ukrainer, den Mut und die
Entschlossenheit des ukrainischen Volkes, der ukrainischen Streitkräfte und der
ukrainischen Führung völlig unterschätzt.
Aber er hat auch die Entschlossenheit und den Willen der
NATO-Verbündeten und -Partner unterschätzt, die Ukraine zu unterstützen.
Litauen gehört zu den Ländern, die der Ukraine umfangreiche Unterstützung
leisten. Gemessen an Ihrem Bruttoinlandsprodukt gehört Litauen wirklich zu den
Spitzenverbündeten, wenn es um die Unterstützung der Ukraine geht.
Wir tun dies, um Präsident Putin die Botschaft zu
übermitteln, dass er auf dem Schlachtfeld nicht gewinnen wird. Er muss sich
hinsetzen und die Ukraine als souveräne, unabhängige Nation anerkennen und dann
die Ukraine verlassen. Präsident Putin hat den Krieg begonnen, Präsident Putin
wird den Krieg auch beenden, indem er seine Truppen abzieht.
Was sagen die Geheimdienste der NATO über das Ausmaß dieser
neuen russischen Offensive?
Wir sehen bereits neue Offensivaktionen Russlands, vor allem
rund um Bachmut, mit heftigen Kämpfen und schweren Verlusten. Russland wirft
Wellen von Soldaten gegen die ukrainischen Verteidigungslinien, wie wir sie
seit dem Ersten Weltkrieg nicht mehr gesehen haben.
Und wir sehen auch, dass Russland ständig neue Offensiven
plant, mehr Truppen mobilisiert, mehr Waffen beschafft, die Produktion
hochfährt, mehr Munition und mehr Waffen schickt und auch anderen autoritären
Regimen wie dem Iran und Nordkorea die Hand reicht.
Gibt es Ihrer Meinung nach Unterschiede zwischen Russland
und Belarus?
Russland und Belarus stimmen mehr und mehr überein, aber wir
haben noch keine vollständige Vereinigung beider Länder gesehen.
Wir sehen auch, dass Belarus eine Plattform war, um
Russlands Angriffskrieg gegen die Ukraine zu unterstützen, und auch die
Invasion wurde von Belarus aus gestartet. Viele der Invasoren kamen vor einem
Jahr von belarussischem Territorium aus, und das belarussische Territorium ist
weiterhin eine Abschussplattform für Luft- und Raketenangriffe auf die Ukraine.
Wir sehen eine zunehmende Verflechtung zwischen den russischen und den
belarussischen Streitkräften.
Wenn China anfängt, Waffen an Russland zu liefern, welche
Reaktion wäre dann erforderlich?
Bislang haben wir noch keine Lieferungen tödlicher Waffen
von China an Russland gesehen. Aber wir haben einige Anzeichen dafür gesehen,
dass sie dies in Erwägung ziehen, vielleicht sogar schon planen.
Die Botschaft der NATO lautet, dass China das nicht tun
sollte. Das würde die Situation nur weiter eskalieren lassen. Und natürlich
sollte China den illegalen Krieg Russlands gegen die Ukraine nicht
unterstützen. China ist Mitglied des UN-Sicherheitsrats und sollte nicht gegen
die in der UN-Charta verankerten Grundprinzipien des Respekts vor dem Nachbarn
verstoßen.
Das Bündnis und Sie selbst haben betont, dass die Ukraine zu
international anerkannten Grenzen zurückkehren muss. Bedeutet das, dass die
Ukraine die Krim mit Gewalt zurückerobern muss?
Am Ende des Tages ist es absolut wahrscheinlich, dass dieser
Krieg am Verhandlungstisch enden wird. Und dann wird es an den Ukrainern
liegen, sowohl über die Bedingungen für Verhandlungen als auch darüber zu
entscheiden, was sie akzeptieren können.
Unsere Aufgabe ist es, die Ukraine zu unterstützen, denn wir
wissen, dass das, was am Verhandlungstisch geschieht, untrennbar mit der Stärke
auf dem Schlachtfeld verbunden ist. Wenn wir also wirklich eine friedliche
Lösung des Krieges in der Ukraine auf dem Verhandlungsweg wollen, dann ist der
beste Weg, dies zu erreichen, die militärische Unterstützung der Ukraine. Und
dann muss es die Ukraine sein, die entscheidet, welche Bedingungen akzeptabel
sind. EA 1
Italienische Rockband Måneskin über
junge Nichtwähler in Italien: „Das sind verdammt viele!“
Die Rockband Måneskin, Sieger des Eurovision Song Contest
2021, kritisiert die aktuelle Politik in ihrem Heimatland Italien, für die auch
die jungen Italiener verantwortlich seien. Schließlich sind 40 Prozent der
Menschen zwischen 18 und 25 nicht zur Wahl gegangen. „Das sind verdammt
viele!“, sagt die Bassistin Victoria De Angelis in der aktuellen Ausgabe des
ZEITmagazins. Der Gitarrist Thomas Raggi ergänzt: „Wenn es mich nicht juckt und
ich keine Lust habe, von meinem gemütlichen Sofa aufzustehen, um mich vor
irgendeinem Wahllokal in die Schlange zu stellen, dann kommt es zu so einem
Wahlergebnis.“
Ein weiterer Grund für den Wahlsieg der Postfaschistin
Georgia Meloni sei eine Verklärung der guten alten Zeit: „Italien hat ein
kurzes historisches Gedächtnis. Wir haben die letzte rechte Regierung
vergessen, wir haben vergessen, was passiert ist. Und zum Zweiten gibt es diese
Vintage-Wehmut: Alles, was alt ist, ist schön. Kochen wie anno dazumal, Ferien
machen wie anno dazumal, die Musik von anno dazumal ...”, sagt der Sänger
Damiano David. „Es gibt tatsächlich noch immer Leute, die behaupten, zu
Kriegszeiten sei alles besser gewesen”, so Ethan Torchio, Schlagzeuger der
Band.
In Italien sei auch der Einfluss der Kirche immer noch sehr
groß, meint die Bassistin De Angelis: „Als unsere Plakate in Rom geklebt werden
sollten, hat uns die Kirche Schwierigkeiten gemacht. Auf dem Foto war ich mit
verdrehten Augen zu sehen, man sah nur das Weiße, das war denen zu dämonisch.
Deshalb wurde uns die Plakatierung in der Nähe des Vatikans untersagt.”
Trotzdem sei Italien ein wunderbares Land: „Es ist mit keinem anderen Land
vergleichbar. Und es tut weh, dass es so viele Leute gibt, die es mit ihrer
Scheißmentalität kaputt machen wollen.“ dip
Zeitverzug beim Mentalitätswandel
Die Zeitenwende ist auch eine Mentalitätswende: Deutschland
muss nicht nur in Bezug auf Russland, sondern auch auf die USA und China
umdenken. Thorsten Benner
„Zeitenwende“ ist ein Zwitter: Der Begriff steht sowohl für
Zeitdiagnose als auch für ein Politikprogramm. Was die richtige Diagnose ist
und was das richtige Politikprogramm, darüber wird politisch gestritten in der
demokratischen Öffentlichkeit. Dieser Streit basiert auf Konzepten, mit denen
wir die Welt ordnen und Politikrezepte entwickeln. Wo stehen wir in der
mentalen Zeitenwende? Wo sind wir auf dem richtigen Weg? Wo hinken wir noch
hinterher?
Beim Blick auf die europäische Friedens- und
Sicherheitsordnung hat sich ein weitgehender und dringend notwendiger
Mentalitätswandel vollzogen: weg von dem Mantra, dass Sicherheit in Europa nur
gemeinsam mit Russland möglich sei. In seiner Rede im Bundestag am 27. Februar
2022 formulierte Bundeskanzler Olaf Scholz: „Dauerhaft ist Sicherheit in Europa
nicht gegen Russland möglich. Auf absehbare Zeit aber gefährdet Putin diese
Sicherheit.“ SPD-Fraktionschef Rolf Mützenich spitzte diese Diagnose im letzten
Sommer zu: „Seit dem 24. Februar 2022 wird es Sicherheit auf absehbare Zeit nur
vor und nicht länger mit Russland geben können.“ Dass diese Feststellung vom
wohl profiliertesten SPD-Vertreter der – gegenüber Konzepten wie Abschreckung
höchst skeptischen – Friedens- und Entspannungspolitik kommt, ist
bemerkenswert.
Es zeigt, dass Parteichef Lars Klingbeil mit der mentalen
Zeitenwende, die er in der Sozialdemokratie mit Blick auf eine neue Ostpolitik
vorantreibt, keinesfalls allein auf weiter Flur steht. Zu dieser mentalen
Zeitenwende gehört auch eine Analyse der Fehler der Russlandpolitik der letzten
Jahrzehnte. Hier ist nicht nur die Sozialdemokratie gefordert. Die maßgeblichen
Entscheidungen (inklusive für die immer größere Abhängigkeit von russischen
Gasimporten) wurden in einem breiten Konsens zwischen der Wirtschaft sowie von
CDU/CSU, SPD und FDP getroffen. Aber die Rolle der Sozialdemokratie war nicht
zuletzt deshalb eine besondere, weil der ehemalige SPD-Bundeskanzler Gerhard
Schröder sich schamlos auf die Gehaltsliste russischer Staatsunternehmen setzen
ließ und seine Männerfreundschaft zum russischen Präsidenten Putin zelebrierte.
Insofern ist es wichtig, dass die Führungsspitzen der SPD
vorangehen bei der Aufarbeitung von Fehlannahmen. Hier lässt der Bundeskanzler
Engagement vermissen. Viel mehr als ein Bedauern darüber, dass er sich nicht
früher mit seinem Plan, Flüssiggasterminals an der deutschen Küste zu bauen,
hatte durchsetzen können, ist Olaf Scholz nicht über die Lippen gekommen. Dabei
sollte es Scholz leichtfallen, mit der Russlandpolitik ehrlich ins Gericht zu
gehen, gehörte er doch nie zu der Fraktion, die Nähe zu Putin zelebrierte.
Scholz überlässt es dem SPD-Parteichef Klingbeil, die blinden Flecken und
Fehler der SPD-Ostpolitik zu sezieren. Klingbeil tat dies in einer wegweisenden
Rede am 18. Oktober. Er rief in Erinnerung, dass die Ostpolitik Willy Brandts
auf Abschreckung durch eigene militärische Stärke fußte, was erst die
Annäherung ermöglicht habe. Dass die Verteidigungsausgaben unter Brandt
gestiegen sind, sei in jüngerer Zeit in Vergessenheit geraten. Klingbeil
betonte, dass es ein Fehler der Ostpolitik gewesen sei, „zivilgesellschaftliche
Gruppen, wie etwa die Solidarno?? in Polen, nicht in ihrem Kampf gegen die
repressiven Regime zu unterstützen“. Der SPD-Vorsitzende räumte als einen
blinden Fleck der Russlandpolitik ein, die „Interessen und Perspektiven“ der
Länder Mittel- und Osteuropas nicht ausreichend berücksichtigt zu haben.
Das zu ändern, bleibt eine große Aufgabe nicht nur für die
Sozialdemokratie, sondern für das gesamte Land. Das setzt viel mehr Neugier und
mehr Austausch voraus. Deutschland muss dabei nicht die in Polen oder den
Staaten des Baltikums vorherrschenden Ansätze zum Umgang mit Russland (gerade
mit Blick auf den Krieg gegen die Ukraine) übernehmen, es muss sich auch nicht
von moralisierenden Lektionen provozieren lassen, aber es muss geduldig zuhören
und den eigenen Ansatz ohne rechthaberischen Gestus vermitteln. Dies setzt auch
eine neue Geschichtspolitik voraus, welche die von Timothy Snyder beschriebenen
„Bloodlands“ – im Baltikum, in Polen, Belarus und in der Ukraine – ins Zentrum
stellt, statt sich allein auf Russland zu fokussieren. Diese
Perspektiv-Erweiterung zu verinnerlichen und umzusetzen, ist eine
Generationenaufgabe.
Noch wenig vorangeschritten ist der Mentalitätswandel mit
Blick auf die Rolle der USA für die europäische Sicherheit. Die Reaktion auf
Russlands Krieg hat gezeigt: Gegenwärtig ist europäische Sicherheit nicht ohne
die Vereinigten Staaten denkbar. Die USA organisieren nicht nur einen Großteil
der militärischen wie wirtschaftlichen Antworten auf Russlands Angriffskrieg.
Sie sorgen auch dafür, dass die Allianz zusammenhält, und sind bereit, dafür
einen Preis zu zahlen, wie etwa die Lieferung von Abrams-Panzern auf Bitten von
Olaf Scholz, um den Weg für die Lieferung von Leopard-Panzern freizumachen und
vor allem um ein großes Spaltungsthema zwischen Deutschland und einigen
Verbündeten abzuräumen.
Das Treffen des Bundeskanzlers mit dem US-Präsidenten im
Weißen Haus an diesem Freitag wird viel transatlantische Wohligkeit versprühen,
auch wenn Biden wirtschaftspolitisch Trumps America First mit klügeren Mitteln,
aber großer Entschlossenheit fortführt. Doch diese Wohligkeit ist trügerisch.
Biden ist der letzte klassische Transatlantiker im Weißen Haus. Einen wie ihn
wird es niemals wieder geben. Auch im besten aller Fälle werden die USA von
Europa fordern (und zwar mit definitiver Bestimmtheit), mehr für die eigene
Sicherheit zu tun, damit sich die Vereinigten Staaten auf die
Auseinandersetzung mit China im Indo-Pazifik fokussieren können. Und im
schlechteren Fall wird es zu einer Fortsetzung einer Spielart des Trumpismus
kommen, was zum Ende der Sicherheitsgarantien der USA für Europa führen könnte.
Deutschland und Europa stünden dann nackt da. Und die Reaktion darauf muss die
entschlossene Investition in eigene Fähigkeiten sein. Von einer mentalen
Zeitwende hin zu einer entschlossenen Vorbereitung auf ein Europa, das nicht
mehr unter dem Schutz des wohlmeinenden Großvaters Biden steht, ist jedoch
bislang nichts zu spüren.
In den ersten Wochen nach Putins Überfall war Deutschland
von einer tiefen Angst ergriffen, dass Putin seinen Marsch nach Westen in
Richtung NATO-Territorium fortsetzen würde und Deutschland dann blank dastünde.
Diese Angst machte die 100 Milliarden Sondervermögen für die Ertüchtigung der
Bundeswehr erst möglich. Doch die Entlarvung der Schwächen des russischen
Militärs sowie das kriegspolitische Rundum-sorglos-Paket der Biden-Regierung
führten dazu, dass Deutschland die Angst angesichts der eigenen
Verteidigungsfähigkeit wieder weitgehend verlor. In den letzten Monaten
dominierte stattdessen eher die Angst vor der Eskalation des Kriegs in Folge
einer zu forschen Unterstützung der Ukraine. Dieser Angst kann man
glücklicherweise durch bedächtiges Vorgehen Rechnung tragen, was dem deutschen
Apparat nicht sonderlich schwerfiel. Statt des nötigen „Deutschland-Tempos“ bei
der Ertüchtigung der Bundeswehr, das sich am Bau der LNG-Terminals an der Küste
orientiert, dominiert, in den Worten Carlo Masalas, ein Zeitlupentempo. „Das
System“, so Masala, ist „wieder in seine alte bürokratische Lethargie
zurückgefallen“.
Das liegt auch an einer nicht vollzogenen mentalen
Zeitenwende mit Blick auf die Rolle der USA. Wir sollten uns jeden Morgen
ausmalen, wie es für Europa im Krieg gewesen wäre, wenn Trump eine zweite
Amtszeit bekommen hätte. Und mit Angstschweiß die Jahre der Biden-Regierung als
ein Geschenk begreifen, das wir nutzen müssen, um mit Hochdruck in eigene
Fähigkeiten zu investieren und dabei den Schalter zum Deutschland-Tempo
umzulegen. Das setzt auch voraus, dass wir schrittweise unseren nuklearen IQ
erhöhen und uns der vom französischen Präsidenten Emmanuel Macron angestoßenen
Debatte um eine mögliche Europäisierung der französischen Nuklearwaffenfähigkeiten
nicht entziehen, so ungemütlich das Thema auch ist.
Die mentale Zeitenwende muss über die europäische Friedens-
und Sicherheitsordnung hinausgehen im Sinne der „globalen Zeitenwende“, die der
Bundeskanzler in einem Beitrag in Foreign Affairs beschrieben hat. Mit Blick
auf die sehr unterschiedlichen Länder, die gern unter dem Begriff des „Globalen
Südens“ zusammengeworfen werden, ist der Kanzler mit seiner mentalen
Zeitenwende weiter als die meisten im Lande. Scholz diagnostiziert sehr
richtig, dass die Welt des 21. Jahrhunderts eine multipolare sein wird, in der
die großen nichtwestlichen Länder wie Indien, Brasilien, Nigeria, Indonesien
ein großes Wort mitreden werden und sich nicht einfach in eine
Blockkonfrontation zwischen den USA auf der einen und China (und Russland) auf
der anderen Seite einreihen werden. Deshalb ist es wichtig, viel mehr in die
Beziehungen zu diesen Ländern zu investieren, und es war kein Zufall, dass der
Kanzler am Jahrestag der Zeitenwende-Rede frisch von einem Indien-Besuch zurückkam.
Weniger klar sind die Signale mit Blick auf China, die
andere autoritäre Großmacht, die zudem mit Moskau eine immer engere
Partnerschaft pflegt. Welche Lehren ziehen wir aus dem Scheitern des „Wandels
durch Handel“ mit Russland für die Abhängigkeiten von China? Niemand fordert
ernsthaft eine komplette Entkopplung. Doch die Abhängigkeiten von China, die
weit komplexer sind als die von Russland (nicht zuletzt bei den
Kerntechnologien der Energiewende), erfordern entschlossenes Handeln. Ebenso
dringlich ist ein Umdenken mit Blick auf den Taiwan-Konflikt und einen
möglichen Krieg zwischen Taiwan, China und den USA. Diesen Krieg, der noch
weitaus größere Auswirkungen hätte als der derzeitige, müssen wir mit aller
Macht zu verhindern suchen. Die einzige tragfähige friedenspolitische Strategie
zur Verhinderung dieses Krieges ist die entschlossene Abschreckung Pekings –
der Status quo darf nicht mit Gewalt verändert werden. Hierzu bedarf es einer
Beschleunigung des chinapolitischen Umdenkens – der Lackmustest der mentalen
Zeitenwende. Wenn wir damit erfolgreich sind, erspart uns das dann auch die
Suche nach einer Vokabel, um den Epochenbruch nach einem Krieg zwischen China
und den USA zu beschreiben. IPG 1
Fachkräftemangel. Nahles:
Einwanderung unumgänglich, brauchen neue Willkommenskultur
Jahrelang herrschte im Osten Deutschlands
Massenarbeitslosigkeit. Doch nun zeichnet sich das Gegenteil ab: Es fehlen
immer häufiger Arbeitskräfte. Das alarmiert auch die Regierungschefs der
ostdeutschen Länder. Sie sind sich einig: Ohne Einwanderung wird es nicht
gehen.
Der demografische Wandel schlägt in Ostdeutschland deutlich
früher und stärker durch als in anderen Teilen der Bundesrepublik.
„Ostdeutschland ist keine Orchidee, sondern im Wesentlichen ein Frühblüher für
die Entwicklung, die wir in Gesamtdeutschland vor uns haben“, sagte
Bundesarbeitsminister Hubertus Heil (SPD) am Montag auf der Fachkräftekonferenz
Ost in Schwerin.
Sachsens Regierungschef Michael Kretschmer (CDU) sprach von
einer Zeitenwende. Während Anfang der 2000er bei Quoten um die 20 Prozent der
Kampf gegen die Massenarbeitslosigkeit im Vordergrund gestanden habe, rücke nun
die Gewinnung und Sicherung von Fachkräften ins Zentrum. „Wir haben es
geschafft, in 32 Jahren aus diesem Landstrich den moderneren Teil Deutschlands
zu machen. Mit viel Geld und mit viel Kraft. Jetzt geht es um nichts weniger,
als ob diese Lebensleistungen Bestand haben, ob wir diese Erfolgsgeschichte
fortschreiben können oder nicht“, erklärte der Vorsitzende der
Ost-Ministerpräsidentenkonferenz.
Fachkräftemangel größte Bedrohung für Wohlstand
Der Fachkräftemangel sei die größte Bedrohung für den
Wohlstand in Deutschland, betonte Heil. Neben der Erschließung noch brach
liegender Potenziale im Inland sei auch eine geordnete Zuwanderung
unumgänglich, um künftig den Bedarf an Mitarbeitern zu decken. Dem pflichtete
die Vorstandsvorsitzende der Bundesagentur für Arbeit (BA), Andrea Nahles bei:
„Wir müssen in der Gesellschaft das Verständnis schaffen, dass Leute zu uns
kommen. Wir brauchen eine neue Willkommenskultur.“
Das Treffen mit Vertretern aus Wirtschaft, Gewerkschaften
und Arbeitsagenturen war von den ostdeutschen Regierungschefs initiiert worden,
um gemeinsam zu beraten, wie der Berufsnachwuchs gesichert werden kann. Infolge
geringer Geburtenraten und hoher Abwanderung vornehmlich junger Leute in den
Nachwendejahren bleiben frei werdende und neu geschaffene Stellen in
ostdeutschen Firmen immer häufiger unbesetzt.
Viele ohne Abschluss und Ausbildung
In einem neunseitigen Beschluss wird eine Vielzahl von
Maßnahmen aufgeführt, mit denen das Fachkräftepotenzial im Osten besser
erschlossen werden soll. Dazu gehören eine bessere Berufsorientierung an Schulen,
die Senkung der Zahl der Jugendlichen ohne Berufsabschluss, die Beschäftigung
ältere Arbeitnehmer und eine ausgedehnte, kontinuierliche Qualifizierung. Nach
Angeben von Heil verlassen alljährlich etwa 45 000 junge Menschen die Schule
ohne Abschluss, 1,3 Millionen im Alter zwischen 20 und 30 hätten keine
abgeschlossene Berufsausbildung.
„Ostdeutschland ist mit der demografischen Entwicklung
bundesweit voraus. Wir sehen uns als diejenigen, die als erste das Thema
Fachkräftebedarf managen müssen und vielleicht auch Impulse für ganz
Deutschland geben können“, sagte Mecklenburg-Vorpommerns Ministerpräsidentin
Manuela Schwesig (SPD) als Gastgeberin.
Deutschlands älteste Bevölkerung
„Uns ist klar, wenn dieser Krieg und wenn diese Energiekrise
nicht da wären, dann wäre das das dominierende Thema“, sagte Kretschmer. Die
Konferenz in Schwerin habe gezeigt, dass sich alle Beteiligten ihrer
Verantwortung bewusst seien. Bei der nächsten Ost-Ministerpräsidentenkonferenz
im Juni in Chemnitz werde die Fachkräftesicherung erneut Thema sein.
Nach den Worten von BA-Chefin Nahles hat der Osten
Deutschlands die älteste Bevölkerung. Noch dramatischer als der prognostizierte
Einwohnerrückgang sei der Rückgang der erwerbsfähigen Bevölkerung. Diese nehme
in den kommenden 15 Jahren um fast 17 Prozent ab. „Deshalb ist es gut und
wichtig, dass wir uns speziell für Ostdeutschland eine Fachkräfteinitiative
überlegen“, sagte Nahles.
„Das Problem ist längst da.“
Im Namen der Arbeitgeber mahnte der Präsident der
Vereinigung der Unternehmensverbände Mecklenburg-Vorpommerns, Lars Schwarz, zu
Tempo. „Das Problem kommt nicht auf uns zu. Es ist längst da“, sagte er und
forderte einen Masterplan, um den auch durch politische Vorgaben eingeleiteten
Strukturwandel bewältigen zu können. Dabei gehe es um eine zeitgemäße
Infrastruktur, bessere Bildung und mehr Qualifizierung.
Wie zuvor schon Schwesig verwies auch die Vorsitzende des
DGB Nord, Laura Pooth, auf die Bedeutung einer guten Bezahlung für die
Attraktivität von Arbeitsplätzen. Der Schlüssel zur Sicherung und Gewinnung von
Arbeitskräften liege in guten Arbeitsbedingungen und wettbewerbsfähigen Löhnen.
„Und vor allem in der längst überfälligen Lohnangleichung Ost-West“, betonte
Pooth. Sie beklagte eine vergleichsweise geringe Tarifbindung der Unternehmen
im Osten. Nach Angaben der der gewerkschaftsnahen Hans-Böckler-Stiftung beträgt
die Ost-West-Lohnlücke bei Gleichqualifizierten etwa 14 Prozent. (dpa/mig 1)
Krankheitskosten und Steuern: Das
können Versicherte absetzen
Neustadt an der Weinstraße – Der Wirtschaftswissenschaftler
Bernd Raffelhüschen fordert: Gesetzlich Krankenversicherte sollen bis zu 2.000
Euro im Jahr Selbstbeteiligung zahlen. Nach aktueller Rechtslage gilt: Was die
Krankenkasse oder eine Zusatzkrankenversicherung nicht zahlt, lässt sich
teilweise von der Steuer absetzen. Der Lohnsteuerhilfeverein Vereinigte
Lohnsteuerhilfe e. V. (VLH) zeigt, worauf es ankommt.
Für 2023 wird in der Gesetzlichen Krankenversicherung ein
Defizit von 17 Milliarden Euro erwartet – laut Gesundheitsminister Karl
Lauterbach (SPD) ist das ein historisches Ausmaß. Deshalb spricht sich der
Wirtschaftswissenschaftler Bernd Raffelhüschen dafür aus, dass gesetzlich
Krankenversicherte pro Jahr gestaffelt bis zu 2.000 Euro Selbstbeteiligung
zahlen.
"Wir können uns das System nicht mehr leisten.
Patienten müssen künftig mehr aus eigener Tasche dazu bezahlen", sagte der
Professor an der Universität Freiburg der "Bild"-Zeitung (22. Februar
2023).
Raffelhüschen fordert außerdem, dass Versicherte
Verletzungen nach selbst gewählten Risiken – wie beispielsweise Skifahren –
komplett selbst bezahlen sollten. Auch Raucher müssten sich an den Folgekosten
von Behandlungen stärker selbst beteiligen, verlangt er.
Krankheitskosten: Was Sie wie von der Steuer absetzen können
Nach aktuellem Steuerrecht gilt: Unmittelbare
Krankheitskosten, die von der Krankenkasse nicht übernommen werden, lassen sich
als außergewöhnliche Belastungen von der Steuer absetzen. Dazu zählen Ausgaben
oder auch Zuzahlungen für
* Arztbesuche
* Bewegungstherapien
* Brille oder Kontaktlinsen
* Geburt eines Kindes
* Haarausfall oder ein Toupet
* Homöopathie
* Impfungen
* Krankengymnastik
* Logopädische Behandlungen
* Künstliche Befruchtungen
* Zahnarztbehandlungen
* Zahnspange
* Verschrieben Medikamente, wie beispielsweise
Antidepressiva oder Antiallergika
Aber Achtung: Das Finanzamt erkennt nur unmittelbare
Krankheitskosten an. Das sind Krankheitskosten oder Gesundheitskosten, die
Patienten für die Heilung einer Krankheit oder die Linderung ihrer Folgen
entstehen. Ausgaben für eine Krankheitsvorbeugung können in der Regel nicht
abgesetzt werden.
Medizinische Heilbehandlung muss zwangsläufig sein
Ob Ärztin oder Heilpraktiker – ist die behandelnde Person
zur Heilbehandlung zugelassen, erkennen die Finanzbeamten die Kosten als
außergewöhnliche Belastung an. Wichtig: Die Heilbehandlung muss gezielt
angeordnet worden sein. Ist das der Fall, können die Krankheitskosten in die
Anlage Außergewöhnliche Belastungen eingetragen werden.
Das gilt bei Suchterkrankungen
Wer unter Alkoholabhängigkeit, Drogensucht oder Spielsucht
leidet, kann die Genesungskosten absetzen. Denn Suchterkrankungen gelten als
reguläre Erkrankungen. Das gilt auch für die Raucherentwöhnung. Das heißt: Hat
eine Raucherin oder ein Raucher eine ärztliche Verordnung, können sogar die
Kosten für Nikotinpflaster als Krankheitskosten in die Steuererklärung
eingetragen werden.
Kürzung um die "zumutbare Belastung"
Für Steuerzahlerinnen und Steuerzahler, die außergewöhnliche
Belastungen in ihrer Steuererklärung eintragen, gilt: Das Finanzamt rechnet
eine zumutbare Eigenbelastung an. Berücksichtigt werden dabei die Höhe ihrer
Jahreseinkünfte, der Familienstand und die Anzahl der Kinder.
Dementsprechend liegt die Belastungsgrenze zwischen einem
und sieben Prozent. Bei einem Paar mit zwei Kindern und Einkünften von 50.000
Euro im Jahr sind es für das Jahr 2022 zum Beispiel rund 1.350 Euro. Das heißt:
Bis zu dieser Grenze sind die Kosten nicht absetzbar. Aber jeder Euro, der über
dieser Grenze liegt, kann von der Steuer abgesetzt werden.
Die VLH: Größter Lohnsteuerhilfeverein Deutschlands
Der Lohnsteuerhilfeverein Vereinigte Lohnsteuerhilfe e. V.
(VLH) ist mit mehr als 1,2 Millionen Mitgliedern und rund 3.000
Beratungsstellen bundesweit Deutschlands größter Lohnsteuerhilfeverein.
Gegründet im Jahr 1972, stellt sie außerdem die meisten nach DIN 77700
zertifizierten Berater.
Die VLH erstellt für ihre Mitglieder die
Einkommensteuererklärung, beantragt sämtliche Steuerermäßigungen, prüft den Steuerbescheid
und einiges mehr im Rahmen der eingeschränkten Beratungsbefugnis nach § 4 Nr.
11 StBerG. GA