Webgiornale, dicembre 2025

 

Inhaltsverzeichnis

1.     Il Presidente Mattarella in Germania, al Bundestag. 1

2.     Cittadinanza italiana, rinviata a primavera 2026 l’udienza sui discendenti 1

3.     Cgie. Continentale Europa/Nord Africa: i lavori a Dortmund. 1

4.     70°. La Baviera onora la presenza dei tanti lavoratori italiani 1

5.     Un accordo spaziale europeo per affrontare le sfide del mercato. 1

6.     Le pensioni tra Italia e Germania: un legame che continua. 1

7.     Il piano di pace per l’Ucraina: un testo coloniale in 28 punti 1

8.     Chi tutto e chi niente. 1

9.     Un tempo leader mondiale sul clima, l’UE ha ceduto all’autolesionismo delle destre. 1

10.  Il CGIE a Dortmund rilancia il ruolo della rappresentanza italiana in Europa. 1

11.  Ingiustizia climatica. 1

12.  Merz e la controversia sul “Stadtbild”. 1

13.  Cosmo italiano, le recenti puntate. 1

14.  Gli over 70 non dovranno più rinnovare la carta d'identità. Cosa cambia. 1

15.  L’urgenza di uno sforzo congiunto per invertire la rotta. 1

16.  Bilancio 2026. 163,1 milioni per “Italiani nel mondo e politiche migratorie”. 1

17.  Mediterraneo armato: alleanze, spese e potere. 1

18.  La comunicazione. 1

19.  Migrantes: presentato a Roma il Rapporto italiani nel mondo 2025. 1

20.  Migrantes, Rapporto Italiani nel Mondo. 20 anni di talenti in mobilità. 1

21.  Rapporto Italiani nel Mondo 2025, 20 anni di mobilità italiana: non “fuga”, ma talenti che scelgono. 1

22.  Berlino si riarma in caso di guerra: dalle truppe volontarie ai droni kamikaze. 1

23.  Scheda. L’italianizzazione dei tedeschi 1

24.  Cgie, riunita a Dortmund la Commissione Europa e Africa del Nord. 1

25.  Gli italiani in Europa. L’addio di Vignali. La Continentale Europa del Cgie a Dortmund. 1

26.  Camaleonti 1

27.  Brevi di politica e cronaca tedesca. 1

28.  COP30: è tempo di riformare il negoziato internazionale sul clima?. 1

29.  Prodi (Cgie): la nostra esperienza quarantennale a disposizione della nuova comunità dell’italofonia. 1

30.  Un Paese afflitto da un’eccessiva polarizzazione della politica. 1

31.  Il diritto alla dignità. 1

32.  Pensioni all’estero: come beneficiare della quattordicesima mensilità. 1

33.  Associazioni italo-tedesche: Alessandro Bonesini nuovo presidente. 1

34.  Convegno in Senato sugli italiani nel mondo. 1

35.  Al Senato l’incontro “Tornare in Italia conviene”. 1

36.  Al Senato l’incontro “Italiani nel mondo: cittadinanza e identità – Come cambiano regole, tutele e servizi”. 1

37.  Il ritorno della Bomba. 1

38.  Gli interventi per il rafforzamento del “Turismo delle radici”. 1

39.  Storia dell’emigrazione italiana: il Ministero dell’Istruzione invita le scuole ad insegnarla. 1

40.  La Sicilia che perde i suoi giovani migliori 1

41.  Il 3 dicembre a Verona si celebrano i 70 anni dell’accordo italo-tedesco sul lavoro. 1

42.  La vita guarisce senza testimoni 1

43.  La Settimana della Cucina Italiana nel Mondo. 1

44.  Cdp Cgie: progressi su anagrafe, CIE e SPID e concretezza operativa nelle collaborazioni 1

45.  IIC di Amburgo: Settimana della Cucina Italiana nel Mondo. 1

46.  Mostra su Emilio Vedova alla Kunsthaus Dahlem di Berlino. 1

47.  Avviato l’esame della proposta di esenzione IMU per i connazionali all’estero iscritti all’Aire. 1

48.  Donne in fuga, corridoi umanitari e politica europea. 1

 

 

1.     MINT-Report. Fachkräftemangel ohne Zuwanderung nicht lösbar. 1

2.     Mehr ausländische Studierende in Deutschland. 1

3.     Vielfalt, Fahne, Vaterland. 1

4.     Abschlusserklärung. EU und Afrika planen engere Zusammenarbeit in der Flüchtlingspolitik. 1

5.     Wer wirklich antisemitisch ist 1

6.     Wie Europa mit den Rechten umgeht. Lehren für die deutsche Brandmauer. 1

7.     Diaspora und Konflikte in den Herkunftsregionen. 1

8.     Zusammen halt 1

9.     Weltklimakonferenz strauchelt und lässt Millionen Menschen im Stich. 1

10.  Bundesverfassungsgericht rügt Polizeipraxis bei Abschiebung. 1

11.  Interviews. „Moralische Empörung reicht nicht aus“. 1

12.  Statistikamt. Weniger Einwanderung führt zu weniger Einschulung. 1

13.  Freiwilligensurvey. Migranten werden beim Ehrenamt immer wichtiger. 1

14.  Studie zeigt. Globaler Süden im deutschen Visasystem „extrem“ benachteiligt 1

15.  „Wir versagen beim Klimaschutz“. 1

16.  Ungleiche Chancen. Armut trifft Kinder mit Migrationsbiografie viermal so häufig. 1

17.  Nationale Ego-Trips. 1

18.  Bundesregierung kündigt Update für den Aktionsplan gegen Rassismus an. 1

19.  Unicef-Bericht. Eine Million Kinder in Deutschland wachsen in Armut auf 1

20.  Der nächste Völkermord?. 1

21.  Klima-Risiko-Index. Wetterextreme treffen arme Staaten am härtesten. 1

22.  EU-Analyse. Deutschland wird von der Asyl-Reform erheblich profitieren. 1

23.  COP30, Krisentreffen am Amazonas: Worum geht es bei der Klimakonferenz?. 1

24.  Vereinte Nationen. 86 Millionen Menschen auf der Flucht von Klimawandel bedroht. 1

25.  Die Macht der Megawatt 1

26.  COP30: Vatikan hofft auf „Kurswechsel“ in Klimapolitik. 1

27.  Haushaltspläne. UNHCR warnt Berlin: Weniger Hilfe = mehr Flüchtlinge. 1

28.  „Klimaschutz dient unserer Sicherheit“. Podium unmittelbar vor der UN-Klimakonferenz COP30. 1

29.  „Die Konjunkturritter der Angst wollen keinen Dialog“. 1

30.  Mitte-Studie. Demokratiefeindlichkeit und Rassismus im „Stadtbild“ verfestigt 1

31.  Jenseits der Schlagzeilen. 1

32.  OECD-Studie. Große Lücken bei Jobs und Löhnen für Migranten. 1

33.  Migranten teilen demokratische Werte. 1

 

 

 

Il Presidente Mattarella in Germania, al Bundestag

 

Berlino. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, con il Presidente della Repubblica Federale di Germania, Frank-Walter Steinmeier, ha partecipato a Berlino alla cerimonia della “Giornata del lutto nazionale”, per commemorare, insieme, le vittime dei conflitti, a 80 anni dalla fine della Seconda Guerra mondiale. Il Capo dello Stato è intervenuto al Palazzo del Reichstag, sede del Parlamento tedesco, dove ha tenuto il discorso commemorativo dinanzi ai massimi rappresentanti degli organi costituzionali della Germania.  Prima della celebrazione, il Presidente Mattarella si era già recato al Reichstag per incontrare la Presidente del Bundestag, Julia Klöckner. Sempre di mattina, Mattarella, Steinmeier e Klöckner hanno reso omaggio alle vittime della guerra, deponendo una corona di fiori al Monumento della Nuova Guardia di Berlino.   “Siamo in questa Aula solenne – ha esordito nel suo intervento al Reichstag il Presidente Mattarella – per fare memoria dei caduti, delle vittime della guerra e della violenza. Caduti negli abissi della storia, nelle insidie tese da altri uomini. La vita delle persone, dei popoli, delle nazioni, è colma di inciampi e di tragedie. Talvolta per scelte individuali, più spesso per deliberato operare degli altri. La Prima guerra mondiale lasciò sul terreno almeno 16 milioni di morti, la metà dei quali civili, oltre a venti milioni di feriti e mutilati. La Seconda guerra mondiale, estesa al fronte del Pacifico, si calcola che abbia visto settanta milioni di morti. Le vittime, Paese per Paese, sono impressionanti. E va sempre ricordato che non di numeri si tratta ma di persone. Come è possibile che tutto questo sia potuto accadere e pretenda di ripresentarsi? Quanti morti occorreranno ancora, prima che si cessi di guardare alla guerra come strumento per risolvere le controversie tra gli Stati, che se ne faccia uso per l’arbitrio di voler dominare altri popoli?”

“Oggi, è per me motivo di grande onore – ha proseguito Mattarella – essere qui e prendere parte alla Giornata del lutto nazionale tedesco, per commemorare, insieme, le vittime dei conflitti proprio nell’anno in cui celebriamo gli ottant’anni dalla fine del secondo conflitto mondiale. I morti che qui ricordiamo, i morti nel mondo a causa della violenza dei conflitti riguardano ciascuno di noi se intendiamo essere considerati esseri umani. Oggi rivolgiamo il nostro sguardo, il nostro pensiero, alle vittime di quelle tragedie. Dai militari caduti ai civili, vittime di quella condizione – la guerra – che la Legge Fondamentale tedesca e la Costituzione italiana ripudiano, facendo propria la grande lezione derivante dal tragico secondo conflitto mondiale. Ci uniamo, in una giornata di memoria e di lutto, perché ricordare la nostra storia comune è esercizio indispensabile nella nostra inesauribile aspirazione alla pace. Memoria delle atrocità dell’uomo nel passato e dolore profondo per quelle presenti ci obbligano a un esercizio di consapevolezza: la pace non è un traguardo definitivo, bensì il frutto di uno sforzo incessante, fondato sul raggiungimento di valori condivisi e sul riconoscimento della inviolabilità della dignità umana di ogni persona, ovunque. Da sempre la guerra ambisce a proiettare la sua ombra cupa sull’umanità. Il Novecento, con lo sviluppo della industrializzazione della morte, ha trasformato la tragedia dei soldati in tragedia dei popoli. Nei borghi d’Europa e nelle città distrutte dai bombardamenti, nelle campagne devastate, milioni di civili divennero bersagli. Deportazioni, genocidi, hanno caratterizzato la Seconda guerra mondiale. Da allora, il volto della guerra non si riflette soltanto in quello del combattente, ma diviene quello del bambino, della madre, dell’anziano senza difesa. È quanto accade, oggi, a Kiev, a Gaza. La guerra totale esige non la sconfitta, la resa del nemico, ma il suo annientamento. Un accrescimento di crudeltà. Con l’era atomica, un solo gesto può cancellare una città e l’innocenza stessa del mondo”.

“La Democrazia vivente. È chiave fondamentale – ha aggiunto il Capo dello Stato – nel rapporto tra principio di autorità e principio di democrazia. È, infatti, la democrazia che sorregge l’autorità e la legittima. Superando le tentazioni di totalitarismi che pretendono di essere e rappresentare il tutto. Perché la democrazia parte dal principio di libertà che, a sua volta, si basa sulla universalità dell’uguaglianza tra le persone. Nel dopoguerra, la nascita delle Nazioni Unite, le Convenzioni di Ginevra, hanno acceso la speranza di una pace fondata sul diritto, riaffermando un principio fondamentale: la popolazione civile deve essere protetta in ogni circostanza. La cronaca successiva – dal Biafra ai Balcani, dal Ruanda alla Siria, fino all’Ucraina, alla Striscia di Gaza, al Sudan  – ci mostra, che la guerra continua a colpire soprattutto chi combattente non è. Oggi, secondo le Nazioni Unite, oltre il 90% delle vittime dei conflitti è tra i civili.  Questo non può rimanere ignorato e impunito. Il numero di persone costrette ad abbandonare le proprie case, la propria terra, non ha precedenti. Secondo il rapporto reso noto ad aprile dall’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati, questi erano 122 milioni, in aumento di anno in anno. Anche qui non si tratta di statistiche. Sono volti, persone in cammino, famiglie cancellate, alle quali viene sottratto il futuro che preparavano. Il Diritto internazionale umanitario, argine alla disumanità della guerra, – ha continuato Mattarella – è messo in discussione dai fatti. Ma nessuna “circostanza eccezionale” può giustificare l’ingiustificabile: i bombardamenti nelle aree abitate, l’uso cinico della fame contro le popolazioni, la violenza sessuale. La caduta della distinzione tra civili e combattenti colpisce al cuore lo stesso principio di umanità.  È l’applicazione sistematica della ignobile pratica della rappresaglia contro gli innocenti. Colpisce l’ordine internazionale, basato sul principio del rispetto tra i popoli e del riconoscimento dell’orrore della guerra, oggi aggravata dal continuo irrompere di nuove armi”. “La pace – ha poi rilevato Mattarella – non è frutto di rassegnazione di fronte alle grandi tragedie. Ma di iniziative coraggiose, di persone coraggiose. In questi decenni tanti attori della comunità internazionale – e tra essi l’Unione Europea – con ostinazione e non senza fatica, hanno perseguito la pace, che si nutre del rispetto dei diritti umani fondamentali. Perché, se vuoi la pace, devi costruirla e preservarla. La cooperazione tra Stati, istituzioni, popoli è la sola misura che può proteggere la dignità umana. Sono le istituzioni multilaterali come le Nazioni Unite, la Corte Penale Internazionale, le missioni di pace, le agenzie umanitarie a concorrere alla impegnativa e affascinante fatica della costruzione di una coscienza globale. Il multilateralismo non è burocrazia, come, invece, asseriscono i prepotenti: è l’utensile che raffredda le divergenze e ne consente soluzione pacifica; è il linguaggio della comune responsabilità. È la voce che richiama al valore della vita di ogni singola persona, contrapposta all’arroganza di chi vorrebbe far prevalere la logica di una spregiudicata presunta ragion di Stato, dimentica che la sovranità popolare appartiene, appunto ai cittadini. La sovranità è dei cittadini e non appartiene a un Moloch impersonale che pretenda di determinarne i destini. È uno strumento di difesa che gli abitanti del pianeta possono opporre alla logica della sopraffazione di chi – sentendosi momentaneamente in posizione di vantaggio – si ritiene legittimato a depredare gli altri”. “Tocca ai nostri popoli,– ha continuato il Presidente della repubblica – uniti nella sofferenza della responsabilità dell’ultima guerra mondiale, e capaci oggi di essere uniti nella costruzione di un futuro di pace e di progresso. Tocca alla Repubblica Federale Tedesca, tocca alla Repubblica Italiana – come a tutti nella comunità internazionale – opporre la forza del diritto alla pretesa preminenza della forza delle armi. Considero questa giornata anche un invito a riflettere, insieme, sul percorso straordinario che le nostre due Repubbliche hanno compiuto, fianco a fianco, per costruire – in questi ottant’anni – un mondo migliore, partendo dall’Europa. Per avere raggiunto l’approdo della saggezza nella vita internazionale e dell’autentico coraggio. Per essere davvero ‘grandi’. Perché questo siamo divenuti in questi decenni, abbracciando la causa dell’unità europea. Abbiamo saputo dar vita a un’area di pace, di libertà, di prosperità, di rispetto dei diritti umani, che non ha precedenti nella storia. Con la lucidità del coraggio di chi chiedeva di voltare pagina e si adoperava per farlo. L’Unione Europea, nata dalle rovine della guerra, ha saputo farsi portatrice del multilateralismo al servizio della pace. È una responsabilità che si accentua oggi. In questa preoccupante congiuntura internazionale. È un ruolo storico: i precursori perseguirono l’unità quando non esisteva, contro ogni esperienza precedente. I Paesi europei hanno dimostrato di avere coraggio. I leader europei hanno dimostrato di avere coraggio.  Non lasciamo che, oggi, il sogno europeo – la nostra Unione – venga lacerato da epigoni di tempi bui. Di tempi che hanno lasciato dolore, miseria, desolazione. Questo dovere ci compete. A ogni generazione il suo compito. Lo dobbiamo – ha concluso Mattarella – ai caduti che oggi ricordiamo. Lo dobbiamo ai nomi scritti sulle pietre d’inciampo delle nostre città. Lo dobbiamo al prezioso lavoro di conservazione della memoria del Volksbund. Lo dobbiamo, infine, ai nostri giovani, che hanno diritto a un mondo sicuro, diverso e migliore di quello di guerra e dopoguerra”.

Mattarella e Steinmeier consegnano il Premio dei Presidenti

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, insieme al Presidente della Repubblica Federale di Germania, Frank-Walter Steinmeier, hanno premiato a Berlino i vincitori del “Premio dei Presidenti per la cooperazione comunale tra Italia e Germania”, giunto quest’anno alla sua terza edizione. Istituito nel 2020 ad opera degli stessi Mattarella e Steinmeier, il riconoscimento è volto a premiare gemellaggi e progetti tra comuni in Germania e Italia soprattutto nei settori Cultura, Giovani e Impegno civico, Innovazione e Coesione sociale. Dopo l’edizione del 2021, svolta nella capitale tedesca, e del 2023, tenutasi a Siracusa, quest’anno i Premi sono stati consegnati nuovamente a Berlino, a Palazzo Bellevue, residenza ufficiale del Presidente Federale di Germania, dove il Presidente Mattarella e il suo omologo tedesco, hanno premiato le seguenti città e i Comuni vincitori dell’edizione 2025. Per la categoria Comuni di grandi dimensioni (almeno un comune con più di 40.000 abitanti): Bologna (Emilia-Romagna) – Münster (Nord Reno-Vestfalia), Pistoia (Toscana) – Zittau (Sassonia). Per la categoria Comuni minori (fino a 40.000 abitanti): Gubbio (Umbria) – Wertheim (Baden-Württemberg); Greve in Chianti (Toscana) – Comune di Veitshöchheim (Baviera); Formigine (Emilia-Romagna) – Verden (Bassa Sassonia); Gualdo Tadino (Umbria) – Schwandorf (Baviera). Prima della consegna dei Premi, entrambi i Presidenti hanno preso la parola. Terminata la premiazione il Presidente Mattarella ha preso parte ad un evento collaterale dal titolo “70 anni di presenza italiana in Germania”, per ricordare il 70° anniversario dell’accordo sul reclutamento e il collocamento dei lavoratori italiani nella Repubblica Federale di Germania. Nell’ambito della cerimonia si è esibito il cantautore Vinicio Capossela, nato ad Hannover.

“Noi celebriamo la premiazione della terza edizione del ‘Premio dei Presidenti per la Cooperazione comunale tra Germania e Italia’ e ricordiamo l’intesa, che settant’anni fa, ha sospinto tanti lavoratori italiani a recarsi in Germania. Ne abbiamo qui presente un esponente, protagonista e dinamico. Il ruolo che hanno svolto è stato un ruolo, al di là del proprio lavoro, di unione, di integrazione crescente, tra Germania e Italia, con il loro impegno e con quello dei loro discendenti”. Ha esordito nel suo intervento il Capo dello Stato che ha aggiunto: “Sono trascorsi cinque anni dalla prima edizione, nata, nel contesto dell’emergenza pandemica, dalla volontà di rendere ancor più intenso il rapporto di solidarietà che ci ha uniti in quelle drammatiche circostanze. Giunti alla terza edizione, possiamo riscontrare che la scelta di valorizzare i Comuni nell’ambito dell’amicizia che unisce i nostri popoli sia stata una decisione lungimirante. Oggi più che mai le Municipalità sono protagoniste di un nuovo capitolo della storia globale. Nel mondo attraversato da profonde tensioni, geopolitiche, climatiche, da spinte regressive, le città non sono soltanto luoghi in cui riparare: sono fucine di umanità, incontro tra popoli, nodi di una rete in cui si vivono esperienze che possono migliorare la vita delle nostre comunità. Il Premio valorizza il ruolo dei Comuni e incoraggia le Amministrazioni locali a tessere sempre nuovi rapporti con le realtà di altri Paesi, sviluppando così una vera e propria rete di diplomazia comunale. Gemellaggi, reti di cooperazione, scambi culturali, progetti congiunti tra i Comuni di Germania e Italia – ha continuato Mattarella – permettono di accrescere la conoscenza reciproca, sviluppando cooperazione e fiducia. La collaborazione tra Comuni dei due Paesi, unendo le rispettive memorie, identità, aspirazioni, dà ai propri concittadini un tangibile esempio dei benefici che derivano dall’apertura al mondo, dalla condivisione. Le comunità locali, in tal modo, non sono soltanto ambasciatrici dei valori della propria comunità, ma danno vita a un modello ricco di fiducia nell’avvenire che ci unisce nella cornice europea. Si sa che le comunità locali sono per eccellenza luoghi in cui i giovani apprendono non soltanto nozioni elementari di vita, ma valori, competenze e senso civico. Quest’anno – ha proseguito il Presidente della Repubblica – i progetti premiati privilegiano il dialogo tra le generazioni e la promozione degli spazi pubblici come luoghi di scambio e di interazione sociale. Un parco curato insegna rispetto per i beni comuni; un centro giovanile offre occasioni di confronto e di crescita; un quartiere solidale insegna che la diversità è una ricchezza. L’incontro tra persone di età diversa permette di incrementare e custodire il patrimonio di esperienze di una comunità. Le amministrazioni locali – ha aggiunto Mattarella – possono essere protagoniste di un’educazione diffusa, sostenendo progetti che portino i ragazzi a conoscere la storia, il proprio territorio, a partecipare alla vita pubblica, a sentirsi responsabili della cura del mondo, partendo dalla propria strada, dal proprio quartiere, dalla propria gente, per aprirsi agli altri, imparando a confrontarsi con giovani che, pur abitando luoghi diversi,  affrontano problemi analoghi. I municipi sono maestri di cittadinanza: a partire dalla finalizzazione, progettazione, organizzazione e dalla condivisione degli spazi. I luoghi in cui abitare, comunicare, esprimersi, lavorare, sono di per sè assai indicativi. È lì che i giovani sperimentano davvero cosa significhi democrazia, partecipazione, vita in comunità. E’ così che una collettività cresce, investendo sul suo futuro. I Comuni si trovano ad essere laboratori di innovazione, a confronto con la sfida ambientale. A fronte di questioni come l’inquinamento, il traffico, gli sprechi anche energetici, così come lo spopolamento e il rischio di desertificazione di servizi per i centri minori, nascono soluzioni creative. Di cui beneficiano i livelli nazionali e sovranazionali. Rafforzare il loro protagonismo, – ha concluso Mattarella – sostenere le reti tra amministrazioni locali, valorizzando il dialogo tra città e cittadini è, dunque, lungimirante”. (Inform/dip 17)

 

 

 

 

 

Cittadinanza italiana, rinviata a primavera 2026 l’udienza sui discendenti

 

La battaglia dei discendenti di italiani all’estero per il riconoscimento della cittadinanza italiana “iure sanguinis” entra in una nuova fase

L’udienza davanti alle Sezioni Unite della Corte Suprema di Cassazione, inizialmente prevista per il 13 gennaio 2026, è stata rinviata a una data tra febbraio e aprile 2026. La notizia è stata confermata dall’avvocato Marco Mellone, che segue due casi simbolo di famiglie italo-americane a cui era stata negata la cittadinanza.

Tutto parte dal crescente numero di richieste di riconoscimento della cittadinanza italiana da parte di discendenti di emigrati. Molti hanno visto respingere la propria domanda, spesso per motivi burocratici o per interpretazioni restrittive della legge.

I ricorsi n. 18354/2024 e n. 18357/2024 riguardano due famiglie italo-americane convinte di avere diritto alla cittadinanza grazie alla discendenza da antenati italiani. Secondo i ricorrenti, le negazioni ricevute sono ingiuste e discriminatorie, perché non rispettano il principio giuridico del riconoscimento per discendenza, creando disparità tra chi ha ottenuto la cittadinanza e chi, pur avendo gli stessi requisiti, non l’ha ricevuta.

La vicenda si lega a due normative: la Legge n. 555 del 1912, che prevedeva tra l’altro la perdita automatica della cittadinanza dei minori se i genitori si naturalizzavano in un altro Paese; e la Legge n. 74 del 2025, nota anche come “Decreto della Vergogna” e derivata dal decreto-legge n. 36/2025, che ha introdotto modifiche profonde al riconoscimento della cittadinanza per discendenza, suscitando forte controversia tra esperti e cittadini.

Sebbene uno dei temi in discussione riguardi la vecchia norma sulla perdita della cittadinanza dei minori, il punto principale dell’udienza sarà la retroattività del DecretoTajani. L’applicazione della nuova legge ha infatti generato incertezze su migliaia di discendenti già riconosciuti o nati cittadini italiani, come se fossero stati “declassati” da cittadini a semplici stranieri.

I procedimenti riguardano famiglie alle quali il riconoscimento della cittadinanza è stato negato sia in primo che in secondo grado, in base all’articolo 12, comma 2, della Legge n. 555/1912. La difesa è stata curata dall’avvocato Marco Mellone, PhD, autore di diverse opere sulla cittadinanza, che ha chiesto il rinvio dei casi alle Sezioni Unite per la loro importanza collettiva.

Secondo Mellone “L’udienza rimandata servirà al massimo organo della giustizia civile in Italia per analizzare preliminarmente l’applicabilità retroattiva del Decreto-Legge n. 36/2025. I due casi erano già depositati prima dell’entrata in vigore della legge, ma ho chiesto alla Suprema Corte di valutare se questo ius superveniens possa incidere sul caso concreto. La Corte ha accolto la richiesta e definirà i limiti temporali della nuova legge, stabilendo se si applichi anche a chi ha già acquisito la cittadinanza fin dalla nascita. Questo pronunciamento avrà effetti anche sul processo di costituzionalità sollevato dal Tribunale di Torino”.

In pratica, l’avvocato Mellone ha colto l’occasione per chiedere che le Sezioni Unite valutassero anche la retroattività del Decreto Tajani, prima di esaminare nel merito l’articolo 12.2 della Legge n. 555/1912.

Il secondo punto riguarda la validità dell’articolo 12.2, ossia la perdita automatica della cittadinanza italiana per i minori quando il padre o la madre si naturalizzano stranieri.

“Si tratta di verificare se questo meccanismo sia costituzionale, dato che il minore perdeva la cittadinanza senza volerlo, e se si applichi anche quando il bambino era già cittadino del nuovo Paese fin dalla nascita (ius soli). Il numero di interessati è enorme: tra il 60 e il 70% degli emigrati italiani negli Stati Uniti, e in misura minore in altri Paesi, si naturalizzarono durante la minore età dei figli”, spiega Mellone.

Le decisioni delle Sezioni Unite della Cassazione hanno valore vincolante per tutti i tribunali italiani e influenzano anche l’attività amministrativa e politica. Come ricorda Mellone “Dopo la nuova legge sulla cittadinanza, che ha creato tanta incertezza, finalmente i discendenti potranno contare su una ‘loro legge’, emanata dal massimo organo della giurisdizione civile in Italia e conforme ai principi giuridici fondamentali”.

La pronuncia della primavera 2026 sarà quindi determinante per migliaia di discendenti di italiani nel mondo, dagli Stati Uniti all’Argentina fino all’Europa, e potrebbe stabilire un quadro chiaro e uniforme sul diritto alla cittadinanza.

Però fino alla sentenza, molte pratiche di riconoscimento della cittadinanza continueranno a essere sospese o rallentate, in attesa di una decisione definitiva che chiarisca i diritti dei discendenti italiani.

Continueremo a seguire da vicino l’evoluzione della vicenda, aggiornando i lettori sulle nuove date dell’udienza e sulle conseguenze della sentenza per gli italiani nel mondo. L.L.D. CdI on 31.10.

 

 

 

 

 

Cgie. Continentale Europa/Nord Africa: i lavori a Dortmund

 

Roma - Con gli Inni nazionali dell’Italia, della Germania e dell’Europa sono iniziati questa mattina a Dortmund i lavori della Commissione continentale Europa – Nord Africa del Consiglio generale degli italiani all’estero.

A presiedere e introdurre i lavori, alla presenza della segretaria generale Maria Chiara Prodi, è stato il vicesegretario Giuseppe Stabile che ha sottolineato l’importanza della presenza dei consiglieri, testimonianza del loro “forte legame comunità nel mondo”, in una città, Dormtund, che, come altre città tedesche, si appresta a commemorare i 70 anni degli accordi bilaterali sul lavoro tra Italia e Germania, un “passaggio fondamentale della storia della nostra emigrazione”.

In Germania così come in un tutto il mondo, ha aggiunto Stabile, “gli italiani hanno creato impresa, lavoro, cultura; hanno imparato, innovato, costruito legami”, creando “una ricchezza che non appartiene solo ai Paesi che li ospitano, ma che fa parte del patrimonio dell’Italia”.

Per questo, ha osservato Stabile, sono importanti le politiche per incentivare il rientro dei connazionali che, ha sottolineato, “non servono solo per riportare fisicamente qualcuno in Italia, ma anche per creare le condizioni affinché chi sceglie di tornare possa mettere a disposizione le sue competenze, i suoi contatti, la rete economica e professionale maturata all’estero, che sia il suo un rientro stabile, o di investimenti, di collaborazione a distanza o un trasferimento di know how”.

L’importante è che “chi è partito”, che rientri o no, “possa contribuire all’Italia grazie al suo percorso nel mondo”. D’altra parte, ha aggiunto, “l’amore per gli italiani all’estero non può tradursi in un modello che si limita a chiedere risorse all’Italia senza creare valore, in un mero assistenzialismo o nell’aspettativa di contributi unilaterali”. A fronte di una difficile situazione economica, ha affermato Stabile, “anche i servizi per gli italiani all’estero sono destinati a diminuire, che siano servizi consolari, educativi, assistenziali”, per questo “la corresponsabilità è un’esigenza concreata” perché “sostenere l’Italia significa continuare a sostenere anche le sue comunità nel mondo”.

“Non assistenza, ma corresponsabilità”, ha ribadito concludendo il vicesegretario. “Non solo fondi, ma anche idee, investimenti, competenze che tornano al Paese”.

Presenti ai lavori anche la consigliera d’ambasciata Silvia Maria Lucia Santangelo (Ufficio Affari Sociali e Coordinamento Consolare) e la Console a Dortmund Alice Joy Cox.

Santangelo ha portato ai consiglieri il saluto dell’ambasciatore Bucci. La sua presenza, ha evidenziato, testimonia “l’attenzione dell’ambasciata segue la comunità italiana in Germania. Significativa – ha aggiunto – la scelta della Germania per questo incontro”. Nel 1955, ha ricordato, Italia e Germania firmarono l’accordo sul lavoro: due Paesi “entrambi distrutti dalla II Guerra Mondiale, capaci di risollevarsi. L’apporto degli italiani alla ricostruzione della Germania è stato unico e non va dimenticato, così come non va dimenticata la presenza italiana oggi: 900mila connazionali fanno di quella in terra tedesca la comunità italiana più numerosa al mondo”. Una comunità “molto differenziata”, che comprende “oltre 2mila imprese in Germania e 5mila ricercatori”. Oggi “molti giovani italiani, che si spostano da un Paese all’altro si muovono in uno spazio di cittadinanza europea”. A questa collettività l’Ambasciata è vicina così come lo è “alle istituzioni espressioni della comunità, come il Cgie”.

Nella numerosa comunità italiana in Germania, “vasta e dinamica” è quella residente a Dortmund, dove gli Aire sono 70mila, mentre oltre 200mila sono quelli residenti nel Nord Reno Westfalia. Numeri ricordati dalla Console Cox che ha definito il Cgie un “pilastro fondamentale di consultazione e raccordo tra gli italiani all’estero e l’Italia”. Voi, ha detto ai consiglieri, “incarnate la voce dei connazionali”. (ma.cip. aise/dip 6) 

 

 

 

 

70°. La Baviera onora la presenza dei tanti lavoratori italiani

 

Monaco di Baviera. Lunedì, 17 Novembre 2025, invitati dal Ministro dell'Interno e dell'Integrazione della Baviera, Joachim Herrmann, dietro segnalazione del Console Generale d'Italia a Monaco, Dr. Sergio Maffettone, hanno preso parte alla Cerimonia per il 70° Anniversario del primo accordo di reclutamento di manodopera tra la Germania dell'Ovest di allora e l'Italia, la Presidente del  Comites di Monaco di Baviera, Dr.ssa Daniela di Benedetto; la Dr.ssa Paola Zuccarini (Direttrice del Forum Italia), la Dr.ssa Patrizia Mazzadi (Direttrice della Scuola Leonardo da Vinci); il Corrispondente Consolare, Dr. Fernando Grasso; il Presidente delle ACLI Baviera, Comm. Carmine Macaluso; il Corrispondente Consolare, Comm. Antonino Tortorici; l'Ing. Claudio Cumani (già Presidente del Comites);  e altre decine di Connazionali.

Una Celebrazione voluta dal Ministro di Stato, che, così, ha voluto onorare il lavoro e i successi  di tanti  lavoratori italiani ospiti "Gastarbeiter";  che, in questi decenni e, nella stragrande maggioranza dei casi, da ospiti, sono diventati cittadini in pianta stabile –spesso– con doppia cittadinanza.  E, con loro, Herrmann ha voluto lodare anche i  loro discendenti. Lavoratori ospiti, ai quali –successivamente–   se ne sono aggiunti tanti altri, provenienti da numerosi  Paesi, come: la Grecia, la Turchia, i Paesi della ex Jugoslavia, il Marocco, il Portogallo e "und, und, und...", come specificato dal Ministro.

 

Nel corso della serata –come da programma– oltre al lungo e articolato discorso, il Ministro  ha percorso gli anni del secondo dopoguerra; anni in cui la Germania era divisa in due Stati: la Repubblica Federale di Germania (Germania dell'Ovest), e la Repubblica Democratica Tedesca (Germania dell'Est),  partendo dal primo patto del 20 Dicembre 1955 della Germania dell'Ovest con l'Italia e proseguendo con i successivi accordi con le altre Nazioni, di cui sopra.

 

Hermann, rivolgendosi al pubblico presente, tra cui diversi rappresentanti della Diplomazia internazionale presente a Monaco, di Autorità Civili, Militari e Religiose, rivolgendosi ai lavoratori presenti, ha dichiarato più volte di essere fiero di tanti lavoratori, di prima, di seconda e di terza generazione; fiero della loro onestà e laboriosità, lavoratrici e lavoratori che hanno contribuito sensibilmente alla crescita economica della Germania –adesso–  felicemente riunificata e –non per ultimo–  della serena condizione della Baviera con il più basso numero di disoccupati tra tutti i "Länder" tedeschi; un tasso valido anche per gli immigrati.

 

Molto interessante e coinvolgente anche il talk show magistralmente moderato dall'incantevole Özlem Sarikaya (Turchia) della Bayerischer Rundfunk; spettacolo al quale hanno partecipato, oltre al Padrone di casa Herrmann, le scrittrici Heleni Tsakmaki (Grecia), Ornella Cosenza (Italia) e l'Ufficiale di Polizia Oliver Penonic (ex Jugoslavia). Interessante soprattutto per il confronto tra le tre generazioni di immigrati, e per i messaggi che tutti e tre, partendo dalle loro personali esperienze hanno espresso, alla fine, invitati da Sarikaya e dal Ministro, la seguente dichiarazione: "Comprensione tra i popoli, accettazione delle differenze che possono arricchirci vicendevolmente, e, soprattutto: Pace, pace... Purtroppo, al momento attuale, minacciata in più parti del mondo", hanno ripetuto –usando tutti e tre, quasi, le stesse parole– e aggiungendo l'importanza della conservazione della propria lingua d'origine. Cosa approvata ampiamente dal Ministro. Ministro, con il quale –chi scrive– ha avuto il piacere di scambiare qualche parola, raccontando  brevemente a lui e al Console Generale, un piacevole aneddotto personale.

 

Un altro momento coinvolgente è stato anche il bellissimo Musikvideo "Gastarbeiter" di Eko Fresh –con immagini talvolta sfuggenti e struggenti– "Nu piezz' 'e core", direbbe un napoletano, e, non solo lui! Momenti in cui viene ripercorsa la vita in emigrazione. Un video che ha fatto ricordare allo scrivente la sua vita di immigrato da sessant'anni di Germania. Nei primi anni da operaio generico e –in seguito– specializzato, nell'industria; e, dopo, da insegnante con laurea magistrale, master, licenza teologica "und, und und...", imitando il Ministro. In giro per la Svevia per più di trent'anni (il Consigliere scolastico bavarese lo chiamava, benevolmente, "Wanderlehrer". Insegnante itinerante, dato che ogni giorno era in una scuola e in una città diversa. E per trentaquattro anni come Incaricato per la lingua italiana presso l'Università di Scienze Applicate di Kempten. (E ancora, a 82 anni suonati, egli, non si è ancora stancato, dato che –imperterrito–  seguita a insegnare in presenza e da remoto; continuando alche con attività di carattere associativo e assistenziale, come in passato.

 

In concomitanza con le celebrazioni a Kaufbeuren, per i 70 Anni dei Patti bilaterali tra la Germania e l'Italia per l'invio di manodopera, questi decenni sono stati documentati con una serie di interviste  fatte dallo scrivente a Connazionali arrivati in Germania negli Anni Sessanta, come lui, in un opuscolo curato insieme con  Macaluso, come Aclisti. In questo libretto, da essi pubblicato, compaiono parole di Presentazione con foto del Primo Borgomastro di Kaufbeuren Stefan Bosse, del Console Generale Meffettone, dello stesso Macaluso e un paio di immagini, le più struggenti delle quali  ritraggono Fernando Grasso all'età di 22 anni con suo Padre Francesco (51 anni), nell'Agosto del 1965,  arrivati da qualche mese a Kempten e, nel 2015 Fernando con  l'adorata Sposa, Enza, scomparsa nel 2024 a 81 anni, dopo 54 anni di serena felicità. In altre foto si vedono, oltre ad alcune di repertorio: una squadra di calcio: Grasso, Tortorici, Macaluso con il Console Generale Maffettone, ragazze del Gruppo Folk-ACLI.

 

Durante le celebrazioni a Kaufbeuren,  per diversi giorni, sono state esposte, inoltre,  in una mostra, appositamente allestita per l'occasione, decine di foto messe a disposizione dal Corrispondente Consolare Tortorici, di cui sopra. Mostre che il Corrispondente, in questi anni, ha  organizzato in diverse città, tra cui Mindelheim. Altri momenti, che hanno coinvolto letteralmente il pubblico durante la serata, sono stati gli intermezzi musicali offerti dal Gruppo "Quattro Amici", con canzoni come: "Volare" o "Il ragazzo della via Gluck".

 

Al termine della serata la Bayerischer Rundfunk ha realizzato, oltre ad una intervista al Ministro Hermann, tre brevi interviste ai già nominati: Tortorici, Macaluso e Grasso. Il festoso e –soprattutto– cordialissimo evento, che ha avuto luogo nella Max-Joseph-Saal della Residenz di Monaco, con inizio alle ore 18:00,  si è concluso alle  21:30 dopo un magnifico, variegato e succulento buffet.

Dr. Fernando A. Grasso, dip 19

 

 

 

 

 

 

 

Un accordo spaziale europeo per affrontare le sfide del mercato

 

L’accordo raggiunto fra Airbus, Thales e Leonardo per integrare le loro attività nel campo dei satelliti e dei servizi spaziali costituendo una nuova società di fatto partitetica (provvisoriamente denominata Bromo, come un importante vulcano indonesiano) rappresenta un’ottima notizia per lo spazio europeo e per le imprese coinvolte, ma anche, più in generale, per l’Unione Europea.

Lo spazio europeo non ha saputo cogliere per tempo i segnali che sono arrivati nell’ultimo decennio dal mercato americano e dalla crescita di nuovi attori spaziali nel mondo. La comparsa degli investitori privati negli Stati Uniti è stata inizialmente considerata come un’iniziativa “locale” e così le nuove iniziative sul piano tecnologico e industriale, come i lanciatori riutilizzabili e le costellazioni di satelliti di ridotte dimensioni e in orbita bassa. È stata sottostimata e sottovalutata anche la radicale trasformazione dei tempi di realizzazione necessari: oltre oceano si è passati dalla scala dei tempi ultradecennali a quella annuale sia nelle fasi decisionali che in quelle progettuali e di realizzazione operativa. Mentre l’Europa non ha saputo ancora costruire una nuova e più efficace governance dello spazio (dove convivono, spesso con difficoltà, ESA e EUSPA insieme a molte Agenzie nazionali e dove resta irrisolto il nodo della dualità delle tecnologie spaziali e, quindi, della cooperazione civile-militare), gli Stati Uniti hanno cambiato radicalmente il loro assetto spaziale, sicuramente accettando notevoli rischi sul piano della governance, ma rafforzando il loro ruolo di principale potenza spaziale. Adesso l’Unione Europea dovrà confrontarsi anche con la sfida dell’integrazione delle sue capacità industriali e tecnologiche.

I grandi gruppi industriali europei hanno dato un esempio non scontato di consapevolezza e lungimiranza in un momento in cui vi sono frequenti esempi di “rinazionalizzazione” dei programmi nel settore difesa, sicurezza e spazio. La vera sfida da vincere non è sul mercato europeo, ma su quello internazionale e solo un gruppo che raggiungerà un fatturato di 6,5 miliardi di euro con 25.000 dipendenti può farlo. Non servono e non bastano i “campioni nazionali”: serve un “campione europeo“. I vertici di questi gruppi hanno saputo trovare un non facile accordo, vincendo le inevitabili resistenze interne (basti pensare a quella di molti dirigenti che dovranno abbandonare la loro “comfort zone”, a quelle sindacali contro l’indispensabile, seppur progressiva, razionalizzazione produttiva e a quelle di qualche azionista, soprattutto pubblico, che vedrà ridotto il suo peso e conseguente potere). Purtroppo questi stessi gruppi per ora non sembrano comprendere che questa strada dovrebbe essere percorsa concentrando le loro capacità anche nel campo dei sistemi di combattimento terrestri e navali (in particolare in quelli subacquei), dei velivoli a pilotaggio remoto, dei sistemi di difesa anti-missile e anti-droni, della trasformazione digitale, della cyber-sicurezza e dell’uso dell’intelligenza artificiale. Ed è evidente che una parte importante delle responsabilità ricade sui loro “clienti” nazionali (a livello militare e politico).

Anche l’Unione Europea deve festeggiare questo accordo perché dimostra che c’è ancora la volontà di reagire ad un’evoluzione del quadro internazionale che continua a vederla marginalizzata e incapace di dimostrare la necessaria determinatezza e coesione. Ma, purtroppo, la sua governance sta dimostrando tutta la sua inadeguatezza. Le sue regole e procedure, imposte dalla storia della sua costituzione ed evoluzione, sono diventate una gabbia che ne rallenta, e in alcuni casi impedisce, ogni capacità di reazione alle tempeste che agitano il nuovo scenario internazionale.

Rischi e sfide da vincere sul fronte europeo

È proprio all’interno dell’Unione Europea che dovranno ora essere vinte molte sfide per costruire il nuovo grande gruppo spaziale europeo.

La prima riguarda l’approvazione da parte delle Istituzioni europee. Fino ad ora l’approccio ai processi di concentrazione industriale è stato cauto e molto lento. Alla base hanno continuato a pesare le preoccupazioni anti-monopolistiche, giustificate e giustificabili quando il mercato di riferimento era quello europeo, ma non più oggi. Nel nuovo secolo la competizione avviene sul mercato globale e in ogni settore (ma particolarmente in quelli ad alta tecnologia) le dimensioni industriali devono risultare adeguate e allineate con quelle dei competitori: i nani non possono combattere i giganti e nemmeno fare accordi equilibrati con loro.

Analogamente, i tempi decisionali europei devono diventare più rapidi. I rituali “bizantini” devono essere semplificati e abbreviati perché, mai come oggi, il mondo non ci aspetta e arrivare tardi significa aumentare le probabilità di perdere la partita. Il tempo è in questo caso un fattore determinante anche a livello nazionale considerando la presenza pubblica nella proprietà dei gruppi industriali coinvolti. L’incertezza politica che caratterizza gli Stati coinvolti (a parte l’Italia) è un elemento di preoccupazione, viste le implicazioni sindacali e sociali dell’operazione. Purtroppo la complessità del progetto Bromo richiederà un paio di anni per decollare e questo rischio andrà attentamente monitorato.

Anche prescindendo da qualche inevitabile, seppur ridotta, ricaduta occupazionale dovuta alla necessaria razionalizzazione delle attività, si dovrà realizzare ed accettare una riorganizzazione basata sulla specializzazione e sulla condivisione di modelli organizzativi e metodologie produttive. Anche sul piano della cultura industriale si dovrà affrontare un radicale cambiamento: quelli che ora sono concorrenti dovranno essere considerati colleghi, le logiche nazionali o bi-trilaterali dovranno diventare logiche europee. Per fortuna in campo spaziale la strada è stata preparata da molti anni di collaborazione (in Airbus su base franco-tedesca-spagnola e in Thales-Leonardo su base franco-italiana). Comunque i nuovi manager avranno molto lavoro da fare, anche su se stessi.

Per garantire il successo dell’operazione servirà anche un adeguato sostegno economico attraverso nuovi programmi europei (nella sostanza e nella forma). Molti nel commentare il progetto Bromo hanno citato come esempio positivo il gruppo MBDA, campione europeo nei sistemi missilistici. Bisogna sottolineare che il successo di questa integrazione industriale (che ha raggiunto i venticinque anni) è stato supportato dal contemporaneo avvio del programma Meteor fra Francia, Germania, Italia, Spagna, Svezia e Regno Unito per un missile aria-aria a lunga gittata destinato ad essere utilizzato sui tre velivoli europei da combattimento Eurofighter, Rafale e Gripen. Senza carburante anche le migliori automobili non vanno da nessuna parte e questo vale anche per i migliori progetti imprenditoriali. Da adesso in poi si dovranno lanciare nuovi programmi spaziali europei pensati nell’ottica del nuovo grande gruppo industriale europeo e adattarvi analogamente anche alcuni dei programmi nazionali o intergovernativi già decisi.

Infine, dovranno essere utilizzati meglio i margini presenti nelle normative europee per consentire che il nuovo gruppo spaziale possa agire e muoversi come se operasse su un mercato unico, mentre, purtroppo, vi sono ancora troppe barriere, legate soprattutto alla parte duale e militare. Nello spazio la natura duale dei programmi è maggioritaria e questo non deve impedire o danneggiare l’indispensabile razionalizzazione delle capacità tecnologiche e industriali.

Non sarà facile gestire questa fase di transizione, ma è una sfida che l’Europa può e deve vincere.

Le sfide per l’Italia

Il vertice di Leonardo è riuscito ad ottenere un risultato importante per il gruppo e per il sistema-paese.

Innanzi tutto, negli ultimi due anni ha evidenziato la determinazione a considerare lo spazio un suo settore strategico, centralizzandone la gestione e dedicandovi le necessarie risorse ed attenzioni. Parallelamente ha saputo favorire pro-attivamente l’accordo con due partner complessi, evitando il rischio che un accordo tra loro finisse col lasciare isolato il nostro Paese (come già avvenne venti anni orsono con l’accordo italo-francese che portò alla nascita di Space Alliance fra Thales e Leonardo, allora Finmeccanica).

Adesso dovrà continuare a gestire la costruzione della nuova società come ha fatto fino ad ora nella fase preparatoria. Sarà importante che possa contare sul supporto governativo sia sul piano finanziario sia su quello istituzionale e politico nei rapporti bilaterali con gli altri Paesi coinvolti e in quelli con le Istituzioni europee e le Agenzie spaziali e in quella della difesa. L’aver strutturato la nostra politica spaziale con l’istituzione di un apposito Comitato interministeriale presso la Presidenza del Consiglio e averne garantito il relativo supporto anche attraverso l’efficiente struttura dell’Ufficio del Consigliere Militare, è di buon auspicio perché il processo venga attentamente seguito e, quando necessario, tempestivamente sostenuto da parte del Governo. Gli importanti risultati in campo spaziale conseguiti dal nostro Paese negli ultimi anni hanno dimostrato la validità del modello di governance costruito.

La prevista continuità governativa e industriale nel prossimo biennio rappresenta un valore aggiunto della strategia nazionale. Se sapremo utilizzarla, valorizzando insieme le nostre competenze manageriali e tecniche, assicureremo la tutela degli interessi nazionali ed europei in un settore strategico per il nostro futuro.

Michele Nones. AffInt 4

 

 

 

 

 

Le pensioni tra Italia e Germania: un legame che continua

 

L’Italia è da decenni il principale Paese partner della Deutsche Rentenversicherung (DRV). Un legame nato con la grande migrazione del lavoro tra gli anni Cinquanta e Settanta. Oggi quella generazione costituisce il nucleo principale di chi percepisce una pensione tedesca pur vivendo in Italia.

Relazione di Marilena Rossi, consigliera CGIE e presidente dell’Ital Uil Germania, all’assemblea della Commissione Continentale Europa e Africa del Nord del Consiglio Generale degli Italiani all’Estero, nella sezione di ripresa dei lavori in presenza di una rappresentanza dei connazionali (Dortmund, 7 novembre 2025). (n.d.r.)

L’Italia è da decenni il principale Paese partner della Deutsche Rentenversicherung (DRV). Un legame nato con la grande migrazione del lavoro tra gli anni Cinquanta e Settanta. Oggi quella generazione costituisce il nucleo principale di chi percepisce una pensione tedesca pur vivendo in Italia.

Secondo i dati DRV 2023–2024, l’Italia è la prima destinazione mondiale dei pagamenti pensionistici tedeschi all’estero:

* oltre 348.000 pensioni versate a beneficiari residenti in Italia;

* circa 7.800 assegni a cittadini tedeschi che vivono nel nostro Paese.

In totale, più di mezzo milione di persone percepisce una pensione tedesca in Germania o in Italia. Nei prossimi anni il numero delle pensioni crescerà leggermente fino al 2030, per poi stabilizzarsi e mantenersi su livelli costanti grazie alla nuova mobilità europea.

La DRV stima inoltre 100.000 posizioni assicurative aperte in Italia di persone già in età pensionabile che non hanno ancora presentato domanda. Se tutti gli aventi diritto ottenessero il pro rata tedesco, l’INPS potrebbe realizzare un notevole risparmio economico, in particolare sulle prestazioni legate al reddito come le pensioni integrate al minimo, la quattordicesima e le maggiorazioni sociali. Un’azione informativa congiunta o un incrocio dei dati tra DRV e INPS aiuterebbe a far emergere questi diritti latenti.

In senso inverso, nel 2024 l’INPS ha pagato 48.328 pensioni in Germania, mantenendo il Paese tra le prime cinque destinazioni mondiali delle pensioni italiane all’estero. Negli ultimi anni si osserva un leggero calo – da 50 mila nel 2021 a 48 mila pensioni – ma si tratta di un ricambio demografico fisiologico, non di un declino strutturale. Le proiezioni fino al 2035 indicano una stabilizzazione intorno alle 45–46 mila unità.

Il divario di genere resta marcato: il reddito pensionistico medio degli uomini è superiore del 36% a quello delle donne, riflesso di carriere discontinue e salari più bassi.

Un ruolo chiave in questo contesto è svolto dai patronati, presenti su tutto il territorio tedesco. Per DRV e INPS sono partner essenziali nella gestione delle pratiche previdenziali, delle certificazioni di esistenza in vita e delle dichiarazioni reddituali.

La Germania continua ad attrarre lavoratrici e lavoratori, giovani, pensionati e interi nuclei familiari provenienti dall’Italia, grazie ad un basso tasso di disoccupazione e ad un sistema di welfare solido e inclusivo. Una parte crescente di questa comunità è composta da italiani naturalizzati con un background migratorio.

Qui i patronati sono chiamati a fornire assistenza su un’ampia gamma di temi oltre a quelli previdenziali: dalle questioni socio-assistenziali alle regole del mercato del lavoro, assistenza ai servizi consolari, fino al funzionamento dei sistemi di protezione sociale. Un ruolo cruciale riguarda infine la consulenza sull’esportabilità dei diritti acquisiti da un Paese all’altro, in materia di disoccupazione, maternità, infortuni, malattie e futuri diritti pensionistici.

Una questione importante è la tassazione delle pensioni in Italia.

Il sistema fiscale italiano equipara i redditi da pensione ai redditi da lavoro, applicando le stesse aliquote IRPEF, senza considerare la natura fissa e differita di tali redditi.

L’Italia infatti si colloca tra i Paesi con la più alta pressione fiscale, superiore a Germania, Francia e Spagna, dove sono previste agevolazioni specifiche e aree no tax più ampie.

Questo regime penalizzante scoraggia molti pensionati dal rientrare in Italia e, anzi, spinge alcuni a trasferirsi verso Paesi con tassazione più favorevole.

Da oltre un anno è stata sospesa l’emissione delle certificazioni uniche tedesche per la quota esente da tassazione che interessa centinaia di migliaia di pensionati residenti in Italia. La sospensione, dovuta all’elevato numero di richieste dall’Italia, ha lasciato migliaia di pensionati con dichiarazioni dei redditi bloccate. Le trattative bilaterali tra i due Paesi non hanno ancora prodotto risultati concreti e cresce l’attesa per un intervento politico risolutivo.

In conclusione le pensioni italo-tedesche restano così un ponte umano e sociale tra due nazioni che condividono settant’anni di storia comune. Oggi la sfida è trasformare quell’eredità in una nuova mobilità europea, fondata su diritti, reciprocità e dignità per i lavoratori e i pensionati che hanno costruito questa Europa unita. Marilena Rossi, CdI 12

 

 

 

 

 

Il piano di pace per l’Ucraina: un testo coloniale in 28 punti

 

La cosa migliore che si può dire del piano di pace in 28 punti preparato dall’Inviato Speciale Usa, Steve Witkoff, e dal capo del fondo sovrano russo – nonché confidente di Vladimir Putin –, Kirill Dmitriev, è che si tratta di un documento in evoluzione, i cui termini non sono scolpiti nella pietra e pertanto soggetti a cambiamento. È anche per questo che ne sono circolate diverse versioni, in particolare con riguardo alla natura delle garanzie di sicurezza offerte dagli Stati Uniti. Al netto di questo caveat, il documento presenta i crismi di un’intesa coloniale fra due potenze che decidono le sorti di un paese sovrano e deliberano di beni che non controllano.

Se questo piano o qualcosa di simile venisse attuato (eventualità altamente improbabile), la Russia ne uscirebbe con una vittoria politica e strategica. Il presidente Usa Donald Trump rivendicherebbe di aver messo fine a un’altra guerra ottenendone vantaggi commerciali, seppure al prezzo di una colossale sconfitta strategica americana. L’Europa ne uscirebbe più insicura e dipendente e l’Ucraina mutilata e vulnerabile a una futura aggressione.

Sovranità limitata

L’accordo in 28 punti riconosce la sovranità dell’Ucraina ma fa poco per garantirla.

Sul piano territoriale, forzerebbe Kyiv a cedere non solo i territori occupati dai russi ma anche quella parte del Donetsk ancora sotto controllo ucraino, dove vivono circa duecentomila persone e che è strategicamente centrale per la difesa del territorio più interno. Significherebbe quindi non solo un sacrificio territoriale e umano, ma anche la perdita di una linea di fortificazioni che comprometterebbe la capacità difensiva ucraina nel medio periodo.

Sul piano politico, l’Ucraina dovrebbe indire elezioni entro cento giorni dalla firma dell’accordo. In sé il punto non è necessariamente controverso, ma il fatto che i russi abbiano voluto inserirlo in agenda è un tentativo indiretto di delegittimare Volodymyr Zelensky, rimasto presidente oltre la scadenza naturale in virtù della legge marziale in vigore dall’invasione russa del 2022. La delegittimazione del presidente ucraino è stata a lungo un obiettivo della propaganda di Mosca, e i tempi sono più propizi date le ricadute dello scandalo di corruzione che ha coinvolto due ministri e potrebbe portare alle dimissioni del capo di gabinetto Andriy Yermak. Peraltro, avere elezioni in tempi stretti in un paese devastato da quasi quattro anni di bombardamenti indiscriminati significa creare instabilità e offrire a Mosca lo spazio per un’offensiva di disinformazione.

L’obbligo di proteggere minoranze linguistiche e religiose riflette un principio legittimo, ma pretendere che il russo sia una lingua ufficiale e soprattutto che la chiesta ortodossa russa – che fa capo al patriarcato di Mosca – abbia uno status speciale non lo è. Per Mosca si tratta di creare un appiglio al quale aggrapparsi per giustificare pressioni, campagne diffamatorie e azioni ostili. Non va dimenticato che l’aggressione alla Georgia del 2008 fu retroattivamente motivata con un inesistente ‘genocidio’ dei separatisti sud-osseti.

Sul piano militare, le disposizioni sono solo lievemente meno sbilanciate. Kyiv dovrebbe inserire in Costituzione l’impegno a non aderire alla Nato, mentre l’Alleanza dovrebbe espungere l’adesione ucraina dalla propria agenda, nonostante le solenni promesse (pur vaghe nei tempi) del vertice del 2024.

Verrebbe anche escluso lo schieramento di truppe Nato sul territorio ucraino. Non è chiaro se questo si applichi anche alla forza europea di rassicurazione, che verrebbe schierata come coalizione di volenterosi e non sotto egida Nato; ma è indubbio che i russi insisteranno che non c’è differenza fra truppe Nato e di Paesi Nato.

L’Ucraina dovrebbe accettare un tetto di 600 mila soldati: meglio rispetto agli 80 mila richiesti dai russi nei colloqui di Istanbul nel 2022, ma pur sempre più di un terzo in meno delle forze armate di oggi, la cui forza, esperienza e capacità operative (sostenute da una vibrante industria) sono le principali garanzie di difesa del paese.

Nulla viene detto sulle forniture militari estere, ma il riferimento a un futuro negoziato volto a chiarire tutte le “ambiguità” tra Ucraina, Europa e Russia, nonché tra Nato e Russia (mediati dagli Stati Uniti, come se non fossero il paese leader dell’Alleanza), apre la strada a limitazioni indirette agli aiuti militari a Kyiv attraverso meccanismi di controllo degli armamenti.

Le garanzie di sicurezza americane, previste in una versione rivista come parzialmente assimilabili all’articolo 5 della Nato seppure limitate a dieci anni, restano il punto più incerto del piano. Pesano non solo le ambiguità del testo, ma anche l’inaffidabilità di un’America più orientata in senso nazionalista e unilaterale, l’assenza di una base legale solida e la mancanza di un investimento personale del presidente Trump. In assenza di garanzie concrete – anche sotto forma di trasferimenti militari all’Ucraina – gli impegni reciproci di non aggressione non sarebbero credibili.

Ricostruire l’Ucraina e reintegrare la Russia (coi soldi degli altri)

L’afflato colonialista del piano emerge con evidenza nel capitolo sulla ricostruzione. Il piano prevede di usare cento miliardi in titoli russi congelati per sostenere progetti di ricostruzione e sviluppo guidati dagli Stati Uniti, a cui peraltro andrebbe il 50% dei profitti. I restanti duecento miliardi in titoli russi confluirebbero in un fondo congiunto russo-americano per iniziative comuni. Così Washington guadagnerebbe dalla ricostruzione ucraina mobilitando risorse che non controlla, dal momento che la parte preponderante dei titoli (oltre duecento miliardi) si trova in Europa, in particolare in Belgio. A questo si aggiunge la pretesa che l’Ue contribuisca con altri cento miliardi di tasca sua, aggravando ulteriormente il divario tra chi decide e chi paga.

I russi, dal canto loro, otterrebbero il ritorno di almeno una parte dei titoli in patria, nel quadro di una relazione economica con gli Stati Uniti rilanciata anche dalla progressiva revoca di tutte le sanzioni. Come ciliegina sulla torta, tutte le parti (vale a dire Putin e i suoi sodali) beneficerebbero di un’amnistia generale (niente processi per crimini di guerra). Il reintegro nel G8 dovrebbe certificare la ripresa delle relazioni con la Russia che, nei calcoli (più probabilmente, illusioni) di alcuni, si potrebbe così ‘scollare’ dalla Cina

Dignità ucraina e… europea?

Le chance che il governo ucraino accetti questo accordo sono vicine allo zero, anche se Zelensky si trova di fronte alla scelta più difficile dal ritorno di Trump. Le difficoltà militari di Kyiv non sono tali da renderla incline a una quasi capitolazione. Inoltre, la dipendenza diretta dagli Stati Uniti è inferiore rispetto all’era Biden, anche se la perdita dell’intelligence statunitense sarebbe per lei molto dannosa. Almeno per un certo periodo, l’Ucraina può resistere alle pressioni di Washington.

Un altro fattore a favore dell’Ucraina è il sostegno dei paesi europei, il cui ruolo è cresciuto da quando hanno iniziato ad acquistare armi Usa e a reindirizzarle verso l’Ucraina. La strada non è chiusa per un’ennesima iniziativa diplomatica europea per intervenire sul testo, in particolare sulle forniture militari, le dimensioni delle forze armate ucraine, l’uso dei fondi congelati (di cui l’Ue deve prendere il controllo, superando le resistenze dei belgi) e i tempi elettorali. Il problema, come sempre, è come gestire un presidente le cui preferenze sono così oscillanti.

Anche se Trump insiste per una rapida conclusione del processo, è improbabile che possa permettersi politicamente di imporre un piano tanto sbilanciato contro la volontà di Kyiv e degli alleati europei. Tuttavia, il rischio è che un eventuale rifiuto venga strumentalizzato per alimentare la narrativa secondo cui sarebbero ucraini ed europei a ostacolare la pace e non l’invasore russo, acuendo le fratture interne al fronte occidentale e alienando Trump da Kyiv. Per Mosca, un esito del genere non sarebbe negativo; anzi, è plausibile che sia il risultato a cui ha realisticamente puntato.

Questo è un motivo in più perché gli europei serrino le fila e oppongano a Trump non una resistenza mascherata di lusinghe imbarazzate e rituali adunate attorno al capo, ma la difesa esplicita della stabilità continentale e della sovranità ucraina. La dipendenza dell’Europa da Washington è reale, ma non tale da giustificare posture da colonie. Se l’Ucraina ha saputo resistere con dignità alle sferzate di Washington, può farlo anche l’Europa. Riccardo Alcaro, AffInt 25

 

 

 

 

 

Chi tutto e chi niente

 

La politica italiana è allo sbando. Che non sia solo una nostra percezione lo confermano i fatti. Anche il 2026 non sarà migliore per una ripresa con effetti risanatori sul fronte dei bilanci familiari e occupazionali italiani. Ora, non consideriamo rilevante verificare il “perché” e il "per come” di una situazione che neppure la più assennata politica poteva prevedere. Troppe le concause e ancor più i compromessi che ne hanno consentito il consolidarsi.

 

La foto del nostro Paese, anche il prossimo anno, resterà “sfuocata”. Mancano i profili che dovrebbero essere ben chiari per evitare altri errori. Perché d’alternative ce ne sono rimaste poche. La nostra non è una sensazione di malessere superficiale. E’ profonda e s’insinua anche in strati della società che ne sembravano immuni. Questo evidenzia che continua a esserci ciò che non funziona nel modo corretto. Soprattutto a livello politico e, di conseguenza, economico. Lo avevamo evidenziato già nella tarda primavera scorsa. Anche il Parlamento dovrebbe fare i conti con la realtà. Per non arrenderci al fatalismo della situazione, né al pessimismo del momento, non ci resta che approfondire gli sviluppi dell’iter politico nazionale e i relativi “compromessi”per dare all’Italia un Esecutivo “solido.”. Quelli che, dopo, conteranno saranno i patti della teoria dei due “pesi” e delle due “misure”.

 

Che sia solo una nostra percezione? Non lo pensiamo. Lo scriviamo, anche se sarà il Popolo italiano a sostenere la “penitenza” di un sistema politico che s’è rivelato macchinoso negli uomini e nei programmi.

Giorgio Brignola, de.it.press

 

 

 

 

 

 

Un tempo leader mondiale sul clima, l’UE ha ceduto all’autolesionismo delle destre

 

Le politiche climatiche sono tradizionalmente un cavallo di battaglia dell’Unione europea. Tuttavia, mentre i negoziatori sono riuniti in Brasile per la Cop30, la leadership europea rischia di vacillare. Il contesto è molto diverso da quello che dieci anni fa a Parigi portò all’accordo per limitare il riscaldamento globale a 1,5° C. 

Dal Green Deal alla “reazione anti-verde”

Quell’accordo aprì la strada al Green Deal europeo. Non era un piano perfetto, e i leader europei non hanno tenuto sufficientemente conto dell’impatto sociale della transizione energetica, ma l’Ue aveva innegabilmente sostenuto i suoi impegni con azioni concrete e finanziamenti.

Oggi in Brasile, la leadership europea in materia di clima potrebbe sgretolarsi. Non solo perché gli Stati Uniti si sono nuovamente ritirati dall’accordo di Parigi e l’amministrazione Trump sta cercando  di indebolire gli impegni di altri paesi, né solo perché i paesi del sud del mondo rifiutano di compromettere la crescita per il clima, incolpando il nord del mondo, in particolare l’Europa, per la crisi. È anche perché la stessa Europa, in preda a una “reazione anti-verde” interna, rischia di restare ai margini.

Dopo la pandemia di Covid-19 e l’invasione dell’Ucraina, i gruppi nazionalisti e di estrema destra hanno fatto il Green Deal in uno spauracchio: un progetto ideologico guidato dai liberali e dalla sinistra per indebolire l’Europa. Queste forze hanno ripetutamente sostenuto che il Green Deal avrebbe causato la deindustrializzazione dell’Europa e permesso a Pechino di sfruttare nuove interdipendenze verdi. 

Il ridimensionamento degli obiettivi climatici europei

Tali critiche si sono diffuse dalle destre estreme e hanno contagiato il centro-destra, amplificate dalla pressione dell’amministrazione Trump e dei principali esportatori di gas come il Qatar, che hanno minacciato di sospendere le forniture se l’Ue non avesse attenuato o abbandonato le sue richieste di rendicontazione sulla sostenibilità. Oggi il Green Deal è scomparso dal lessico europeo, sostituito da “competitività”, “neutralità tecnologica” e “semplificazione burocratica”, oltre alla difesa.

Gli ottimisti speravano che si trattasse solo di un cambiamento retorico per rendere la politica climatica più appetibile dal punto di vista politico. Purtroppo, l’Ue ha notevolmente indebolito i suoi piani di riduzione dei gas serra per il 2040, inserendo clausole di revisione che consentono di fare marcia indietro in periodi di recessione economica e affidandosi a crediti di carbonio dalla dubbia validità scientifica. Non sorprende che siano stati i governi di estrema destra, in Italia e in Europa centro-orientale, a guidare questa retromarcia.

L’Ue ha inoltre ritardato sia l’estensione del sistema di scambio delle quote di emissione alle abitazioni e ai trasporti, sia l’attuazione della normativa sulla deforestazione, e potrebbe attenuare il divieto sulle auto a combustione previsto per il 2035. Si prevedono ulteriori passi indietro, con la scusa della semplificazione burocratica, che rischiano di minare anche la tariffa esterna sulla CO2 (CBAM). 

Un autogol europeo: sicurezza energetica e concorrenza verde

Gran parte di questo equivale a un autogol per l’Europa. L’Ue non sostenne la necessità di una forte politica climatica solo per idealismo, ma anche perché, in quanto continente povero di combustibili fossili, la sua sicurezza energetica e la sua prosperità dipendevano da questo. E mentre la Cina, anch’essa importatrice di idrocarburi, accelera i suoi sforzi nel promuovere le energie rinnovabili e le tecnologie verdi, l’Europa rischia invece di rallentare, dimenticando che i principi climatici e la prosperità economica sono intrecciati.

Il paradosso si aggrava poiché l’Europa sta minando la propria posizione globale di leader nella lotta ai cambiamenti climatici, facendo apparire la Cina più virtuosa di quanto non sia. I paesi europei si sono impegnati a ridurre le emissioni tra il 66,3% e il 72,5% entro il 2035 prima della Cop30. Ma l’indebolimento di questi obiettivi a ridosso della Cop30 getta un’ombra sulle ambizioni europee, mentre la Cina punta solo a una riduzione del 10% nel prossimo decennio.

Il futuro della leadership climatica europea

Non tutto è perduto. L’Europa rimane in prima linea nel percorso verso l’azzeramento delle emissioni nette in termini di obiettivi, politiche e finanziamenti. Ma il suo interesse rimane quello di essere all’avanguardia nel promuovere l’azione per il clima e trovare, ancora una volta, una causa politica comune con il sud del mondo. Nathalie Tocci, AffInt 18

 

 

 

 

 

 

Il CGIE a Dortmund rilancia il ruolo della rappresentanza italiana in Europa

 

Si è svolta a Dortmund dal 6 all’8 novembre la riunione della Commissione continentale Europa e Africa del Nord del Consiglio Generale degli Italiani all’Estero, nell’ambito delle celebrazioni per il 70° anniversario dell’accordo di manodopera tra Italia e Germania, che diede origine a una delle più significative stagioni migratorie della storia europea.

Durante i lavori, la Commissione ha affrontato i principali temi che interessano le comunità italiane del continente: i servizi consolari, la promozione della lingua e cultura italiana, la riforma della cittadinanza, il rinnovo dei Com.It.Es. e la riforma del CGIE. Particolare attenzione è stata rivolta al ruolo delle piccole e medie imprese italiane in Germania e ai rapporti economici e scientifici italo-tedeschi, illustrati da rappresentanti dell’Ambasciata d’Italia a Berlino e dell’Agenzia per la promozione e l’internazionalizzazione delle imprese italiane. Avendo ICE-Agenzia e Camere di Commercio ruoli complementari e non concorrenziali, la Commissione si è interrogata circa l’opportunità per il sistema Paese di mantenerne la tutela sotto due distinti Dicasteri.

Sul fronte dei servizi consolari, è stato riconosciuto l’impegno dell’Amministrazione degli Esteri per ridurre i tempi di attesa, ma è stata ribadita la necessità di rafforzare gli organici e ampliare i servizi itineranti, dotando Consoli onorari e funzionari delle apparecchiature per la rilevazione dei dati biometrici, oltre a consentire un accesso diretto alla banca dati del Ministero dell’Interno per aggiornamenti anagrafici più tempestivi.

La Commissione ha inoltre approvato un ordine del giorno per il ripristino degli uffici notarili nei Consolati europei e ha accolto con favore l’estensione del rilascio della carta d’identità elettronica ai cittadini AIRE tramite i Comuni italiani, misura che il CGIE aveva invocato attraverso due ordini del giorno approvati dalle Assemblee plenarie del 2023 e 2024.

Ampio spazio è stato riservato alla promozione della lingua italiana e al ruolo degli enti gestori, su cui la Commissione ha approvato un apposito ordine del giorno, rilevando una mancanza di visione e di indirizzo politico, e ritenendo prioritario ridefinire un intervento a partire dai bisogni dei destinatari che metta al centro gli italodiscendenti tenendo conto delle specificità dei territori. A tale scopo la Commissione ritiene urgente attualizzare i piani Paese coinvolgendo tutti i soggetti del mondo della scuola e gli organismi di rappresentanza.

Quanto all’insegnamento della storia dell’emigrazione, tema prioritario dell’agenda CGIE del secondo semestre insieme alla promozione della lingua e cultura e alla riforma del Consiglio Generale, preso atto con soddisfazione della Circolare del MIM del 4 novembre scorso, relativa all’anno scolastico 2025/2026, la Commissione propone di coinvolgere i territori per istituire database dei luoghi simboli dell’emigrazione, nel solco dell’ordine del giorno specifico approvato dalla Plenaria del 2025, e dei Com.It.Es. disponibili a intervenire direttamente nelle scuole.

La Commissione ha poi accolto con favore la volontà governativa di rispettare la data di scadenza della Consiliatura dei Com.It.Es. attraverso lo stanziamento di 14 milioni di euro per il loro rinnovo, con elezioni da tenersi nel 2026; ritiene tuttavia che tali risorse non siano sufficienti a garantire la più ampia partecipazione al voto dei connazionali, che deve essere perseguita innanzitutto mediante l’eliminazione dell’opzione inversa.

Si è infine ribadita l’esigenza di riformare il Consiglio Generale per garantire un processo di rilancio del sistema della rappresentanza delle nostre comunità all’estero. In tale ottica si è auspicata la convocazione della V Assemblea plenaria della Conferenza permanente Stato-Regioni-PA-CGIE.

Il dibattito è stato arricchito dai contributi del direttore generale della DGIT del MAECI Luigi Maria Vignali, dalla consigliera d’Ambasciata Silvia Maria Santangelo, dalla console d’Italia a Dortmund Alice Joy Cox, dai Parlamentari eletti nella circoscrizione Europa, da esperti di settore e dai Presidenti dei Com.It.Es. della Germania.

I rapporti commerciali tra Italia e Germania sono stati illustrati da Francesco Sordini (Capo Ufficio Economia, commercio e scienze dell’Ambasciata d’Italia a Berlino), Francesco Dell’Anna (Vicedirettore ICE Germania) e Piergiorgio Alotto (Addetto scientifico presso l’Ambasciata di Berlino), che hanno sottolineato l’approccio integrato con cui l’Amministrazione degli Esteri svolge la propria azione in Germania.

La tre giorni si è conclusa con il convegno pubblico VisionItaly: Memorie e futuro. 70 anni di accordi Italia–Germania, che ha riunito rappresentanti istituzionali italiani e tedeschi, Parlamentari, esperti e protagonisti della comunità italiana in Germania, per riflettere sull’eredità storica dell’emigrazione e sulle nuove prospettive di cooperazione culturale, economica e scientifica tra i due Paesi. Cgie

 

 

 

 

Ingiustizia climatica

 

Il secondo Africa Climate Summit è stato l’evento dell’anno su clima ed energia nel panorama africano. Tenutosi ad Addis Abeba dall’8 al 10 settembre e svoltosi sotto l’egida dell’Unione Africana, in linea con gli obiettivi fissati dall’Agenda Africana 2063, questo vertice ha ottenuto riscontri positivi e una forte risonanza globale.

Il Summit segue la prima edizione del 2023 a Nairobi. Nato come spazio di confronto per allineare le posizioni africane in vista delle Conferenze ONU sul clima (COP), si è trasformato in un appuntamento ben più ampio. Non solo i vertici istituzionali, ma anche società civile, settore privato e ONG hanno preso parte al dibattito, con l’obiettivo di renderlo un momento inclusivo e rappresentativo.

La scelta dell’Etiopia come paese ospitante non è casuale. Il leader keniota William Ruto e quello etiope Abiy Ahmed Ali condividono una visione comune sull’energia pulita come priorità africana. Questa convergenza ha facilitato il passaggio di consegne e segnalato l’emergere di un asse Kenya-Etiopia nelle politiche regionali climatiche, asse che si sta affermando come forza trainante nelle politiche continentali africane.

La Giustizia Climatica al centro del Summit

I temi affrontati, divisi per giornate, sono stati giustizia climatica, adattamento climatico e finanza climatica, temi fortemente interconnessi.

L’ingiustizia climatica è evidente: l’Africa contribuisce in misura esigua alle emissioni globali, meno del 4%, eppure è tra le regioni maggiormente colpite dagli impatti dei cambiamenti climatici. Siccità, inondazioni, ondate di caldo estremo paralizzano l’intero continente. Il risultato è paradossale: chi inquina di meno sta pagando il prezzo più alto. Per correggere questa disparità esiste il principio, ormai consolidato, di responsabilità comuni, ma differenziate (common, but differentiated responsibilities), nella lotta al cambiamento climatico. Tuttavia, è necessario che i paesi con i più alti livelli di emissioni sostengano uno sforzo proporzionalmente maggiore. Il vertice ha avuto dunque lo scopo di trovare un fronte comune a queste problematiche.

A questo si aggiunge anche un altro dato, ricordato durante la chiusura del summit dal presidente etiope Taye Atske Selassie: 600 milioni di africani – specialmente in Africa Sub-sahariana – vivono ancora senza accesso all’elettricità. Per ovviare al problema è necessario un massiccio sforzo infrastrutturale e finanziario. Senza fondi ed investimenti adeguati da parte di paesi terzi e privati non vi è giustizia climatica.

La dichiarazione di Addis Abeba

Nella dichiarazione di Addis Abeba, il documento conclusivo del Summit, sono emerse alcune possibili soluzioni. Per lo sviluppo industriale verde è stato creato un accordo di cooperazione per implementare l’Africa Green Industrialization Initiative, istituita nel 2023 alla COP28, fondata da un consorzio di istituzioni africane – guidato da Banca Africana di Sviluppo (AfDB), Africa50 e dall’Africa Finance Corporation (AFC) – e ideata con l’obiettivo di trasformare l’immenso potenziale africano di energia rinnovabile in un programma di sviluppo industriale sostenibile a lungo periodo.

A questa iniziativa si è affiancata un’ulteriore consapevolezza: per riuscire ad avere un modello sostenibile a lungo termine è necessario trovare soluzioni che nascano dall’Africa stessa, in modo da ridurre la dipendenza dagli aiuti esterni e promuovere lo sviluppo locale. L’Africa Climate Innovation Compact e l’African Climate Facility, istituiti durante il vertice dal leader etiope Ahmed Ali, hanno questo obiettivo: mobilitare 50 miliardi di dollari, annualmente, per sviluppare e accelerare soluzioni climatiche locali nel continente africano.

Per il finanziamento di queste iniziative è stato reso operativo l’Africa Climate Change Fund, stabilito per riuscire a ottenere finanziamenti a fondo perduto o sovvenzioni, e non prestiti. Questi ultimi peserebbero ulteriormente sugli stati africani, che hanno già condizioni finanziarie complesse e preesistenti e scarsa capacità di espandere il proprio debito pubblico. Per questo il vertice è stato utilizzato anche come megafono dai leader africani per chiedere un abbassamento dei tassi di prestito.

L’Etiopia come paese ospitante della COP32?

La candidatura dell’Etiopia a paese ospitante per la COP32 nel 2027 è stata un ulteriore elemento interessante. La candidatura rappresenta la volontà politica africana di continuare a mantenere alta l’attenzione sulla priorità climatica, in un momento geopolitico di stallo e scetticismo verso la transizione energetica. La speranza africana è che la transizione energetica e la lotta al cambiamento climatico siano una nuova opportunità per una migliore condizione sociale ed economica. Il summit è stato un evento focale per ribadire l’importanza, in uno scenario globale sempre più frammentato, di mantenere una linea comune e cooperare sul clima. In particolare, è emerso come sia fondamentale conciliare l’interesse domestico con quello continentale più ampio.

La sfida principale rimane ora il passaggio dalle intenzioni all’operazionalizzazione effettiva delle iniziative annunciate. Pietro Rinaldi, AffInt 4

 

 

 

 

 

 

 

 

Merz e la controversia sul “Stadtbild”

 

La CDU vuole restringere la doppia cittadinanza

Dopo le polemiche sulla migrazione e il dibattito sullo Stato sociale, CDU e CSU propongono riforme della cittadinanza: revoca rapida per criminali e islamisti, doppio passaporto solo per casi eccezionali, mentre in molte città tedesche la criminalità è aumentata, anche a causa di stranieri con doppia cittadinanza.

Il dibattito sul cosiddetto “Stadtbild” continua a scuotere la politica tedesca. Il 14 ottobre, durante un incontro a Brandenburg, il cancelliere Friedrich Merz ha risposto a una domanda sui risultati elettorali, in cui l’AfD supera il 30%. Merz ha sottolineato la sfida del populismo di destra e la diffusa insoddisfazione verso la democrazia: «Se facciamo buona politica, possiamo affrontare questo problema», ha detto, richiamando anche la necessità di modernizzazione dello Stato e digitalizzazione.

Il punto centrale è stato il richiamo alla questione migratoria. Merz ha osservato che le politiche precedenti non avevano risolto rapidamente il problema e ha promesso: «Noi correggiamo ora questa situazione. Abbiamo ridotto i numeri dei flussi migratori tra agosto 2024 e agosto 2025 del 60%, ma resta il problema nel “Stadtbild”, e per questo il ministro dell’Interno sta effettuando rimpatri su larga scala. Dobbiamo mantenerlo».

Le dichiarazioni hanno provocato forti reazioni: opposizioni di sinistra e Verdi hanno accusato il cancelliere di discriminare persone che non “appaiono tedesche”, mentre l’AfD ha applaudito. Circa 2.000 persone hanno protestato davanti alla sede della CDU. Merz, però, ha ribadito con fermezza: «Non ho nulla da ritirare. Dobbiamo affrontare questi problemi e lo faremo».

Sulla scia di questa controversia, la Union intende affrontare uno dei temi più discussi della politica interna: la cittadinanza e, in particolare, la doppia cittadinanza. Nel 2024 sono state registrate 292.000 nuove naturalizzazioni, di cui il 28% riguardava cittadini siriani.

I politici della CDU/CSU chiedono che il doppio passaporto diventi l’eccezione e non la regola. Stephan Mayer (CSU) ha dichiarato che a violenti, criminali incalliti, nemici della Costituzione, antisemiti e chi odia la Germania la cittadinanza dovrebbe essere immediatamente revocata se possiedono due passaporti. Mayer definisce necessaria «una riforma fondamentale della legge sulla cittadinanza».

Anche Roman Poseck, ministro dell’Interno dell’Assia (CDU), propone di valutare il ritiro della cittadinanza per chi sostiene Hamas, considerandolo incompatibile con i valori fondamentali tedeschi. Cornell Babendererde, responsabile per il diritto di cittadinanza nella frangia della CDU, sottolinea che la doppia cittadinanza dovrebbe restare un’eccezione. «Se l’80% dei nuovi cittadini vuole mantenere anche il passaporto originale, dobbiamo chiederci se l’identificazione con il nostro Paese sia reale o se si tratti solo di ottenere vantaggi».

Unica eccezione prevista: i discendenti delle vittime del nazionalsocialismo. Babendererde definisce la “Wiedergutmachungseinbürgerung” un gesto fondamentale contro l’antisemitismo in Germania.

La discussione è stata innescata da un caso a Berlino: Abdallah, un palestinese naturalizzato tedesco, ha celebrato Hamas su Instagram un giorno dopo l’acquisizione della cittadinanza. La revoca della cittadinanza è possibile perché Abdallah avrebbe fornito informazioni false sul suo impegno contro l’antisemitismo.

Secondo osservatori e forze dell’ordine, in molte città tedesche la criminalità è aumentata significativamente, in parte a causa di cittadini stranieri che possiedono la doppia cittadinanza. Questo tema è diventato centrale nel dibattito politico: l’Unione sostiene che il doppio passaporto non debba essere un diritto automatico, soprattutto quando può favorire comportamenti criminali o antisociali.

Non è chiaro quanti siano i doppi cittadini in Germania. Il censimento 2022 stima 5,8 milioni, mentre il microcensimento 2024 indica circa 3,1 milioni. Nel 2023 oltre l’80% dei nuovi cittadini ha mantenuto il passaporto originale, confermando una tendenza in crescita.

Molti critici parlano di fallimento della politica migratoria tedesca: i flussi migratori continuano, la società e le infrastrutture (scuole, asili, servizi sociali) sono sotto pressione, e la criminalità aumenta. La “turbo-naturalizzazione” dopo tre anni prevista dall’era Ampel è stata fermata dal governo Merz, ma anche con cinque anni di attesa il passaporto tedesco viene giudicato concesso troppo presto.

L’Unione ora cerca l’appoggio della SPD per modificare la legge sulla cittadinanza, ma il risultato è incerto. Quello che è chiaro è che il tema della doppia cittadinanza, dei flussi migratori e della sicurezza continuerà a dominare l’agenda politica nei prossimi mesi. CdI on 31.10

 

 

 

 

Cosmo italiano, le recenti puntate

 

Federico Quadrelli e la comunità italiana di Berlino

(07.11) È andato al presidente del Comitato degli Italiani all'Estero di Berlino-Brandeburgo, Federico Quadrelli, il Premio speciale assegnato dalla Gazzetta Diplomatica di quest'anno. A Quadrelli, che è anche vicepresidente regionale del gruppo di lavoro "Migration und Vielfalt" della SPD di Berlino, è stato riconosciuto l'impegno per l'inclusione e il dialogo efficace con le istituzioni tedesche. Con Cristina Giordano ha parlato di questo ma anche della comunità italiana di Berlino e della SPD in crisi di consensi.

 

Dalla Germania est al muro di Berlino: due storie

(06.11)La caduta del muro di Berlino il 9 novembre 1989 segna l'inizio della fine della DDR, la Germania est socialista. Agnese Franceschini ci ricorda come ci si arrivò. E nella DDR Alexander Melchior è cresciuto, frequentando un collegio sportivo. Michele Trincia c'è arrivato negli anni Settanta, studente dagli ideali comunisti presto deluso dal regime al di là della cortina di ferro. Hanno raccontato le loro storie a Cristina Giordano, in cui non manca la Stasi, la polizia segreta.

 

Perché i ristoranti in Germania non trovano personale?

(05.11) Colpa di stipendi bassi o del lavoro troppo faticoso? Cosa spiega la mancanza di personale nel settore della ristorazione in Germania, che vede sempre meno interesse da parte dei giovani? Lo abbiamo chiesto a esperti e ristoratori in Germania. E cosa è stato fatto fino ad ora dalla politica tedesca? L'approfondimento è di Agnese Franceschini.

 

Banane dalla Sicilia e albicocche tedesche?

(04.11) Quali frutti made in Italy e in Germany mangeremo nei prossimi anni? E come sta cambiando la produzione agricola per reagire a caldo estremo, siccità e alluvioni? Agnese Franceschini svela al microfono di Luciana Caglioti cosa succede già ora in Germania, dove le mele soffrono e c'è chi prova a coltivare il tè. L'enologo Nicola Biasi spiega perché ha scelto di trasferirsi nella zona della Mosella e Lorenzo Bazzana di Coldiretti Italia ci parla di avocado, mango e banane Chiquita in Sicilia.

 

Preoccupa la peste aviaria in Germania

(03.11) In Germania la peste aviaria continua a diffondersi provocando enormi danni agli allevamenti e crea sconcerto anche la moria di animali selvatici come anatre e cicogne. Agnese Franceschini ci aggiorna sulla situazione mentre Calogero Terregino, direttore del Laboratorio di referenza europeo (EURL) per l'influenza aviaria, ci spiega come si è diffuso il virus e quali rischi comporta.

 

Il partigiano tedesco e l'uomo delle SS: due storie italo-tedesche

(31.10)Due biografie in fondo simili che però hanno scelto strade opposte, nell'Italia fascista e poi occupata dai nazisti: le racconta il giornalista Andreas Wassermann nel libro "Der Partisan und der SS-Mann. Zwei deutsch-italienische Biografien im 20. Jahrhundert". Il partigiano Heinz Riedt, fu anche il primo traduttore di Primo Levi in tedesco. L'uomo delle SS a Roma Eugen Dollmann, fece da interprete tra nazisti e fascisti. Un omaggio a chi sceglie di stare dalla parte giusta della storia.

 

Andare in pensione e tornare in Italia: a cosa fare attenzione

(30.10)Molti italiani, una volta raggiunta l'età della pensione, pensano di andarsene. Si, ma dove? Cresce il numero di quelli che si trasferiscono dall'Italia al Portogallo come ci racconta Giulio Galoppo. Per chi invece riceve la pensione tedesca e vuole tornare in Italia, ecco i consigli di Maria Francalanza del patronato di Dortmund. E poi in Germania c'è la novità della "Aktivrente", che porta molti vantaggi economici a chi decide di lavorare più a lungo.

 

Merz sui migranti nelle città tedesche: il dibattito continua

(29.10)Il leader CDU ha già fatto discutere in diverse occasioni per affermazioni discriminatorie, spesso non supportate dai fatti. Questa volta però Merz è anche cancelliere, e una parte della società tedesca non ci sta, come spiega Giulio Galoppo. E a proposito del volto delle città tedesche, lo "Stadtbild", Luciana Caglioti ne parla con chi ricorda quanto l'economia tedesca abbia urgente bisogno dei migranti: Manuela Verduci è CEO dell'impresa sociale KIRON Digital Learning Solutions a Berlino.

 

Pasta italiana in Germania, sempre più amata

(28.10)Record di pasta italiana importata in Germania: i dati riferiti all'anno scorso confermano l'amore senza fine dei tedeschi per questo prodotto. Alcuni dati, tendenze e curiosità da Giulio Galoppo. L'azienda di famiglia di Manuel Primogeri importa pasta a Wuppertal dagli anni '60, e ora la produce. In Italia la riscoperta dei grani antichi fa bene a territorio, ambiente e salute, spiega Concetta Nazzaro dell'Università del Sannio a Luciana Caglioti.

 

Eureka: condanne per mafia tra Italia e Germania

(27.10)Si è concluso con 76 condanne e sette assoluzioni uno dei più grandi procedimenti giudiziari contro la 'ndrangheta che ha coinvolto cosche attive anche in Germania, i dettagli da Cristina Giordano. Con Ambra Montanari, autrice del libro "Le mafie sulle macerie del muro di Berlino", abbiamo parlato dell’insediamento delle mafie in terra tedesca e della collaborazione tra le procure dei due paesi. (dip)

 

 

 

 

Gli over 70 non dovranno più rinnovare la carta d'identità. Cosa cambia

 

L’obiettivo è «semplificare la vita dei cittadini», ha dichiarato il ministro per la Pubblica amministrazione Paolo Zangrillo

Gli over 70 non dovranno più rinnovare la carta d’identità. Lo annuncia il ministro per la Pubblica amministrazione Paolo Zangrillo intervenuto a "Next Economy" su Giornale Radio. La novità sarà contenuta nel prossimo decreto semplificazioni, ha precisato il ministro e l'obiettivo è «rendere più semplice la vita ai cittadini».

Che cosa cambia

Il ministro Zangrillo ha annunciato che «nei prossimi giorni in parlamento ci sarà un decreto» che conterrà delle «semplificazioni per rendere più semplice la vita dei cittadini». «Una delle previsioni che sono contenute nelle nuove semplificazioni che presenteremo, prevede che per le persone che hanno più di 70 anni non ci sia più bisogno del rinnovo della carta di identità», ha spiegato. «Quindi non ci sarà più la possibilità di dedicarsi all'ufficio del comune per fare il rinnovo della carta di identità. Questo è un primo esempio banale» delle semplificazioni burocratiche allo studio del governo.

I dettagli della misura non si conoscono ancora

L'abolizione del rinnovo andrebbe a ridurre gli oneri burocratici per la popolazione anziana. Il documento di identità diventerebbe senza scadenza una volta superati i 70 anni. Per il momento quindi si tratta di un annuncio. Non si conoscono i dettagli della misura contenuta all'interno del decreto, ma è probabile che nelle prossime settimane, quando il provvedimento approderà alle Camere, si avranno ulteriori informazioni.

Carta di identità: quanto dura oggi

La carta di identità ha attualmente durata 10 anni (9 più i giorni che mancano alla data di nascita). Questo vale per gli adulti mentre la scadenza è a 3 anni per i minori che hanno meno di 3 anni di età e 5 anni, per i minori con un’età compresa tra i 3 e i 18 anni. La CIE rilasciata a cittadini impossibilitati temporaneamente al rilascio delle impronte digitali ha invece una validità di 12 mesi dalla data di emissione. La carta di identità può essere richiesta al proprio Comune di residenza o domicilio a partire da 180 giorni prima della scadenza.

Come avviene il rinnovo

Per il rinnovo occorre recarsi nel proprio Comune di residenza, muniti di fototessera in formato cartaceo (lo stesso utilizzato per il passaporto. Se si decide di prendere appuntamento tramite Agenda Cie, il portale messo a disposizione dal ministero dell'Interno, la foto può essere caricata in formato digitale. Si può fare domanda per il rinnovo a partire dal centottantesimo giorno antecedente alla data di scadenza indicata sulla carta.

Documento di riconoscimento

La carta d'identità serve principalmente come documento di riconoscimento per l'identificazione fisica e digitale. È possibile usarla per viaggiare in diversi paesi europei e per accedere ai servizi online della Pubblica Amministrazione in Italia e in Europa, come alternativa allo SPID. Altre funzioni includono l'accesso a eventi e trasporti, l'apposizione della firma digitale sui documenti e la dichiarazione di volontà sulla donazione di organi.

I dati sulla carta d'identità sono classificati come "dati personali"

I dati presenti sulla carta d'identità sono classificati come "dati personali", non "dati sensibili" nel senso stretto (come origine etnica, salute, orientamento sessuale). Tuttavia, alcuni dati sulla CIE (Carta d'Identità Elettronica) sono considerati particolarmente delicati, come le impronte digitali e la foto, poiché sono dati biometrici che consentono l'identificazione univoca di una persona.

LS 13

 

 

 

 

 

 

L’urgenza di uno sforzo congiunto per invertire la rotta

 

Il 10 e 11 novembre 2025 si è tenuta a Bruxelles la quattordicesima edizione della EU Non-Proliferation and Disarmament Annual Conference, organizzata dall’Istituto Affari Internazionali (IAI) per conto dell’EU Non-Proliferation and Disarmament Consortium (EUNPDC). L’evento si conferma come un punto di riferimento imprescindibile per la comunità europea e internazionale impegnata nelle questioni di non proliferazione, controllo degli armamenti e disarmo, offrendo una piattaforma di dialogo e confronto tra esperti, decisori politici e rappresentanti istituzionali.

La conferenza ha nuovamente riaffermato il ruolo del Consorzio come piattaforma cruciale per il dialogo tra ricerca indipendente e politica pubblica. Un ruolo reso possibile dal sostegno continuativo dell’Unione europea e dei suoi Stati membri, che da oltre un decennio finanziano non solo la conferenza, ma anche una vasta rete di programmi di formazione, network di giovani esperti e progetti di ricerca. In un contesto internazionale sempre più frammentato e polarizzato, questo impegno rappresenta oggi più che mai una scelta fondamentale e un investimento nel futuro della sicurezza europea.

Un’agenda ampia per un mondo in transizione

Come nelle edizioni precedenti, anche la EUNPDC 2025 ha offerto un’agenda ricca e interdisciplinare: dalle armi di distruzione di massa alle armi convenzionali, dalla sicurezza spaziale alle nuove tecnologie emergenti, fino alle dinamiche regionali più sensibili.

Quest’anno, un’enfasi particolare è stata posta su temi di stretta attualità e di profonda rilevanza strategica. Tra questi, si è distinta la sessione speciale dedicata alla sicurezza nucleare, che ha visto la partecipazione del Direttore Generale dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), Rafael Mariano Grossi. Il dibattito ha affrontato le sfide nella gestione della sicurezza degli impianti nucleari civili, nella prevenzione del rischio di proliferazione e nella protezione delle infrastrutture critiche in un contesto di fragilità normativa e securitaria.

Il programma ha inoltre incluso importanti riflessioni storiche, come il 50° anniversario della Convenzione sulle Armi Biologiche e l’80° anniversario dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki – ricordato attraverso le parole del Sottosegretario Generale delle Nazioni Unite Izumi Nakamitsu. Queste riflessioni hanno rappresentato un invito a rinnovare l’impegno collettivo verso il principio di responsabilità condivisa, riaffermando il nesso inscindibile tra memoria storica, etica della sicurezza e prevenzione del conflitto.

Ripensare i concetti, non solo le politiche

Da questi dibattiti è emersa una consapevolezza condivisa e trasversale: il linguaggio della sicurezza internazionale sta subendo una trasformazione profonda, tanto nel lessico quanto nelle categorie interpretative che ne informano il pensiero strategico. Termini quali guerra, deterrenza, riarmo, sfiducia e incertezza tendono ormai a dominare il discorso pubblico e diplomatico, mentre concetti come multilateralismo, fiducia, disarmo o pace sembrano progressivamente relegati ai margini del dibattito. Questa evoluzione semantica non rappresenta un semplice mutamento linguistico, ma segnala un cambiamento paradigmatico più ampio: la progressiva normalizzazione della logica del confronto e della coercizione a scapito di quella della cooperazione multilaterale e della costruzione condivisa della sicurezza.

Uno dei contributi più rilevanti emersi dalla conferenza riguarda la necessità di un ripensamento concettuale profondo delle categorie analitiche che strutturano il dibattito sulla sicurezza e sul controllo degli armamenti. Di fronte a un sistema normativo in crisi, in cui i trattati si sgretolano e le nuove tecnologie – dal cyber all’intelligenza artificiale militare – sfuggono a ogni quadro di regolamentazione tradizionale, si impone una domanda fondamentale: che cosa intendiamo oggi per “controllo degli armamenti”? Le definizioni di cui ci serviamo sono ancora adeguate a descrivere la complessità del presente, o rischiano ormai di ridursi a etichette vuote, incapaci di orientare l’azione politica?

In questa prospettiva, la sfida per la comunità della sicurezza internazionale è duplice: da un lato, superare la inerzia concettuale che perpetua categorie obsolete; dall’altro, costruire nuovi paradigmi interpretativi capaci di rispondere alla discontinuità tecnologica, alla moltiplicazione degli attori e alla crisi della governance globale. Come sintetizzato in uno dei contributi durante la conferenza, «la sfida non consiste nel ripristinare i vecchi quadri del controllo degli armamenti, ma nel re-immaginarli radicalmente per un’era segnata dalla turbolenza geopolitica e dal disordine tecnologico».

Le nuove generazioni

Tra i momenti più significativi dell’edizione 2025 si distingue l’incontro del Next Genaration Workshop, un programma ormai consolidato che costituisce una delle componenti più dinamiche e inclusive delle attività del Consorzio EUNPDC. Il workshop, organizzato parallelamente alla Conferenza Annuale, vede la presenza di 9 giovani ricercatori da tutto il mondo invitati a presentare proposte di ricerca originali volte ad affrontare le principali sfide contemporanee nei settori della non proliferazione, del controllo degli armamenti e del disarmo.

Elemento qualificante del NextGen Workshop è la sua dimensione interattiva: i giovani esperti presentano i propri lavori di fronte a un pubblico composto da funzionari dell’Unione europea, membri del Consorzio EUNPDC e rappresentanti della rete europea di think tank specializzati in sicurezza e disarmo. Gli interventi ricevono un feedback strutturato da parte di studiosi senior e policy-maker, creando un ambiente di apprendimento reciproco e di fertilizzazione incrociata tra analisi accademica e policymaking.

In tale prospettiva, la dimensione “NextGen” non rappresenta un semplice laboratorio formativo, ma un vero e proprio incubatore di leadership epistemica e politica nel campo della sicurezza internazionale. Essa incarna la convinzione, condivisa dai promotori del Consorzio, che il futuro della non proliferazione e del disarmo dipenda dalla capacità di costruire un ecosistema di conoscenze capace di integrare rigore analitico, sensibilità etica e visione sistemica.

La difesa dei valori del multilateralismo

La Conferenza si è chiusa con un monito e una speranza. Di fronte alla progressiva disarticolazione dell’architettura internazionale del disarmo, non è più possibile indulgere nella compiacenza o nella retorica della resilienza. È necessario uno sforzo congiunto – politico, intellettuale e morale – per invertire la rotta.

In questo quadro, la rete del Consorzio EUNPDC emerge come una delle infrastrutture epistemiche dedicate alla difesa di valori e pratiche che costituiscono l’ossatura del multilateralismo contemporaneo: la diplomazia come metodo, l’impegno cooperativo come principio, il rispetto del diritto internazionale come fondamento, la solidità analitica come garanzia e la formazione di competenze indipendenti come investimento per il futuro.

La conferenza ha mostrato come tali valori non possano più essere considerati presupposti stabili, ma beni pubblici globali da tutelare attivamente in un contesto di crescente frammentazione e sfiducia.

Riflettere, oggi, non è più sufficiente. Occorre agire con rigore analitico, immaginazione politica e responsabilità collettiva, per ricostruire un linguaggio della sicurezza fondato sulla cooperazione, sulla legalità e sulla dignità umana. In un tempo in cui la parola pace sembra progressivamente perdere centralità nel lessico politico, il lavoro dell’EUNPDC continua a rappresentare un laboratorio di pensiero critico e di azione costruttiva, un presidio di dialogo multilaterale e, soprattutto, un richiamo alla responsabilità condivisa verso un ordine internazionale più giusto, stabile e umano. Ludovica Castelli, AffInt 18

 

 

 

 

 

Bilancio 2026. 163,1 milioni per “Italiani nel mondo e politiche migratorie”

 

Roma. La Commissione Esteri e Difesa del Senato ha avviato l’esame, anche per le parti di competenza riguardanti il Maeci , del Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2026 e bilancio pluriennale per il triennio 2026-2028. Il relatore Marco Dreosto (Lega) ha in primo luogo segnalato come fra le novità in relazione alla struttura del disegno di legge di bilancio 2026-2028 vi sia anche quella relativa alla riorganizzazione del Maeci, a parità di centri di responsabilità amministrativa. Nello specifico, con riferimento alla Farnesina, la relazione – riferisce Dreosto – segnala che il dicastero ha apportato modifiche all’articolazione di bilancio, attraverso il provvedimento di riorganizzazione finalizzato ad adeguare la struttura organizzativa del Maeci alle sfide derivanti dall’attuale contesto internazionale sul piano politico e securitario e per consentirle un migliore svolgimento dei compiti di promozione economica all’estero attribuiti dal decreto-legge n. 104 del 2019. In particolare, la riorganizzazione risponde al potenziamento dell’azione del Ministero per la crescita e il posizionamento internazionale dell’Italia attraverso il coordinamento della proiezione politica e di sicurezza, la gestione sinergica degli strumenti di promozione economica, la valorizzazione del ruolo dell’Italia nelle tematiche energetiche e ambientali a livello globale, la cybersicurezza e l’innovazione tecnologica, il miglioramento dei servizi ai cittadini e alle imprese e la valorizzazione delle risorse umane. Alla luce di queste motivazioni Dreosto rileva come la nuova articolazione di bilancio veda l’istituzione del programma 4.19 “Sicurezza cibernetica, informatica e innovazione tecnologica” e la soppressione del programma 4.18 “Diplomazia pubblica e culturale”, lasciando inalterato il numero di programmi rispetto alla precedente struttura. Il nuovo programma 4.19 “Sicurezza cibernetica, informatica e innovazione tecnologica” – spiega il relatore – è articolato con due nuove azioni: la prima è  denominata “Spese di personale per il programma”; la seconda è la “Gestione dei sistemi informativi” in cui sono state allocate le risorse provenienti in quota parte dalle azioni “Programmazione e coordinamento dell’Amministrazione”, “Gestione comune dei bene e servizi, ivi inclusi i sistemi informativi” che, oltre le risorse perde anche parte della sua denominazione, e dall’azione “Promozione e diffusione delle lingue e della cultura italiana all’estero”.  Dal relatore viene poi segnalata, al fine di potenziare la presenza istituzionale nazionale all’estero, la spesa di 4,7 milioni di euro annui, a decorrere dall’anno 2026, per rafforzare e stabilizzare il contingente del personale dell’Arma dei Carabinieri in servizio di sorveglianza e scorta presso le sedi diplomatiche estere. Rilevato anche lo stanziamento di 14 milioni di euro per l’anno 2026 per lo svolgimento delle votazioni per il rinnovo dei Comites e del Cgie.  In proposito nella relazione illustrativa si spiega che l’intervento si rende necessario per garantire la regolare convocazione delle consultazioni elettorali degli organismi di rappresentanza degli italiani residenti all’estero, assicurando la continuità del loro funzionamento e il rafforzamento del legame con le comunità italiane nel mondo. In questo modo si intende contribuire a sostenere la partecipazione democratica e il coinvolgimento delle collettività italiane all’estero nei processi decisionali, in coerenza con i principi di rappresentanza sanciti dalla normativa vigente, anche in considerazione dell’aumento delle spese postali e dell’accresciuta consistenza del corpo elettorale, tenuto conto che i connazionali iscritti all’AIRE sono passati nel volgere di poco tempo da 5.652.080 a 6.412.752. Dreosto ha anche rilevato come nello stato di previsione del Maeci si istituisca un fondo di 35 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2026 per le iniziative di promozione in campo economico e culturale svolte dalla Farnesina. L’intento sotteso alla misura – si legge nella relazione – è quello di potenziare il sostegno alle esportazioni e all’internazionalizzazione delle imprese italiane, rafforzando la promozione del made in Italy all’estero e le iniziative di promozione in campo economico, sportivo, della scienza, dello spazio e dell’innovazione svolte dal Maeci anche mediante la rete diplomatico-consolare, rafforzando le attività di diplomazia pubblica e culturale e incrementando l’offerta di borse di studio rivolte all’attrazione in Italia di studenti stranieri. Nel campo dell’internazionalizzazione delle imprese si prevede poi un incremento di 100 milioni di euro per il 2026 del fondo a carattere rotativo destinato alla concessione di finanziamenti a tasso agevolato alle imprese esportatrici, nonché un incremento di altri 100 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2026 al 2028 del fondo per la promozione degli scambi e l’internazionalizzazione delle imprese. Dal relatore è stato anche sottolineato come, per lo stato di previsione del Maeci, il disegno di legge di bilancio autorizzi spese finali, in termini di competenza, pari a 3.829,3 milioni di euro nel 2026 (in aumento rispetto alla legge di bilancio dello scorso anno che prevedeva per il 2025 3.542,9 milioni di euro), a 3.648,6 milioni di euro per il 2027 e 3.183,4 milioni di euro per il 2028. Gli stanziamenti di spesa del Maeci autorizzati dal disegno di legge di bilancio si attestano, in termini di competenza, nell’anno 2026, in misura pari allo 0,4% della spesa finale del bilancio statale, nella stessa percentuale prevista dall’esercizio precedente.  Dreosto ha inoltre rilevato come nello stato di previsione della Farnesina , la spesa complessiva sia allocata su tre missioni. La missione n. 4, “L’Italia in Europa e nel mondo”, articolata in 14 programmi, che assorbe la gran parte delle risorse, oltre l’81% del valore della spesa finale complessiva del Ministero – , pari a 3.110,2 milioni di euro. Nell’ambito di questa missione, il programma 4.2, “Cooperazione allo sviluppo”, dotato di 1.004,6 milioni di euro ai sensi del progetto legge di bilancio a legislazione vigente, passa a 940,3 milioni nel progetto di bilancio integrato, registrando un decremento pari a quasi 64 milioni di euro per gli effetti finanziari disposti dalle riprogrammazioni delle dotazioni finanziarie previste a legislazione vigente e dalla Sezione I. Seguono il programma 4.6, “Promozione della pace e della sicurezza internazionale!, con 928,7 milioni di euro (in aumento rispetto ai 924 milioni della scorsa legge di bilancio), il programma 4.13, “Rappresentanza all’estero e servizi ai cittadini e alle imprese”, con 808,9 milioni di euro (in aumento rispetto ai 733,2 milioni della scorsa legge di bilancio). A questi si aggiungono il programma 4.8 “Italiani nel mondo e politiche migratorie” con 163,1 milioni di euro i cui fondi aumentano considerevolmente rispetto alla legge di bilancio dello scorso anno quando ammontavano a 77,8 milioni di euro, il programma 4.12, “Presenza dello Stato all’estero tramite le strutture diplomatico-consolari” (con stanziamenti per 95,4 milioni di euro) e il programma 4.19, di nuova denominazione, “Sicurezza cibernetica, informatica e innovazione tecnologica”, con 64,9 milioni di euro. La missione n. 16, “Commercio internazionale ed internazionalizzazione del sistema produttivo”, afferisce ad un solo programma: “Sostegno all’internazionalizzazione delle imprese e promozione del made in Italy” , con uno stanziamento di 647,1 milioni di euro, pari al 16,9% delle spese finali del Ministero. Infine alla missione n. 32, “Servizi istituzionali e generali delle amministrazioni pubbliche”, afferiscono due programmi (indirizzo politico e servizi e affari generali per le amministrazioni di competenza) che recando stanziamenti per 71,96 milioni di euro.  Dreosto si è infine soffermato sulla sezione “Italiani nel mondo e politiche migratorie”, ricordando che questo programma (4.8) beneficia di uno stanziamento per il 2026 di 163,1 milioni di euro, in cui si collocano i capitoli di diretto interesse per le comunità degli italiani all’estero e per i relativi organi di rappresentanza, nonché i capitoli che riguardano la promozione della lingua e cultura italiana nel mondo. Fra i programmi relativi alle politiche migratorie il relatore ha ricordato – fra gli altri – il capitolo 3109, relativo al fondo per interventi straordinari volti a rilanciare il dialogo e la cooperazione con i Paesi africani e con altri Paesi di importanza prioritaria per i movimenti migratori (28,5 milioni nel 2026) e il capitolo 3110, relativo al fondo di premialità per le politiche di rimpatrio (9,5 milioni nel 2026). (Inform/dip 9)

 

 

 

 

Mediterraneo armato: alleanze, spese e potere

 

Nel Mediterraneo, l’acquisto di armi non è mai neutrale: secondo i dati Sipri 2020‑2024, ogni fornitore riflette alleanze politiche, strategie industriali e ambizioni militari. Gli Stati Uniti restano il principale partner di nove Paesi su ventuno, mentre la Russia mantiene rapporti diretti solo con Algeria e Libia orientale. Europa e Nord Africa mostrano logiche diverse tra interoperabilità Nato, capacità tecnologiche e bilanci militari. Israele e Turchia sviluppano rapporti mirati con partner extra‑regionali, mentre mercati come Siria e Libia seguono dinamiche di ricomposizione post‑conflitto. Nel mare che collega tre continenti, ogni contratto d’arma è un messaggio politico, industriale e strategico – di Marco Calvarese

Nel bacino mediterraneo l’acquisto di sistemi d’arma non rappresenta solo una decisione tecnica, ma un filo che intreccia alleanze geostrategiche, politiche industriali e schieramenti militari. I dati del Sipri- e l’analisi dei flussi d’importazione nei Paesi attorno al Mediterraneo mostrano come ogni contratto rifletta una scelta, un messaggio e una prospettiva di potere.

Secondo l’ultimo fact sheet del Sipri, nel 2024 la spesa militare mondiale ha raggiunto 2.718 miliardi di dollari (+9,4% rispetto al 2023), segnando il livello più alto mai registrato. La quota della spesa militare sul Pil globale è salita al 2,5%, e la spesa militare media come proporzione della spesa pubblica ha superato il 7,1%. Nella regione europea, la spesa militare è aumentata del 17% sino a 693 miliardi nel 2024. Nel Medio Oriente, l’aumento è stato del 15% nello stesso anno, per un totale stimato di 243 miliardi. Questi numeri testimoniano un contesto di crescente militarizzazione globale, che fornisce le condizioni per l’importanza strategica dei fornitori d’armi nei Paesi mediterranei.

I flussi di armamenti nel Mediterraneo riflettono quattro logiche fondamentali: allineamento politico‑militare; domanda e offerta tecnologica; condizioni finanziarie e industriali; e rischio geostrategico/sanzionatorio. Gli Stati Uniti emergono come fornitore dominante: 9 Paesi su 21 dell’area hanno Washington come principale fornitore secondo il Sipri per il periodo 2020‑24. Il ruolo della Russia è fortemente ridimensionato: dopo l’invasione dell’Ucraina perde terreno e mantiene legami diretti solo con l’Algeria e con la parte orientale della Libia. Attori regionali come Italia, Francia, Spagna, Turchia e Israele partecipano al mercato della difesa soprattutto nei segmenti specializzati (navale, aeronautico, artiglieria) anche se raramente sono fornitori primari in massa.

L’Europa meridionale e i Balcani offrono esempi emblematici. Paesi come Albania, Montenegro e Bosnia scelgono gli Stati Uniti per modernizzare le proprie forze, assicurando interoperabilità con la Nato. In Slovenia, l’Italia risulta partner principale nei settori degli elicotteri e del trasporto tattico. La Croazia opta per la Francia per aggiornare la propria aeronautica con i caccia Rafale. In Grecia, la scelta verso Parigi per navale e aeronautica assume anche un valore strategico nel contesto del confronto con Ankara. In Italia, pur esportando sistemi d’arma, resta fermo il ruolo degli Usa come fornitore principale per alcune capacità chiave (es. caccia di quinta generazione). Le potenze medie europee privilegiano invece la produzione nazionale, ricorrendo alle importazioni solo in casi strategici.

Sul versante africano del Mediterraneo, il Marocco consolida l’ancoraggio agli Usa e integra forniture israeliane, per mantenere un vantaggio rispetto all’Algeria. La Tunisia, con bilancio più ristretto, privilegia pacchetti Usa legati alla sicurezza interna e al controllo dei confini. L’Algeria mantiene una filiera russa per sistemi terrestri e antiaerei; è il Paese con il budget militare più alto del Maghreb ed è stato il primo al mondo ad acquisire caccia russi di quinta generazione. In Libia, l’approvvigionamento d’armi diventa parte della competizione interna: la Tripolitania beneficia di forniture turche, la Cirenaica di quelle russe.

Nel Medio Oriente, Israele conferma un rapporto strutturale con gli Usa fondato su piattaforme co‑sviluppate e fondi federali. Nel 2024 la sua spesa militare è cresciuta del 65% arrivando a 46,5 miliardi e pari all’8,8% del Pil nazionale. La Siria, uscita dal perimetro russo, appare come mercato di esportazione pronto allo sblocco post‑sanzioni. La Turchia guarda a fornitori alternativi – tra cui la Spagna – attivando partnership navali e aeronautiche non convenzionali.

Nel Mediterraneo, la politica degli acquisti di sistemi d’arma è al crocevia tra politica estera e industriale. Non conta solo il tipo di sistema acquistato, ma chi lo fornisce, quale catena produttiva nazionale attiva, e quale alleanza politica rafforza. I dati del Sipri mostrano chiaramente che l’egemonia Usa resta intatta, la Russia è in declino, e che le medie potenze esercitano ruoli specialistici ma non dominanti. In un mare in cui si intrecciano insicurezza marittima, minacce energetiche e competizione strategica tra potenze, ogni contratto d’arma è un messaggio. È la testimonianza di dove un Paese decide di stare — e con chi.

Sir 3

 

 

 

 

 

 

 

La comunicazione

 

E’ Operatore dell’Informazione chi rende pubblici fatti d’interesse nel rispetto del classico quadrinomio ben noto agli addetti ai lavori: Quando, Dove, Perché e Come. Quest’enunciato, ovviamente, è solo una traccia sommaria di ciò che intendiamo fare per informazione. Noi lo facciamo dal 1964.

 

Quando, per una serie di contemporaneità, si riesce ad andare oltre gli schemi canonici, allora il giornalismo è anche partecipazione. Insomma, se c’è stoffa e ispirazione, l’occasione per “comunicare” è una naturale conseguenza. Il difficile, almeno secondo noi, è restare “neutrali” circa gli avvenimenti trattati.

 

Solo un’informazione fine a se stessa riesce a interessare tutti. Senza seguiti politici che, poi, ciascun lettore può, se lo ritiene, esaminare. Dato che informarsi, è un diritto e informare anche un dovere, c’è anche da tener conto che le notizie sono destinate a chi le legge. Essere opinionisti, invece, è tutt’altra storia.

 

Per quanto ci riguarda, intendiamo dare sempre accessibilità ai nostri interventi. Obiettivo che desideriamo estendere a chi sente di condividere lo spirito di comunicazione. Anche questo percorso può costituire “opinione” da considerare. Questo giornale, anche sotto tale profilo, è per la libera compartecipazione. Noi, sotto questo profilo, lo facciamo da sempre.

Giorgio Brignola, de.it.press

 

 

 

 

 

 

Migrantes: presentato a Roma il Rapporto italiani nel mondo 2025

 

Roma. Si è svolta a Roma, presso la Sala San Pio X del complesso del Santo Spirito in Sassia, la presentazione della XX edizione del Rapporto italiani nel mondo 2025 curato dalla Fondazione Migrantes.  Dal Rapporto emerge un quadro abbastanza complesso, dopo un rallentamento dovuto al Covid,  dal 2023 gli italiani hanno ripreso ad espatriare. Questa edizione oltre a dare un quadro completo della presenza italiana all’estero presenta uno speciale dedicato al tema “Oltre la fuga: talenti, cervelli o braccia?”. “Parlare di fuga dei cervelli – si spiega nel Rapporto – non significa solo descrivere una migrazione, principalmente, giovanile, significa attribuire ad essa un significato preciso, con connotazioni drammatiche e identitarie per il Paese di partenza, associando al concetto di mobilità quello di perdita, strappo, trauma”. In questo speciale gli autori hanno “ricostruito e raccontato la mobilità italiana dal 2006”.

La presentazione si è aperta con un saluto introduttivo di Delfina Licata, curatrice del Rapporto, che ha coordinato gli interventi. Nel suo intervento Licata ha sottolineato come i numeri degli italiani che vanno all’estero continuino a salire. Al primo gennaio 2025 gli iscritti all’AIRE erano 6.412.752, pari al 12% dei cittadini italiani. Sono 278 mila le persone che in un solo anno sono andate a vivere all’estero, rispetto al 2006 è la percentuale è del 106%. Gli italiani che vanno all’estero preferiscono l’Europa e sono il 53,8 % del totale, a seguire gli Stati Uniti con una percentuale del 41%. Si continua a partire di più dalle regioni del Sud, con il 45% degli iscritti all’anagrafe estera. Tra queste regioni è la Sicilia con il maggior numero di emigrati , sono oltre 844 i residenti all’estero. Per ulteriori approfondimenti vedi Inform (I dati e le valutazioni del XX Rapporto Italiani nel Mondo della Fondazione Migrantes,  tra il 2006 e il 2024 l’emigrazione italiana è diventata un fenomeno strutturale | www.comunicazioneinform.it).

A seguire l’indirizzo di saluto di Direttore Generale della Fondazione Migrantes Pierpaolo Felicolo che ha ricordato come il Rapporto rappresenti “uno strumento di conoscenza e consapevolezza collettiva”. Un percorso, che dal 2006 ad oggi è stato caratterizzato “anche dalla crescita personale di questi studiosi che hanno partecipato, che nel frattempo si sono affermati professionalmente”. Felicolo poi ricordato come dal 2006 siano state stampate per il Rapporto oltre 10.000 pagine di studio per un percorso costruttivo che ripercorre i cambiamenti sociali ed ecclesiali. Il Direttore Generale ha poi sottolineato come in questi anni gli italiani all’estero non abbiano mai smesso di partire e di mescolarsi alla cittadinanza cosmopolita. Un percorso migratorio, che ha visto anche dei rientri nel nostro Paese e delle ripartenze, che per Felicolo va studiato ed accompagnato. Un camminare insieme ai migranti di qualsiasi nazionalità abbiano.  “Una Chiesa che è nel mondo – ha aggiunto – e più vicina alle persone migranti attraverso tutte le modalità di studio”. Il Direttore Generale ha inoltre ringraziato gli oltre 70 autori e autrici che dall’Italia e dal mondo hanno collaborato alla redazione di questa edizione del Rapporto con i dati e approfondimenti.

Ha poi preso la parola Paolo Ruffini, Prefetto del Dicastero per la comunicazione della Santa Sede, “Il RIM – ha esordito Ruffini – ci dice tanto sull’importanza del ruolo degli italiani all’estero nella diffusione della cultura italiana nel mondo, delle nostre radici, della nostra identità. Senza mobilità tutto sarebbe molto meno incisivo”. Ruffini ha anche evidenziato il prezioso lavoro comunicativo svolto dal RIM che, attraverso una ricerca approfondita in un mondo che invece corre, riesce a raccontare e comprendere senza distorsioni i fatti della mobilità. Un fenomeno, quest’ultimo, che non può essere fermato ma va gestito migliorando l’attrattività del nostro Paese.

A seguire l’intervento del Direttore dell’Agenzia 9Colonne Paolo Pagliaro. “Nel 2006 –  ha ricordato Pagliaro  – quando venne pubblicato per la prima volta il Rapporto, in Italia nacquero 560.000 bambini. Oggi ne nascono 340.000, il 40% in meno. Nel 2006, l’ISTAT registrava 82.000 emigranti italiani. L’anno scorso ne sono partiti il doppio. Sono raddoppiati in questi vent’anni anche gli iscritti all’AIRE, mentre sono rimasti invariati i residenti in Italia, circa 59.000.000. Ma solo perché, rispetto ad allora sono raddoppiati gli stranieri”. “Mentre l’Italia cominciava a svuotarsi, – ha proseguito Pagliaro – il Rapporto, nato in un’ottica di cura pastorale dei migranti, si preoccupava di illuminare e valorizzare l’altra Italia, quella dell’emigrazione nascosta e lontana, ma per molti aspetti molto vicina”.  Pagliaro ha poi ricordato come il Rapporto abbia la capacità “di mettere in discussione le narrazioni dominanti su chi siamo, cosa offriamo ai nostri cittadini, quali spazi lasciamo loro, quali li costringiamo ad abbandonare”. “Non si comprende ciò che sta fuori – ha aggiunto – se non si illumina ciò che sta dentro, che è poi il filo rosso dell’edizione di quest’anno”. “Si può partire – ha infine rilevato Pagliaro – per amore, per curiosità, per spirito di avventura, indipendenza, solidarietà, apertura mentale. Ma c’è anche un’Italia da cui si parte per necessità”. A seguire si è svolta una tavola rotonda, sul tema “Oltre la fuga. Talenti, cervelli o braccia”, moderata da Delfina Licata a cui hanno preso parte i giornalisti Roberto Inciocchi (Rai), Paolo Lambruschini (Avvenire), Manuela Perrone (Il Sole 24 Ore). Nel suo intervento Licata ha sottolineato come la nostra emigrazione ci porti ad essere in tutti i luoghi del mondo e coinvolga tutta l’Italia, ancora nell’ultimo anno le partenze sono infatti avvenute da ogni provincia del nostro Paes. Licata ha poi chiesto ai giornalisti come si raccontare gli italiani all’estero. Il primo a prendere la parola è stato Roberto Inciocchi che ha subito ricordato come la sua famiglia viva a metà tra Italia e Berlino. Il giornalista ha sottolineato la necessità di conoscere a fondo le nostre comunità che sono molto composite e variegate, anche per sviluppare un ponte comunicativo capace di raccontare le storie dei nostri connazionali all’estero. Su impulso della Licata, che ha parlato di come tanti giovani vadano via dall’Italia in cerca di migliore occupazione quasi a testimonianza di un “patto generazionale tradito”, la giornalista Manuela Perrone ha evidenziato come un patto generazionale sano vedrebbe i giovani portatori di innovazione e di cambiamento e gli anziani custodi della tradizione e della memoria ,con una staffetta delle funzioni. Un meccanismo che a un certo punto però in Italia si è inceppato, favorendo la ricerca da parte dei giovani di migliori opportunità formative, professionali e personali all’estero. Perrone ha anche sottolineato un pensiero evidenziato anche da Inciocchi, ovvero che gli operatori della comunicazione abbiamo anche il compito di sfatare gli stereotipi su questo contesto. Secondo Paolo Lambruschi dalle pagine del Rapporto si evince invece come i temi dell’emigrazione e dell’immigrazione siano in realtà oggi interconnessi. Per il giornalista l’Italia fuori dei confini non composta sono da italiani ma anche di immigrati che dopo una permanenza in Italia sono emigrati di nuovo verso l’estero. Secondo  Lambruschini dunque la mobilità è un fenomeno che interessa tutti a va interpretata come una risorsa.

Le conclusioni dell’incontro sono state affidate a Mons. Gian Carlo Perego, Presidente della Commissione episcopale per le migrazioni della Cei e della Fondazione Migrantes. “Il Rapporto italiani nel mondo della Fondazione Migrantes – ha esordito Perego – da 20 anni è il segno della memoria di un impegno delle Chiese in Italia a fianco del mondo della mobilità, ma anche un segno dell’attualità dell’emigrazione italiana. Nel 2024 a fronte di 169.000 immigrati che sono entrati in Italia 152.000 italiani sono andati all’Estero, soprattutto in Europa, di cui 93.000 tra i 18 e i 39 anni, il doppio rispetto a 10 anni fa”. In proposito Perego ha rilevato come da dieci anni almeno la differenza numerica tra immigrati ed emigranti diventi sempre minore. Un dato preoccupante, secondo il Presidente , perché evidenzia la scarsa attrazione del nostro Paese, a fronte di un problema demografico sempre più grave e della necessità di manodopera professionale. Un contesto difficile in cui, per Perego, occorre una riforma della legge sulla cittadinanza che equilibri jus sanguinis, e jus soli,. Perego ha poi parlato di un’Italia caratterizzata da mobilità multiple. “. È un concetto – ha spiegato – che abbiamo sviluppato già nel Rapporto Italiani nel Mondo 2024. Una interrelazione che quest’anno diventa sempre più chiara e indispensabile. Argomento dopo argomento viene fuori in modo naturale e sempre più incisivo che parlare di Italia e di popolazione italiana significa prendere in carico la storia e l’attualità di un Paese e di un popolo per i quali la migrazione è elemento strutturale, cifra distintiva e identitaria sin dalla Costituzione italiana che all’art. 35 garantisce la libertà di emigrare e tutela il lavoro italiano all’estero con accordi internazionali. Quando parliamo dei movimenti in Italia (migrazione interna) o verso l’estero – ha continuato – non si può non considerare la componente immigrata o i nuovi italiani, coloro i quali, cioè, hanno cittadinanza italiana ma un’origine di altro Paese. Questo ci fa toccare con mano la storicità della presenza di persone e famiglie di altre nazionalità nel nostro Paese, ma ci dà anche il senso di un’Italia che fatica a riconoscersi pienamente inserita nei processi di mobilità internazionale e che sempre troppo poco ancora si impegna sul piano concreto per accogliere e trattenere le persone migranti”.

Non più solo “emigrazione” o “fuga di cervelli”, ma un insieme di movimenti che raccontano un’Italia plurale, in uscita e di ritorno, dentro e fuori i propri confini: l’Italia fotografata dal XX Rapporto Italiani nel Mondo della Fondazione Migrantes presentato oggi a Roma non è più un Paese che “fugge”, ma un Paese che si ridefinisce nei legami, nelle reti e nelle comunità transnazionali.  Nel RIM  2025 si legge di 1,6 milioni di espatri e 826 mila rimpatri in 20 anni, con un saldo negativo di oltre 817 mila cittadini italiani, concentrato tra Lombardia, Nordest e Mezzogiorno. Al 1° gennaio 2025 risultano iscritti all’Anagrafe per gli italiani all’estero (AIRE), 6,4 milioni di persone, pari quasi a 1 italiano su 9: l’“Italia fuori dell’Italia” è ormai la ventunesima regione, fa notare la Migrantes. Inoltre, oltre 1 milione di cittadini italiani nel periodo 2014-2024 si sono trasferiti dal Meridione al Centro-Nord, con un saldo negativo per il Mezzogiorno di oltre 500 mila persone.  Il Rapporto fotografa come tra il 2006 e il 2024 l’emigrazione italiana sia diventata un fenomeno strutturale. Dopo la crisi del 2008, gli espatri sono cresciuti costantemente, toccando nel 2024 il record storico di 155.732 partenze. L’Europa resta il baricentro della mobilità italiana (76% degli espatri), con Regno Unito, Germania e Svizzera in testa. Negli anni però la mobilità si è fatta più circolare e complessa: si parte, si ritorna, si riparte. Accanto ai giovani, tra gli italiani residenti all’estero crescono anche le donne (+115,9% in vent’anni, dati Aire) e gli over 50, spesso nonni o lavoratori che raggiungono figli e nipoti all’estero. Le costanti? Una spinta migratoria legata a fragilità strutturali del Paese e a un sistema bloccato – lavoro precario, disuguaglianze territoriali, riconoscimento del “merito” – ma anche una dimensione di scelta, curiosità e progettualità personale. “Sappiamo molto di più dell’emigrazione, ma forse sappiamo ancora poco degli italiani nel mondo”, si leggeva nella Presentazione della prima edizione del RIM. Lo speciale del Rapporto 2025, “Oltre la fuga: talenti, cervelli o braccia?” – 22 saggi che abbracciano i cinque Continenti – invita a superare la visione riduttiva e quasi tragica dell’espatrio e della mobilità come mera “perdita, strappo, trauma”. I dati e le testimonianze raccolte poi dimostrano che non partono solo ricercatori/laureati e che, anzi, prevalgono i diplomati. Il filo comune non è la fuga, ma una scelta, alla ricerca di dignità, riconoscimento e mobilità sociale. “Il grande bluff – si legge nel Rapporto – non è tra cervelli o braccia, ma nel non riconoscere che tutti sono talenti”. Non basta trattenerli, né rimpiangerli: serve coinvolgerli nella costruzione di nuove visioni collettive.  La mobilità interna al Paese continua a svuotare il Sud e le aree interne: dal 2014 al 2024, più di 1 milione di persone ha lasciato il Mezzogiorno per il Centro-Nord, contro 587 mila in direzione opposta. I più mobili sono i giovani tra i 20 e i 34 anni (quasi il 50%), seguiti da adulti in età lavorativa. Le province interne e montane pagano il prezzo più alto: perdita di popolazione, chiusura di scuole e servizi, impoverimento sociale. Il RIM descrive così “un’Italia a velocità diverse”, dove le disuguaglianze territoriali alimentano, in un circolo vizioso, tanto l’esodo interno quanto quello verso l’estero: la mobilità interna, infatti, è spesso la prima tappa di un progetto migratorio più ampio, che molte volte arriva oltre confine. Il RIM 2025 invita a superare narrazioni riduzioniste e rappresentazioni emergenziali, e anche la distinzione rigida tra “emigrazione” e “immigrazione”, sottolineando come entrambe esprimano la mobilità di persone migranti legate in modi diversi al nostro Paese. Negli ultimi anni si registrano fenomeni articolati: ad esempio, i nuovi italiani sono protagonisti sempre più numerosi di spostamenti, soprattutto verso altri Paesi europei. I quattro verbi-guida proposti da papa Francesco per la pastorale migratoria – accogliere, proteggere, promuovere, integrare – vengono applicati, talvolta, anche a contesti non emergenziali, come quello dei migranti italiani. Il rischio è trasformare l’integrazione in assimilazione, imponendo modelli dall’alto. Affinché tutti i migranti diventino effettivamente soggetti attivi di evangelizzazione (Leone XIV l’ha definita missio migrantium), in una logica di reciprocità e crescita comune, i quattro verbi proposti da Francesco dovrebbero essere completati da altri quattro: accogliersi, interpellarsi, valorizzarsi, condividere. L’Italia fotografata dal RIM 2025 non è più un Paese che “fugge”, ma una nazione che si ridefinisce nei legami, nelle reti e nelle comunità transnazionali. Il Rapporto invita a leggere questa mobilità come una risorsa da ascoltare e valorizzare, non come una ferita da nascondere. Nicolina Di Benedetto- Inform/Dip 11

 

 

 

 

 

Migrantes, Rapporto Italiani nel Mondo. 20 anni di talenti in mobilità

 

ROMA - 20 anni di “gioie ed endemiche debolezze”. 20 di “amore e solidarietà”. 20 anni di dati e informazioni, anche a contrasto della disinformazione (diffusione intenzionale di notizie false) e della misinformazione (diffusione inconsapevole di informazioni ingannevoli). E così, dopo 20 anni di pubblicazioni annuali, il Rapporto Italiani nel Mondo si è fatto “punto di riferimento”; uno studio che “avvicina e umanizza” le persone migranti, sia quelle che escono dall’Italia che quelle che entrano in Italia, e che cerca di “farsi prossimo approfondendo” il tema della mobilità e le storie dei protagonisti.

Così, Mons. Pierpaolo Felicolo, Direttore Generale della Fondazione Migrantes, ha aperto la presentazione di questa mattina, 11 novembre, della XX edizione del Rapporto Italiani nel Mondo. Una presentazione speciale, dunque, che per il ventesimo anniversario ha deciso di spostarsi presso la Sala San Pio X, a ridosso del Vaticano, a Roma, per sottolineare lo “stretto legame con la Santa Sede”.

A moderare l’incontro, la curatrice del RIM 2025, Delfina Licata, che in apertura ha fornito subito alcuni tra i tanti dati contenuti nello studio: 6,5 milioni gli italiani residenti all'estero. Una comunità, come spiegato dalla curatrice, che in questi 20 anni è più che raddoppiata: sono 1 milione e 644 mila gli espatriati in questi ultimi due decenni, principalmente giovani tra i 25 e 34 anni, dal Mezzogiorno ma anche da Lombardia e Nordest. E solo la metà di questi è rientrata in Italia (826 mila), il che comporta un saldo negativo di oltre 817 mila. Ma “non chiamateli cervelli in fuga”, ha esortato Licata, perché “dei giovani che partono oggi, solo il 33% è laureato. Il restante 66% ha un titolo di studio medio-basso. Tutti, però, sono talenti”.

Il volume di quest’anno è molto più corposo dei precedenti, proprio perché è compresa un’ampia parte (22 saggi da 5 continenti) dedicata al traguardo delle 20 edizioni. “Fa un certo effetto pensare ai protagonisti di questi 20 anni”, ha spiegato Felicolo. “Più di 10 mila pagine di studio sono state stampate dal 2006 ad oggi. Guardare questo percorso è affascinante e costruttivo. Ci fa toccare con mano i cambiamenti sociali ed ecclesiali. Oggi, dopo più di mezzo secolo di immigrazione, dopo una storia di diaspora nazionale e un presente di partenze cospicue, la persona in cammino rimane al centro del nostro pensiero. L’Italia è cambiata e continua a cambiare sotto i nostri occhi. Gli italiani non hanno mai smesso di partire. E oggi partono ancora, sempre più numerosi. Tornano in pochi per poi ripartire. Italiani che si mescolano alla cittadinanza cosmopolita, nel bisogno del lavoro soddisfatto fuori dai confini nazionali”. E per questo “noi dobbiamo studiare per camminare assieme ai migranti. Siamo tante sentinelle e interlocutori attivi nel processo delle riforme. Per noi è doverosa la cura di ogni migrante, qualsiasi passaporto abbia”.

Il RIM 2025, in questo senso, “fa emergere la fragilità del tema della mobilità” nei giorni nostri. Ma la “speranza è un ponte, non un muro”, ha aggiunto Felicolo concludendo il suo intervento. “E i migranti, con la loro storia, incarnano questo ponte, ricordandoci che la nostra identità più profonda non è chiusa dentro ai confini geografici”.

A seguire è intervenuto anche Paolo Ruffini, Prefetto del Dicastero per la comunicazione della Santa Sede, secondo il quale “viviamo in un tempo che sembra voglia cambiare il significato delle parole, come la parola “migranti”, che è ridotta a uno stereotipo negativo. Non per la chiesa”. Anche per questo Ruffini ha rivolto un grande plauso al RIM, che fa “una comunicazione lenta in un mondo veloce”, ma anche una comunicazione il cui scopo “è stare ai fatti, capire i processi e poi condividerla. E di questo abbiamo un bisogno disperato al giorno d'oggi”. “Stare ai fatti, alza i fatti: non è vero che l’Italia si è trasformata da Paese di emigrazione a Paese di immigrazione. I fatti dicono che non è così. I dati sottraggono all’ideologia. La retorica alimenta informazioni distorte, il RIM sta ai fatti, complessi, ma da leggere così come sono, senza dare illusioni e paure. Il RIM 2025 ci dice anche che ogni partenza è una scelta, ma anche una spia di un sistema bloccato, incapace di offrire lavoro, servizi, riconoscimenti e crescita. E la geografia delle partenze ci racconta un’Italia diversa da quella da cartolina. Queste sono cose da vedere, da affrontare”, perché la “vera sfida non è fermare la mobilità, ma diventare un Paese accogliente per attirare nuove energie demografiche, sociali ed economiche”.

70 fra autori e autrici hanno composto il RIM 2025. Un’edizione che invita a superare la visione riduttiva e quasi tragica dell’espatrio e della mobilità come mera “perdita, strappo, trauma”. I dati e le testimonianze raccolte nello studio, poi, dimostrano che non partono solo ricercatori/laureati e che, anzi, prevalgono i diplomati. Il filo comune non è la fuga, ma la scelta, la ricerca di dignità, il riconoscimento e la mobilità sociale. “Il grande bluff – si legge nel Rapporto – non è tra cervelli o braccia, ma nel non riconoscere che tutti sono talenti”. Non basta trattenerli, né rimpiangerli, spiega il RIM: serve coinvolgerli nella costruzione di nuove visioni collettive.

Ma il RIM 2025 invita anche a superare le narrazioni riduzioniste e rappresentazioni emergenziali, e anche la distinzione rigida tra “emigrazione” e “immigrazione”, sottolineando come entrambe esprimano la mobilità di persone migranti legate in modi diversi al nostro Paese. Negli ultimi anni si registrano fenomeni articolati: ad esempio, i nuovi italiani sono protagonisti sempre più numerosi di spostamenti, soprattutto verso altri Paesi europei.

I numeri

L’Italia, secondo quanto emerge dalla fotografia del RIM 2025, non è dunque un Paese che “fugge”, o, almeno, non più. È, invece, una nazione che si ridefinisce nei legami, nelle reti e nelle comunità transnazionali. Al 1° gennaio 2025 gli iscritti all’AIRE sono 6.412.752. La popolazione residente in Italia è invece 58.934.117, ci cui 5.422.426 stranieri. Ciò significa che 12 italiani su 100 vivono all’estero (11,9%). Continuano a salire le iscrizioni all’Anagrafe dei Residenti all’Estero: nel 2024, sono stati 278 mila gli italiani che si sono iscritti (+4,5% in un anno), oltre il doppio rispetto al 2006 (+106,4%). La crescita degli stranieri residenti in Italia è invece decisamente meno consistente rispetto al passato (nel 2019 erano 5,3 milioni). A crescere, invece, sono le donne iscritte all’AIRE (48,3%), con una crescita rispetto al 2006 decisamente più sostenuta rispetto a quella maschile (+115,9% per le donne, 98,3% per gli uomini).

Tra gli italiani residenti all’estero, 1,3 milioni sono anziani (20,5%), 858 i minorenni (14,9%). Tra i 18 e i 34 anni sono 1,4 milioni (22%), mentre 1,5 milioni sono quelli tra i 35 e i 49 anni (23,2%) e 1,2 quelli tra i 50 e i 64 (19,6%). Di questi, il 47,1% è espatriato, mentre il 41,3% è nato all’estero.

Per quanto riguarda i Paesi di approdo, l’Europa è ancora la meta preferita (53,8%), poi l’America (41,1%) e infine Oceania, Asia e Africa. Le comunità italiane all’estero più numerose sono ancora quella in Argentina (990 mila) e in Germania (849 mila). Mentre per quanto concerne la provenienza degli espatriati, continua ad essere il Meridione la zona da dove si parte di più (45,1%), a seguire il Nord (39,2%) e infine il Centro (15,7%). La Sicilia è la comunità di residenti all’estero più numerosa con 844 mila, seguita da Lombardia (690 mila) e Veneto (614 mila).

Gli iscritti all’AIRE nel 2024 sono 123.376, il 53,8% sono uomini e il 70% sono celibi/nubili. Dunque, la mobilità italiana è in piena ripresa (+38% rispetto all’anno precedente, ossia 34 mila partenze in più, specie fra giovani e giovani adulti).

La presentazione dell’edizione 2025 è proseguita poi con l’intervento di Paolo Pagliaro, Direttore dell’Agenzia 9 Colonne, che ha prima fatto un’analisi del fenomeno e dei numeri di quest’anno, poi ha ricordato come il RIM sia uno strumento anche per “contrastare l'amnesia collettiva” che ha colpito l’Italia che sembra aver dimenticato che gli italiani sono stati oggetto di discriminazione, esclusione, morte sul lavoro; che abbiamo conosciuto la clandestinità, il lavoro nero, il razzismo. Il rapporto, infatti, secondo Pagliaro ha la capacità di mettere in discussione la narrazione dominante sul “chi siamo, cosa offriamo ai nostri cittadini, quali spazi li costringiamo ad abbandonare”. Ma il rapporto “non ha un atteggiamento distopico, si può partire anche con la gioia nel cuore, per fare esperienze umane, professionali, si può partire per amore, per curiosità, avventura, solidarietà. Ma c’è anche un’Italia da cui si parte per necessità”. Il RIM “indaga e approfondisce la spinta migratoria come conseguenza di un sistema bloccato. Le partenze diventano così una forma di reazione all’esclusione e alla frustrazione”. Insomma, il RIM “non si limita a guardare, ma interroga e propone”. È quindi, per Pagliaro, “un servizio” a tutti gli effetti.

Dopo di lui, è andato in scena anche un tavolo di dialogo dal titolo “Oltre la fuga. Talento, cervello o braccia?”, con protagonisti tre giornalisti: Roberto Inciocchi, della Rai, Manuela Perrone, de Il Sole 24 Ore, e Paolo Lambruschi, de L'Avvenire. I tre hanno parlato dei problemi della comunicazione “stereotipata” sul tema migratorio, del rischio di informazioni incomplete, di un “patto generazionale tradito”, dell’estero come “nuovo ascensore sociale” che “accorcia i tempi per diventare adulti”, così come hanno parlato della necessità di essere più accoglienti, attrattivi e di “raccontare la realtà per come è, non per come la vorremmo”.

Per concludere, infine, ha preso parola mons. Gian Carlo Perego, presidente della Commissione episcopale per le migrazioni della Conferenza episcopale italiana e della Fondazione Migrantes: “in questi 20 anni, il RIM ci ha permesso di guardare dentro la realtà della mobilità. Guardare dentro i volti di persone che spesso non vengono accompagnate. Ormai c’è una parità tra emigrazione ed immigrazione. Non c’è attenzione a nessuna delle due. Spesso è stato più alto il numero di chi parte. Questo è preoccupante perché dà l’idea della poca attrazione dell’Italia e per il problema demografico, economico e strategico. Tanti giovani manifestano la volontà di lasciare il nostro paese. Questo chiede una riforma della cittadinanza che equilibri ius sanguinis e ius soli riconsiderando le forme di ius scholae e ius culturae”. A tal ragione, secondo Perego “non si può tacere sul metodo con cui è stata introdotta la riforma della cittadinanza. Un decreto legge approvato senza preavviso né confronto con gli italiani all’estero. Ha inciso su una materia complessa e identitaria che avrebbe richiesto un dibattito parlamentare ampio. È una questione che tocca milioni di persone e tocca l’idea di Italia nel mondo, ed è stata trattata come un’urgenza amministrativa”. “Senza un investimento serio sulla cittadinanza – ha spiegato ancora -, c’è il rischio che i giovani, protagonisti della mobilità, non amino più il nostro paese e rimangano in attesa solo del tempo della ripartenza. Non si può essere cittadini a metà”. Infine, Perego ha concluso con due riflessioni, la prima riguarda la cittadinanza che “se vissuta con responsabilità, rappresenta un ponte tra generazioni e popoli”. La seconda, invece, riguarda la sempre più stretta connessione tra immigrazione ed emigrazione: “ci fa parlare dell’Italia dalle mobilità multiple”. E la mobilità “dovrebbe allargare la cittadinanza, invece la chiude. E chiude anche la politica”.

A chiosare la presentazione, il messaggio della curatrice Delfina Licata: “nel 2006 scrivevamo “Sappiamo molto di più dell’emigrazione, ma forse sappiamo ancora poco degli italiani nel mondo”. Dopo 20 anni speriamo di aver riportato le storie degli italiani e delle italiane nel mondo a casa. E queste italiane e questi italiani fanno parte dell’unica e sola Italia”. (l.m.\aise 11)

 

 

 

 

 

Rapporto Italiani nel Mondo 2025, 20 anni di mobilità italiana: non “fuga”, ma talenti che scelgono

 

Presentata a Roma la XX edizione del Rapporto Italiani nel Mondo della Fondazione Migrantes. Dal 2006 a oggi il saldo migratorio degli italiani segna -817.000. Sono in prevalenza giovani, scelgono l’Europa, vengono da Lombardia, Nordest e Mezzogiorno, le tre Italie della mobilità.

Non più solo “emigrazione” o “fuga di cervelli”, ma un insieme di movimenti che raccontano un’Italia plurale, in uscita e di ritorno, dentro e fuori i propri confini. La XX edizione del Rapporto Italiani nel Mondo (RIM) della Fondazione Migrantes – 70 autrici e autori che, dall’Italia e dall’estero, hanno lavorato a 45 saggi articolati in cinque sezioni – fotografa con dati, storie e riflessioni 20 anni di mobilità italiana. Grazie al patrimonio accumulato di oltre 10.000 pagine, che hanno fatto uscire il tema dalle nicchie specialistiche, esso traccia un quadro complesso e in trasformazione costante, per raccontare un’Italia in continuo movimento.

Alcuni dati del RIM 2025

* Il saldo negativo. 1,6 milioni di espatri e 826 mila rimpatri in 20 anni, con un saldo negativo di oltre 817 mila cittadini italiani, concentrato tra Lombardia, Nordest e Mezzogiorno.

* L’“Italia fuori dell’Italia”. Al 1° gennaio 2025 risultano iscritti all’Anagrafe per gli italiani all’estero (Aire), 6,4 milioni di persone, pari quasi a 1 italiano su 9: l’“Italia fuori dell’Italia” è ormai la ventunesima regione.

* La mobilità interna. Oltre 1 milione di cittadini italiani nel periodo 2014-2024 si sono trasferiti dal Meridione al Centro-Nord, con un saldo negativo per il Mezzogiorno di oltre 500 mila persone.

20 anni di cambiamenti e costanti

Tra il 2006 e il 2024 l’emigrazione italiana è diventata un fenomeno strutturale. Dopo la crisi del 2008, gli espatri sono cresciuti costantemente, toccando nel 2024 il record storico di 155.732 partenze. L’Europa resta il baricentro della mobilità italiana (76% degli espatri), con Regno Unito, Germania e Svizzera in testa. Negli anni però la mobilità si è fatta più circolare e complessa: si parte, si ritorna, si riparte. Accanto ai giovani, tra gli italiani residenti all’estero crescono anche le donne (+115,9% in vent’anni, dati Aire) e gli over 50, spesso nonni o lavoratori che raggiungono figli e nipoti all’estero. Le costanti? Una spinta migratoria legata a fragilità strutturali del Paese e a un sistema bloccato – lavoro precario, disuguaglianze territoriali, riconoscimento del “merito” – ma anche una dimensione di scelta, curiosità e progettualità personale.

La narrazione potente ma insufficiente dei “cervelli in fuga”

“Sappiamo molto di più dell’emigrazione, ma forse sappiamo ancora poco degli italiani nel mondo”, si leggeva nella Presentazione della prima edizione del RIM. Lo speciale del Rapporto 2025, “Oltre la fuga: talenti, cervelli o braccia?” – 22 saggi che abbracciano i cinque Continenti – invita a superare la visione riduttiva e quasi tragica dell’espatrio e della mobilità come mera “perdita, strappo, trauma”. I dati e le testimonianze raccolte poi dimostrano che non partono solo ricercatori/laureati e che, anzi, prevalgono i diplomati. Il filo comune non è la fuga, ma una scelta, alla ricerca di dignità, riconoscimento e mobilità sociale. “Il grande bluff – si legge nel Rapporto – non è tra cervelli o braccia, ma nel non riconoscere che tutti sono talenti”. Non basta trattenerli, né rimpiangerli: serve coinvolgerli nella costruzione di nuove visioni collettive.

Migrazioni interne: l’erosione invisibile del cuore del Paese

La mobilità interna al Paese continua a svuotare il Sud e le aree interne: dal 2014 al 2024, più di 1 milione di persone ha lasciato il Mezzogiorno per il Centro-Nord, contro 587 mila in direzione opposta. I più mobili sono i giovani tra i 20 e i 34 anni (quasi il 50%), seguiti da adulti in età lavorativa. Le province interne e montane pagano il prezzo più alto: perdita di popolazione, chiusura di scuole e servizi, impoverimento sociale. Il RIM descrive così “un’Italia a velocità diverse”, dove le disuguaglianze territoriali alimentano, in un circolo vizioso, tanto l’esodo interno quanto quello verso l’estero: la mobilità interna, infatti, è spesso la prima tappa di un progetto migratorio più ampio, che molte volte arriva oltre confine.

La connessione tra “emigrazione” e “immigrazione”

Il RIM 2025 invita a superare narrazioni riduzioniste e rappresentazioni emergenziali, e anche la distinzione rigida tra “emigrazione” e “immigrazione”, sottolineando come entrambe esprimano la mobilità di persone migranti legate in modi diversi al nostro Paese. Negli ultimi anni si registrano fenomeni articolati: ad esempio, i nuovi italiani sono protagonisti sempre più numerosi di spostamenti, soprattutto verso altri Paesi europei.

Sfide pastorali (non solo politiche): l’integrazione non sia assimilazione

I quattro verbi-guida proposti da papa Francesco per la pastorale migratoria – accogliere, proteggere, promuovere, integrare – vengono applicati, talvolta, anche a contesti non emergenziali, come quello dei migranti italiani. Il rischio è trasformare l’integrazione in assimilazione, imponendo modelli dall’alto. Affinché tutti i migranti diventino effettivamente soggetti attivi di evangelizzazione (Leone XIV l’ha definita missio migrantium), in una logica di reciprocità e crescita comune, i quattro verbi proposti da Francesco dovrebbero essere completati da altri quattro: accogliersi, interpellarsi, valorizzarsi, condividere.

Una nuova italianità: in movimento, transnazionale e plurale

L’Italia fotografata dal RIM 2025 non è più un Paese che “fugge”, ma una nazione che si ridefinisce nei legami, nelle reti e nelle comunità transnazionali. Il Rapporto invita a leggere questa mobilità come una risorsa da ascoltare e valorizzare, non come una ferita da nascondere. «Questa Italia – ha dichiarato S.E. mons. Gian Carlo Perego, presidente della Commissione episcopale per le migrazioni della Conferenza episcopale italiana e della Fondazione Migrantes – non può avere come risposta solo il decreto legge del 28 marzo 2025, convertito nella Legge n. 74 del 23 maggio 2025, che ha introdotto modifiche al principio dello ius sanguinis, limitando la cittadinanza automatica a due generazioni di discendenza, con qualche eccezione. Al contempo, è stato bocciato un referendum sulla riduzione dei tempi della cittadinanza da 10 a 5 anni, anche per il 65% dei bambini nati in Italia da genitori di altre nazionalità e che frequentano le nostre scuole: uno strabismo legislativo». Migr. On 11

 

 

 

 

 

Berlino si riarma in caso di guerra: dalle truppe volontarie ai droni kamikaze

 

Le resistenze del Bundestag alle proposte del ministro Pistorius

La Germania, in linea con gli sforzi di rafforzamento della sicurezza europea e il raggiungimento dei nuovi requisiti fissati dalla Nato, sta lavorando per potenziare le sue forze armate.

L’obiettivo principale è ambizioso: aumentare il numero di soldati attivi dagli attuali 180 mila a 260 mila entro i primi anni del 2030 e dotarsi di droni kamikaze. Ma al Bundestag, il parlamento tedesco, non mancano le proteste.

Il dilemma della leva obbligatoria in Parlamento

Il ministro della Difesa tedesco, Boris Pistorius, ha proposto un nuovo modello per reclutare nuovi soldati negli scorsi mesi. La Germania ha abolito il servizio militare obbligatorio nel 2011 e da allora ha faticato a raggiungere i suoi obiettivi di personale militare. Il nuovo piano, perciò, si basa inizialmente sul reclutamento volontario per incrementare il numero di soldati e riservisti.

Ma il progetto incontra ostacoli nel Bundestag, dove sussistono resistenze da parte dei legislatori, inclusi membri del partito di Pistorius, i socialdemocratici, e alcuni conservatori legati al cancelliere Friedrich Merz. Nonostante le difficoltà, Pistorius si è detto fiducioso che la coalizione di governo riuscirà a trovare un accordo per far entrare in vigore la legge all’inizio dell’anno prossimo.

Convincere i giovani ad arruolarsi

Come ha spiegato alla Reuters, il ministro tedesco intende convincere le giovani generazioni “con motivazioni concrete”. L’importanza di avere un esercito robusto rappresenterebbe un deterrente “contro nazioni come la Russia”. Per questo motivo, ha respinto l’idea di una lotteria per la coscrizione obbligatoria – prevista in passato come strumento per arruolare i giovani del Paese – perché porterebbe “frustrazione” alle nuove generazioni. Il Ministero non intende puntare su soldati “privi di motivazione”, ma su giovani che abbiano il piacere di tutelare la Patria.

Un elemento fondamentale del piano di Pistorius è l’istituzione di test medici universali per i giovani uomini. Questo processo di valutazione medica è ritenuto essenziale per far sì che, in uno scenario di attacco, la Germania possa determinare rapidamente “chi è operativamente in grado di proteggere la Patria e chi non lo è”, evitando perdite di tempo preziose.

La corsa alla tecnologia dei “droni kamikaze”

E non solo soldati. Parallelamente all’aumento del personale, la Germania si sta affrettando per recuperare il ritardo tecnologico, specialmente nel campo degli armamenti e guarda ai droni monouso o “kamikaze”. Questa tecnologia si è dimostrata cruciale nel conflitto in Ucraina, essendo utilizzata intensamente sia dalle forze russe che da quelle di Kiev.

Ma anche l’acquisizione di questi armamenti ha suscitato polemiche in Germania, poiché alcuni politici le associano storicamente alle esecuzioni extragiudiziali mirate compiute dalle forze statunitensi in Afghanistan. Attualmente, il Ministero della Difesa sta portando avanti una fase di test che coinvolge tre diverse aziende e che dovrebbe concludersi entro la fine dell’anno. Solo dopo la fase di prova, ne verrà selezionata una e sarà presentata una proposta di regolamento al parlamento per l’approvvigionamento.

Nonostante alcune indiscrezioni riportate dal Financial Times suggeriscano contratti da circa 300 milioni di euro ciascuno per le start-up della difesa Helsing e Stark, e per il colosso Rheinmetall, Pistorius ha precisato che nessun accordo definitivo è stato ancora raggiunto in merito all’assegnazione dei contratti per i droni.

Eppure, secondo quanto riportato dal quotidiano tedesco Bild, a fine ottobre si è svolto un test segreto con un drone presso il campo di addestramento della Bundeswehr a Münster, la Bassa Sassonia. Alcuni dei presenti avrebbero confermato al Bild che le aziende Helsing e Stark avevano presentato i loro droni in un test pratico, per un totale di 19 voli di prova: 17 da parte di Helsing, 2 da parte di Stark. Durante i test, i droni avrebbero dovuto colpire un bersaglio senza testate nucleari. Mentre tutti i voli di Helsing hanno avuto successo entro i parametri richiesti, il drone di Stark avrebbe mancato il bersaglio due volte, chiedendo alle forze armate tedesche più tempo per ottimizzare ulteriormente i propri sistemi. Secondo le informazioni in possesso del quotidiano, l’azienda Rheinmetall non si è presentata affatto al test, che, secondo gli addetti ai lavori, era stato programmato con largo anticipo.

“Incredibilmente – scrive il Bild -, solo pochi giorni dopo tutti e tre i fornitori hanno ricevuto dal Ministero federale della difesa tedesco l’impegno di fornire droni kamikaze del valore di 300 milioni di euro ciascuno alle forze armate tedesche”.

Le iniziative della Germania, in quanto potenza economica centrale dell’Unione europea, riflettono una crescente consapevolezza della necessità di investimenti significativi nel campo della Difesa, non solo per rispettare gli impegni Nato, ma anche per rafforzare il deterrente complessivo a livello continentale. Il dibattito in corso può essere, quindi, visto come un complesso ingranaggio politico che cerca di modernizzare le difese nazionali: la Germania sta cercando di bilanciare la necessità di nuove truppe volontarie con l’acquisizione di strumenti avanzati e rapidi (i droni kamikaze), affrontando resistenze sia sul fronte del bilancio che su quello etico, in un percorso non privo di ostacoli. adnkronos 3

 

 

 

 

 

Scheda. L’italianizzazione dei tedeschi

 

Quanto gli italiani emigrati in Germania (soprattutto dal dopoguerra in poi) abbiano “italianizzato” la società tedesca: nella mentalità, nella cultura quotidiana, nei costumi? È un tema bellissimo, e in parte poco raccontato, perché spesso si parla solo di “integrazione” degli italiani, non del contrario. In realtà, gli emigranti italiani hanno trasformato profondamente la Germania moderna.

Riassumo in modo chiaro come e quanto è successo.

1. Il contesto storico: chi erano gli italiani in Germania

Tra il 1955 e il 1973, oltre un milione di italiani arrivarono in Germania come Gastarbeiter (lavoratori ospiti).

Provenivano soprattutto dal Sud (Campania, Calabria, Sicilia, Puglia) e dal Veneto.

Lavoravano in fabbriche, miniere, cantieri, ristorazione — e molti si stabilirono definitivamente.

Nacquero così quartieri e comunità italiane, scuole, parrocchie, circoli culturali, e poi ristoranti e gelaterie.

2. Hanno italianizzato la vita quotidiana tedesca. Cibo e socialità

Negli anni ’50-’60 i tedeschi non conoscevano la pizza, gli spaghetti o l’espresso.

Furono gli emigranti italiani ad aprire le prime Pizzerien, Eisdielen (gelaterie) e Ristoranti italiani — che diventarono rapidamente simboli di modernità e convivialità.

Oggi in Germania ci sono più di 20.000 ristoranti italiani: praticamente ogni città ha la sua “Trattoria da Luigi” o “Pizzeria Napoli”.

Parole come Pizza, Spaghetti, Latte macchiato, Pasta, Mozzarella e Cappuccino sono ormai tedesco comune.

In più, gli italiani introdussero un modo di stare a tavola più lento e conviviale — chiacchiere, gesti, vino, musica — che i tedeschi hanno imparato ad apprezzare.

3. Hanno diffuso il temperamento mediterraneo

Gli emigranti italiani portarono calore umano e senso della comunità in una società molto ordinata ma più fredda nei rapporti.

Le feste parrocchiali italiane, le sagre, la musica napoletana e siciliana fecero conoscere un’altra idea di socialità.

Le seconde generazioni italiane (figli degli emigranti) hanno spesso ibridato il modo tedesco con quello mediterraneo: educazione, ma anche spontaneità, estetica, espressività.

Molti tedeschi identificano ancora oggi l’“italianità” con la gioia di vivere — una percezione nata proprio dal contatto con gli emigranti reali, non dai turisti.

4. Hanno contribuito a costruire fisicamente la Germania

Gli italiani furono fondamentali nella ricostruzione postbellica:

fabbriche come la Volkswagen, l’acciaieria di Essen, la rete ferroviaria e edilizia pubblica hanno avuto migliaia di lavoratori italiani.

In molte città (Monaco, Stoccarda, Colonia, Wolfsburg) c’erano veri “villaggi italiani”, dove si sentiva parlare dialetto meridionale e si suonava la fisarmonica dopo il turno.

I tedeschi hanno riconosciuto col tempo il ruolo essenziale di questi lavoratori: senza gli italiani (e poi i turchi), il miracolo economico tedesco non sarebbe stato possibile.

5. L’impatto culturale di seconda generazione

Dagli anni ’80-’90 in poi, i figli degli emigranti italiani hanno iniziato a emergere in musica, sport, politica e università.

Esempi: Giovanni di Lorenzo (direttore del giornale Die Zeit), Roberto Blanco (showman e cantante), numerosi chef e imprenditori italo-tedeschi. Hanno introdotto un modo di pensare più flessibile e creativo, spesso meno rigido delle generazioni tedesche precedenti.

In alcune regioni (come Baden-Württemberg o Baviera), l’identità “italo-tedesca” è ormai parte del paesaggio culturale locale.

In sintesi

Gli emigranti italiani non si sono solo integrati: hanno italianizzato la Germania in modo profondo e duraturo.

Hanno portato: cucina, gestualità e convivialità; musica, arte e linguaggio; una visione più umana e calorosa della vita quotidiana.

Oggi la Germania è un po’ più “mediterranea” anche grazie a loro.

Non solo nei piatti o nelle parole, ma nel modo di stare insieme, di godersi la vita, di aprirsi agli altri.

Giuseppe Tizza, Düsseldorf (de.it.press 9)

 

 

 

 

 

Cgie, riunita a Dortmund la Commissione Europa e Africa del Nord

 

Dortmund – Si è riunita a Dortmund nei giorni 6-8 novembre la Commissione Europa e Africa del Nord del Cgie. L’incontro si è aperto con l’intervento del Vicesegretario Generale per l’Europa e l’Africa del Nord Giuseppe Stabile ha anzitutto espresso soddisfazione per la buona riuscita degli aspetti organizzativi della riunione in Germania. “La città di Dortmund è stata scelta a maggioranza per commemorare i 70 anni degli accordi bilaterali sul lavoro tra Italia e Germania: un passaggio fondamentale della nostra storia migratoria”, ha spiegato Statile motivando pertanto la scelta della località. “In Germania, come in tutto il mondo, gli italiani hanno creato impresa, lavoro e cultura. Hanno imparato, innovato e costruito legami: una ricchezza che è parte del patrimonio dell’Italia perché ciò che gli italiani hanno acquisito all’estero può tornare utile anche al nostro Paese; l’Italia oggi ha bisogno anche di questo ossia di persone che portino esperienza internazionale costruendo ponti tra culture e mercati”, ha aggiunto Stabile auspicando che gli italiani all’estero possano contribuire al proprio Paese d’origine con la possibilità di farvi rientro. Tuttavia Stabile ha precisato che, se l’economia italiana non è solida, anche i servizi all’estero possono essere influenzati negativamente: da quelli consolari a quelli assistenziali e culturali. “Non assistenza ma corresponsabilità; non solo fondi ma anche competenze che tornano”, ha proseguito Stabile definendo la necessità di un rinnovato rapporto che non sia solo memoria del passato ma anche costruzione del futuro. Il Vicesegretario ha inoltre spiegato che il programma della riunione prevede l’analisi di diversi aspetti legati agli italiani all’estero: dalla presenza imprenditoriale ai servizi consolari passando per la riforma Cgie e arrivando all’impatto della nuova legge sulla cittadinanza, alla storia dell’emigrazione e alla partecipazione civica. Ha poi preso la parola il primo Consigliere dell’Ambasciata d’Italia a Berlino, Silvia Santangelo che ha ricordato a sua volta gli accordi tra Italia e Germania, evidenziando l’importanza storica, ma anche attuale, della presenza dei nostri connazionali in questo Paese. “L’apporto della comunità italiana alla ricostruzione della Germania è stato unico: oggi siamo ben 900mila italiani”, ha precisato Santangelo ricordando anche che ci sono oltre 2mila imprese italiane e che molti giovani ricercatori si spostano in questa area usufruendo dello spazio della cittadinanza europea. Dal canto suo la Console d’Italia a Dortumnd Alice Joy Cox, ha sottolineato come solo nella circoscrizione di sua competenza siano presenti circa 70mila iscritti AIRE. “Siete rappresentanti che incarnano la voce della presenza del nostro Paese”, ha rilevato Cox rivolgendosi ai membri del Cgie. Francesco Sordini (Capo dell’ufficio economico dell’Ambasciata d’Italia a Berlino) ha evidenziato come Italia e Germania siano le due maggiori manifatture in Europa: l’interscambio tra le due Nazioni si aggira sui 156 miliardi di euro e la Germania rappresenta il primo mercato di riferimento per l’export italiano per il valore di circa 71 miliardi di euro. Sordini ha inoltre sottolineato il fatto che la Germania viene da due anni di recessione mentre al contrario l’Italia risulta in miglioramento rispetto al passato. Durante i primi sette mesi del 2025 l’interscambio si è attestato sui 95 miliardi di euro, con una crescita delle esportazioni italiane. Sordini ha anche spiegato che la Germania è primo Paese cliente per l’Italia anche nel settore turistico. Dal lato italiano, invece, gli investimenti in territorio tedesco si aggirano sui 56 miliardi di euro. In senso più ampio, valutando la situazione europea nel suo complesso, Sordini ha definito la cooperazione tra i due Paese centrale anche in nell’ottica UE in un periodo difficile per i dazi americani e per i conflitti in corso, primo fra tutti quello tra le vicine Russia e Ucraina. Sordini ha inoltre ha spiegato l’importanza della collaborazione tra Italia e Germania anche dal punto di vista della sicurezza e del contrasto ai reati finanziari. Il Capo Ufficio Economico ha poi illustrato alcune attività portate avanti dall’Ambasciata, come ad esempio nel settore dell’aerospazio, per far conoscere alla Germania quelle eccellenze italiane che sono meno note al grande pubblico tedesco, rilevando come ci siano nuove tendenze da cogliere in maniera integrata in diversi settori, ad esempio nel già menzionato aerospazio, ma anche nel biotech, nella finanza, nell’energia e nei trasporti; tutto questo senza dimenticarsi dei settori tradizionalmente di punta dell’Italia come  l’agroalimentare. Sordini ha parlato della strategia della diplomazia della crescita”, voluta dalla Farnesina per il raggiungimento dei 700 miliardi di export entro la fine dell’attuale legislatura. È stata quindi lanciata l’idea della creazione di uno sportello unico per le imprese. È stato infine ricordato l’appuntamento, che ci sarà a inizio 2026, del vertice intergovernativo italo-tedesco. “Questo è un segno tangibile delle relazioni tra i due Paesi”, ha concluso Sordini. Francesco Dell’Anna (Vicedirettore ICE) ha spiegato che ICE è un’agenzia governativa che si occupa di supportare le piccole e medie imprese italiane nei mercati esteri: quindi un aiuto ai processi di internazionalizzazione per le imprese. L’ICE è presente in 133 Paesi e in Germania ha un ufficio a Berlino. ICE si occupa, quale ‘core business’, di organizzare padiglioni internazionali presso le principali fiere nel mondo. ICE lavora anche per attrarre investimenti esteri verso l’Italia. Dell’Anna ha spiegato che per portare avanti questo lavoro l’ ICE opera a stretto contatto non solo con il MACI ma anche con altri Ministeri che possono essere coinvolti nell’accompagnamento delle imprese e naturalmente con il sistema camerale. “Cerchiamo di promuovere le eccellenze italiane nei settori tradizionali come agroalimentare, moda ed editoria”, ha precisato Dell’Anna menzionando ad esempio la presenza a eventi come la Fiera del Libro di Francoforte. ICE promuove poi le cosiddette startup con l’ausilio di quelli che vengono chiamati acceleratori locali.  Nel corso del dibattito i consiglieri Giangi Cretti (Nomina Governativa)e Massimo Romagnoli (Belgio) sono intervenuti. Cretti ha chiesto il dato relativo agli investimenti tedeschi in Italia e poi ha chiesto su come si possa agire come sistema evitando di essere concorrenziali ma complementari. Sordini ha risposto spiegando che non si hanno i dati aggiornati sull’ammontare degli investimenti tedeschi ma è di circa 96 miliardi di euro il fatturato complessivo delle aziende tedesche in Italia. Sul secondo quesito è stato invece precisato, da Dell’Anna, che ciascuno svolge il proprio ruolo in maniera collaborativa e senza sovrapposizioni: il riferimento naturalmente era al lavoro tra ICE e Camere di Commercio.  Dal canto suo Romagnoli ha sottolineato, in base alla sua esperienza imprenditoriale, che il vero sistema Paese è quello formato da imprenditori che investono, anche senza avere contributi pubblici: un tessuto formato da piccole e medie imprese che incarnano etica del lavoro ed eccellenza italiana. Romagnoli ha rilevato come spesso quest’anima produttiva all’estero sia poco valorizzata dalle istituzioni italiane. Piergiorgio Alotto (Addetto scientifico dell’Ambasciata d’Italia a Berlino) ha parlato del modello che ruota attorno agli addetti scientifici e alla promozione dell’eccellenza scientifica: un qualcosa che fa la differenza rispetto ad altri Paesi che non hanno tale struttura. “Nel campo della ricerca gli italiani sono sempre stati molto bravi”, ha spiegato Alotto ricordando che alcune ricerche possono effettuarsi per ovvie ragioni logistiche solo in grandi centri di ricerca su scala internazionale e qui i ricercatori italiani riescono sempre a ben figurare. Sulla promozione dell’eccellenza italiana in chiave integrata sono stati ricordati alcuni grandi eventi, effettuati con cadenza regolare, come ad esempio la Giornata della ricerca italiana nel mondo, la Giornata nazionale dello spazio o la Giornata del design. In proposito il consigliere Cretti ha chiesto lumi su quanti di questi ricercatori poi rientrino effettivamente; Alotto ha risposto che non ci sarebbero al momento dati numerici certi. E poi intervenuta la Segretaria Generale del Cgie Maria Chiara Prodi che ha spiegato come il valore delle rappresentanze di base vada ricercato nel ruolo di saper trasformare delle energie sparse e stimolarle affinché diventino comunità e poi si istituzionalizzino e facciano sistema. Prodi ha quindi rilanciato il ruolo delle rappresentanze sulla base di una capacità di auto organizzazione e collaborazione bidirezionale. “La realtà che vediamo nei territori permette di trovare soluzioni creative”, ha precisato la Segretaria. E’ stata quindi presentata la piattaforma italo-tedesca Platea 2030, incentrata sul tema della sostenibilità e dell’Agenda 2030. L’iniziativa è stata illustrata da Karoline Rörig, fondatrice dell’Ufficio per il dialogo italo-tedesco e della piattaforma Platea 2030.

Il dibattito è proseguito con una valutazione aggiornata sui servizi consolari. Nel suo intervento il consigliere Giuseppe Scigliano (Svizzera) ha segnalato la problematica del riconoscimento delle procure notarili fra Italia e Germania. Schigliano, dopo aver rilevato il miglioramento dei servizi consolari Germania, ha sottolineato la necessità di aumentare il numero sia degli impiegati consolari, sia della strumentazione portatile atta a rilevare i dati biometrici. Il consigliere ha anche ricordato l’importanza della figura e degli insegnamenti dello scomparso Michele Schiavone.  Dal canto suo Tommaso Conte (Germania)  ha ricordato come il Comitato di Presidenza abbia chiesto la riapertura degli uffici notarili presso i consolati nelle Paesi dove sono stati chiusi. Il consigliere Lugi Billè (Regno Unito) ha rilevato di attendere da tempo una risposta al suo OdG relativo ai servizi del Consolato di Manchester, auspicando l’introduzione di una tempistica nell’acquisizione delle risposte. Anche il consigliere Giovanni D’Angelo ha parlato del Consolato di Manchester auspicando che su questo tema si possano realizzare degli Ordini del Giorno condivisi.  Il Vice Segretario Generale per l’Europa e l’Africa del Nord Giuseppe Stabile ha sottolineato come l’approvazione in prima lettura del provvedimento che consente ai nostri connazionali di acquisire la carta di identità elettronica anche in Italia rappresenti un elemento di soddisfazione sia per il Parlamento che per il Cgie. Sugli OdG in sospeso Stabile ha evidenziato che questi riceveranno una risposta quanto prima. E poi intervenuta la Segretaria Generale del Cgie Maria Chiara Prodi che  ha segnalato la convocazione a Roma per il 18 e 19 novembre prossimi del Comitato di Presidenza del Cgie. Prodi ha inoltre rilevato la necessità sia di accompagnare il processo degli Ordini del Giorno fino all’acquisizione della risposta, sia di fare in modo, che i processi di digitalizzazione, vedi ad esempio la Carta di Identità elettronica, diano risposte concrete ai problemi partici delle persone. Su proposta del Vice Segretario Stabile la Commissione Continentale ha poi approvato alcuni punti in si auspica di dotare i funzionari itineranti e i Consoli Onorari degli strumenti per la rilevazione dei dati biometrici anche per la CIE. Auspicata inoltre la possibilità di consentire alle autorità consolari l’accesso diretto e controllato della banca dati del Ministero dell’Interno per aggiornare i dati anagrafici de nostri connazionali. Manuela Medda (Belgio), si è detta d’accordo con l’dea di riaprire gli uffici notarili presso i consolati e ha segnalato un notevole miglioramento in Belgio nei tempi di attesa per l’erogazione dei servizi consolari. Medda ha anche rilevato l’esigenza di promuovere una specifica campagna informativa sulla scadenza nell’agosto del 2026 delle carte di identità cartacee. Anche il consigliere Carmelo Vaccaro (Svizzera) ha segnalato un miglioramento dei servizi consolari in Svizzera e ha auspicato un ritorno degli uffici notarili presso i consolati.

Il dibattito sulla riforma del Consiglio Generale  

 Durante la riunione della Commissione continentale Europa e Africa del Nord del Cgie, che si sta svolgendo a Dortmund, si è discusso di riforma del Cgie e di modalità di voto per le elezioni dei Comites. Il Vice Segretario per l’Europa e l’Africa del Nord Giuseppe Stabile ha spiegato il problema dello sfasamento temporale tra il mandato dei Comites e quello del Cgie: nel caso di questa consiliatura il Cgie si è insediato a giugno 2023 con i Comites che invece si sono insediati nel dicembre 2021. Ciò significa che la scadenza quinquennale dei Comites è il 2026 mentre per il Cgie sarebbe il 2028. Stabile ha osservato che, se non viene introdotto un nuovo meccanismo preciso, ci si potrebbe trovare anche in futuro nella stessa situazione odierna: ossia dover attendere mesi tra l’elezione dei Comites e la nomina dei consiglieri di nomina governativa del Cgie. Stabile ha precisato che, senza un limite temporale che vincoli la procedura, essa resta esposta a rallentamenti burocratici e valutazioni politiche discrezionali, sempre che non cada un Governo durante il corso della consiliatura e sempre che non ci siano ricorsi. “Si sta parlando di una questione squisitamente giuridica”, ha evidenziato Stabile aggiungendo inoltre che a suo parere, essendo il Cgie un organismo dialogante per sua natura con diversi Ministeri, dovrebbe avere una collocazione in una sede diversa da quella del Ministero degli Esteri. Il consigliere Tommaso Conte (Germania – componente del CdP) ha avanzato l’ipotesi di come dovrebbe essere il Cgie: a cominciare dalla sua statura giuridica, nonché dal rapporto tra eletti e nominati. Secondo Conte dovrebbero esserci meno consiglieri nominati e più consiglieri eletti, senza toccare quindi il numero complessivo dei membri. Per Conte questo nuovo equilibrio aiuterebbe anche a colmare quei vuoti di presenza nell’ambito dell’Assemblea Plenaria di rappresentanti in alcuni Paesi del globo. “Che cos’è il Consiglio Generale e che cos’è un consigliere Cgie?”, si è dunque chiesto Conte sottolineando la necessità di delineare con precisione la figura del consigliere. Conte ha avanzato pertanto la proposta di come si potrebbe trasformare il Cgie, partendo dai due elementi già citati: la natura giuridica e la composizione. Il Consigliere Carmelo Vaccaro (Svizzera) ha ipotizzato a sua volta la riduzione dei consiglieri di nomina governativa, per coprire quelle zone attualmente scoperte, e in più dare una funzione specifica a tali consiglieri. Vaccaro si è anche sottolineato l’eccessivo apporto politico fornito dei consiglieri di nomina governativa.

E poi intervenuto la Segretaria Generale del Cgie Maria Chiara Prodi che ha anzitutto segnalato il suo contributo personale alla realizzazione della nuova edizione del RIM della Fondazione Migrantes in uscita nei prossimi giorni. Prodi ha parlato della possibilità di portare finalmente a compimento un ciclo, con le proposte di riforme fin qui delineate, auspicando anche un ruolo più importante per la Conferenza Stato-Regioni-Province autonome-Cgie. “Non possiamo permetterci un’immobilità”, ha rilevato Prodi vedendo nel 2026 un’occasione di rinnovo dei Comites con tutta l’energia che le comunità italiane nel mondo possono manifestare. “Siamo l’istituzionalizzazione delle comunità e dobbiamo tenerlo a mente”, ha aggiunto la Segretaria Generale sottolineando che, a fronte di circa 7 milioni di iscritti AIRE, non sono poi moltissimi quelli che all’estero hanno una tessera di partito: questo per esaltare la capacità di creare rete e valore nei singoli territori superando una visione centralizzata che parta da Roma. L’invito di Prodi è quello di evitare di subire decisioni altrui anche su una riforma che riscriva la natura giuridica collegiale dell’organismo e dei consiglieri, che sono due aspetti differenti. Secondo Prodi la collegialità è ciò che maggiormente tutela la complessità di ciò che sono gli italiani nel mondo. La Segretaria Generale ha anche aggiunto che essere volontari non è sintomo di ‘amatorialità’ nell’impegno profuso a supporto delle collettività. Per Giuseppe Scigliano (Germania) i consiglieri di nomina governativa dovrebbero riportare quanto espresso dal Cgie a partiti e organizzazioni esterne. Scigliano ha inoltre criticato l’attuale legge elettorale sui Comites. Massimo Romagnoli (Belgio) si è detto contrario al mantenimento dei consiglieri di nomina governativa nel Cgie e ha sottolineato l’esigenza di cambiare la legge sui Comites. Anche il Consigliere Luigi Billè (UK) si è detto d’accordo sull’abolizione delle nomine governative perché, in sostanza, secondo Billè così si potrebbe riuscire a creare un’azione maggiormente territoriale e trasversale, scevra da logiche meramente politiche. Roger Nesti (Svizzera) ha parlato di “un film visto più volte” allorché alla scadenza della consiliatura dei Comites si finisce a parlare sempre di proposte di cambiamenti. “Per questo sono un po’ preoccupato”, ha precisato Nesti evidenziando la necessità di affrontare la vera sfida, cioè di riportare le persone al voto per la rappresentanza di base. “Non sono così categorico sull’eliminazione dei consiglieri di nomina governativa”, ha aggiunto Nesti. Per Giangi Cretti (FUSIE) è importante che il Cgie sia un organismo di rappresentanza territoriale per intercettare le esigenze ed i bisogni delle comunità italiane, ma anche un luogo di rappresentanza di ruoli e competenze. Il consigliere si è inoltre detto aperto a una riflessione riguardante i consiglieri di nomina governativa. Fra gli altri interventi segnaliamo quello di Silvestro Gurrieri (Germania) ha espresso l’esigenza, a fronte di importanti riforme di Comites e Cgie,  di valutare l’opportunità di chiedere al governo di spostare la scadenza delle elezioni dei Comites. Gurrieri ha inoltre auspicato riforme della rappresentanza vere e incisive. Su questo punto Tommaso Conte ha ripreso parola e ha definito tali argomenti molto complessi, in virtù del fatto che le scadenze elettorali dovrebbero sempre essere rispettate. Conte ha anche sollevato perplessità relativamente alle modalità delle attività di raccolta e di validazione delle firme necessarie per presentare le liste per le elezioni dei Comites. “Noi proponiamo le leggi, non le facciamo noi”, ha precisato Conte.

L’approvazione del documento finale

Con l’approvazione del documento finale si sono conclusi a Dortmund i lavori della Commissione Continentale Europa e Africa del Nord del Cgie . Nel testo è stato sottolineato come la Commissione abbia approfondito e dibattuto la situazione dei servizi consolari, l’impatto della riforma della nuova legge sulla cittadinanza, la riforma del Cgie, le modalità di voto per i Comites, e la situazione degli Enti gestori per la promozione della lingua e cultura italiana. La Commissione ha evidenziato come in Germania, alla stregua di molti Paesi europei, sia presente una diffusa rete di piccole e medie imprese locali a titolarità italiana che vanno valorizzate e incluse nelle realtà commerciali e nelle strategie del Sistema Paese. Nel testo si rileva inoltre come la Commissione Continentale ribadisca la richiesta di convocare la conferenza Stato – Regioni – Provincie Autonome -Cgie. Nel dibattito sulla situazione dei servizi consolari, la Commissione ha riconosciuto gli sforzi dell’amministrazione per migliorare i servizi consolari e ha preso atto che in molte sedi sono stati abbattuti in modo significativo i ritardi ed i tempi di attesa. Permangono tuttavia criticità dovute anche alla moltiplicazione dei servizi ed alla costante crescita delle nostre comunità.  Per facilitare e snellire la quantità dei servizi la Commissione ha inoltre proposto di dotare rapidamente funzionari itineranti e consoli onorari delle apparecchiature atte  alla rilevazione dei dati biometrici anche per le Carte d’Identità elettroniche. Viene anche chiesto di consentire alle unità consolari in carriera un accesso diretto e controllato alla banca dati del Ministero dell’Interno allo scopo di poter aggiornare tempestivamente tutte le informazioni anagrafiche, spesso più attuali presso le sedi consolari rispetto a quelle registrate nei sistemi nazionali. La Commissione ha anche ribadito la necessità di ripristinare gli uffici notarili all’interno dei consolati europei. Per quanto riguarda la situazione degli Enti gestori per la promozione della lingua e cultura italiana, su cui è stato approvato uno specifico Ordine del Giorno sugli enti europei, la Commissione ritiene prioritario ridefinire un intervento di promozione dell’italiano all’estero a partire dai bisogni dei destinatari, mettendo al centro gli italo discendenti, nonché attualizzare i Piani Paese coinvolgendo tutti i soggetti del mondo della scuola e tutti gli organi di rappresentanza. Dalla Commissione è stata poi accolta con soddisfazione la circolare del Ministero dell’Istruzione del 4 novembre riguardante l’insegnamento della storia dell’emigrazione italiana nell’anno scolastico 25/26. In questo ambito è stato  proposto il coinvolgimento dei territori per istituire 2 database: uno sui luoghi simbolo dell’emigrazione e un altro per i Comites sulla disponibilità ad intervenire direttamente nelle scuole. La Commissione ha poi accolto con favore la volontà governativa di voler rispettare la data di scadenza della consigliatura dei 5 anni dei Comites attraverso uno stanziamento di fondi per il rinnovo dei Comitati con elezioni da tenersi nel prossimo anno. Nel testo si sottolinea anche come i fondi messi a disposizione non siano sufficienti per garantire modalità di voto che facilitino la più ampia partecipazione dei connazionali. In proposito si auspica l’eliminazione della modalità dell’opzione inversa. E’ stata infine evidenziata la necessità di una riforma strutturale del Cgie. Al termine della seduta la Commissione ha scelto a maggioranza la sede del prossimo incontro continentale che si terrà in Spagna.

Vision Italy, un ponte tra memoria e futuro della nostra comunità in Germania

“Complimenti vivissimi a Gioacchino e a tutto il team organizzatore di Vision Italy, un’iniziativa davvero riuscita che ha saputo coniugare memoria e futuro, dando voce al contributo straordinario degli italiani in Germania e al valore della nostra comunità nel tempo.”

Lo dichiara l’On. Simone Billi (Lega), Presidente del Comitato sugli Italiani nel Mondo della Camera dei Deputati, a margine del “Forum Vision Italy – Memoria e Futuro” organizzato a Dortmund dal Consolato d’Italia.

“Un plauso anche ai giovani Rocco Giordano, Davide e Giuseppe Messina, e Alessandro Muto – aggiunge Billi – esempi concreti di una nuova generazione di italiani all’estero che, con impegno, serietà e spirito di sacrificio, costruiscono il proprio futuro mettendo al centro il lavoro, la famiglia e i valori autentici della nostra comunità. Un ringraziamento particolare alla moderatrice Lucia Conti per la professionalità e la sensibilità con cui ha guidato il confronto, a Silvia Santangelo per la presenza istituzionale in rappresentanza dell’Ambasciata, e alla Console di Dortmund Alice Cox per il costante sostegno alla comunità italiana del territorio.”

“Eventi come questo rafforzano il legame tra le nuove generazioni e la nostra storia comune – conclude Billi – e sono la dimostrazione di quanto le comunità italiane all’estero continuino a essere una risorsa di crescita, cultura e identità per tutto il Paese.” (Inform/dip 8)

 

 

 

 

 

Gli italiani in Europa. L’addio di Vignali. La Continentale Europa del Cgie a Dortmund

 

Con gli Inni nazionali dell’Italia, della Germania e dell’Europa sono iniziati questa mattina a Dortmund i lavori della Commissione continentale Europa – Nord Africa del Consiglio generale degli italiani all’estero.

A presiedere e introdurre i lavori, alla presenza della segretaria generale Maria Chiara Prodi, è stato il vicesegretario Giuseppe Stabile che ha sottolineato l’importanza della presenza dei consiglieri, testimonianza del loro “forte legame comunità nel mondo”, in una città, Dormtund, che, come altre città tedesche, si appresta a commemorare i 70 anni degli accordi bilaterali sul lavoro tra Italia e Germania, un “passaggio fondamentale della storia della nostra emigrazione”.

In Germania così come in un tutto il mondo, ha aggiunto Stabile, “gli italiani hanno creato impresa, lavoro, cultura; hanno imparato, innovato, costruito legami”, creando “una ricchezza che non appartiene solo ai Paesi che li ospitano, ma che fa parte del patrimonio dell’Italia”.

Per questo, ha osservato Stabile, sono importanti le politiche per incentivare il rientro dei connazionali che, ha sottolineato, “non servono solo per riportare fisicamente qualcuno in Italia, ma anche per creare le condizioni affinché chi sceglie di tornare possa mettere a disposizione le sue competenze, i suoi contatti, la rete economica e professionale maturata all’estero, che sia il suo un rientro stabile, o di investimenti, di collaborazione a distanza o un trasferimento di know how”.

L’importante è che “chi è partito”, che rientri o no, “possa contribuire all’Italia grazie al suo percorso nel mondo”. D’altra parte, ha aggiunto, “l’amore per gli italiani all’estero non può tradursi in un modello che si limita a chiedere risorse all’Italia senza creare valore, in un mero assistenzialismo o nell’aspettativa di contributi unilaterali”. A fronte di una difficile situazione economica, ha affermato Stabile, “anche i servizi per gli italiani all’estero sono destinati a diminuire, che siano servizi consolari, educativi, assistenziali”, per questo “la corresponsabilità è un’esigenza concreata” perché “sostenere l’Italia significa continuare a sostenere anche le sue comunità nel mondo”.

“Non assistenza, ma corresponsabilità”, ha ribadito concludendo il vicesegretario. “Non solo fondi, ma anche idee, investimenti, competenze che tornano al Paese”.

Presenti ai lavori anche la consigliera d’ambasciata Silvia Maria Lucia Santangelo (Ufficio Affari Sociali e Coordinamento Consolare) e la Console a Dortmund Alice Joy Cox.

Santangelo ha portato ai consiglieri il saluto dell’ambasciatore Bucci. La sua presenza, ha evidenziato, testimonia “l’attenzione dell’ambasciata segue la comunità italiana in Germania. Significativa – ha aggiunto – la scelta della Germania per questo incontro”. Nel 1955, ha ricordato, Italia e Germania firmarono l’accordo sul lavoro: due Paesi “entrambi distrutti dalla II Guerra Mondiale, capaci di risollevarsi. L’apporto degli italiani alla ricostruzione della Germania è stato unico e non va dimenticato, così come non va dimenticata la presenza italiana oggi: 900mila connazionali fanno di quella in terra tedesca la comunità italiana più numerosa al mondo”. Una comunità “molto differenziata”, che comprende “oltre 2mila imprese in Germania e 5mila ricercatori”. Oggi “molti giovani italiani, che si spostano da un Paese all’altro si muovono in uno spazio di cittadinanza europea”. A questa collettività l’Ambasciata è vicina così come lo è “alle istituzioni espressioni della comunità, come il Cgie”.

Nella numerosa comunità italiana in Germania, “vasta e dinamica” è quella residente a Dortmund, dove gli Aire sono 70mila, mentre oltre 200mila sono quelli residenti nel Nord Reno Westfalia. Numeri ricordati dalla Console Cox che ha definito il Cgie un “pilastro fondamentale di consultazione e raccordo tra gli italiani all’estero e l’Italia”. Voi, ha detto ai consiglieri, “incarnate la voce dei connazionali”.

In procinto di lasciare la Direzione generale per gli italiani all’estero della Farnesina, Luigi Maria Vignali è intervenuto questo pomeriggio, in videoconferenza, ai lavori della Commissione continentale Europa Nord Africa del Consiglio generale degli italiani all’estero, riunita da oggi 6 novembre a Dortmund.

Se il saluto ufficiale al Cgie avverrà al prossimo Comitato di Presidenza del 18 e 19 novembre alla Farnesina, oggi Vignali ha tenuto a sottolineare l’importanza del ruolo degli italiani in Europa – area dove risiede la maggioranza degli iscritti Aire – dove convivono vecchi emigrati e nuove mobilità. “C’è davvero uno scambio fecondo di idee e prospettive”, ha osservato, prima di definire l’Europa “un contenitore di idee per gli italiani all’estero”, area da cui “ci sono giunti tanti stimoli e proposte di innovazione”, come il voto per corrispondenza per i temporaneamente all’estero o alcune sperimentazioni del voto elettronico, senza dimenticare “alcuni tra i più interessanti progetti finanziati ai Comites”, così come “l’idea di Michele Schiavone, fortemente sostenuta dalla segretaria generale Prodi dell’Europa in movimento”, segno della “capacità della nostra presenza in Europa di interfacciarsi con altre mobilità europee”.

Tra pochi giorni nuovo Rappresentate permanente presso le Organizzazioni Internazionali a Ginevra, oltre che inviato speciale per i detenuti italiani in Venezuela, Vignali lascia la Dgit alla vigilia di novità e appuntamenti importanti: dalla riforma della Farnesina all’aggiornamento di Fast it, senza dimenticare il referendum costituzionale né le elezioni dei Comites, entrambe programmate nel 2026.

Il voto. “Sicuramente nel 2026 ci sarà il referendum confermativo sulla riforma della giustizia: la rete consolare viene coinvolta e molto stressata da queste occasioni elettorali, evidentemente importanti, perchè distolgono risorse da altro. E di risultati attesi ce ne sono, basti pensare alla diffusione della Cie. Il voto è un esercizio dovuto, democratico, ma rischia di rallentare i servizi in Europa e altrove. Pensare che in concomitanza, o a pochi mesi dal referendum, dovrebbero tenersi anche le elezioni dei Comites, non nascondo che ci saranno difficoltà per la rete, bisogna esserne consapevoli. Due elezioni in un anno rappresenterebbero un ostacolo al pieno dispiegamento delle energie della rete consolari. Bisogna prepararsi per tempo, con risorse adeguate e vedere eventuali accorgimenti per ridurne al massimo l’impatto”.

I servizi consolari. “Alcune sedi consolari in Europa continuano ad essere in difficoltà nel fornire i servizi: abbiamo segnalazioni da Paesi con una grande presenza di italiani e alla luce della moltiplicazione dei servizi. Grazie ai rafforzamenti che avremo dalla Direzione generale per le Risorse avremo nuove assunzioni per mandare più personale all’estero, ma non è un momento semplicissimo per la rete”.

Comites. “Tranne qualche caso problematico, stanno lavorando bene, hanno presentato progetti che abbiamo finanziato. Potranno essere accolte se ben motivate anche eventuali richieste di integrazioni: invito i Comites in difficoltà finanziaria a segnalarla a noi e alla Ambasciata o Consolato di riferimento per avere un contributo straordinario”.

La riforma della Farnesina. “La Dgit è attesa da un momento di riforma importante, che mira a sempre più a digitalizzare i servizi e che prevede anche il “ritorno” degli enti gestori e delle scuole italiane all’estero tra le sue competenze. Ciò comporterà un’incombenza maggiore del passato per la quale bisognerà prepararsi, ma credo sia una buona soluzione. Tra l’altro l’avevo favorita anche su vostra richiesta”.

La cittadinanza. “Non riscontriamo difficoltà in Europa, mentre ci sono in altre aree del mondo. Abbiamo richiamato tutta la rete su questo aspetto: la scadenza per presentare domanda di riconoscimento dei figli diretti è maggio 26 come sapete”.

La Cie. “Lavoriamo a un piano di lavoro per il recupero delle Carte di identità cartacee per rilasciare Cie o passaporto ai cittadini solo italiani che hanno solo la cartacea. I cittadini solo italiani con la sola carta cartacea sono 250mila nel mondo e la maggior parte risiede in Europa”.

Proprio la Cie e il voto dei Comites sono stati al centro degli interventi dei consiglieri.

Il vicesegretario d’area Giuseppe Stabile ha riportato al DG l’auspicio della Commissione sia circa la possibilità di dotare i funzionari itinerante e i consoli onorari delle macchinette per i dati biometrici per il rilascio delle Cie; che per l’accesso del Maeci alla banca dati del Viminale.

Sul primo punto, gli ha risposto Vignali, “c’è qualche rallentamento che non ci aspettavamo: c’è un problema legato all’adeguamento informatico” ma anche alcune “perplessità del Viminale per la conservazione dei dati”. Quanto all’allineamento dei dati tra schedari consolari e Anagrafe della popolazione residente (Anpr) “stiamo realizzando gli applicativi informatici”. L’obiettivo è fissato ai primi mesi 2026.

Con Vignali chiamato ad altri incarichi, la segretaria generale Maria Chiara Prodi ha auspicato un passaggio di consegne “coordinato” per non sacrificare gli ordini del giorno approvati nelle plenarie, di cui si farà il punto al Cdp del 18 e 19 novembre.

Quello, ha convenuto Vignali, “sarà l’ultima occasione per salutarci” anche se, ha aggiunto, “rimango in Europa, in un paese, la Svizzera, dove c’è un’importantissima collettività. Avremo modo di interagire. Le collettività in Europa hanno dato molto al mondo dell’emigrazione”, è sempre stata una “realtà all’avanguardia, giustamente critica su problemi e difficoltà”, con una “postura dialogante sempre presente e attiva”.

Vignali si è detto “contento” di aver “visitato tutte le sedi consolari nel continente” e di potersi “confrontare con tutte le collettività”.

“Ovunque ho trovato capacità di guardare al futuro e di non ripiegarsi semplicemente sulla storia dell’emigrazione, cercando di prevederne gli sviluppi e spazi nuovi. Bravi davvero”.

Tornando al voto, Vignali ha ribadito di vedere con preoccupazione due elezioni nel 2026: “se ci fosse una convergenza perché queste elezioni possano essere differite se ne avvantaggerebbero tutti. È stato fatto in passato, potrebbe essere ripetuto. È una decisione del Parlamento, ma il Cgie sa farsi sentire”.

Quanto alle risorse già stanziate in questa legge di bilancio - 14 milioni per le elezioni di Comites e Cgie – Vignali ha spiegato che non c’è stata consultazione con la Dgit ma che “l’ufficio legislativo della Farnesina ha previsto lo stanziamento perchè rispetta una previsione di legge, non poteva non farlo in assenza di rinvio. Ma questo non vuol dire che non possano intervenire altre valutazioni. Votare poco dopo dicembre cambia molto nella preparazione del voto. Quanto ai 14 milioni, lo Stato li recupera e li verserà l’anno prossimo”.

Differire il voto è al centro del dibattito della Commissione, ha ricordato Stabile che in questa occasione ha pure ricordato che la consiliatura del Cgie non è allineata con quella dei Comites, visto che il Consiglio generale si è insediato con un anno e mezzo di ritardo.

Quanto alla riforma della Farnesina e al nuovo nome della Dgit – che diventerà Direzione generale per i servizi ai cittadini all'estero e le politiche migratorie – rispondendo a Giangi Cretti (Svizzera) Vignali ha sostenuto che “c’è reale intento di favorire i servizi ai cittadini. C’è sicuramente un aspetto di immagine e di comunicazione ma dietro la ridenominazione c’è un intento politico molto forte del Ministro che anche in questa riforma ha voluto definire la DG “al servizio” degli italiani. Sicuramente nei prossimi mesi ci saranno risultati importanti sul fronte del miglioramento dei servizi: verrà ridenominato il portale Fast it, ci sarà l’accessibilità dell’Anpr, tornerà competente per enti gestori e scuole. Tutto questo dimostra che vogliamo essere vicini alla società civile con servizi sempre più veloci e migliori”.

“A tutti i presenti dall’Europa, teniamoci in contatto”, ha concluso Vignali. “Sono stato colpito da questa lunga esperienza con gli italiani all’estero e sono disponibile, se ce ne fosse il bisogno, per consigli o ce ne fosse la necessità”.

Si è parlato anche di cittadinanza durante la prima parte dei lavori della Continentale Europa - Nord Africa. Silvia Maria Lucia Santangelo, Capo dell’ufficio Affari sociali dell’Ambasciata italiana a Berlino, ha riportato, in particolare, la situazione in Germania alla luce delle novità introdotte dalla riforma entrata in vigore lo scorso maggio.

La materia è “complessa”, ha premesso Santangelo, che ha definito il limite alla trasmissione della cittadinanza introdotto dalla legge come una “clausola ghigliottina”. Una misura “presa perché in 10 anni il numero degli italiani nati all’estero è aumentato del 40%”, cifra che ha fatto stimare “tra i 60 e gli 80 milioni” i riconoscimenti possibili. Certo, ha aggiunto, “questo discorso in Europa è più complicato da comprendere” perché “noi siamo vicini all’Italia, torniamo spesso, è più facile mantenere saldi i legami”, a differenza di chi “ha lasciato l’Italia secoli fa e la cui discendenza ha perso ogni legame con il Paese negli corso degli anni”.

La legge, ha ricordato, prevede “finestre temporali che danno la possibilità di fare domanda di cittadinanza per figli nati all’estero o di richiederla per chi l’ha persa”, un caso quest’ultimo “molto sentito” in Germania dove fino a poco tempo fa non era possibile avere doppia cittadinanza.

Ma qual è stato l’impatto della legge sui consolati? In Germania, ha spiegato Santangelo, “c’è stata una fase di grande incertezza tra la comunità nel mese di aprile”, quando cioè è stato approvato il decreto dal Consiglio dei Ministri. Una fase caratterizzata da una “comunicazione non accurata”. Dopo la conversione in legge del decreto, “sono state affinate le informazioni che abbiamo veicolato via social. Molte le richieste di chiarimenti ricevute questa estate”, ma in Germania “le domande di cittadinanza, secondo le finestre temporali offerte, sono davvero poche”. Solo Monaco di Baviera ha qualche domanda in più rispetto alle altre sedi, ha informato l’esponente dell’Ambasciata. “Anche i casi di rifiuto sono limitati”.

La legge, ha precisato, “ha inciso tanto sui cittadini extracomunitari diventati italiani: persone che avevano altre cittadinanze, hanno vissuto in Italia, ottenuto la cittadinanza e poi si sono traferite in Germania. Il problema nasce perché i loro figli non hanno vissuto almeno due anni in Italia come richiesto dalla nuova legge, e quindi non sono automaticamente italiani”. Per questo ai consolati “giungono richieste di chiarimenti da parte delle autorità tedesche, perché questi cittadini chiedono il permesso di soggiorno per i loro figli e le autorità tedesche sostengono che non è necessario, “perché sono italiani” pensano, e invece così non è”.

“Ogni singolo caso presentato richiede un’attenzione e un vaglio molto più preciso rispetto a prima”, ha concluso Santangelo. “Quindi c’è un rallentamento delle procedure”.

Il problema principale, per Carmelo Vaccaro (Svizzera), è “l’interpretazione della legge”. Si tratta di una norma che contiene “aspetti problematici e iniqui, ma anche opportunità”, ha aggiunto il consigliere che ha riferito di aver studiato il testo con un team di avvocati e chiesto un parere formale alla Dgit ricevendo risposta da Matteo Branciforte, Vice Direttore Generale alla Dgit.

Il punto, ha spiegato Vaccaro, è informare “i cittadini naturalizzati in Paesi extra Ue della possibilità per i loro figli di fare richiesta di cittadinanza ex articoli 1 bis e 1 ter della nuova legge”. La rete consolare ha “il dovere di informarli. Per questo ringrazio al Console generale a Ginevra Nicoletta Piccirillo che ha pubblicato sul sito della sede queste informazioni chiare ed esaustive”.

Informazioni, hanno osservato altri consiglieri, che sono su tutti i siti dei Consolati; ma non così esaustive e puntuali, ha ribattuto Vaccaro, che ha quindi riportato il suo caso personale all’assemblea: “sono emigrato in Svizzera a 20 anni, ho tre figli tutti nati italiani, ma naturalizzati svizzeri: loro possono trasmettere cittadinanza ai loro figli? Secondo il parere inviatomi dal vicedirettore Branciforte sì, possono richiedere la cittadinanza per beneficio di legge per i loro figli perché loro sono nati italiani. Questo dobbiamo spiegare ai connazionali”. Le difficoltà interpretative e di applicazione ruotano tutte intorno all’avverbio “esclusivamente”: i nati all’estero – dice la nuova legge – possono richiedere la cittadinanza se uno dei genitori o dei nonni possedeva esclusivamente la cittadinanza italiana.

Ma come si fa a stabilirlo? In Germania, ha spiegato Santangelo, usano i certificati di residenza. “La legge va letta in combinato disposto con quella sui servizi consolari che all’articolo 10 dispone che i Consolati valutino il valore probatorio della documentazione prodotta dallo Stato terzo. Come faccio a sapere se un ipotetico signor Luigi è solo italiano? In parte grazie al certificato di residenza che chiediamo alle autorità tedesche, dove viene riportata la sua cittadinanza. Ma se Luigi prima di venire in Germania ha vissuto a Londra e ha preso la cittadinanza senza dichiararlo? I nostri strumenti probatori sono limitati”, ha ammesso Santangelo. “Il nostro compito è capire come accertare i fatti senza paralizzare la macchina”.

Una macchina che a breve sarà guidata da Roma e non più all’estero: la riforma dei servizi consolari toglie la trattazione delle pratiche di cittadinanza ai consolati per affidarla ad un ufficio centralizzato a Roma. Questo ufficio, che doveva essere operativo già a gennaio 2026, lo sarà nel 2028.

A pochi mesi dall’entrata in vigore della legge tante sono ancora le incertezze: per questo, è stato sottolineato da più parti, è fondamentale dare informazioni chiare e “univoche”. In prima linea la rete diplomatica, ma devono contribuire anche Cgie, Comites e tutta la rete associativa.

Servizi consolari migliorati quasi ovunque in Europa: a confermarlo sono i consiglieri del Cgie riuniti da questa mattina a Dortmund nella Commissione Continentale Europa Nord Africa. Confermato l’abbattimento dei tempi per avere un documento – Cie e passaporto su tutti – il Consiglio generale continua ad avanzare proposte per migliorare sempre di più la vita agli italiani all’estero, senza dimenticare le criticità aperte in Europa, una su tutte quella delle procure. Al centro del dibattito anche la trattazione degli ordini del giorno presentati dai consiglieri nelle plenarie che per troppo tempo rimangono senza risposta.

A sollevare la questione-procure è Giuseppe Scigliano, che ha spiegato ai colleghi le difficoltà che incontrano gli italiani in Germania perché “i notai italiani non accettano le procure dei colleghi tedeschi”. Nell’Ue “c’è reciprocità, ma solo sulla carta” ha detto il consigliere prima di spiegare la differenza tra procura pubblica e privata (sul sito notar.de, ha comunicato il presidente del Comites di Dortmund, Gioacchino Di Vita, c’è la lista dei notai tedeschi che parlano in italiano) e che le difficoltà che nascono dal fatto che quella tedesca è impostata in modo diverso da quella italiana. L’Ue “dica come si deve fare una procura valida per tutti i Paesi”, ha aggiunto, sostenendo infine che, in ogni caso, la soluzione è riportare la materia sotto la competenza consolare, come affermato anche da Carmelo Vaccaro (Svizzera).

Una via, gli ha risposto Tommaso Conte (Germania), seguita dal Comitato di Presidenza che proprio il mese scorso ha dato un parere richiesto dalla Direzione generale per gli italiani all’estero sulla chiusura degli uffici notarili nelle sedi all’estero: “alla Dgit abbiamo risposto che non solo non devono chiuderli, ma che dovrebbero riaprirli anche dove sono stati già chiusi”. Senza dimenticare che, come ricordato da Eleonora Medda (Belgio) per i consolati i servizi notarili rappresentavano “un introito importante”.

La questione, ha osservato la segretaria generale Maria Chiara Prodi, può essere discussa anche nell’ambito di “Europa in movimento” per tentare di “risolvere inghippi pratici anche in orizzonte europeo”.

Sui servizi consolari, sia Conte che Scigliano hanno confermato che in Germania “sono migliorati” con tempi “abbreviati” e “poche lamentele”, anche grazie a nuove assunzioni.

Così non è a Manchester dove, ha detto Luigi Billè (Uk), ci vogliono otto mesi per un passaporto. Una situazione che però migliorata, ha aggiunto Giovanni D’Angelo (Uk): “ho incontrato il Console la scorsa settimana: c’è l’assunzione di 5 nuovi addetti che attendono solo il placet del Ministero, e un altro sarà assunto a breve. C’è poi il lavoro extra del sabato mattina per evadere le pratiche-passaporti”.

La questione – Manchester, ha ricordato Billè, è al centro di suoi diversi ordini del giorno presentati nelle plenarie 2024 e 2025: “il Comitato di Presidenza dovrebbe sollecitare le risposte”, ha affermato.

Il tema, ha informato la segretaria generale Prodi, sarà trattato nel prossimo Cdp in programma a Roma il 18 e 19 novembre: “in quella occasione faremo il punto con il Dg Vignali, che si appresta a lasciare il suo incarico, sulla lista degli odg ancora attivi”.

Nessuno degli odg, ha assicurato il vicesegretario d’area Giuseppe Stabile, “è stato archiviato né dimenticato”.

Divenuto realtà il rilascio della Carta di identità elettronica anche agli Aire nei Comuni di residenza, il servizio potrebbe ancora migliorare all’estero, anche in vista della scadenza del 3 agosto 2026: in quella data le carte di identità cartacee non saranno più valide.

Per Stabile, la rete onoraria dovrebbe avere a disposizione le macchinette per i dati biometrici anche per le Cie. Per farlo, ha aggiunto Billè, “si deve risolvere il conflitto tra Farnesina e Viminale sull’utilizzo di macchinette diverse per Cie e passaporti”.

La necessità di provvedere alla Cie anche nelle “missioni itineranti” è stata sottolineata anche da Nicola Carmignani (Francia), mentre Eleonora Medda (Belgio) ha richiamato l’esigenza di una adeguata campagna informativa sulla scadenza del 3 agosto 26.

Il vicesegretario Stabile ha quindi proposto ai colleghi di inserire nel documento finale dei lavori l’auspicio della Continentale affichè si “dotino rapidamente i funzionari itineranti e i consoli onorari di macchinette per i dati biometrici per il rilascio della Cie”; e che “venga consentito alle autorità consolari di carriera l’accesso diretto e controllato alla Banca dati del Ministero dell’Interno per aggiornare le informazioni anagrafiche dei connazionali all’estero, che i consolati hanno più aggiornate rispetto al Viminale”. Entrambe le proposte sono state accolte all’unanimità dai consiglieri. (m.cipollone, aise/dip 6) 

 

 

 

 

 

 

Camaleonti

 

In zoologia, i Camaleonti fanno parte della famiglia dei Sauri. Hanno la capacità di mutare il loro colore, adattandosi all’ambiente, e si nutrono d’insetti tramite la loro lingua lunga e vischiosa.  Ciò è quanto si può desumere da un qualsiasi testo di scienze naturali. Questo preambolo a noi serve, invece, per inquadrare certi nostri politici che da “camaleonti” si comportano. Da noi, questi “camaleonti” sono una specie ben lontana dall’estinzione. Questa fitta schiera cambia di livrea politica seconda le necessità. Cosi anche certi amministratori sono in grado di cambiare colore di partito.

        

Riescono, per di più, a inserirsi in formazioni politiche per il passato impensabili. Se per i “Camaleonti” veri il trasformismo è utile per la sopravvivenza, stesso aspetto può essere ravvisato tra quelli della politica. Si “cambia” calore per ritrovare potere. Il mutamento non sempre riesce, ma provare non costa nulla. Molto più apprezzabile sarebbe il politico che, ceffato il programma, dichiara le sue dimissioni e si ritira a vita privata. Lo scriviamo, anche se siamo persuasi che sia una pia illusione.

 

Così, a dispetto del “bisticcio” politico, i “camaleonti" ci sono sempre. Sia quelli che hanno cambiato “colore”, sia quelli che ci "proveranno”.

Giorgio Brignola, de.it.press

 

 

 

 

 

Brevi di politica e cronaca tedesca

 

Riforma delle pensioni: scontro tra Merz e i giovani della CDU

Durante la 'Giornata del Lutto Nazionale', il cancelliere tedesco Friedrich Merz ha partecipato ad un incontro della Junge Union, l’ala giovanile della CDU, a Rust, sottolineando l’importanza dell’Europa e dichiarando la sua netta distanza dall’AfD: “L'Ue prende le distanze anche da tutti coloro che credono di poter garantire la sicurezza e la prosperità del proprio popolo con mercati chiusi". "Se lasciamo che siano i nazionalisti a dare forma a questa Europa e fondamentalmente l'abbandoniamo, un giorno dovremo dirci che abbiamo fallito la storia". Tuttavia, il tono del discorso non ha evitato il contrasto con i giovani del partito sulla riforma pensionistica.

Merz ha confermato il suo sostegno al pacchetto pensioni, definendolo coerente con gli accordi di coalizione e necessario per il futuro dello Stato sociale. La Junge Union, invece, critica l’aumento dei costi previsto tra il 2032 e il 2040, ritenendolo superiore a quanto concordato, e ribadisce il suo voto contrario.

Con 18 voti contrari della Junge Union e una maggioranza di coalizione di soli 12 voti, il rischio che la legge non passi appare oggi concreto, aprendo la possibilità a una nuova crisi di governo in Germania. Pascal Reddig, presidente della Junge Union al Bundestag, ha chiarito inequivocabilmente che il gruppo manterrà il suo No al pacchetto pensioni: "Potete contarci: noi resteremo fermi su questo tema", ha concluso.

 

Commemorazione del crollo del muro di Berlino: il Presidente Steinmeier difende la democrazia

In occasione della celebrazione del crollo del Muro di Berlino, lo scorso 9 novembre, Steinmeier nel suo discorso tenuto nel Castello di Bellevue, sua residenza ufficiale a Berlino, senza mai citare direttamente il partito di estrema  destra AfD, ha dichiarato: "Non deve esserci alcuna cooperazione politica con gli estremisti. Né al governo né in parlamento". Il Presidente ha inoltre affrontato il nodo della messa al bando del partito, tema che torna a dividere e a far discutere il Paese: "Se questo sia un mezzo adeguato è una discussione politica, che va affrontata e sarà affrontata in Germania. Va verificato se ci siano i presupposti, ma non possiamo assolutamente restare con le mani in mano, aspettando che la questione sia chiarita", ha aggiunto il Presidente. E ancora: "A tutela della propria integrità, la nostra Costituzione prevede la possibilità di vietare associazioni e gruppi, escludere partiti dal finanziamento statale e persino vietarli completamente qualora si oppongano in modo aggressivo e combattivo al nostro ordinamento liberale e democratico".

Il capo dello Stato tedesco ha infine ricordato che "in questi giorni, i gruppi di estrema destra reagiscono istintivamente a questo tema gridando: 'È antidemocratico!'. A questo posso solo rispondere: avete voi stessi il potere di decidere! - ha incalzato - Attaccano la nostra Costituzione, si oppongono ad essa, vogliono un altro sistema non liberale? La risposta della nostra Costituzione è chiara: un partito che intraprende la strada dell'aggressiva ostilità verso la Costituzione deve sempre mettere in conto la possibilità di essere vietato".

 

A 80 anni dalla guerra, Mattarella al Bundestag: "Nuovi dottor Stranamore all'orizzonte"

Il Presidente Sergio Mattarella è intervenuto al Bundestag lo scorso 15 novembre alla cerimonia del "Premio dei Presidenti per la cooperazione comunale tra Italia e Germania" insieme al Presidente della Repubblica Federale di Germania, Frank-Walter Steinmeier, nel giorno che coincideva con la "Giornata del lutto nazionale" tedesco. Il riconoscimento è stato istituito nel 2020 per volontà degli stessi Mattarella e Steinmeier, per valorizzare e sostenere lo sviluppo di forme innovative di gemellaggio; vede premiate città e Comuni tedeschi e italiani uniti da accordi di gemellaggio o di partenariato che presentano progetti impegnati a promuovere prospettive condivise attraverso gli scambi reciproci, in particolare nei settori giovani e dialogo intergenerazionale, impegno civico, Europa e cultura della memoria, sostenibilità e coesione sociale.

Nel corso del suo intervento Mattarella ha ricordato: "La pace non è frutto di rassegnazione di fronte alle grandi tragedie. Ma di iniziative coraggiose, di uomini coraggiosi. In questi decenni nella comunità internazionale tanti attori - e tra essi l'Unione Europea - con ostinazione e non senza fatica, hanno perseguito la pace, che si nutre del rispetto dei diritti umani fondamentali". Ha continuato ancora Mattarella: "Perché, se vuoi la pace, devi costruirla e preservarla. La cooperazione tra Stati, istituzioni, popoli è la sola misura che può proteggere la dignità umana. Sono le istituzioni multilaterali come le Nazioni Unite, la Corte Penale Internazionale, le missioni di pace, le agenzie umanitarie a concorrere alla impegnativa e affascinante fatica della costruzione di una coscienza globale". Ha poi aggiunto: "Il multilateralismo non è burocrazia, come asseriscono i prepotenti: è l'utensile che raffredda le divergenze e ne consente soluzione pacifica; è il linguaggio della responsabilità comune.

 

Il ministro dell'Interno Dobrindt presenta al Bundestag il piano contro le minacce ibride

Il Consiglio di sicurezza nazionale di recente istituzione si è riunito per la prima volta lo scorso 6 novembre per adottare un piano d'azione contro la minaccia ibrida e poter reagire ai recenti attacchi di droni russi. Il piano include anche la protezione delle infrastrutture critiche come ha affermato il ministro dell'Interno Alexander Dobrindt nel corso delle dichiarazioni rese al Bundestag per presentare il piano adottato dal governo. Si tratta infatti della necessaria protezione fisica delle infrastrutture strategiche perchè come ha ricordato il ministro Dobrindt: "Le infrastrutture critiche devono diventare a prova di crisi: questo è il compito di questo piano. Il governo federale è sinonimo di protezione anziché di debolezza. È sinonimo di forza anziché di immobilismo e di fiducia anziché di vulnerabilità.

"Questo è ciò che CDU/CSU e SPD hanno concordato insieme. Il nostro compito è proteggere le infrastrutture critiche e difenderci dalle minacce ibride" e aggiunge il ministro nel corso del suo intervento: "La situazione è chiara: il cambiamento epocale non riguarda solo la sicurezza esterna. Questo cambiamento epocale deve avvenire anche nella sicurezza interna. Abbiamo bisogno di maggiore protezione interna. Abbiamo bisogno di una protezione civile più forte. Il cambiamento epocale è arrivato nella sicurezza interna. Si tratta di rafforzare le forze di sicurezza. Si tratta di proteggere le infrastrutture. E si tratta di aumentare le risorse di bilancio. Anche questo noi lo faremo. Ma non bisogna farsi illusioni. La sicurezza non è uno stato garantito. È un compito costante".

 

Conferenza del Clima a Belém: il discorso del Cancelliere Merz

A Belém, in occasione del World Climate Leaders Summit il 7 novembre 2025, il Cancelliere tedesco Friedrich Merz ha ribadito come la lotta al cambiamento climatico non possa essere “considerata in modo isolato”, richiamando la necessità di tenere insieme tutela del clima, competitività economica e sicurezza globale. Il discorso è arrivato all’indomani dell’accordo europeo sugli obiettivi climatici al 2035 e 2040, un passo che il Cancelliere ha definito “un chiaro segnale di progresso” in vista del negoziato internazionale.

Merz ha parlato di un “bivio storico”, dieci anni dopo l’Accordo di Parigi, nel quale la Germania sceglie convintamente la via dell’innovazione tecnologica per coniugare crescita e sostenibilità. Tra i temi centrali, la protezione della foresta pluviale amazzonica, definita “uno dei più importanti serbatoi di carbonio al mondo”. Berlino sosterrà il nuovo fondo Tropical Forest Forever Facility, anche finanziariamente.

Il Cancelliere ha poi richiamato il ruolo delle tecnologie avanzate, dal carbon capture — già normato dal Bundestag — al Cleantech tedesco, che rappresenta oltre l’8% delle esportazioni. “Solo un approccio aperto alle tecnologie e basato sui segnali di mercato, come il prezzo della CO?, può guidare la trasformazione”, ha affermato Merz, delineando una strategia in cui ambiente ed economia procedono finalmente nella stessa direzione.

 

Dalla KAS Italia: Italia e Germania: nuove opportunità di cooperazione

Giovedì 20 novembre la Fondazione Konrad Adenauer, insieme a ISPI e META Italia, ha ospitato una tavola rotonda sul Piano d'azione tra Italia e Germania. All’incontro hanno partecipato l’ambasciatore tedesco in Italia Dr. Thomas Bagger, il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso, il consigliere economico dell’ambasciata USA Stephen Anderson e rappresentanti di politica e imprese, confrontandosi su opportunità economiche e strategie comuni tra i due Paesi.

Riforma delle pensioni in Germania: un test per un nuovo patto intergenerazionale

La questione pensionistica si è trasformata in un banco di prova per l’esecutivo di Merz. La soluzione che uscirà dal confronto parlamentare testerà la capacità della CDU/CSU di governare compromessi difficili senza perdere la propria coesione interna, rispondendo alla domanda chiave: come la Germania immagina la sua solidarietà intergenerazionale per i decenni a venire. Il cuore della proposta di governo è la stabilizzazione del livello pensionistico – una «linea di salvaguardia» che assicura un livello minimo delle pensioni fino al 2031. Una misura di tutela per chi ha versato una vita di contributi e una risposta all’insicurezza sociale dopo anni di ritardi e incertezze legate al cancellierato Scholz.

La CDU/CSU si è schierata pubblicamente a difesa di questa impostazione. Il partito parla di responsabilità verso i pensionati e di necessità di «verificare che il lavoro paghi anche nell’età avanzata», presentando la proroga della soglia al 48% come un elemento di stabilità e di rispetto per la «prestazione di una vita» nel tentativo di coniugare il messaggio tradizionale di ordine sociale con l’esigenza di rassicurare gli elettori anziani che la loro terza età non sarà consegnata all’incertezza.

Ma anche all’interno della CDU/CSU non mancano le perplessità: una corrente di giovani deputati si interroga se la proposta sia in grado di unire equità, sostenibilità e consenso, criticando la scelta di fissare una «linea di salvaguardia» senza un piano di finanziamento credibile per il lungo periodo. Il gruppo ha criticato l’effetto che la misura potrebbe avere sulle future generazioni, denunciando costi sostanziosi che ricadranno sul sistema contributivo e sul bilancio pubblico una volta che la protezione transitoria sarà scaduta.  

Sul piano tecnico, il governo ha intanto approvato misure complementari che mostrano la portata pratica della strategia. Tra queste, un disegno di legge per incentivare il lavoro oltre l’età pensionabile, consentendo ai pensionati di guadagnare somme aggiuntive con agevolazioni fiscali e limiti più alti di reddito esentasse, mosse pensate a contrastare la carenza di manodopera e a rallentare la pressione sul sistema pensionistico.

Sono però proprio le cifre di lungo periodo a preoccupare economisti e opposizioni. Proiezioni e studi segnalano che la combinazione di stabilizzazione del livello pensionistico e nuove estensioni di diritti potrebbe far salire il tasso di contribuzione, comprimendo il margine fiscale e obbligando a scelte difficili nei prossimi decenni.

 

Telefonata Merz-Netanyahu                                  

Merz e Netanyahu si sono confrontati nel corso di una telefonata sulla situazione a Gaza e sulla distribuzione degli aiuti umanitari. Durante la conversazione, i due leader hanno discusso delle possibilità di consolidare ulteriormente il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza.

Entrambi hanno sottolineato la priorità di distribuire gli aiuti umanitari in modo sicuro e sufficiente alla popolazione civile. Merz e Netanyahu hanno inoltre concordato sull’urgenza che Hamas consegni senza ulteriori ritardi le spoglie degli ultimi ostaggi.

 

Agricoltura: l'inatteso ritorno del diesel piace al settore

In Germania il gasolio agricolo sta conoscendo un inatteso ritorno. Dopo anni in cui l’attenzione era rivolta soprattutto all’elettrificazione, ai biocarburanti e ad altre forme di energia alternativa, molti agricoltori stanno tornando a utilizzare il diesel tradizionale. Alla base di questa tendenza vi sono ragioni economiche e pratiche: le macchine agricole moderne richiedono potenza elevata e lunga autonomia, caratteristiche che le attuali soluzioni elettriche non riescono ancora a garantire in modo soddisfacente. 

L’aumento dei costi dei carburanti alternativi e l’incertezza sui futuri incentivi statali hanno spinto numerosi operatori del settore a fare affidamento su tecnologie consolidate. Allo stesso tempo, il dibattito politico sulla possibile eliminazione delle agevolazioni fiscali per il gasolio agricolo ha riportato il tema al centro dell’attenzione pubblica. 

Il ministro tedesco all' Agricoltura Alois Rainer (CDU/CSU) ha sottolineato l’importanza di garantire agli agricoltori mezzi affidabili e accessibili, evidenziando come il sostegno all’uso del diesel in ambito agricolo sia una misura necessaria per assicurare la produttività del settore, almeno nel breve termine con il plauso di molte associazioni agricole, che vedono nella conferma del diesel una risposta concreta alle difficoltà operative e ai costi crescenti.

 

La Germania lotta contro l'oblio                              

Il governo tedesco ha stanziato quest’anno circa 1,8 milioni di euro per sostenere 51 progetti dedicati alla conservazione di fonti storiche originali. L’obiettivo è proteggere in modo duraturo documenti, manoscritti e archivi di valore, garantendo così la trasmissione del patrimonio scritto della Germania alle generazioni future. 

Il ministro di Stato per la Cultura e i Media, Wolfram Weimer, ha sottolineato l’importanza di questo impegno: «Gli archivi e le biblioteche tedesche custodiscono documenti di valore mondiale. Come testimonianze della nostra storia, manoscritti e atti sono insostituibili: rappresentano la memoria della nostra democrazia. In tempi di fake news e revisionismo storico crescente, è nostro dovere proteggere e rendere accessibili le fonti autentiche. Solo chi conosce la propria storia può resistere alla manipolazione del presente. Con il programma speciale del BKM, il Ministero alla Cultura, il governo federale agisce con coerenza in questa direzione». Il programma speciale per la tutela del patrimonio scritto, avviato nel 2017, finanzia interventi tecnici come la deacidificazione, la pulizia e il confezionamento protettivo di grandi raccolte documentarie. Finora sono stati approvati 734 progetti per un totale di oltre 21,8 milioni di euro. Tra i progetti finanziati nel 2025 figurano iniziative di particolare rilievo.

Lo Staatsarchiv di Amburgo sta mettendo in sicurezza 104 metri lineari di atti giudiziari risalenti al periodo 1930-1950, che documentano la persecuzione da parte del regime nazista di ebrei, omosessuali e oppositori politici. I documenti vengono puliti, protetti e sottoposti a un’analisi dei danni. I progetti sostenuti dal programma del Ministero sono cofinanziati almeno al 50% da istituzioni, Länder e comuni coinvolti. La selezione avviene su raccomandazione del Consiglio consultivo della KEK, la Coordinazione per la conservazione del patrimonio scritto, sostenuta congiuntamente da governo federale e Länder.

Il programma speciale rappresenta una delle due principali linee di finanziamento della KEK: accanto ad esso, la promozione dei progetti modello – gestita in collaborazione con la Fondazione culturale dei Länder – sostiene iniziative esemplari per la tutela dei documenti originali.

 

Dalla KAS Italia: Ucraina al centro del “Security and Defence Day” della Fondazione De Gasperi

l ministero della Cultura si è tenuto venerdì 7 novembre il “Security and Defence Day”, organizzato dalla Fondazione De Gasperi, in occasione dei tre anni di guerra in Ucraina. Al centro del dibattito la sicurezza europea. Tra gli interventi più attesi, quello del ministro degli Esteri Antonio Tajani, che ha ribadito l’impegno dell’Italia per una difesa europea più integrata.

Ospite della conferenza anche Matthias Barner, esperto di politica di sicurezza europea della Konrad-Adenauer-Stiftung di Berlino, che ha richiamato la necessità di un’Europa più forte e coesa sul piano militare. L’evento ha riunito rappresentanti di politica, ricerca e società civile per discutere il futuro della sicurezza del continente. Kas 7

 

 

 

 

 

COP30: è tempo di riformare il negoziato internazionale sul clima?

 

A partire dalla conferenza nota come “COP26”, svoltasi nel 2021 a Glasgow, le Conferenze delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico hanno assunto una nuova centralità politica e mediatica. L’attenzione crescente della società civile e dei media è senza dubbio un segnale incoraggiante per l’azione climatica globale, ma porta con sé anche alcuni risvolti negativi: mentre le questioni più simboliche e politiche guadagnano visibilità – si pensi ai dibattiti sul phasing down, phasing out o transitioning away dai combustibili fossili – quelle sostanziali, di maggiore portata giuridica, tendono a passare in secondo piano.

Non bisogna dimenticare che le cosiddette COP sono innanzitutto il foro negoziale degli Stati parte dei tre trattati che costituiscono l’architettura giuridica del regime climatico internazionale: la Convenzione quadro del 1992, il Protocollo di Kyoto del 1997 e l’Accordo di Parigi del 2015. Le decisioni adottate nell’ambito delle conferenze diplomatiche servono ad attuarne le disposizioni e a orientarne lo sviluppo futuro.

Certo, negli ultimi anni non sono mancati progressi di un qualche rilievo giuridico, come l’istituzione del Fondo per perdite e danni, lo sviluppo degli approcci cooperativi previsti dall’articolo 6 dell’Accordo di Parigi, e la recente decisione sull’obiettivo globale di finanza climatica, sebbene formulata in termini molto generici. È però rimasta in secondo piano la questione cruciale della mitigazione, cioè la riduzione effettiva delle emissioni di gas a effetto serra. Mentre l’attenzione politica in questo campo si concentra su obiettivi di lungo termine, molti Stati, e anche l’Unione europea, non rispettano le scadenze per l’aggiornamento delle proprie Nationally Determined Contributions (NDCs), strumento centrale dell’Accordo di Parigi, e gli impegni sinora assunti si rivelano insufficienti a contenere l’aumento della temperatura globale “ben al di sotto” dei 2°C, o, auspicabilmente, entro 1,5°C.

Perciò, alla vigilia della cosiddetta “COP30”, che si terrà a Belém (Brasile) dal 10 al 21 novembre 2025, ci sembra opportuno porsi la questione se e come riformare il negoziato internazionale sul clima. È vero che il contesto politico attuale appare tutt’altro che favorevole, tra conflitti armati in continua espansione e l’acuirsi di posizioni apertamente negazioniste in soggetti chiave come gli Stati Uniti di Donald Trump. Né il quadro multilaterale ambientale più ampio offre motivi di ottimismo. Tuttavia, le riforme richiedono tempi lunghi di elaborazione e maturazione: iniziare a discuterne oggi potrebbe non essere un esercizio utopistico, ma una tappa necessaria.

Questo articolo, pertanto, si concentra su due dimensioni di una possibile riforma del negoziato internazionale sul clima. La prima, di carattere procedurale, riguarda le modalità di conduzione dei lavori negoziali. La seconda, di tipo sostanziale, concerne invece l’ipotesi di elaborare un nuovo protocollo internazionale in materia di mitigazione del cambiamento climatico. Le conclusioni tenteranno di ricondurre a sintesi questi due aspetti.

Sul piano procedurale: come rendere il negoziato più rapido ed efficiente?

La diplomazia multilaterale procede, per sua natura, con tempi particolarmente dilatati; in particolare, il metodo del consenso nell’adozione delle decisioni costituisce un ostacolo evidente all’efficienza del processo negoziale. È interessante notare, tuttavia, che tale metodo non ha mai ricevuto una formale codificazione nel contesto del regime internazionale del cambiamento climatico. Le Rules of Procedure della Conferenza delle Parti della Convenzione quadro del 1992 non sono infatti mai state approvate in via definitiva. L’articolo 42 sul sistema di voto è rimasto in bozza e contempla due opzioni: la prima prevede il consenso come unico criterio per le decisioni sostanziali, la seconda introduce invece la possibilità, in caso di mancato accordo dopo aver compiuto ogni possibile sforzo in tal senso, di adottare una decisione a maggioranza qualificata dei due terzi delle delegazioni presenti e votanti. Il primo pilastro di una riforma procedurale dovrebbe dunque essere la previsione di decidere a maggioranza qualificata, superando così lo stallo strutturale insito nel sistema del consenso.

Un secondo aspetto riguarderebbe la possibilità di rendere il processo negoziale più snello e a cadenza più frequente, considerando che negli ultimi anni le COP si sono trasformate in eventi imponenti, altamente partecipati ma spesso dispersivi. Non mancano proposte di rilievo in questa direzione. Nel 2023, ad esempio, il Club of Rome ha diffuso una open letter – poi rilanciata nel 2024 – in cui raccomandava, tra l’altro, di trasformare le COP in “smaller, more frequent, solution-driven meetings”. Alcuni segnali di ricezione del messaggio sono già emersi: si pensi, ad esempio, alla significativa riduzione dei badge concessi a osservatori provenienti dal “Nord globale” nelle ultime due Conferenze, e all’iniziativa della Presidenza brasiliana che ha istituito i “COP30 Circles”, gruppi guidati da figure di rilievo in diversi ambiti chiave dell’azione climatica, con l’obiettivo di facilitare il negoziato e accelerare l’attuazione dei trattati. Tali iniziative, tuttavia, restano legate alla discrezionalità politica e all’iniziativa di singole presidenze, e rischiano di non incidere in modo strutturale sul regime.

Affinché la riforma sia effettiva, occorrerebbe attribuire una cornice giuridica a simili innovazioni procedurali. Dal punto di vista giuridico, le possibilità non mancano: le disposizioni relative alle conferenze delle Parti contenute nei tre trattati prevedono, tra l’altro, la possibilità di convocare sessioni straordinarie su richiesta di un terzo degli Stati membri e incoraggiano la creazione di organi ristretti incaricati di agevolare l’attuazione di specifiche disposizioni (si veda, ad esempio, l’articolo 7 della Convenzione quadro).

Certo, sessioni negoziali più ristrette e frequenti comportano il rischio di esclusione e di minore trasparenza del processo. Ma anche nel modello attuale, solo formalmente inclusivo, una trasparenza reale non è affatto garantita: le decisioni cruciali vengono spesso prese in incontri informali e limitati a un numero ridotto di Paesi economicamente rilevanti, o addirittura direttamente in altri consessi. È comunque essenziale che qualsiasi riforma resti conforme al principio della sovrana uguaglianza degli Stati e continui a garantire una partecipazione pubblica adeguata, attraverso “osservatori” provenienti da soggetti sufficientemente specializzati e rappresentativi della società civile.

Sul piano sostanziale: è (quasi) tempo di un nuovo ‘Protocollo’?

La Convenzione quadro risale al 1992. Già alla prima COP del 1995 si avviò il negoziato che condusse all’adozione del Protocollo di Kyoto nel 1997. Negli anni successivi, il processo si articolò su due binari: da un lato quello che sfociò nell’Emendamento di Doha del 2012, dall’altro quello – più noto – che portò all’Accordo di Parigi del 2015. A dieci anni da quest’ultimo, i tempi potrebbero essere maturi per avviare una riflessione sull’elaborazione di un nuovo protocollo.

Sul piano sostanziale, la priorità resta una riduzione significativa e mirata delle emissioni di gas serra nel periodo cruciale 2035–2050, così da rendere effettivo l’obiettivo della neutralità climatica al 2050, già affermato a livello internazionale. Un nuovo protocollo dovrebbe dunque concentrarsi su questo arco temporale, con negoziati formali da avviare entro il 2030 e l’adozione e una rapida entrata in vigore entro il 2035.

Un simile strumento potrebbe rappresentare una sintesi tra l’approccio “top-down” di Kyoto e quello “bottom-up” di Parigi. Da un lato, fisserebbe l’obiettivo globale di neutralità climatica al 2050; dall’altro, consentirebbe contributi differenziati, con un gruppo di Paesi più avanzati e meno inquinanti chiamati a raggiungere prima il net-zero, e i grandi emettitori con minore capacità tecnologica a seguire in tempi successivi. Inoltre, il protocollo potrebbe contenere disposizioni più tecniche sulla riduzione delle emissioni nei settori chiave, disciplinare l’uso delle metodologie di carbon removal e allegare tabelle con margini di riduzione delle emissioni per ciascuna Parte, calcolati sulla base del rispettivo carbon budget e delle capacità economiche. Ciò offrirebbe anche l’occasione per rivedere l’ormai superata distinzione tra Paesi sviluppati e Paesi in via di sviluppo introdotta dalla Convenzione quadro.

Il nuovo protocollo non sostituirebbe l’Accordo di Parigi, che resterebbe in vigore, come peraltro sono ancora la Convenzione quadro e il Protocollo di Kyoto. Al contrario, si innesterebbe sul regime esistente, potendo far leva su strumenti già esistenti come gli NDCs – il cui attuale aggiornamento ha come orizzonte temporale proprio il 2035 – ma collocandoli in una cornice più vincolante e stringente. La finanza climatica rimarrebbe un elemento imprescindibile per sostenere gli sforzi di mitigazione dei Paesi in via di sviluppo, con la prospettiva, tuttavia, di includere tra i contributori netti anche soggetti come la Cina – una questione destinata comunque a imporsi sul negoziato multilaterale nel prossimo futuro.

Il tempo delle riforme è adesso

Le due dimensioni di riforma proposte potrebbero sembrare, a prima vista, contraddittorie. Chi invoca un negoziato più snello parte infatti dall’urgenza di attuare l’Accordo di Parigi in una prospettiva di “delivery”, che sembrerebbe non lasciare spazio all’elaborazione di un nuovo protocollo. Tuttavia, quest’ultimo non sostituirebbe l’Accordo di Parigi: al contrario, si baserebbe sull’attuazione efficace di molte delle sue disposizioni, che rimarrebbe prioritaria. Inoltre, lo stesso Protocollo potrebbe al contempo fungere da volano per introdurre alcune innovazioni procedurali. Si pensi, appunto, a riunioni degli Stati parte più ristrette e distribuite durante l’anno presso il Segretariato di Bonn, in luogo delle attuali conferenze annuali, o a un nuovo meccanismo di compliance dotato non solo di funzioni facilitanti ma anche di poteri sanzionatori, in grado di ridurre l’attuale deficit di accountability.

È evidente che le incognite non mancano, ma lo scenario politico internazionale potrebbe mutare più rapidamente del previsto. Quando ciò accadrà, aver già concettualizzato le riforme necessarie potrà fare la differenza. Alcuni Stati virtuosi – e l’Unione europea in particolare – potrebbero farsi promotori di tali innovazioni; se queste si rivelassero efficaci, altri Stati potrebbero accodarsi. In un contesto globale sempre più segnato da cambiamenti repentini e inattesi, un approccio di lungimiranza resta essenziale per evitare di farsi cogliere impreparati. Riccardo Luporini, AffInt 9

 

 

 

 

 

Prodi (Cgie): la nostra esperienza quarantennale a disposizione della nuova comunità dell’italofonia

 

Roma. Il Consiglio Generale degli Italiani all’Estero, con tutta la sua “miniera d’oro” dell’esperienza quarantennale sul tema della diaspora italiana, si mette a disposizione della nuova comunità dell’italofonia. Perché lingua e cultura sono degli strumenti che possono “dare nuovo slancio” di partecipazione ed educazione alla pace.

Questo il succo dell’intervento di Maria Chiara Prodi, Segretaria Generale del Consiglio Generale degli Italiani all’Estero (CGIE), realizzato durante il tavolo tematico “Italofonia come comunità di valori e dialogo” tenutosi questo pomeriggio, 18 novembre, durante la I Conferenza dell’Italofonia, tenutasi a Villa Madama.

“In Italia siamo capaci di grande innovazione e poi ci dimentichiamo di essere stati degli innovatori”, ha esordito Prodi iniziando a raccontare la storia del CGIE nel tavolo. Il CGIE, ha spiegato, è una “grande innovazione” dell’Italia, ossia: “la diaspora a servizio delle relazioni internazionali del nostro paese, della promozione di lingua e cultura”. Una innovazione che “ha poi creato degli emuli”. Ci sono Paesi, infatti, “che hanno copiato e poi modificato le loro leggi proprio sul nostro esempio, come Francia e Portogallo”. Inoltre, pochi mesi fa, Prodi ha ricordato di essere stata audita dagli uffici della Commissaria europea Kaja Kallas per capire come “trasmettere il senso di cittadinanza europea attraverso le diaspore fuori dall'Unione Europea”. “Siamo stati i primi a cercare di istituzionalizzare e organizzare questa comunità”.

Secondo Prodi, infatti, il CGIE è a cavallo tra le istituzioni e il mondo della società civile: “abbiamo avuto questa grande capacità di istituzionalizzare le comunità e l'abbiamo fatto proprio per cercare di renderle attive, operative e per collaborare con le istituzioni italiane a tutti i livelli: Parlamento, Ministeri, Comuni e Regioni”. E questa istituzionalizzazione fra tutti i livelli e con tutte le comunità, anche molto diverse fra loro, “fa una ricchezza straordinaria. Perché se le intuizioni sono belle, poi è la loro concretizzazione che ci dà gusto”.

Continuando a raccontare i rappresentati di Comites e Cgie ha spiegato: “siamo già 2000 volontari tra noi e le consulte regionali per l'immigrazione, alimentiamo queste reti in maniera volontaria da tanti decenni. È un ruolo che io descrivo come “beta tester”, diciamo “primi sperimentatori”. E in questo la legge di 40 anni fa è ancora molto intelligente: avere dei beta tester in tutte le parti del mondo che possono dire cosa funziona e cosa no, provare una cosa o meno, che magari conosce chi è ben inserito nelle realtà istituzionali del paese ospitante, o che promuove progetti speciali. Ciò è una miniera d'oro”.

A questo vanno aggiunti, secondo la Segretaria Generale del CGIE, i dati pubblicati dalla Fondazione Migrantes, ossia che in vent'anni l'emigrazione italiana è aumentata del 106%: “non abbiamo solo un tema di qualità ma anche di quantità. Associare questi elementi a servizio della promozione della lingua e cultura è veramente una prospettiva strategica importante”.

“È chiaro che si può riflettere sulla pertinenza di questi strumenti legislativi e anche sulla crisi della partecipazione che vivono le nostre democrazie – ha proseguito Prodi -. Ma penso che la lingua e la cultura siano strumenti che possono dare nuovo slancio di partecipazione ed educazione alla pace. Non c'è nessuno che ha il monopolio di una rappresentanza o di una comunità, e questa è la parte bella”.

“Pensando a questo incontro pensavo all'immagine di cerchi concentrici – ha aggiunto ancora Prodi -: cittadini italiani che vivono in Italia; cittadini italiani che vivono all'estero; poi gli italofoni che imparano la lingua e si aggiungono al cerchio precedente attraverso l'amore per la lingua; e infine i famosi “italici”, che sono quelli che amano la cultura italiana magari senza conoscere la nostra lingua”. Ma “al di là delle strutture formali o delle nostre aspettative, avere questa immagine per me è molto fecondo, perché questi sono tutti centri concentrici che si alimentano nelle relazioni degli uni con gli altri. La lista delle comunità non è una lista di punti elencati, numerati, uno dopo l'altro. Ma è un sistema complesso, complementare, collaborativo, sinergico, che probabilmente può essere veramente una chiave progettuale di successo e di collaborazione.

“Una giornata come quella di oggi ci dà uno slancio, ci dà degli obiettivi, ci dà un qualcosa verso cui tendere tutti insieme – ha evidenziato la SG Prodi -. Per questo ci servono strumenti di collaborazione che tengano a mente le specificità di ciascuno”.

L’esponente degli italiani all’estero ha poi ricordato un convegno svolto nel 1996, dal titolo "Iniziative per l'insegnamento e la diffusione della lingua e cultura italiana all'estero nel quadro della promozione culturale e della cooperazione internazionale". Un convegno dal quale “sono passati quasi 30 anni” e le cui tematiche “ho ritrovato nei discorsi che sono stati fatti oggi”. E lo ha voluto ricordare anche per valorizzare il ruolo del CGIE per promuovere l'insegnamento della lingua e della cultura italiane. “Vorrei invitarvi a guardare questo potenziale degli italiani all'estero come immediatamente disponibile e intrecciato con gli altri paesi del mondo, con le altre comunità del mondo”.

“Immaginate, come abbiamo fatto noi 40 anni fa, di creare uno spazio istituzionale per le diaspore”, ha concluso Prodi. “Pur sottolineando che dopo 40 anni siamo ancora capaci di essere un progetto innovativo e di esempio per il mondo, vorrei incoraggiare anche chi magari ha diaspore inferiore alla nostra, che raggiunge ormai 7 milioni e 300 mila persone (12% della popolazione), di muoversi in questa direzione, perché in questo mondo interconnesso e complesso, le persone in mobilità sono quelle persone che hanno uno sguardo di costruzione di un mondo di pace, proprio perché conoscono l'esperienza della migrazione. Ci mettiamo a servizio delle istituzioni”. (l.m.\aise/ddip 18) 

 

 

 

 

 

Un Paese afflitto da un’eccessiva polarizzazione della politica

 

Nei suoi ultimi interventi pubblici, la segretaria del PD, Elly Schlein, ha parlato di una “estrema Destra” al governo che metterebbe a rischio la democrazia nel nostro Paese. Giunti a questo punto, sarebbe utile che la Sinistra italiana, i suoi politici, i suoi elettori, i suoi intellettuali chiarissero, una volta per tutte, in che Paese pensino di vivere: se nell’Italia reale o in un’altra Italia, quella dei loro discorsi di oppositori duri e puri.

 E’ una domanda che necessita di una risposta chiara, non elusiva, perché da essa dipende l’identità stessa  della Sinistra e, di conseguenza, la sua offerta elettorale, se, invece di considerarsi la sola speranza della democrazia in Italia, pensa di poter offrire un programma elettorale che affronti i problemi del Paese, come la politica estera che si intende perseguire, con chi allearsi, chi tassare, quali investimenti pubblici fare, come risolvere l’eterno problema dell’immigrazione e della sicurezza.

La democrazia obbliga tutti ad accettare l’idea che ci sono gli “altri” che non la pensano sempre come noi, ai quali è difficile far cambiare idea, perché essere democratici vuol dire proprio questo: accettare che esistono gli “altri” con idee diverse dalle nostre, cercare di andare incontro a chi non la pensa come noi, con proposte alternative, più convincenti delle loro, in sintesi accettare la pluralità dell’offerta elettorale.

Purtroppo è proprio questa idea di competizione presente nel concetto stesso di democrazia che la Sinistra ha difficoltà ad accettare, perché convinta, a differenza dei suoi avversari, di essere eticamente superiore, perché rappresenta il bene mentre gli avversari rappresentano il male, il ritorno al passato, al buio contro il “sol dell’avvenire”.

La tendenza della Sinistra a concepire la politica come lotta tra il bene e il male, nasce dalla convinzione di essere dalla parte della storia, di rappresentare la libertà, il progresso, come è palese dal continuo riferimento alla Resistenza, alla lotta contro il nazifascismo, mentre sempre più evidente appare, la sua difficoltà a scegliere tra realtà e ideologia.

L’eccessiva polarizzazione della politica rende ancora più difficile scegliere tra presente e futuro, perché l’elettorato appare sempre più diviso su posizioni contrapposte, con un aumento esponenziale delle differenze ideologiche e delle divisioni tra i partiti, che appaiono evidenti nelle opinioni sempre più estreme, senza capire che si riduce in questo modo l’area di Centro e più difficile risulta il compromesso e il dibattito politico.

La politica si riduce così ad un puro esercizio verbale, il dire è più importante del fare, la retorica soppianta il ragionamento, le parole vuote hanno la meglio sulle proposte concrete.  Angela Casilli, de.it.press 14

 

 

 

 

 

Il diritto alla dignità

 

La situazione economica ha accentuato le differenze sociali, che ci sono sempre state, e il progressivo isolamento collettivo è realtà che non possiamo più sottovalutare. Anche l’Italia è a una svolta storica che ha già evidenziato complessi problemi per il rinnovamento del Paese. La stagione della ristrutturazione avrebbe dovuto iniziare, però, assai prima.

 Ora, tuttavia, dovrebbe farsi strada la solidarietà che, almeno nella norma, non è mai stata la prima donna della nostra società. Il periodo che dovremo affrontare sarà difficile ed a tempo indeterminato. Per riuscire a varare una nuova fase nazionale che stimoli il lavoro per tutti. Un’impresa difficile ma fondamentale. La politica avrà un suo ruolo determinante. Come non l’ha avuto mai.

Il nostro Paese è parte di un sistema internazionale che ne condivide le sorti. Anche non volendolo espressamente. Oltre le promesse, non ancora concretate, c’è l’emarginazione e la disperazione per quanto abbiamo perduto. Tornare a una vita dignitosa non è solo l’aspetto politico della nostra situazione. Superata, speriamo presto, le tensioni politiche, sarà indispensabile muoverci per dare una mano a tutti per favorire una ripresa dignitosa e comunitaria.

 La burocrazia, male tipicamente nazionale, dovrà essere sostituita dall’impegno civile che ci coinvolga tutti. Nessuno escluso. Quindi, meno politica e più fatti. Oggi c’è una Società da riedificare e un’economia da riscoprire. In altri termini, si dovrà favorire quel diritto alla dignità. Sarà un percorso complesso, ma non impossibile.

Giorgio Brignola, de.it.press

 

 

 

 

Pensioni all’estero: come beneficiare della quattordicesima mensilità

 

Il nostro esperto risponde a un cittadino italiano residente in Svizzera sulle modalità per ottenere questo diritto e informa sulla campagna in corso di verifica dei redditi. Di Ufficio comunicazione Patronato Acli / 26 novembre 2025

Buongiorno,

sono residente in Svizzera e ricevo oltre alla rendita AVS anche una piccola pensione INPS, ho sentito alla televisione italiana che in luglio è stata pagata ai pensionati la quattordicesima, posso usufruirne anche io?

Antonio

Egregio signore, per beneficiare della quattordicesima mensilità, i pensionati residenti all’estero, titolari di una pensione italiana, devono soddisfare due requisiti fondamentali, una certa età anagrafica e un determinato reddito. La prestazione è infatti erogata a favore dei pensionati con più di 64 anni titolari di uno o più trattamenti pensionistici italiani in presenza di determinate condizioni reddituali personali.

Per il 2025, il reddito individuale complessivo, per tanto non comprensivo di quello coniugale, compresi i redditi esteri, deve essere al massimo di 15’688.40 euro. Nel caso in cui si rientri nei requisiti richiesti di norma la quattordicesima spetta ai pensionati, anche se residenti all’estero, in maniera automatica, senza che il beneficiario presenti richiesta all’Inps.

Nel caso si rispettino i requisiti richiesti e non si riceva l’importo a luglio è comunque possibile presentare apposita domanda all’Inps. Dall’anno successivo la prima erogazione il pensionato rientrerà nella campagna annuale Inps di verifica dei redditi posseduti (RedEst) e dovrà presentare l’apposita dichiarazione reddituale.

I nostri uffici sono a disposizione per la verifica del diritto alla quattordicesima e per l’invio all’Inps dell’annuale dichiarazione reddituale.

A questo proposito, ne approfittiamo per informare i beneficiari di pensioni italiane che richiedono la verifica dei redditi, che è in corso (e sta per concludersi) la campagna RedEst d’accertamento dei redditi 2024. Se percepite la quattordicesima oppure una pensione italiana ai superstiti oppure ancora un assegno ordinario di invalidità, non esitate a contattare l’ufficio del Patronato Acli in Svizzera a voi più vicino per assicurarvi di aver ben comunicato i vostri redditi 2024 all’Inps. CdItalianità Ch 27

 

 

 

 

 

Associazioni italo-tedesche: Alessandro Bonesini nuovo presidente

 

„Abbiamo ancora un grande bisogno di ampliare la conoscenza reciproca, di creare sinergie e di condividere emozioni e bellezza“

Dopo tredici anni alla guida della Federazione delle Associazioni Italo Tedesche in Germania, Rita Marcon Grothausmann ha rimesso il mandato di presidente. La 36ª assemblea dei soci ha eletto Alessandro Bonesini nuovo Presidente.

Lingua e cultura come strumenti di dialogo e convivenza

Nel suo intervento, il nuovo presidente della VDIG, Bonesini ha sottolineato l’importanza della cultura trasmessa attraverso la lingua come chiave per un futuro condiviso e ha evidenziato il ruolo centrale delle giovani generazioni:

„Abbiamo ancora un grande bisogno di ampliare la conoscenza reciproca, di creare sinergie e di condividere emozioni e bellezza. Solo così le nuove generazioni potranno superare le barriere spaziali, storiche e linguistiche e sviluppare un interesse reciproco per costruire insieme il futuro.»

Ampia e solida esperienza nello scambio culturale bilaterale

Il nuovo presidente riconosce le proprie radici sia in Italia che in Germania e vanta un’ampia esperienza nello scambio culturale. Nella sua funzione di dirigente scolastico presso i Consolati Generali d’Italia a Colonia, Dortmund e Francoforte sul Meno, si è impegnato nella promozione della lingua italiana. Bonesini ha studiato Filosofia a Venezia, ha conseguito il dottorato presso l’Università Martin-Luther di Halle-Wittenberg.

Nell’ambito della sua professione ha avuto modo di conoscere e collaborare con varie associazioni della VDIG: „Ho sempre incontrato persone entusiaste e motivate, capaci di realizzare progetti e iniziative impegnative e interessanti. So già che avrò modo di confrontarmi con persone animate da una grande passione per la cultura e da una lunga esperienza, dalle quali potrò imparare molto. Spero che, grazie alla nostra collaborazione e ai nostri obiettivi comuni, potremo contribuire alla crescita delle relazioni tra Italia e Germania“.

La VDIG, Federazione delle Associazioni Italo tedesche in Germania è impegnata nello scambio culturale tra Germania e Italia da oltre sette decenni. Fondata nel 1953 come coordinamento di nove società membri, la Federazione conta oggi 45 associazioni con oltre 5.000 soci individuali. Sono tutti enti senza scopo di lucro che promuovono lo scambio culturale, diffondono la lingua italiana e favoriscono gli incontri tra italiani e tedeschi nel contesto europeo. La VDIG considera il proprio lavoro un importante contributo al processo di integrazione europea.

CdI on 13

 

 

 

 

 

Convegno in Senato sugli italiani nel mondo

 

Roma. Organizzato su iniziativa del Senatore del Maie eletto all’estero, Mario Borghese, in collaborazione con l’Associazione Europa Mediterraneo ETS e l’Associazione Il Sud del Mondo ETS, il convegno avvenuto questo pomeriggio in Senato, dal titolo “Italiani nel mondo: cittadinanza e identità – Come cambiano regole, tutele e servizi”, ha offerto un confronto approfondito sul fenomeno della migrazione italiana nei giorni nostri al quale hanno partecipato tanti ospiti protagonisti degli italiani all’estero, da politici eletti all’estero ai vertici del Consiglio Generale degli Italiani all’Estero – CGIE, passando per ex Sottosegretari agli Affari Esteri con delega agli italiani nel mondo, fino a ricercatrici specializzate sulla questione migratoria.

Ad aprire i lavori moderati da Raffaele Barberio, Direttore di IF – Italia nel Futuro, il Senatore Mario Borghese: “cittadinanza e identità sono due tematiche fondamentali perché riguardano milioni di italiani all’estero”. “A volte – ha rivelato Borghese - faccio fatica a far capire il ruolo degli italiani all’estero in Parlamento. Made in Italy, cultura, crescita economica: non è facile portare queste tematiche ai legislatori. E non dico solo con questo Governo, ma anche coi precedenti”. La nuova legge di cittadinanza è stata fatta da chi “non capisce cosa sono gli italiani all’estero”. Una legge che “penalizza tanti oriundi che vivono nel mondo”. Ma Borghese si è detto anche fiducioso sulla possibilità di “portare avanti le iniziative per allargare la platea della cittadinanza ai nipoti e ai bisnipoti. Stiamo lavorando per sensibilizzare il Governo e le altre forze politiche”.

A seguire, ha preso parola per i suoi saluti Armando De Bonis, Presidente dell’Associazione Europa Mediterraneo ETS, organizzatore dell’evento, che ha spiegato come la sua associazione abbia “avviato un percorso di ricerca e divulgazione sulla cittadinanza per fare chiarezza su regole, diritti e prassi che incidono sulla vita dei milioni di italiani all’estero e sui loro discendenti”. De Bonis ha quindi concluso spiegando di essere convinto che “rafforzare il rapporto con le comunità italiane nel mondo significa proteggere la loro identità, valorizzarne il contributo e favorire un accesso più semplice a diritti, servizi ed informazioni”.

Il Responsabile Scientifico de Il Sud del Mondo ETS, Giuseppe Galati, ha invece parlato delle modifiche portate da questa legge, spiegando quale siano i focus centrali: “come questo scenario può impattare sulla vita degli italiani all’estero e sul senso di appartenenza che il Governo ritiene che debbano mantenere o se invece debbano allentarlo. Possono essere una grande risorsa”. “Io credo – ha concluso - che la ratio della legge è quella di stringere un po’ il cordone della cittadinanza per vicende che riguardano determinate aree e determinate persone. Ma non vorrei buttare il bambino con l’acqua sporca. Non vorrei che per risolvere un problema se ne sia creato un altro”.

È intervenuto poi Toni Ricciardi, deputato del Pd eletto in Europa nonché storico dell’emigrazione: “i buoi sono scappati e noi cerchiamo la porta della stalla”, ha detto in modo amaro l’eletto all’estero. “Noi possiamo fare tutte le proposte, ma le avremmo dovute fare prima”. Ricciardi si è lamentato del tempismo della legge e del “poco buon senso” utilizzato, così come si è scagliato contro la “retroattività” della legge. Ma la lamentela più cruda è arrivata riguardo il mezzo utilizzato dal Governo, che si è fatto legiferante, ossia il decreto legge che “è una misura urgente”: “io sono indignato”, ha spiegato. “C’è un impazzimento generale”, secondo lui, specie riguardo al fatto che per richiedere la cittadinanza bisogna farlo per “posta cartacea”. “Io la vivo come un abuso. Eravamo tutti all’oscuro. E alcuni dei problemi rimarranno lì come erano”. “Noi stiamo provando a intervenire” e “credo che in questa battaglia non ci sia una posizione di lucro marginale. O facciamo fronte comune su tutto o non lo facciamo – si è augurato Ricciardi -. Questo fronte deve essere compatto. Facciamo pressione. Noi dell’opposizione più di opporci non possiamo fare, ma se ci fosse una forza che siede tra i banchi della maggioranza, che abbia l’intenzione di fare una battaglia per modificare la legge – ha assicurato -, noi ci siamo. Capiamoci e convergiamo, perché stiamo parlando di diritti fondamentali”.

Dopo Ricciardi, ha preso parola Maria Chiara Prodi, Segretaria Generale del CGIE, che ha spiegato: “troppo spesso i nostri pareri obbligatori non ci vengono chiesti. Abbiamo un ruolo fondamentale ma come tutti siamo stati presi alla sprovvista. Stavamo discutendo di una riforma della cittadinanza che avevamo chiamato “cittadinanza consapevole”. Ma quello che è successo ci ha preso alla sprovvista, soprattutto per l’introduzione di un concetto di “cittadinanza esclusiva”, che ha peggiorato la questione. In giugno abbiamo chiesto diverse modifiche, specie su doppia cittadinanza e trasmissione, e abbiamo avuto aperture da Tajani e Mattarella”. Ora siamo in “un’attesa speranzosa”, ma il rischio è che “attendere perché una cosa illogica e impossibile diventi logica e realizzabile è un attesa che non ha molto senso”. Prodi ha anche definito “deplorevole” non aver avuto un dibattito sul tema prima di modificare una legge che si occupa di diritti fondamentali. Deplorevole è anche il fatto che in Italia il dibattito si sia concentrato sulle polemiche legate al “commercio o all’amministrativo” invece che sui diritti. E “queste polemiche hanno messo sul banco degli imputati gli italiani all’estero” che invece sono “parte civile”. Da giugno “siamo in attesa delle modifiche” anche perché “la legge ci dà ragione”.

Ancora più duro è stato l’intervento di Mariano Gazzola, Vice Segretario Generale CGIE per l’America Latina, secondo il quale con la nuova legge sulla cittadinanza “hanno introdotto lo Ius Soli in maniera mascherata. È impensabile che, in uno stato di diritto, uno che ha la nazionalità italiana non sia cittadino”. E poi c’è un altro “vulnus”, secondo Gazzola: “questa legge ha creato diverse categorie di cittadini”. “Con un italiano che non può trasmettere la cittadinanza a suo figlio perché è nato all’estero, di quale uguaglianza parliamo?”, si è chiesto in modo retorico Gazzola. “È chiaro che siamo davanti ad una legge fallimentare. E mi auguro che venga cambiata prima che ci siano dei tribunali che dicano alla politica che cosa deve fare”.

Per Silvana Mangione, Vicesegretaria Generale del CGIE per i Paesi Anglofoni extraeuropei, “la cittadinanza è una questione di diritti e doveri. Finora si sono riconosciuti più i diritti che i doveri. E questa è stata una limitazione che ha creato una discussione anche negativa. Il riconoscimento della cittadinanza è diventato un elemento di fruizione utilitaristica. Ma erano solo alcuni casi e si è estesa questa lettura anche a casi che avevano tutt’altre ragioni. Questo lo dobbiamo rivedere. Gli italiani all’estero sono una spinta fondamentale al Sistema Italia. L’identità non è solo morale, ma anche un’identità che si esplica nella ricostruzione di riti fra i quali c’è il rito della fruizione delle cose buone che vengono dall’Italia”. Chiudendo il suo intervento, Mangione ha ripreso il tema dello Ius Soli: “se ne sta parlando in un momento in cui Trump sta valutando di eliminare lo Ius Soli”. Quindi, per la Vicesegretaria del CGIE per i Paesi Anglofoni extraeuropei, l’Italia così starebbe rischiando di creare “un mondo di apolidi di origine italiana senza la possibilità di essere cittadini”.

Ricardo Merlo, membro del CGIE nonché ex Sottosegretario agli Esteri, ha parlato da un altro punto di vista: “siamo davanti la tempesta perfetta”. Facendo riferimento alla bassa fecondità italiana e a quella alta tra gli italiani all’estero, Merlo ha spiegato: “questo Governo ha messo un lucchetto sul futuro perché neanche all’estero nascano italiani. Credo in un mondo multiculturale, ma che ci siano anche gli italiani in questo mondo. Perché se continuiamo così, noi saremo un ricordo storico. Questo non è essere contro l’immigrazione, che arricchisce l’Italia e l’Europa, ma credo che ci debbano essere anche gli italiani”. “Sì, ci voleva una riforma della legge di cittadinanza, e nel mio periodo da Sottosegretario l’avevo chiesto, proprio per evitare che un giorno potesse succedere ciò che è successo. Ma questa legge la hanno fatta quelli che non conoscono le realtà degli italiani all’estero”. Questo decreto è dunque, secondo Merlo, “inopportuno, inutile, ingiusta e anticostituzionale”. Inopportuno perché “l’Italia ha bisogno di nuovi italiani”. Inutile e ingiusta “perché non riconosce la storia dei tanti emigrati che andarono all’estero e che hanno aiutato tanto l’Italia dall’estero”. E, “secondo alcuni avvocati con cui ho parlato”, “anticostituzionale perché non rispetta il principio di non retroattività della legge e perché crea più classi di cittadini”. “È una legge che non accetteremo mai”, ha concluso. Il rischio, secondo Merlo, è che “in Italia non si facciano più figli, e all’estero non ci siano più cittadini italiani”. Per questo, “non abbandoneremo mai la battaglia contro questa legge”.

A concludere, Delfina Licata, ricercatrice della Fondazione Migrantes nonché curatrice del Rapporto Italiani nel Mondo, che ha parlato di numeri che modificano la visione della migrazione. “Uno dei problemi della questione italiani all’estero è non conoscere l’Italia della mobilità”. Ci sono infatti 3 bugie classiche di cui ha parlato Licata e che vengono alimentate in Italia, anche dalla stampa: “non siamo mai passati da Paese di emigrazione a Paese di immigrazione. L’Italia è un paese dalle mobilità plurime, ma l’emigrazione non è mai finita”. Un altro fatto “sdoganato” dai dati è quello relativo ai cosiddetti “cervelli in fuga”: “il 66% di chi parte oggi ha infatti un titolo medio-basso”, dunque non si può parlare di cervelli in fuga, anche perché “le persone non sono solo quello che fanno”. La terza falsità spiegata dalla ricercatrice è la frase per cui molti richiederebbero la cittadinanza per convenienza: “non è vero e non si può non guardare alla persona parlando di questi argomenti”.

Per concludere, Delfina Licata ha spiegato cosa è la cittadinanza secondo il RIM: “è un patto civico che unisce e rigenera. Riconoscere questa presenza diversamente stabile, fatta di italiani nel mondo e di italiani in Italia, significa restituire senso a una appartenenza storica e affettiva”. Per questo, secondo lei “è urgente una rigenerazione culturale che deve ripartire dal nostro modo di vedere le cose”.

A chiosare l’evento, l’intervento di Benedetto Della Vedova, Segretario di Presidenza della Camera dei Deputati già Sottosegretario agli Esteri: “sono rimasto molto stupido quando è arrivato il DL Cittadinanza in Parlamento. C’erano alcune storture da modificare, ma in questa legge ci sono alcune cose incompressibili. In una situazione in cui l’Italia ha una crisi demografica negativa, non è razionale non concedere la cittadinanza italiana. Gli italiani all’estero riguardano il nostro interesse. E il Parlamento ha votato una legge che va nella direzione opposta. Mi sembra un gratuito autogol allontanare persone che dovrebbe stare vicino all’Italia”. (l.m. aise/dip 19) 

 

 

 

 

 

Al Senato l’incontro “Tornare in Italia conviene”

 

ROMA – Si è svolta oggi presso la sala Caduti di Nassirya del Senato la conferenza stampa sul tema “Tornare in Italia conviene, dalla flat tax a una politica nazionale per il rientro. Borghi e nuove economie”. La flat tax al 7% è uno strumento fiscale, già attivo nel nostro Paese, dedicato ai cittadini pensionati residenti all’estero da almeno 5 anni, percettori di un reddito da pensione da un soggetto straniero, che vogliono venire a vivere dell’Appennino centrale. Una misura che può diventare un volano per i quei territori, dal momento che è stata pensata per contrastare lo spopolamento e attrarre nuove energie, soprattutto tra i nostri connazionali all’estero. Una leva di crescita e rilancio utile e funzionale per quella vasta area, rappresentata dal cratere sisma 2016, che ha una superficie di circa 8 mila chilometri quadrati, è compresa tra le regioni Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria ed è composta da 138 comuni. Al fine di promuovere la diffusione di questo strumento, in particolare presso la vasta platea dei cittadini italiani all’estero, già lo scorso mese di aprile era stato siglato un Protocollo d’intesa tra il Commissario Castelli, e il Consiglio Generale degli Italiani all’Estero. Quello di oggi è stato un nuovo, ulteriore, appuntamento teso a consolidare l’impegno assunto.  L’incontro è stato introdotto e moderato dal giornalista Francesco De Palo che ha ricordato come in Italia i borghi, così intrecciati al senso di cultura e di nazione, abbiano una straordinaria importanza. Nel suo intervento il senatore Roberto Menia,  Responsabile dipartimento Italiani nel mondo di Fratelli d’Italia, ha rilevato come spesso non venga percepito il vero valore dell’italianità all’estero, un concetto di nazione operante e vivente che va aldilà del tempo e dello spazio.  Menia ha poi sottolineato come con la nuova legge sulla cittadinanza  “ si sia voluto rafforzare il valore della cittadinanza collegato ad un legame oggettivo e riconoscibile”, nonché porre fine ad un fenomeno spiacevole ovvero,  l’acquisizione di questo diritto della da parte di persone che nulla avevano a che fare con l’Italia, a parte qualche lontano avo, e che confondevano la cittadinanza con il solo possesso di un passaporto. “Su questo – ha proseguito Menia – si è intervenuto legando il principio della cittadinanza alle due generazioni. Ricordo inoltre che sono stati presentanti due emendamenti, a mia prima firma e con il gruppo di Fratelli d’Italia. Il primo consente agli oriundi italiani che scelgono di stabilirsi 2 anni nel nostro Paese con un rapporto di lavoro, di ottenere la cittadinanza italiana. Prima questa permanenza era di tre anni.  Questo serve sostanzialmente a riportare popolazione d’origine italiana verso i nostri borghi  spopolati”. “Un altro emendamento approvato – ha aggiunto il Senatore – è quello che consente ai discendenti di cittadini italiani che vivono in paesi di storica emigrazione di far rientro in Italia per lavoro subordinato al di fuori delle quote del decreto flussi”.  Per quanto riguarda l’iniziativa odierna Menia ha affermato: “Si tratta di un’iniziativa lodevole che sostengo e incoraggio con convinzione. L’obiettivo mio, del mio partito e del Governo e quello di promuovere e facilitare il ritorno dei cittadini di origine italiana nel nostro Paese e, in particolare, in quei borghi di cui si parla oggi. Nella consapevolezza del quadro italiano attuale, che vede un progressivo invecchiamento della popolazione e lo spopolamento di molte aree interne, strumenti come la Flat Tax si aggiungono alle azioni di contrasto che stiamo adottando, anche attraverso la Legge di bilancio. Stare al fianco delle nostre famiglie e riportare in Italia persone che hanno origini e valori comuni sono due facce della stessa strategia”.   Rispondendo ad una domanda di una giornalista venezuelana sulle difficoltà burocratiche incontrate dai lavoratori venezuelani presenti in Italia, Menia si è soffermato sulla difficile situazione della comunità italiana in Venezuela a causa del regime di Maduro. Una collettività che si è molto ridotta. Sulla questione posta il senatore ha sottolineato la necessità di superare i vincoli burocrati per aitare questa comunità ricca di professionalità e in definitiva anche noi stessi. Dal canto suo il Commissario Straordinario al sisma 2016 Guido Castelli ha rilevato.  “La flat tax rappresenta un importante tassello nell’ambito di quella strategia di riparazione economica e sociale che stiamo mettendo in campo grazie alla stretta collaborazione con il Governo, le Regioni e i Comuni. Al fine di rivolgerci alla vasta rete di comunità degli italiani residenti all’estero, che rappresenta un patrimonio per il nostro Paese, la collaborazione con il CGIE è assolutamente funzionale e strategica”. “L’Appennino centrale – ha aggiunto – custodisce un patrimonio, frutto dell’opera della natura e dell’uomo, che non ha eguali. Valorizzare questo potenziale è un nostro dovere nella consapevolezza che, sotto il profilo della qualità della vita, questi territori offrono standard di assoluto livello”. Castelli ha poi rilevato come il rapporto con il Cgie sia nato per rendere conosciuta e praticata questa norma sulla flat tax , a chi percepisce la pensione ed è residente all’estero da almeno 5 anni e vuole trasferire la sua residenza all’interno di uno dei comuni del cratere.  “La norma – ha spiegato il Commissario – assicura per dieci esercizi consecutivi questa flat tax al 7% sul patrimonio e sui redditi che si originano all’estero. Quindi noi siamo qui per rendere ancora più sistematica questa azione, che va a convalidare la strategia nazionale e a dare una mano per il ripopolamento delle zone colpite.  Coloro che tornano saranno importanti per la creazione di un tessuto economico”.   “L’auspicio –  ha concluso Castelli – è che attraverso il Cgie ci siano sempre più persine a conoscenza di tutto questo e per le quali il ritorno sia più conveniente e suggestivo”.  Giuseppe Stabile, Vicesegretario Generale del Cgie per l’Europa e l’Africa del Nord ha sottolineato: “Strumenti come la flat tax al 7% per chi percepisce pensioni estere dimostrano un modello virtuoso che può diventare nazionale. La rinascita locale è l’infrastruttura di quella nazionale: ripopolare i territori con persone e attraverso adeguati investimenti significa rivitalizzare il Paese, rafforzare l’economia, ampliare la base fiscale e aumentare la domanda di servizi. La parola chiave è capillarità: ogni persona che lascia l’Italia porta con sé un frammento del Paese e ogni ritorno è una ricchezza”.

“Ho sentito il bisogno di guardare a questa questione in modo diverso, – ha spiegato Stabile – perché ogni persona che lascia l’Italia porta con se e una parte del suo paese e ogni ritorno possibile è una ricchezza per l’intera Nazione. L’ho pensato prima come cittadino che vive fuori dalla patria, poi come esponente del Cgie. La scintilla operativa è scoccata quando l’amico Castelli ha chiesto di collaborare per valorizzare la misura della Fla Tax al 7% a favore di coloro che ricevono una pensione estera”. Stabile ha poi segnalato come in una recente Assemblea della Commissione Continentale Europa del Cgie sia emerso come l’Italia sia oggi la prima destinazione mondiale dei pagamenti pensionistici tedeschi all’estero. “Parliamo – segnala il Vice Segretario generale – di oltre 348.000 pensioni versate a beneficiari in Italia. Ora immaginiamo quanto questo numero potrebbe aumentare, moltiplicandolo per il resto dei Paesi del mondo, se sapessimo costruire una relazione più matura fatta non solo di risorse economiche e contributi a fondo perduto, ma di idee lungimiranti, di investimenti e competenze che tornano al nostro Paese”. Per Stabile inoltre dopo anni di diagnosi sulle cause e gli effetti dell’espatrio è giunto il momento della proposta di cura. “Per quanto di mia competenza – ha rilevato Stabile – il primo passo è stato quello di progettare un repertorio nazionale condiviso, una sorta di archivio unico che raccolga e renda facilmente accessibili tutte le misure sul rientro Quelle nazionali, ragionali e locali dedicate all’attrazione dei connazionali che desiderano ritornare investire o trascorrere in Italia la propria vita. Un repertorio che parli un linguaggio semplice non in buorocratese e che permetta a chi vive all’estero di conoscere con chiarezza gli strumenti esistenti e come usarli. Poi dobbiamo lavorare per migliorare le misure già in vigore con proposte concrete basate su confronti e modelli internazionali”. Il Vice Segretario Generale ha inoltre segnalato di aver messo a disposizione delle istituzioni quattro contributi frutto di un approfondimento personale: una nota tecnica sul decreto per il rientro dei discendenti italiani con l’ampliamento dei motivi di ingresso per lavoro autonomo, imprese e pensionati; una integrazione del ddl sulla semplificazione edilizia che propone tempi certi per le autorizzazioni e una corsia preferenziale per chi rientra o investe nei borghi italiani; un’integrazione per coordinare  la flat tax alla legge sull’immigrazione e una proposta di riforma della golden tax. “Da oggi – ha concluso Stabile – vogliamo cominciare a costruire le ragioni per cui vale la pena ritornare”. (Lorenzo Morgia, Inform/dip 19)

 

 

 

 

 

Al Senato l’incontro “Italiani nel mondo: cittadinanza e identità – Come cambiano regole, tutele e servizi”

 

Roma. “Italiani nel mondo: cittadinanza e identità – Come cambiano regole, tutele e servizi”, questo il tema del convegno che si è svolto a Roma presso la Sala dell’Istituto di Santa Maria in Aquiro del Senato. L’incontro è stato organizzato, su iniziativa del senatore del Maie Mario Borghese (ripartizione America Meridionale), in collaborazione con l’Associazione Europa Mediterraneo ETS e l’Associazione Il Sud del Mondo ETS. A moderare gli interventi è stato chiamato Raffaele Barberio, Direttore di IF – Italia nel Futuro. Nel suo intervento introduttivo il senatore Borghese ha rilevato come la tematica della cittadinanza riguardi milioni di connazionali all’estero e di discendenti italiani. Secondo il senatore la nuova norma sulla cittadinanza, entrata in vigore nel maggio 2025,  rischia di penalizzare allo stato attuale i nostri connazionali all’estero. Borgese si è anche detto fiducioso sulla possibilità di modificare questa norma, segnalando come in proposito si stia lavorando per sensibilizzare il governo e tutto il Parlamento.

A seguire è intervenuto Armando De Bonis, Presidente di “Europa Mediterraneo ETS”, che ha ricordato come questo sodalizio nasca con l’obiettivo di promuovere progetti sociali, culturali e scientifici, in grado di ridurre le diseguaglianze e contrastare le forme di emarginazione. “Operiamo prevalentemente – ha precisato De Bonis – nell’area Euro-Mediterranea, considerato da sempre un crocevia di popoli, culture e storie che si intrecciano. Oggi abbiamo l’occasione di riflettere insieme su questioni fondamentali: come stanno cambiando le regole sulla cittadinanza? Quali tutele sono garantite a chi vive, lavora e costruisce la propria identità al di fuori dell’Italia? Come migliorare servizi e rappresentanza per una comunità italiana nel mondo sempre più vasta, dinamica e complessa? In quest’ottica, l’Associazione Europa Mediterranea ha avviato un percorso di ricerca e divulgazione sulla cittadinanza”. De Bonis, dopo aver rilevato che l’attuale quadro normativo sulla cittadinanza sta cambiando, ha segnalato alcune novità della nuova legge come ad esempio il riordino delle norme sulla trasmissione della cittadinanza per discendenza con l’introduzione del limite alla seconda generazione, e la possibilità di revoca della cittadinanza in caso di condanne per reati particolarmente gravi, misura prevista esclusivamente per le naturalizzazioni. Ha poi preso la parola Giuseppe Galati, Responsabile Scientifico de “Il Sud del Mondo ETS”: “Abbiamo inteso organizzare insieme con l’associazione Europa Med questa iniziativa – ha spiegato Galati – perché l’introduzione di questo decreto del governo del 27 marzo 2025 ha aperto un dibattito che ovviamente vede da una parte chi lo ritiene restrittivo, mentre per l’esecutivo rappresenta un modo per stabilire un legame più stretto sulla cittadinanza”. Galati ha anche segnalato come il limite alla seconda generazione per la trasmissione della cittadinanza abbia inciso sulle aspettative dei discendenti all’estero.

Nel corso del suo intervento il deputato del Pd Toni Ricciardi, eletto nella ripartizione Europa, ha sottolineato la necessità di modificare l’attuale legge sulla cittadinanza che va incidere anche sui principi fondamentali della rappresentanza. Il deputato, dopo aver espresso rammarico sul fatto che oggi si cerchi di intervenire su questa legge “dopo che i buoi sono scappati”, ha rilevato come durante l’ter del provvedimento sia stato introdotto qualche miglioramento al testo, ad esempio per la tempistica di registrazione dei nuovi nati. Ricciardi ha anche criticato la scelta del governo che ha utilizzato per la regolamentazione di questa materia la strada del decreto legge d’urgenza. Il deputato si è anche detto contrario all’introduzione per le richieste della cittadinanza del solo modello cartaceo.  Ricciardi ha inoltre dato diponibilità a sostenere una proposta di legge di modifica della norma sulla cittadinanza che provenga anche da una forza di maggioranza, purché non vi siano distingui o differenziazioni territoriali nel testo e si possa fare fronte comune su tutto. A seguire è intervenuta la Segretaria Generale del Cgie Maria Chira Prodi che ha in primo luogo illustrato la struttura del Consiglio Generale, ricordando come questo organo di rappresentanza sia chiamato a dare pareri obbligatori su tutti i temi di interesse degli italiani all’estero. Un parere che non è stato preventivamente richiesto nel caso del decreto legge sulla cittadinanza. “In quel periodo – ha ricordato Prodi – il Consiglio Generale aveva già messo tra i punti prioritari della propria azione la modifica della legge di cittadinanza, perché non era una novità per nessuno che vi fosse un tema da risolvere”.  “Siamo poi arrivati a giugno alla nostra Plenaria con una proposta in favore di una legge che prevedesse una cittadinanza consapevole, basata anche sulla conoscenza della nostra lingua”, ha proseguito la Segretaria Generale ricordando poi le aperture avute dal Capo dello Stato e dal Ministro Tajani su possibili modifiche alla legge sulla cittadinanza. Prodi ha inoltre  sottolineato come il Cgie abbia oggi una postura di attesa speranzosa verso possibili interventi di modifica della nuova legge sulla cittadinanza da parte del Parlamento e della Corte Costituzionale.  Per quanto riguarda invece la scarsa attenzione della stampa non specializzata per le questioni degli italiani all’estero, la Segretaria Generale ha sottolineato come, a fronte di un’emigrazione che rappresenta ormai 12% della popolazione nazionale, questa realtà dovrebbe essere trattata serenamente a livello mediatico nazionale.

A seguire è intervenuto il Vice Segretario Generale Cgie per l’America Latina Mariano Gazzola che ha rilevato come in uno stato di diritto sia impensabile che un discendente con identità italiana non possa essere anche cittadino. Gazzola ha poi auspicato, dicendosi speranzoso, che nuova legge sulla cittadinanza, che non tiene conto del vincolo identitario e affettivo, venga cambiata dalla politica prima che dai tribunali.   Il Vice Segretario ha inoltre ricordato che i Paesi che ospitano il più alto tasso di discendenza italiana si trovano in sud America, ovvero il Brasile e Argentina.

“La cittadinanza, e dobbiamo capirlo perché è il principio da cui partire, – ha affermato Silvana Mangione, Vice Segretario Generale Cgie per i Paesi Anglofoni extraeuropei – è una questione di diritti e di doveri. Finora la possibilità di riconoscimento ha riconosciuto maggiormente, scusate il gioco di parole, i diritti che abbiamo. E questa è stata una limitazione che ha creato una discussione e una comprensione anche negativa di quanto stava succedendo”, alla luce di una fruizione anche utilitaristica della cittadinanza che però ha riguardato solo alcuni casi. La Vice Segretaria Generale ha inoltre ricordato il prezioso contributo dato al Sistema Italia dai nostri connazionali grazie alla fruizione dei buoni prodotti italiani. Magione, dopo aver rilevato che la questione dei “cervelli in fuga abbia finito per oscurare l’antica storia dell’emigrazione italiana,  ha segnalato il rischio che l’Italia possa creare un mondo di apolidi di origine italiana che non abbiano la possibilità di essere cittadini. Nel suo intervento Ricardo Merlo, Presidente del Maie e consigliere del Cgie, ha sottolineato come la nuova legge sulla cittadinanza, proprio in un momento di forte calo demografico in Italia, riduca la possibilità per i discendenti nati all’estero di acquisire la cittadinanza italiana. Merlo, pur riconoscendo la necessità di modificare la precedente legge sulla cittadinanza, ha evidenziato però come questa nuova norma non tenga in considerazione la storia di tanti emigrati all’estero che hanno molto aiutato l’Italia. L’ex Sottosegretario ha infine segnalato la presentazione da parte del deputato Tirelli del Maie di un disegno di legge volto a migliorare l’attuale normativa sulla cittadinanza. Dal canto suo Delfina Licata, ricercatrice e curatrice del Rapporto Italiani nel Mondo della Fondazione Migrantes, ha spiegato come il RIM cerchi di descrivere quelle persone migranti che dovrebbero essere al centro della politica, anche in considerazione del fatto che la situazione della mobilità italiana è ad oggi poco conosciuta. Licata ha inoltre sottolineato come l’Italia sia un Paese di mobilità plurima dove l’immigrazione e l’emigrazione non si sono mai fermate, facendo vivere al nostro Paese un’epoca migratoria fluida. La ricercatrice ha anche evidenziato come non si possa parlare solo di “cervelli in fuga”, poiché il 66% delle persone che oggi vanno all’estero possiedono un titolo di studio medio- basso. Tra gli altri interventi segnaliamo quello di Benedetto Della Vedova , Segretario di Presidenza della Camera dei Deputati. “Sono rimasto molto stupito quando è arrivato il decreto legge sulla cittadinanza.  – ha affermato l’ex Sottosegretario agli Esteri  – Sapevo che c’era materia su cui intervenire, c’erano alcune norme che non potevano andare avanti così, ma si è passati dal niente al tutto”. Della Vedova ha anche  rilevato come, a fronte della crisi demografica italiana che i politici fingono di non vedere, le nuove regole restrittive sulla cittadinanza per gli italiani all’estero impongano una riflessione che consenta di rimediare alla scelta fatta. (Nicolina Di Benedetto- Inform/dip 20)

 

 

 

 

 

Il ritorno della Bomba

 

Per anni, specie dopo il 1989, è sembrato che le armi nucleari stessero progressivamente perdendo di importanza, sino a convincere anche un solido realpolitico come Henry Kissinger che fosse possibile concepire il progressivo smantellamento degli arsenali atomici sino allo zero.

In quegli anni non solo furono negoziate, tra Usa e Urss, importanti riduzioni delle loro forze strategiche, ma alcune repubbliche ex sovietiche che avevano riacquistato la loro indipendenza con la dissoluzione dell’Urss, l’Ucraina, la Bielorussia e il Kazakistan, accettarono di disfarsi degli armamenti nucleari che avevano ereditato, trasferendoli alla Federazione Russa.

Erano anche gli anni in cui venne stretto un patto con l’Iran per porre fine al rischio di un suo riarmo nucleare. Solo la Corea del Nord ha fatto eccezione e, in aperto contrasto con le scelte di tutti gli altri paesi dotati di tali armamenti, ha continuato a effettuare anche esplosioni nucleari sperimentali. Ora però le armi atomiche tornano prepotentemente sul davanti della scena.

Il riarmo nucleare

La spinta iniziale l’ha data la Russia, che prima ha violato militarmente l’indipendenza e l’integrità territoriale dell’Ucraina, in flagrante violazione di una serie di trattati da lei ratificati, e poi, poiché non sembra riuscire a vincere malgrado la disparità di forze a suo favore, ha più volte agitato lo spettro di ritorsioni nucleari contro i paesi che aiutano la resistenza di Kyiv.

Nel contempo la Cina, che per anni aveva mantenuto il suo arsenale al livello di circa 300 testate strategiche, più o meno alla pari con Francia e Regno Unito, ha avviato un processo di rapido riarmo che ha già portato al raddoppio delle sue testate operative e che sembra puntare a raggiungere il livello degli arsenali di Russia e Stati Uniti (circa 1.300 testate strategiche operative).

Poi c’è stato il bombardamento mirato di Israele e degli Usa contro i siti di arricchimento dell’uranio in Iran, per bloccare lo sviluppo di sue eventuali capacità nucleari militari.

C’è stata anche una breve ma intensa fiammata bellica tra India e Pakistan, con ampia mobilitazione delle forze militari, incluse quelle nucleari di entrambi i Paesi.

Abbiamo assistito a numerosi test di nuove armi strategiche russe e cinesi, soprattutto a livello missilistico, che potrebbero modificare significativamente gli equilibri globali. Allo stesso tempo gli Stati Uniti stanno rilanciando un gigantesco programma di difese antimissilistiche che potrebbe anch’esso modificare la situazione. Tutte e tre queste potenze nucleari hanno intensificato le loro attività militari nello spazio extra-atmosferico.

Infine, si avvicina la data del febbraio 2026, quando verrà a scadenza l’accordo START, tra Usa e Russia, che stabilisce i limiti quantitativi e qualitativi degli armamenti nucleari strategici delle due potenze. Tale trattato non prevede una sua eventuale estensione o rinnovo, ma solo la possibilità di una sua rinegoziazione; tuttavia finora non si sono avuti segnali in tal senso, né a Washington né a Mosca. Questo, peraltro, è anche l’ultimo trattato sul controllo degli armamenti nucleari ancora in vigore tra i due paesi dopo la rottamazione dei trattati ABM (forze antimissile) e INF (missili di media gittata).

Trump e la ripresa degli esperimenti nucleari

Non meraviglia quindi se, in questa atmosfera di riscoperta della centralità delle armi nucleari, abbia fatto scalpore l’improvvisa comunicazione con cui Donald Trump ha affermato di aver dato istruzioni ai dipartimenti interessati per la ripresa degli esperimenti nucleari “in condizioni di parità con le altre potenze”.

Di fatto, sino ad ora, Usa, Russia e Cina, e tutti gli altri Paesi con tali armamenti, con la sola eccezione della Corea del Nord, hanno rispettato il CTBT (Comprehensive Test Ban Treaty), l’accordo (firmato, ma non ratificato da Washington) che vieta la ripresa delle esplosioni nucleari a fini sperimentali. L’attività di ricerca e sperimentazione è continuata a livelli sub-critici, o di laboratorio, finora ritenuti più che sufficienti allo scopo.

È dunque cambiato qualcosa? In realtà, Chris Wright, il ministro a capo del Dipartimento dell’Energia, che ha il compito di produrre, immagazzinare e curare la manutenzione delle testate nucleari americane, ha precisato che si tratterebbe comunque di esperimenti sub-critici e di esplosioni non nucleari, in linea con il CTBT.

Tuttavia la percezione di un mutamento è rimasta forte, tanto più che Vladimir Putin ha sentito il bisogno di comunicare di aver dato istruzioni al Ministero degli Esteri, a quello della Difesa, ai Servizi e alle altre Agenzie interessate di fare il possibile per raccogliere ulteriori informazioni, onde analizzarle in sede di Consiglio di Sicurezza ed eventualmente per prepararsi a una ripresa dei test nucleari.

Naturalmente non si tratterebbe in nessun caso di esplosioni condotte nell’atmosfera, all’aperto, come negli anni iniziali dell’era atomica, ma di ben più limitate e controllate esplosioni sotterranee. Ma sarebbe comunque un grosso passo indietro in direzione di una ripresa della corsa agli armamenti nucleari.

I negoziati tra Usa, Russia e Cina

Non sappiamo ancora cosa accadrà. La via maestra per evitare il peggio sarebbe quella di negoziare un nuovo accordo sulla limitazione delle armi strategiche. Per il momento, Putin ha proposto di estendere per un anno, su base volontaria, il rispetto dei limiti fissati dallo START. Trump ha reagito positivamente, ma poi non se ne è saputo più niente.

Gli Stati Uniti in particolare sembrano preoccupati per le conseguenze sugli equilibri strategici del riarmo cinese. Tanto più che Pechino mantiene fermo il suo rifiuto a partecipare a eventuali negoziati per il controllo (e la possibile riduzione) delle forze nucleari. Molti analisti ritengono che gli Usa potrebbero avere difficoltà a sostenere la credibilità della loro deterrenza nucleare, in particolare per proteggere i loro alleati in Europa e nel Pacifico, se dovessero rispondere a una minaccia coordinata e contemporanea da Mosca e da Pechino. A loro avviso ciò richiederebbe un numero di testate strategiche operative più alto di quello stabilito dallo START.

Un processo di riarmo nucleare è quindi possibile, anche se si riuscisse a evitare una ripresa degli esperimenti con esplosioni nucleari. Questo, a sua volta, potrebbe avere un impatto disastroso sulla tenuta del Trattato di Non Proliferazione (TNP), che ha sinora limitato l’accesso di molti paesi all’arma atomica.

Il futuro della deterrenza europea e della non proliferazione

Allo stesso tempo, come conseguenza dell’aggressività russa da un lato e dei dubbi che circolano sulla piena credibilità dell’ombrello protettivo americano per i paesi non nucleari della Nato, è iniziato anche in Europa un complesso dibattito sul futuro della deterrenza che riguarda sia un necessario aggiornamento della strategia nucleare alleata, sia un possibile maggior ruolo da affidare a Francia e Regno Unito, sia più in generale il futuro della non proliferazione.

Tutto questo, infine, non potrà non avere conseguenze importanti sulla prossima Conferenza dei paesi membri del TNP, che potrebbero rivelarsi drammatiche, tanto più se ricordiamo il sostanziale fallimento delle due ultime Conferenze.

Siamo insomma ben lontani dall’uscita dall’era atomica. Al contrario, cresce l’urgenza di una maggiore attenzione e di nuove iniziative per il controllo degli armamenti strategici. Stefano Silvestri, AffInt 12

 

 

 

 

 

Gli interventi per il rafforzamento del “Turismo delle radici”

 

ROMA – Si è svolto a Villa Madama l’evento di presentazione degli interventi per il rafforzamento del “Turismo delle radici” finanziati con il Fondo Sviluppo e Coesione. L’incontro è stato moderato dalla giornalista Giovanna Pancheri. “Il Turismo delle Radici è un progetto del PNNR – ha spiegato nel suo intervento il Ministro degli Esteri Antonio Tajani – che era stato assegnato al Maeci prima del mio arrivo in questo dicastero. Questo progetto, che ho considerato di grande interesse, ha come obiettivo quello di far ritornare nel nostro Paese i discendenti degli italiani all’estero per fargli conoscere i luoghi dove hanno vissuto e da dove sono partiti i loro antenati che hanno scelto la via dell’emigrazione”. “Abbiamo sviluppato questa iniziativa – ha continuato il Ministro – anche attraverso la valorizzazione de piccoli comuni che hanno bisogno di maggiore attenzione. Sono venuti alla Farnesina centinaia sindaci e abbiamo finanziato tanti comuni del sud e del nord del nostro Paese. Alla luce degli ottimi risultati nell’utilizzo dei fondi del PNNR, di cui ringrazio i nostri funzionari, abbiamo ottenuto dal CIPESS un finanziamento aggiuntivo di 200 milioni di euro per realizzare progetti pilota nelle aree dove si possono utilizzare i fondi di coesione, cioè il centro e il sud del nostro Paese”. Tajani ha poi sottolineato come questi nuovi progetti riguarderanno, con opere di ammodernamento, in primo luogo l’aeroporto di Fiumicino, dove giungono i turisti, e nella capitale l’impianto che ospita grandi eventi tennistici, in considerazione del fatto che lo sport rappresenta uno strumento di attrazione e un biglietto da visita del nostro Paese. Un altro progetto sarà sviluppato nel sud del Lazio per il miglioramento di un grande parco che si trova nell’area di Frosinone e Latina. Un contesto che ha registrato grandi flussi emigratori verso le Americhe e l’Australia. Segnalata dal Ministro anche un’altra iniziativa di ammodernamento che verrà portata avanti in provincia di Avellino dove nel capoluogo manca una stazione ferroviaria. In questo contesto, oltre alla stazione, verrà recuperata una ferrovia storica turistica e un percorso religioso che attraversa diverse regioni.  “Valorizzare il Mezzogiorno – ha aggiunto Tajani – significa anche permettere al turista che viene nel nostro Paese di ammirare l’arte e la natura, ma anche di poter rimanere per lunghi periodi, ad esempio per fare pratica sportiva. Quindi i progetti del Lazio e della Puglia guardano anche alla possibilità di realizzare infrastrutture sportive. Quindi l’iniziativa punta ad accogliere più turisti,  ma anche a dare beneficio al territorio”. Il Ministro ha poi sottolineato come il lavori si svolgeranno attraverso un’attenta gestione del denaro pubblico e in trasparenza, Verrò inoltre creato un Comitato esterno incaricato di monitorare l’attuazione degli interventi.  La realizzazione dei progetti sarà governata dagli Enti esecutori: la Provincia di Avellino, il Comune di Fiumicino, l’Amministrazione del Parco di Ausonia e del Lago di Fondi e Sport e Salute. Tajani ha infine segnalato che dal Ministero dell’Interno sono stati stanziati 20 milioni di euro per la sicurezza delle aree coinvolte.

“Più di un anno fa – ha ricordato nel suo intervento il Presidente della National Italian American Foundation, Robert V. Allegrini – ho firmato un accordo con il Ministro Tajani affinché la Niaf fosse partener ufficiale del Maeci nell’iniziativa Turismo delle Radici negli Stati Uniti. Quando la Niaf si è impegnata a promuovere questa iniziativa abbiamo abbracciato una verità semplice. ma potente: il modo migliore per gli italo americani di connettersi con le loro radici e quello di visitare l’Italia, ovvero camminare nelle stesse strade dei loro antenati, gustare i sapori autentici della loro tradizione di famiglia e sentire quel profondo senso di appartenenza che vive e che viene solo dal toccare le proprie radici”.  Allegrini ha poi spiegato come le iniziative della Niaf in questo ambito si siano sviluppate attraverso i canali social al fine di poter

condividere storie autentiche della comunità italo americana. “Abbiamo fatto interviste sincere – ha aggiunto Allegrini – con i nostri stimati membri del consiglio e con gli studenti, catturando le loro esperienze di visita alla terra dei loro antenati,   viaggi che hanno formato la loro identità culturale. Abbiamo anche lavorato con influencer italo americani, ampliando il nostro messaggio per raggiungere centinaia di migliaia di italo americani e guidarli a scoprire le loro storie attraverso Italea.com. I risultati sono stati straordinari con più di 40 video e abbiamo raggiunto oltre 2,5 milioni di italo americani”. “Questa iniziativa dimostra . ha concluso Allegrini – che il legame tra il nostro Paese e la diaspora italiana rimane indistruttibile. Non siamo turisti, siamo figli che tornano a casa”.

Ha poi preso la parola il nuovo Direttore generale per gli italiani all’estero e le politiche migratorie della Farnesina Silvia Simoncini che, dopo aver ringraziato il Ministro Tajani per l’incarico, ha affermato: “Da ex console che ha operato sul campo conosco quanto siamo importanti i consolati e le ambasciate che sono al servizio delle comunità all’estero a cui erogano i servizi. I consolati e le ambasciate – ha aggiunto Simoncini – valorizzeranno e celebreranno il progetto del Turismo delle Radici attraverso percorsi ed eventi con i quali potranno condividere le tradizioni dei nostri bellissimi borghi e la cultura dei nostri piccoli comuni italiani da cui proviene gran parte dell’emigrazione italiana. Coloro che vorranno ricercare le proprie radici, visualizzare con i propri occhi i luoghi dei racconti dei propri nonni, potranno quindi farlo attraverso questo progetto e grazie all’impegno delle nostre ambasciate e consolati. Quindi – ha concluso – c’è tantissimo lavoro da fare. Noi ci siamo già rimboccati le maniche”.

Ha poi preso la parola Carmine De Angelis, Consigliere alla Vice Presidenza del Consiglio per gli enti locali e la programmazione europea, che ha rilevato come il progetto del turismo delle radici nasca con l’idea di coinvolgere “l’Italia che è fuori dall’Italia” e che non ha rescisso il legame storico culturale con i suoi avi. De Angelis, dopo aver segnalato che a testimonianza del buon governo già nell’ottobre del 2024 l’80% delle risorse dedicate dal PNNR al Turismo delle Radici erano state spese, ha sottolineato come il fatto dare migliori servizi ai piccoli centri del nostro Paese possa essere lo “specchio del rientro italiano”. Per quanto riguarda le nuove risorse arrivate con l’accordo di coesione De Angelis ha evidenziato come attraverso i progetti pilota si lavorerà per favorire nei luoghi di origine maggiore mobilità e riqualificazione urbana, in modo da far vivere ai turisti di ritorno una positiva esperienza.  E inoltre intervenuto, Raffaele Squitieri, Presidente del Comitato di Monitoraggio e Valutazione. Squitieri ha spiegato  che il Comitato monitorerà l’attuazione degli interventi sotto il profilo dell’efficacia, dell’efficienza e della legalità e darà pareri su specifiche questioni.  “Lo scopo del Comitato – ha aggiunto Squitieri – non è quello dei controlli, che verranno fatti dagli appositi organi, ma di verificare, con una visione dall’alto, la correttezza dell’insieme delle realizzazione”.

Si poi tenuta una tavola rotonda con i rappresentanti dei soggetti attuatori dei progetti. Ha aperto il dibattito il Presidente della provincia di Avellino Rizieri Buonopane. “Sono interventi importanti – ha sottolineato Buonopane – per un territorio che necessita di attenzione, ed il fatto che la Farnesina abbia voluto investire in una regione del sud Italia, è per noi una grande opportunità, ma allo stesso tempo una sfida. Questo intervento cala su 400mila abitanti circa.

Perdiamo ogni anno in media 3000 residenti, quindi il fenomeno dello spopolamento è molto avvertito. Il tema principale – ha continuato Buonopane  – è quello del lavoro, ma c’è anche la mancanza dei servizi, ed è un ulteriore motivo per cui abbiamo colto questa opportunità.  Il Presidente della provincia ha poi spiegato come un obiettivo importante sia anche quello di collegare il capoluogo attraverso la tratta ferroviaria ad alta velocità Avellino – Benevento. Ha poi preso la parola il Sindaco del comune di Fiumicino Mario Baccini che ha sottolineato come questo progetto si prefigga sia di ricollegare le radici culturali di un’italianità che rischia di disperdersi nel mondo, sia di creare, grazie ai finanziamenti pubblici, una continuità e solidità storica, che pone al centro la riqualificazione del patrimonio culturale, ma anche edilizio. La città di Fiumicino – ha concluso Baccini – non è solo una città aeroportuale, ma è anche una città di bonificatori, che hanno bonificato in passato vari parti del territorio come appunto Fiumicino o Latina … oggi tramite questo progetto viene riacquistata sostanza, cultura e soprattutto speranza nel futuro”. È poi intervenuto il Presidente dell’Ente Parco Naturale Regionale Monti Ausoni e Lago di Fondi, Giuseppe Incocciati. “Con voi oggi – ha affermato Incocciati – voglio condividere una visione che unisce la conservazione della natura con lo sviluppo consapevole del nostro territorio. L’accordo di coesione, relativo al parco naturale regionale dei monti Ausoni e Lago di Fondi, rappresenta una promessa, quella di trasformare i nostri laghi in modelli di sostenibilità,  dove l’economia e l’ambiente sono alleati”. Il Presidente ha elencato una serie di migliorie ecosostenibili, dal punto di vista della mobilità all’interno del parco, come ad esempio l’introduzione di cicloturismo, battelli elettrici, riqualificazione dei percorsi, installazione di pontili. L’obiettivo,  ha spiegato Incocciati, è quello di offrire un turismo di tipo alternativo, dove il risparmio energetico, diventi un investimento a lungo termine e sicuro per l’ambiente. Ha infine ha preso la parola l’Amministratore Delegato di Sport e Salute, Diego Nepi Molineris che si è soffermato sul progetto che riguarda il Foro Italico a Roma “Un maxi progetto, – ha spiegato – dove si cerca di coniugare lo sviluppo del nuovo campo centrale, sia dal punto di vista energetico, che dal punto di vista ingegneristico, sotto un profilo del design made in italy. Lo scopo è quello di far sì che questo sia un punto di riferimento ed di orgoglio anche per un turismo di ritorno”. Molineris ha auspicato la chiusura dei due progetti tra il 2027 e il 2029 , con una possibile ulteriore accelerazione.  Il dibattito si è concluso con il Ministro Tajani, che ha consegnato ai 4 relatori un vassoio con l’emblema della Farnesina, accompagnato da un attestato.

Lorenzo Morgia, Inform/dip 21

 

 

 

 

 

Storia dell’emigrazione italiana: il Ministero dell’Istruzione invita le scuole ad insegnarla

 

ROMA – Il Ministero dell’Istruzione e del Merito invita le Scuole ad inserire la storia dell’emigrazione italiana nei percorsi didattici dell’anno scolastico 2025/2026. Lo fa attraverso la Nota del 4 novembre 2025 (n. 70898) indirizzata alle istituzioni scolastiche, statali e paritarie nella quale si legge che la Direzione Generale per gli ordinamenti scolastici, la formazione del personale scolastico e la valutazione del sistema nazionale di istruzione del Ministero dell’Istruzione e del Merito d’intesa con la Direzione Generale per gli Italiani all’Estero e le Politiche Migratorie del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale promuove l’attenzione sull’insegnamento della storia dell’emigrazione italiana. L’indicazione all’insegnamento della storia dell’emigrazione non è vincolante ma caldeggiata: nel rispetto dell’autonomia progettuale, organizzativa e didattica delle singole istituzioni scolastiche e di quanto previsto dalla normativa vigente per il primo e secondo ciclo di istruzione, si invitano le scuole di ogni ordine e grado a favorire lo studio di momenti storici, tematiche economiche e sociali, eventi politici, aspetti culturali ed antropologici legati all’emigrazione italiana.  Nella Nota si ricorda che il fenomeno dell’emigrazione italiana riguarda nella dimensione temporale un lungo periodo della storia contemporanea – in particolare dalla seconda metà del XIX secolo fino ai nostri giorni – e nella dimensione spaziale molti Paesi dei cinque continenti, oltre a interessare lo stesso territorio nazionale. Il Ministero indica che nell’ambito del primo ciclo di istruzione, le migrazioni possono essere declinate in termini di emigrazione italiana e della sua complessa fenomenologia economica, sociale, politica e culturale, rilevandone le costanti, le differenze e le evoluzioni nel tempo e nello spazio. Per quanto riguarda la scuola secondaria di secondo grado, l’insegnamento della storia dell’emigrazione italiana può essere previsto sia attraverso l’approfondimento dei principali processi di trasformazione tra la fine del secolo XIX e il secolo XXI a livello mondiale (ad esempio: industrializzazione e società post-industriale; globalizzazione; modelli culturali a confronto); sia mediante l’esame di nuclei tematici della Storia d’Italia, come la crisi economica e sociale alla fine dell’Ottocento; l’età giolittiana; il secondo dopoguerra; la ricostruzione; la crisi energetica del 1973 e l’austerity. Il Ministero fa osservare che la tematica dell’emigrazione italiana consente di mettere in relazione le diverse discipline previste dai curricoli del primo e del secondo ciclo; pertanto, la sua trattazione ben si presta – si sottolinea nella Nota –  un approccio interdisciplinare, alla valorizzazione del territorio e delle comunità locali, alla collaborazione con musei, archivi e biblioteche, all’utilizzo della formazione scuola-lavoro, al ricorso a didattiche innovative e orientative. Da un punto di vista strettamente storico, eventuali percorsi didattici potrebbero essere affrontati anche attraverso il ricorso alla public history, la quale consente la possibilità di svolgere attività didattiche nei settori della conservazione storica, dell’archivistica, della storia orale e della curatela museale in istituzioni come musei, archivi, dimore, siti, parchi, società cinematografiche e televisive. Al fine di agevolare le attività delle istituzioni scolastiche, il Ministero allega anche un elenco di Musei e Fondazioni dell’emigrazione in Italia, predisposto dalla Direzione generale per gli Italiani all’estero e le politiche migratorie del Ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale: Fondazione Genti d’Abruzzo Onlus, ente gestore del Museo delle Genti d’Abruzzo;  Museo Emigrazione Lucana – Centro Lucani nel Mondo “Nico Calice” ; Museo del Cognome e Casa Museo “Joe Petrosino” ; Museo Casa dell’Emigrante Cilentano; La Nave della Sila; Museo del Mare, dell’Agricoltura e delle Migrazioni; Centro di Documentazione dell’Emigrazione Parmense Bedonia ; Museo Emigrazione Scalabrini; Museo Nazionale dell’Emigrazione Italiana ; MuSel – Museo Archeologico e della Città di Sestri Levante; MEMA – Museo dell’Emigrazione Marchigiana; Museo dell’Emigrante – Centro di ricerca sull’emigrazione , San Marino; Museo Comunale delle Migrazioni, Vinchiaturo; Museo Emigrazione Molise; Centro Studi Silvio Pellico ETS, Comitato di gestione del Museo Regionale dell’emigrazione dei Piemontesi. (Inform/dip 5)

 

 

 

 

 

 

La Sicilia che perde i suoi giovani migliori

 

La Sicilia continua a perdere ciò che di più prezioso possiede: i suoi giovani laureati. Non partono più con le valigie di cartone, ma con curricula brillanti, competenze specialistiche e una formazione costata anni di investimenti pubblici. Eppure, queste energie non trovano spazio nella loro terra.

L’emigrazione di oggi è figlia di un retaggio antico. A scuola studiavamo su libri stampati altrove, che raccontavano solo paesaggi e modelli economici del Nord. Già allora imparavamo, silenziosamente, che il futuro non sarebbe stato qui. Così generazioni di ragazzi hanno interiorizzato l’idea che “per diventare qualcuno” bisogna partire.

E mentre loro partivano, la Sicilia si impoveriva.

La fuga dei laureati è un depauperamento culturale che abbassa il livello di dialogo, confronto e innovazione. Ogni giovane che se ne va porta con sé non solo competenze, ma la possibilità stessa di cambiare questa terra. Il risultato è una società più fragile, meno critica, più esposta ai vecchi problemi.

Si parla spesso di mafia come causa di ogni ritardo, ma la mafia è soprattutto un sintomo: nasce dove mancano prospettive reali. Quando un territorio non offre opportunità ai suoi migliori giovani, si condanna da solo all’arretratezza.

Intanto migliaia di siciliani si affermano a Milano, a Bologna, a Torino, e sempre più spesso all’estero, dove vengono riconosciuti come professionisti preparati e capaci. Qui, invece, il loro talento resta invisibile.

La Sicilia ha accolto popoli da ogni parte del mondo, ma oggi restituisce al mondo i suoi figli migliori. E ogni partenza è una sconfitta collettiva.

Se vogliamo invertire la rotta, non bastano slogan. Servono investimenti veri, ricerca vera, imprese che assumano davvero.

Serve capire che trattenere un giovane non è un favore: è un atto di sopravvivenza.

Giuseppe Tizza, de.it.press 25

 

 

 

 

 

 

Il 3 dicembre a Verona si celebrano i 70 anni dell’accordo italo-tedesco sul lavoro

 

Mercoledì 3 dicembre a Verona si celebreranno i 70 anni dell’accordo italo-tedesco sul lavoro, firmato il 20 dicembre 1955. L’iniziativa è promossa dal Comune di Verona in collaborazione con MEI– Museo Nazionale dell’Emigrazione Italiana.

Una ricorrenza che – sottolineano dal MEI – non è solo l’anniversario di un documento diplomatico, ma il ricordo di un capitolo umano che ha segnato profondamente la vita di centinaia di migliaia di persone e ha contribuito a costruire un’identità europea condivisa. Quel protocollo di lavoro infatti ha dato avvio a una migrazione significativa: grazie ad esso, tra il 1955 e la metà degli anni ’70, oltre 500.000 italiani furono assunti nella Germania Ovest. Molti di loro tornarono in Italia, ma una parte si stabilì definitivamente, dando vita a comunità italo-tedesche tuttora vive e radicate. La commemorazione dell’“Accordo fra la Repubblica italiana e la Repubblica Federale di Germania per il reclutamento e il collocamento di manodopera italiana”, che si svolgerà nel suggestivo Palazzo della Gran Guardia, si articolerà in due momenti: un convegno mattutino e la prima nazionale del documentario “Un sogno italiano”, prodotto da Orisa Produzioni, nel pomeriggio. Un anniversario che invita a ripercorrere le storie di chi partì dall’Italia, e anche da Verona, verso la Germania del dopoguerra, contribuendo alla ricostruzione di entrambi i Paesi e ponendo le basi di quella che oggi riconosciamo come cittadinanza europea. Un evento quanto mai significativo per Verona, città gemellata con Monaco di Baviera, legame che rende ancora più profondo il valore di questa ricorrenza e del dialogo italo-tedesco che sarà ricostruito durante l’incontro.  La mattinata si aprirà alle ore 9.30 con i saluti istituzionali del Sindaco di Verona Damiano Tommasi e di altri rappresentanti del Comune di Verona, del Presidente di Fondazione MEI Paolo Masini – che farà da moderatore della giornata -, del Console Generale della Repubblica Federale di Germania a Milano Wiltrud Christine Kern, dell’Ambasciatore d’Italia in Germania Fabrizio Bucci, del Chief Corporate e Communication Officer Gruppo FS Giuseppe Inchingolo, della Segretaria Generale del CGIE Maria Chiara Prodi e della Presidente del Com.It.Es. di Monaco di Baviera Daniela di Benedetto, che con un breve intervento sottolineerà il significato di una memoria condivisa tra le comunità italiane di Verona e della Baviera (“Ricordare l’emigrazione, comprendere l’emigrazione: un ponte tra Verona e Monaco e oltre”).

Nel corso del convegno, gli interventi offriranno una lettura articolata e multidisciplinare dell’emigrazione italiana verso la Germania, intrecciando storia, archivi, testimonianze e nuove mobilità. Si partirà con Elia Morandi, che racconterà il ruolo centrale giocato dal Centro di Emigrazione di Verona, nodo essenziale per migliaia di lavoratori che partirono verso la Germania nel dopoguerra; a seguire, gli studenti del Liceo Artistico Statale di Verona (sede che un tempo ospitava il Centro di Emigrazione) presenteranno “Storie comuni”, un’iniziativa nata all’interno di un progetto internazionale dedicato alla ricerca di narrazioni condivise sul tema della migrazione, restituendo attraverso la voce dei più giovani un punto di vista fresco e sensibile. Il quadro si allargherà poi alle politiche tedesche grazie all’intervento di Franco Valenti, che illustrerà gli strumenti di inserimento e inclusione messi in atto dalla Germania, mettendo in luce i cambiamenti avvenuti nel corso dei decenni.  Un contributo fondamentale arriverà da Federica Onelli del MAECI, che presenterà l’Archivio Storico Diplomatico come una delle principali fonti per ricostruire la storia dell’emigrazione italiana, indispensabile per comprendere il contesto istituzionale in cui si sviluppò l’esodo verso la Germania. La migrazione veronese verrà approfondita dalla prof.ssa Federica Bertagna, che illustrerà le vicende conservate nell’Archivio del Centro di Emigrazione di Verona, riportando alla luce le storie degli espatri assistiti da Verona e provincia e mostrando come questo territorio sia stato un punto di partenza significativo nel grande movimento migratorio degli anni ’50 e ’60. Lo sguardo si sposterà poi sul presente con l’analisi di Delfina Licata della Fondazione Migrantes, che presenterà i dati più recenti sulle comunità italiane nel mondo e in particolare in Germania, soffermandosi sui nuovi profili della mobilità: competenze, motivazioni, aspirazioni e trasformazioni che delineano una presenza italiana diversificata e in continua evoluzione. Infine, Lorenzo Di Lenna della Fondazione Nord Est approfondirà il fenomeno della mobilità giovanile, con un’indagine dedicata ai ragazzi che, negli ultimi anni, hanno scelto la Germania come destinazione privilegiata. Il focus veronese permetterà di capire quanti siano, perché partano e quali aspettative portino con sé nel rapporto con il mondo del lavoro. Il pomeriggio sarà invece dedicato alla dimensione narrativa e cinematografica dell’emigrazione italiana. Sempre alla Gran Guardia alle ore 18.00 la prima nazionale del documentario “Un sogno italiano” (Orisa Produzioni), che ripercorre la storia di tanti italiani che dagli anni ’50 hanno lasciato i loro paesi e le loro famiglie per imbarcarsi in un’avventura sconosciuta che li avrebbe portati a contribuire alla crescita stessa della Germania. Una vicenda del passato che può far riflettere sul presente, sottolineando il valore di chi, inconsapevolmente, trasformò la storia sociale europea. Ad anticipare la proiezione, che si svolgerà alla presenza del Presidente della Fondazione MEI e delle istituzioni, il messaggio del Presidente di Cinecittà, Antonio Saccone e gli interventi di Fausto Caviglia (regista), Cristiano Bortone (produttore) e Antonio Padovani (co-produttore). Sarà proiettato il docufilm, della durata di 90 minuti, seguito da un breve momento di domande e risposte con il pubblico.

La proiezione sarà a ingresso gratuito: istituzioni, associazioni che lavorano sul tema delle migrazioni, università, centri di ricerca e cittadini sono invitati a partecipare. Sarà un’occasione per riflettere insieme sulle radici dell’emigrazione italiana e sul suo lascito europeo, ma anche sulle nuove forme di mobilità che oggi uniscono Italia e Germania in un dialogo profondo e duraturo. (Inform 28)

 

 

 

 

 

La vita guarisce senza testimoni

 

Questa frase è silenziosamente rivoluzionaria, perché distrugge la credenza popolare che la guarigione esista soltanto quando qualcuno la vede, la riconosce o la convalida. Gli esseri umani hanno creato una cultura in cui il dolore deve essere mostrato, la tristezza deve essere spiegata, la sofferenza deve essere provata davanti agli altri — quasi come un processo davanti al tribunale dell’opinione sociale. Ma la verità è il contrario: la vita lavora nel dominio invisibile, la natura lavora negli strati nascosti, la trasformazione avviene silenziosamente nel cuore umano quando nessuno ci osserva, nessuno ci applaude, nessuno ci consola, nessuno sa quale battaglia stiamo combattendo. La guarigione profonda non è dramma; è evoluzione interiore. E l’evoluzione non ha bisogno della folla. Ha bisogno del tempo.

 

Ogni essere umano attraversa notti oscure, transizioni difficili, delusioni silenziose, crolli emotivi e ferite dell’anima. Ma non dichiariamo ogni momento di sofferenza. Il mondo conosce soltanto una piccola parte del nostro dolore. Il vero peso che portiamo nel petto rimane invisibile. E questo è un bene, non una tragedia. Perché se ogni dolore avesse un testimone, la guarigione diventerebbe spettacolo, e noi cominceremmo a recitare invece che evolverci. Il valore della sofferenza interiore è che ci modella senza interferenze, senza interpretazioni, senza i rumori delle menti altrui. Il dolore è un maestro che insegna meglio quando nell’aula non c’è nessun spettatore.

 

Il Dr. Sethi K.C., ideatore della Sethian Philosophy e della Doctrine of Questions, dice: “Prima di cercare le risposte, dobbiamo purificare le domande interiori.”

La maggior parte soffre non perché la vita è complicata, ma perché le domande dentro di noi sono formulate male. Una domanda corretta cambia la direzione della mente, e la guarigione inizia. Anche questo avviene senza testimoni. La mente comincia a guarire nel momento stesso in cui inizia a porsi la domanda giusta.

 

Durante il lungo cammino con la psicologia, il comportamento umano, la creatività, la letteratura e la riflessione filosofica, il Dr. Sethi K.C. ha scoperto che le correzioni più profonde del carattere avvengono internamente attraverso i dialoghi silenziosi con se stessi. Nessun dottore, nessun professore, nessun amico, nessun terapeuta può entrare in quel santuario. Il mondo può guidare, ma non può guarire. La guarigione è auto-generata. La guarigione è un meccanismo automatico dell’esistenza. Siamo nati con la capacità interna di riparare, così come la terra ripara se stessa dopo le tempeste, così come il corpo ripara i tessuti dopo le ferite, così come la natura si riassesta dopo la distruzione. L’universo ha progettato l’essere umano con una straordinaria capacità di recupero, ma la magia è visibile solo quando siamo abbastanza pazienti da lasciare che il tempo faccia il suo lavoro silenzioso.

 

Le persone si lamentano che nessuno le ha capite, sostenute, accompagnate nei momenti più duri. Ma spesso proprio queste condizioni sono quelle che fanno nascere la vera autosufficienza. In assenza di sostegno nasce la forza interiore. In assenza di pubblico nasce l’auto-validazione. In assenza di consigli nasce la chiarezza intuitiva. Non sempre è una maledizione camminare soli. Molte volte è una benedizione. Perché la solitudine porta in superficie la voce dell’io interiore. E quella voce è il vero guaritore. Il conforto esterno è temporaneo; la chiarezza interna è eterna.

 

Oggi persino le emozioni sono state trasformate in spettacolo. I social media sono diventati un teatro dove si pubblica anche il dolore, nella speranza che qualcuno commenti, qualcuno ci compatirà. Ma nulla sullo schermo può guarire la ferita nel cuore. I “like” non curano. I commenti non trasformano. Il riconoscimento esterno non può sostituire la realizzazione interna. La vera guarigione avviene quando cominciamo un dialogo con la nostra mente. Comprendiamo l’architettura segreta dell’attaccamento quando il cuore si spezza, la fragile struttura dell’aspettativa quando la fiducia fallisce, e la forza nascosta nell’accettazione quando i sogni crollano. Questi non sono doni che possono venire dagli altri. Arrivano nel silenzio. E quando queste comprensioni entrano nell’anima, siamo guariti, anche se nessuno nel mondo sa che una trasformazione è avvenuta.

 

Il tempo è il più grande filosofo. Con il tempo tutto appare diverso. Ciò che ci ferisce diventa il nostro insegnamento. Ciò che ci spezza diventa la nostra forza. Ciò che ci delude diventa la nostra maturità. E in tutto questo, quasi sempre, il mondo non sa nulla della rivoluzione interna. Il mondo vede solo la versione raffinata finale di noi. Non vede le notti in cui abbiamo pianto, le mattine in cui abbiamo dubitato della vita, i pomeriggi in cui abbiamo dubitato di noi stessi, i momenti in cui abbiamo pregato in silenzio forze invisibili dell’universo. Questa è la bellezza dell’evoluzione interiore. La crescita non ha bisogno di testimoni. Ha bisogno di volontà.

 

La vita allontana silenziosamente dal nostro mondo le persone che non sono allineate con il nostro destino. La vita cambia condizioni che non sono allineate con la nostra crescita. La vita riorganizza circostanze che non sono allineate con la nostra missione. E in questo processo la vita dissolve anche i vecchi modelli emotivi che non servono più. Questo processo invisibile è guarigione. E la vita lo fa senza chiedere permesso e senza informare nessuno.

 

La chiusura non viene dagli altri. La chiusura è una frase che diciamo a noi stessi: “Questo capitolo è finito.” In quella frase inizia la libertà interiore. Questa libertà è il primo segno della guarigione profonda.

 

La guarigione non è lineare. Arriva a onde. A volte tutto va bene, e a volte ritornano vecchi ricordi. Ma anche quando il dolore ritorna, noi non siamo più la stessa persona che lo ha sentito la prima volta. Questo cambiamento è guarigione. La ferita esiste ancora, ma non pesa più allo stesso modo. La guardiamo con occhi diversi. Questo cambiamento non è visibile agli altri, ma dentro di noi una profonda trasformazione è avvenuta.

 

C’è una dignità nella guarigione invisibile.

La dignità di essere auto-costruiti.

La dignità di non dipendere dalla convalida esterna.

 

Quando un seme si rompe sotto terra per diventare pianta, nessuno vede la rottura. Ma tutti vedono la pianta. Allo stesso modo, quando il cuore umano si spezza e guarisce, nessuno vede la rottura. Ma un giorno si vede un nuovo sé — più calmo, più saggio, più profondo.

 

E allora lo ripeto con convinzione: La vita guarisce senza testimoni.

 

E questa verità, quando viene realizzata profondamente, porta una pace immensa. Perché smettiamo di cercare convalida esterna per le nostre battaglie interiori. Cominciamo a rispettare le nostre metamorfosi silenziose. Cominciamo a fidarci dei processi invisibili della vita. La guarigione non è un evento; è un processo. In questo processo il silenzio è il compagno, il tempo è il medico, l’esperienza è la medicina, la riflessione è la terapia, e la saggezza è la destinazione. Tutto il resto è rumore.

 

Un giorno, senza annuncio, ci svegliamo e scopriamo che la ferita è diventata storia, il dolore è diventato lezione, il lutto è diventato memoria e la lotta è diventata forza. E quel giorno sorridiamo in silenzio, non perché qualcuno ha visto la nostra guarigione, ma perché noi stessi abbiamo vissuto il miracolo dentro. Sì, la vita guarisce senza testimoni. E questo è il segreto più divino dell’esistenza umana.

Dr. Sethi Krishan Chand, de.it.press 12

 

 

 

 

 

 

La Settimana della Cucina Italiana nel Mondo

 

ROMA – E’ stata presentata a Villa Madama la decima edizione della Settimana della Cucina Italiana nel Mondo che quest’anno è dedicata al tema “La cucina italiana tra salute, cultura e innovazione”.  Questa edizione dell’evento si prefigge di sostenere la candidatura della cucina italiana a Patrimonio culturale immateriale dell’Unesco,  nonché di valorizzare la cucina italiana come modello alimentare sano e sostenibile e di porre l’accento sugli aspetti di innovazione e ricerca che contraddistinguono tutto il ciclo alimentare, dal campo alla tavola, fino a riciclo e smaltimento. Per l’occasione la rete estera della Farnesina ha in programma più di undicimila iniziative in più di 100 Paesi.  L’evento di presentazione è stato introdotto dal Ministro degli Esteri Antonio Tajani. “Con la Settimana della Cucina Italiana nel Mondo, grazie ai tanti appuntamenti che realizzano le nostre Ambasciate all’estero, – ha esordito Tajani – vogliamo far conoscere sempre di più il meglio della nostra cucina e dei nostri territori. Ho quindi voluto dare a questo evento un taglio concreto e operativo per sostenere questo comparto strategico del nostro tessuto produttivo e valorizzare la nostra filiera di eccellenza”. Il Ministro, dopo aver sottolineato che il settore agroalimentare rappresenta il “fiore all’occhiello della produzione italiana e del nostro export”, si è rivolto ai giovani aspiranti chef presenti in sala evidenziando l’importanza di difendere e promuovere nel mondo la dieta mediterranea che è fondamentale anche per la nostra salute. “La politica estera – ha aggiunto Tajani – non la fanno soltanto il Ministro con i diplomatici, ma tutti gli italiani che in giro per il mondo esaltano il ruolo del nostro Paese”. “La cucina – ha proseguito il Ministro – è uno strumento di dialogo, di confronto ed espressione dei nostri territori e delle nostre tradizioni e della preparazione di ingredienti unici. Per questo guardiamo con fiducia alla prossima decisione dell’Unesco sulla candidatura della cucina italiana a Patrimonio Immateriale dell’Umanità. Abbiamo lavorato su questo obiettivo con il massimo impegno e lo faremo fino all’ultimo secondo”.  “La cucina – ha poi rilevato Tajani – è anche innovazione, a partire delle campagne dove i nostri agricoltori sono i migliori custodi dei nostri territori. Un’innovazione che va coniugata con il rispetto delle nostre tradizioni,  delle nostre radici e dei nostri valori”.  Il Ministro ha anche segnalato come nel 2024 il nostro export agroalimentare abbia raggiunto il record di 67, 5 miliardi con una crescita superiore all’8% . Un andamento positivo che è continuato anche nei primi 8 mesi di quest’anno, dove si è registrato un ulteriore aumento del 6%. “Promuovere all’estero la cucina – ha aggiunto Tajani – serve a favorire anche l’arrivo dei turisti Italia. Vogliamo anche fare leva sulla nostra bella lingua. Per questo la scorsa settimana ho lanciato la Comunità dell’Italofonia. Uno spazio politico di collaborazione tra quanti amano l’italiano e quindi il nostro Paese”. Il Ministro ha inoltre evidenziato sia l’esigenza di difendere i prodotti italiani dall’ Italian sounding, sia la creazione presso la Farnesina di una sala operativa che si occuperà di export 24 ore su 24. “Il 17 dicembre inaugurerò a Milano – ha poi segnalato Tajani – la terza edizione della Conferenza Nazionale dell’Export. Saranno presenti tutti i nostri ambasciatori, e per la prima volta i direttori degli uffici ICE all’estero, oltre agli esperti di Cassa Depositi e Prestiti,  Sace e Simest, e sarà possibile per i rappresentanti delle imprese incontrarli singolarmente”. Il Ministro ha infine rilevato come la Settimana si prefigga anche di valorizzare il cibo come strumento di cooperazione, solidarietà e dialogo fra i popoli. In questa prospettiva, nell’ambito dell’iniziativa “Food for Gaza”, il 4 dicembre prossimo partirà dalla base di Brindisi delle Nazioni Unite un volo diretto per Gaza con cento tonnellate di prodotti alimentari per aiutare la popolazione civile. Previsto anche l’invio di una nave cargo con aiuti umanitari per l’iniziativa “Italy for Sudan”.

“La candidatura Unesco per la cucina italiana – ha affermato il Ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida in un video messaggio di saluto – rappresenta un riconoscimento per il lavoro di quanti operano in questo settore, dove la qualità è un elemento essenziale per garantirci valore aggiunto”. “Giudico essenziale – ha proseguito il Ministro – la possibilità di rappresentarci proprio sul piano internazionale, come capaci di garantire un punto di riferimento a coloro che vedono nel Made in Italy non solamente un bene ‘fatto in Italia’, ma un prodotto bello, buono e da comprare”. “Le nostre Ambasciate – ha poi rilevato Lollobrigida – sono vere e proprie vetrine e grazie alla nostra diplomazia nel mondo vengono utilizzate non solo per tenere i contatti con le altre Nazioni, ma anche per farsi attivi promotori del nostro modello e delle nostre imprese. Rappresentano un punto di riferimento saldo per gli imprenditori che stanno in Italia e per quella moltitudine eccezionale dei cittadini che all’estero amano l’Italia sia perché sono figli o nipoti di questa nazione, sia perché vengono messi in contato con il nostro modello, il nostro cibo,  le nostre bellezze, la nostra biodiversità e la nostra musica. E tutto questo avviene grazie alle nostre sedi diplomatiche”. “Chi celebra la cucina italiana – ha concluso il Ministro – apre una finestra sull’Italia. Un invito a vedere il nostro Paese che incrementa anche il nostro turismo e favorisce l’acquisto di prodotti italiani”.

Anche il Presidente dell’Agenzia ICE Matteo Zoppas ha parlato della Settima della Cucina come di una finestra che capace di mostrare il valore intrinseco delle nostre esportazioni. “In questa Settimana – ha spiegato Zoppas – noi sviluppiamo 174 iniziative in 103 paesi diversi, dando valore ad un momento strategico della cucina italiana, un settore che non  rappresenta solo ciò che consumiamo al tavolo,  ma che riguarda anche i tanti chef italiani , che sono i nostri ambasciatori nel mondo”. Un valore aggiunto inestimabile, composto dalla qualità dei tanti ristoranti e dai grandi chef italiani all’estero,  che contribuisce al brand Made in Italy nel mondo.  Zoppas ha poi rilevato come, nonostante i dazi americani, si registri una positiva crescita del nostro agroalimentare. Secondo il Presidente dell’ICE, al fine di raggiungere gli obiettivi dei 100 miliardi di esportazioni agroalimentari e dei 700 miliardi di export totale italiano, occorre poi continuare a portare avanti un lavoro di squadra, attraverso un sistema allargato promozionale che coinvolga oltre ai ministeri, le varie associazioni di categoria.

Lorenzo Morgia, Inform/dip 28

 

 

 

 

 

Cdp Cgie: progressi su anagrafe, CIE e SPID e concretezza operativa nelle collaborazioni

 

ROMA - Ultima riunione in presenza nel 2025 per il Comitato di Presidenza del Consiglio Generale degli Italiani all’Estero che, guidato dalla segretaria generale Maria Chiara Prodi, si è riunito a Roma il 18 e 19 novembre scorsi. Una riunione “proficua”, riporta oggi il Consiglio generale, durante la quale sono stati registrati “riscontri soddisfacenti” dagli interlocutori istituzionali ed è stata impressa “concretezza operativa” alle collaborazioni già avviate.

Alla Farnesina, il Cdp si è confrontato con il sottosegretario Giorgio Silli e con il Direttore generale uscente della Direzione generale per gli italiani all’estero della Farnesina, Luigi Maria Vignali: da questi incontri, riporta il Cgie, sono emerse interessanti novità in merito alle rivendicazioni del Consiglio generale, come ad esempio la prossima attivazione del comitato anagrafico-elettorale per l’allineamento delle anagrafi degli italiani all’estero, il rilascio della CIE da parte dei Comuni italiani agli iscritti AIRE e l’imminente soluzione della questione riguardante l’attribuzione dello SPID agli operatori di patronato stranieri.

Il Maeci, inoltre, si sta adoperando per fornire ai funzionari itineranti e ai Consoli onorari gli apparecchi per il rilevamento dei dati biometrici per il rilascio sia di passaporti che di carte d’identità entro il 2026; il Ministero non è ad oggi in grado di fornire una data certa.

Rispetto alla CIE, il Comitato di Presidenza ha sollecitato la Farnesina alla necessità di una campagna informativa allo scopo di scoraggiare l’azione, nei Paesi dell’America Latina, di intermediari senza scrupoli che diffondono notizie fuorvianti.

Quanto alla V Assemblea plenaria della Conferenza permanente Stato-Regioni-PA-CGIE, dalla Farnesina sono giunte “rassicurazioni” sull’efficace esito della sensibilizzazione del Comitato di presidenza sui Gruppi parlamentari per la sua convocazione formale da parte della Presidente del Consiglio, con l’auspicio di svolgerla nell’autunno del prossimo anno.

Dalla discussione intorno alla legge di Bilancio, invece, è emerso che lo stanziamento per CGIE e Comites non risulta pienamente adeguato al loro corretto funzionamento. I consiglieri proseguiranno, quindi, la “costruttiva interlocuzione” con gli eletti all’estero affinché il Parlamento stabilisca di dotare delle risorse necessarie i capitoli di spesa relativi alla rappresentanza per consentirle di svolgere appieno i suoi compiti istituzionali. Sul tavolo anche la questione delle risorse impegnate per le elezioni per il rinnovo dei Comites nel 2026 e la necessità di garantire la più ampia partecipazione al voto.

Il tema prioritario dell’insegnamento della storia dell’emigrazione nelle scuole italiane, al centro dell’agenda CGIE e oggetto di una recente circolare del Ministero dell’Istruzione e del merito, è stato affrontato durante l’incontro con il presidente della Fondazione Museo Nazionale dell’Emigrazione Italiana Paolo Masini con il quale sono state gettate le basi per il rinnovo della collaborazione fra le due istituzioni. L’impegno prevede azioni comuni tese a evidenziare l’importanza dell’apporto della nostra diaspora e del rafforzamento del suo legame con il Paese attraverso la conoscenza del suo passato e la valorizzazione dei luoghi simbolo dell’emigrazione italiana nel mondo. Un percorso – è stato sottolineato – che assume particolare significato in vista delle importanti scadenze del prossimo anno: i quarant’anni dalla istituzione dei Comites, il 35° anniversario dalla nascita del CGIE e il ventesimo dalla prima partecipazione degli italiani all’estero alle elezioni politiche, tappe fondamentali nella costruzione della piramide della rappresentanza. Ricorreranno inoltre i 70 anni dal disastro di Marcinelle.

La necessità di cambiare la narrazione imperante sugli italiani all’estero che li vuole mostrare come un peso quando invece rappresentano una grande opportunità e risorsa per il Paese è uno dei concetti emersi anche durante i lavori con il CNEL per avviare la fase operativa dell’Accordo interistituzionale siglato il 2 ottobre scorso a villa Lubin con il presidente Renato Brunetta.

Con il vicepresidente Claudio Risso e il consigliere diplomatico Luca Trifone si è determinato di mantenere un rapporto stabile, con riunioni costanti, e di programmare il lavoro comune entro la prima metà di dicembre sugli ambiti di collaborazione previsti dall’Accordo interistituzionale (crescita economica e sistema Paese, politiche di rientro, mobilità studentesca e universitaria, ricerca scientifica e innovazione, partecipazione e associazionismo), con l’obiettivo di sviluppare documenti di osservazioni e proposte da sottoporre a Governo e Parlamento e presentare un primo disegno di legge già nel 2026. Si è inoltre valutato di procedere a uno studio per stimare l’apporto alla crescita del Paese delle collettività italiane nel mondo. I rappresentanti del CNEL hanno inoltre fornito un aggiornamento sull’iter nel Parlamento europeo della mozione per l’istituzione dell’8 agosto quale Giornata europea del sacrificio sul lavoro, promossa dal presidente Brunetta e convintamente sostenuta dal CGIE.

La riunione romana è servita anche a perfezionare il regolamento e il bando del Premio internazionale intitolato a Michele Schiavone, Segretario generale del CGIE scomparso lo scorso anno, per le persone, gli enti e le associazioni che hanno operato in favore e in difesa degli emigrati italiani o di origine italiana in qualsiasi Paese del mondo, che vedrà le prime assegnazioni nel corso della prossima Assemblea plenaria del Consiglio Generale.

Il pomeriggio del 18 novembre la segretaria generale Maria Chiara Prodi è intervenuta a una tavola rotonda nell’ambito della Prima Conferenza internazionale dell’italofonia, nel corso della quale ha ricordato il convegno promosso dal CGIE a Montecatini nel 1996, che ha segnato il fondamentale punto di partenza della promozione della lingua e della cultura italiana, altro tema prioritario dell’agenda 2025.

In conclusione dei lavori, il CdP ha incontrato il Segretario generale della Farnesina, ambasciatore Riccardo Guariglia che ha dimostrato grande apertura nei confronti del CGIE e illustrato la recente riforma del MAECI. L’incontro è stato anche l’occasione per la presentazione della ministra plenipotenziaria Silvia Limoncini, che sostituisce alla direzione della DGIT l’ambasciatore Luigi Maria Vignali, nominato Rappresentante permanente d’Italia presso le Nazioni Unite e le Organizzazioni Internazionali di Ginevra, al quale è stato rivolto un caloroso ringraziamento per l’ottimo lavoro svolto negli ultimi otto anni.

La questione della recente riforma della cittadinanza, infine, sempre al centro dell’attenzione del Consiglio Generale, è stata oggetto del confronto tra alcuni componenti del Comitato di Presidenza, Parlamentari eletti all’estero ed esperti nell’ambito del convegno “Italiani nel mondo: cittadinanza e identità – come cambiano le regole, le tutele e i servizi” organizzato dalle associazioni I Sud del Mondo ed Europa Mediterraneo, in cui sono state ribadite le criticità emerse e le proposte di modifica già espresse al Governo e al Presidente della Repubblica, sulle quali il CGIE auspica positive aperture. (aise/dip 24) 

 

 

 

 

IIC di Amburgo: Settimana della Cucina Italiana nel Mondo

 

Amburgo. Nell’ambito della decima edizione della Settimana della Cucina Italiana nel Mondo, il 17 novembre ad Amburgo, negli eleganti spazi dell’Hotel Grand Elysée, si è svolta la quinta edizione di The Italian Show, il format internazionale firmato I Love Italian Food, che porta la cultura enogastronomica italiana nel mondo, facendola vivere e degustare direttamente ai professionisti del settore. I Love Italian Food è un network internazionale e un’associazione no profit con la missione di promuovere e difendere la vera cultura enogastronomica italiana. Nata nel 2013 nel cuore della Food Valley, dall’incontro tra la pagina Facebook creata da Marco Bonini e l’idea di Alessandro Schiatti di fondare un’associazione no profit, è diventata una community globale che conta oltre 3 miliardi di contatti social, più di 100 eventi internazionali e oltre 1 miliardo di visualizzazioni video. Gli ideatori credono che “il futuro dell’Italia sia strettamente legato al futuro del suo comparto agroalimentare”, uno dei punti di forza più apprezzati e ricercati nel mondo, oltre a rappresentare un sesto dell’economia nazionale.

“Il Made in Italy agroalimentare è il petrolio d’Italia: una delle nostre ricchezze più grandi, frutto delle nostre culture popolari, del saper fare dei nostri addetti, della nostra geografia e dei tanti microclimi che la compongono. Per questo crediamo nel valore del vero Made in Italy, quello fatto in Italia, sulla nostra terra e dalla nostra terra”, afferma Alessandro Schiatti, Amministratore Delegato di I Love Italian Food. Le parole d’ordine dell’associazione sono Formazione e Narrazione: grazie a un network di oltre 20.000 professionisti internazionali, I Love Italian Food promuove in maniera sempre più efficace prodotti e produttori italiani autentici. Il format ha dedicato un’intera giornata alle filiere Made in Italy e ai veri prodotti italiani, mettendo in relazione Consorzi di tutela e produttori con professionisti internazionali del settore e creando nuove opportunità di crescita per il comparto agroalimentare italiano.. L’apertura del salone amburghese è stata affidata ad Alessandro Schiatti, seguito dal Console Onorario della Repubblica Italiana, dott. Anton Rössner, dallo chef Gianluca Casini, Presidente dell’Associazione Italiana Cuochi Germania e.V., da Beatrice Virendi dell’Istituto Italiano di Cultura di Amburgo e dagli chef stellati Michelin Gennaro Esposito e Mario Gamba. Tra i protagonisti: Mario Gamba, bergamasco, chef stellato e proprietario del ristorante “Acquarello” a Monaco di Baviera. La sua “Cucina del Sole” unisce tradizione, emozione e materie prime di altissima qualità.  Gennaro Esposito, due stelle Michelin con il ristorante “La Torre del Saracino” a Vico Equense, premio Chef Mentor. Ad Amburgo ha presentato il pomodoro tonnato e il risotto alla pizzaiola, celebrando la versatilità del pomodoro. Matteo Ferrantino, due stelle Michelin con il ristorante Bianc nella HafenCity di Amburgo, ha partecipato alla tavola rotonda dedicata all’evoluzione dell’alta cucina italiana in Germania.  Sono state inoltre realizzate masterclass e degustazioni con: Ferdinando Manna, pizzaiolo di Bolle Amburgo, sulla pizza contemporanea ad alta idratazione; Gianluca Casini, sul Gorgonzola DOP in collaborazione con Igor Gorgonzola; Cinzia Cuccu, sul Pane Toscano DOP; Natalia Terracciano, sulla pizza senza glutine; Simone Fortunato, maestro pizzaiolo di Napoli, su pinsa e pizza in pala; I Cuochi Contadini della Fondazione Campagna Amica, con le Pappardelle al Pesto con Pistacchio Sbriciolato. Ampio spazio anche alle degustazioni di vini: Claudia Stern (Wine & Glory) ha guidato una masterclass sui vini della Cantina Monteverro, eccellenza della Maremma Toscana;  Degustazioni dedicate ai vini di Montefalco (Umbria); Masterclass sui vini provenienti da suoli vulcanici; Degustazione di Prosecco DOC, abbinato a formaggi iconici di diverse tradizioni. L’evento, che ha stato inserito nella programmazione della Settimana della Cucina Italiana nel Mondo dell’Ambasciata d’Italia in Berlino e dell’Istituto Italiano di Cultura di Amburgo, ha rappresentato un vero viaggio alla scoperta della cultura gastronomica italiana, rivolto a ristoratori, pizzaioli, sommelier, buyer e professionisti dell’Ho.Re.Ca., con un programma ricco di formazione ed esperienze. La giornata si è conclusa con la cerimonia di consegna degli attestati “100% Italiano” – Amburgo, conferiti da I Love Italian Food a vari ristoranti.   Promossa dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, la Settimana della Cucina Italiana nel Mondo è nata nel 2016 per dare continuità ai temi dell’Expo Milano 2015 – qualità, sostenibilità, sicurezza alimentare, territorio, biodiversità, identità ed educazione – e valorizza ogni anno l’eccellenza e l’internazionalizzazione della filiera enogastronomica italiana. Attraverso un tema annuale, la rassegna promuove prodotti e tradizioni dei territori, la tutela delle denominazioni protette, la sostenibilità dei processi produttivi e gli itinerari del gusto italiani. Tradizionalmente realizzata nella terza settimana di novembre, dal 2025 le Ambasciate, i Consolati, gli Istituti Italiani di Cultura, le Rappresentanze Permanenti e gli Uffici ICE possono organizzare attività durante tutto l’anno, adattando il calendario alle specificità locali. Dalla sua inaugurazione, la Settimana è stata celebrata con oltre 10.000 eventi in più di 100 Paesi, comprendenti degustazioni, showcooking, masterclass, seminari, conferenze, mostre ed eventi business, con un grande evento inaugurale ogni anno alla Farnesina. La X edizione 2025 è dedicata al tema “La cucina italiana tra cultura, salute e innovazione”, con particolare attenzione alla cucina italiana come mosaico di saperi e valori, dove ogni tessera racconta una storia del rapporto tra l’Italia e il cibo. Gli obiettivi principali della X edizione sono: promuovere la conoscenza della cucina italiana, anche alla luce della sua candidatura a patrimonio culturale immateriale dell’UNESCO; valorizzare la cucina italiana come modello alimentare sano, equilibrato e sostenibile, alleato nella prevenzione delle malattie non trasmissibili; evidenziare gli aspetti di innovazione e ricerca che caratterizzano l’intera filiera alimentare, dalla produzione alla trasformazione, dal confezionamento alla distribuzione, fino al consumo, al riutilizzo e al riciclo. La Direzione Generale per la Promozione del Sistema Paese predispone ogni anno, in collaborazione con partner selezionati, progetti e contenuti per arricchire le iniziative organizzate dalle sedi estere. (Inform/dip 23)

 

 

 

 

 

Mostra su Emilio Vedova alla Kunsthaus Dahlem di Berlino

 

Berlino. La Kunsthaus Dahlem di Berlino ha inaugurato il 20 novembre scorso, alla presenza dell’ambasciatore Fabrizio Bucci, “Emilio Vedova – More than movement for its own sake”, una mostra dedicata al periodo berlinese del grande artista veneziano, tra il 1963 e il 1965.

Promossa dalla Kunsthaus Dahlem in collaborazione con la Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, l’Ambasciata d’Italia e l’Istituto Italiano di Cultura di Berlino, l’esposizione offre uno sguardo approfondito su una fase cruciale della ricerca artistica di Vedova e sulle sue connessioni con la Berlino della Guerra Fredda.

Il percorso espositivo riunisce opere emblematiche di quegli anni, tra cui una selezione dei celebri Plurimi, straordinarie strutture tridimensionali che fondono pittura e scultura in un linguaggio radicalmente innovativo. Realizzati proprio a Berlino, i Plurimi testimoniano la forza creativa di Vedova in un contesto urbano segnato da divisioni, tensioni e profonde cicatrici storiche.

La Kunsthaus Dahlem, ex atelier carico di significati, offre alla mostra un ulteriore livello simbolico: è qui che l’artista lavorò intensamente nel 1964-65, conferendo all’esposizione una dimensione storica ed emotiva unica.

Prendendo la parola durante la cerimonia d’inaugurazione, l’ambasciatore Bucci ha sottolineato come questa mostra non sia soltanto “un omaggio a uno dei maggiori protagonisti dell’arte italiana del Novecento, ma anche testimonianza dell’intenso scambio culturale tra Italia e Germania in un momento storico complesso”.

Bucci si è detto “orgoglioso che l‘Ambasciata e l‘Istituto Italiano di Cultura sostengano questa straordinaria iniziativa. L‘Ambasciata intende infatti essere un attore culturale ancora più presente e attivo a Berlino, contribuendo al suo vivace panorama artistico e rafforzando le nostre partnership con i musei e le istituzioni culturali tedesche”.

La serata è poi proseguita in Ambasciata, dove gli ospiti hanno potuto ammirare una selezione complementare di opere dell’artista, curata dalla Fondazione Vedova. “È il nostro modo di estendere il dialogo aperto alla Kunsthaus Dahlem, reso possibile dalla fruttuosa collaborazione con la Fondazione Vedova, che ringraziamo per le opere concesse in comodato: esse offrono uno scorcio particolarmente interessante dei diversi significativi momenti della prodizione artistica di Emilio Vedova”, ha detto l’ambasciatore Bucci.

L’evento è stato arricchito dalle creazioni del food designer Mattia Risaliti, ispirate ai colori delle tele di Vedova.

La mostra “Emilio Vedova – More than movement for its own sake” resterà aperta al pubblico sino all’8 marzo 2026. (aise/dip 24)

 

 

 

 

 

Avviato l’esame della proposta di esenzione IMU per i connazionali all’estero iscritti all’Aire

 

Roma. L’Aula di Montecitorio ha avviato la discussione sulla  proposta di legge di Toni Ricciardi ed altri relativamente alle modifiche della legge 160/2019 in materia di equiparazione del regime fiscale nell’applicazione dell’imposta municipale propria relativamente a immobili posseduti nel territorio nazionale da cittadini iscritti nell’Anagrafe degli italiani residenti all’estero, nonché delle abbinate proposte di legge Di Giuseppe, Onori, Billi, Lovecchio, Manes, Borrelli ed altri. Nel suo intervento il relatore Toni Ricciardi (Pd- ripartizione Europa), ha spiegato che con questo provvedimento si ridefinisca un percorso volto a sanare un’incongruenza normativa: “Stiamo parlando degli immobili, delle case o, se volete, della prima casa di coloro che vivono all’estero, che si sono trasferiti all’estero; generalmente, se analizzassimo la fattispecie, stiamo parlando di persone – tutti nelle nostre famiglie abbiamo avuto qualcuno che è partito per l’estero – che, dopo dieci, vent’anni di duro lavoro, sacrificio, utilizzavano le cosiddette famose rimesse per costruirsi la casa nel proprio Paese di partenza”.  “La casa nella cultura italiana è quel patrimonio indiscusso, se volete forse anche identitario, nella quale tutte e tutti si riconoscono. Era il segno tangibile di un sacrificio fatto al di fuori dei confini nazionali affinché si potesse, un giorno, immaginare un rientro, un ritorno e soprattutto la costruzione di un benessere per i propri cari”, ha rilevato Ricciardi auspicando quindi la risoluzione di quello che ha definito come “un problema atavico”. I relatore ha menzionato gli scritti di Francesco Saverio Nitti che, nel 1888, dà alle stampe il suo “L’emigrazione italiana e i suoi avversari”, nel quale si vuole sottolineare l’assenza, la mancanza di una legge organica che disciplini l’emigrazione italiana, che sia in grado di quantificarla e qualificarla. Ricciardi ha ricordato come l’emigrazione da questo Paese, così è stata almeno per oltre un secolo, partiva soprattutto dai piccoli comuni, soprattutto dalla provincia italiana. “E noi sappiamo benissimo quale sia il patrimonio edilizio che si concentra soprattutto nei comuni al di sotto dei 5.000 abitanti”, ha aggiunto Ricciardi facendo presente che in oltre il 70 per cento dei comuni italiani ritroviamo sempre più spesso case vuote o abbandonate. “E molte volte esattamente proprio quegli immobili appartengono agli italiani che vivono all’estero o a dei figli che li hanno ereditati e che, purtroppo, come dire, non riescono a coprire il pagamento dell’IMU”, ha sottolineato il deputato invitando a riflettere sul fatto che i cittadini italiani all’estero non siano cittadini di serie B. “Meritano e hanno la dignità di essere trattati alla pari di tutti gli altri”, ha puntualizzato Ricciardi sostenendo che tale provvedimento prevede che per la fattispecie degli italiani all’estero si possa riconoscere un diritto. “Auspico e credo – ha aggiunto il deputato – che avremo l’opportunità di giungere a un’approvazione all’unanimità di questo provvedimento – le opposizioni, insieme alla maggioranza, discutono, dialogano con i colleghi – e ringrazio tutte le elette e gli eletti all’estero che hanno contribuito, anche con le loro proposte che sono abbinate – si dà testimonianza, un messaggio al Governo rispetto al fatto che tutta la politica, su un tema centrale, ha avvertito la stessa sensibilità”. “La casa, essendo un bene primario, va tutelata: per questa ragione, invito tutte e tutti a esprimere, nel prosieguo del dibattito, un parere favorevole a questa proposta di legge”, ha suggerito Ricciardi. Ha poi preso la parola il deputato del Pd, eletto nella ripartizione America settentrionale e centrale,  Christian Di Sanzo che ha sottolineato come questa proposta normativa sia stata recepita favorevolmente da tutti i gruppi politici, con grande spirito di condivisione. “Insieme ad essa, vi sono abbinate le proposte di quasi tutti i gruppi politici, inclusi tutti i partiti della maggioranza. È una proposta che nasce da un’esigenza semplice ma fondamentale: riconoscere pienamente i diritti dei nostri connazionali residenti all’estero e farlo non solo sul piano simbolico, culturale, storico, ma anche su quello pratico e su quello fiscale. È un’iniziativa che interviene sul trattamento fiscale degli immobili posseduti dagli italiani iscritti all’anagrafe degli italiani residenti all’estero, l’AIRE, correggendo un problema che, per troppo tempo, ha gravato su cittadini che, pur vivendo all’estero, continuano a mantenere nel nostro Paese beni, affetti e radici”, ha precisato Di Sanzo aggiungendo a sua volta come la prima casa in Italia venga considerata un bene fondamentale e come lo sgravio sulla prima casa sia già a beneficio di tutti i residenti in Italia. “Con questa proposta vogliamo semplicemente equiparare lo stesso trattamento ai nostri cittadini residenti all’estero”, ha precisato il deputato sottolineando come dalla fine dell’800 ad oggi, circa 30 milioni di italiani abbiano lasciato il nostro Paese in cerca di opportunità, lavoro e dignità . “Hanno costruito ponti tra l’Italia e il mondo, hanno creato associazioni e imprese e hanno reso il nostro Paese più grande dei suoi confini geografici, hanno sofferto, hanno lavorato e hanno sperato. Hanno amato l’Italia anche quando l’Italia sembrava averli dimenticati. L’emigrazione italiana non è un capitolo accessorio della nostra storia, è la nostra storia”, ha ribadito Di Sanzo precisando come ad oggi gli italiani all’estero iscritti all’AIRE sono oltre 6,5 milioni: una comunità che è di fatto la ventunesima regione d’Italia, distribuita in oltre 190 Paesi nel mondo. Di Sanzo ha anche ricordato il dato emerso dall’ultimo rapporto RIM della Fondazione Migrantes: ci sono state 155mila partenze solo nel 2024, con una mobilità che si è fatta più circolare e complessa. “Quindi non stiamo parlando di una legge di qualcuno o di una legge per qualcuno, ma di una legge per l’Italia, per gli italiani: un esempio di unità che merita di essere evidenziato e che sottolinea come il tema delle nostre comunità all’estero debba e possa essere affrontato con logiche trasversali a tutti i partiti. In un tempo in cui la politica a volte viene descritta come conflitto permanente, questo provvedimento ci dimostra che il Parlamento sa essere luogo di ascolto, di visione e di decisione condivisa per le nostre comunità all’estero”, ha rammentato Di Sanzo. A seguire l’intervento del deputato Andrea Di Giuseppe (FDI- ripartizione America settentrionale e centrale) che ha spiegato come non si sta dibattendo soltanto su un’imposta, quale appunto l’IMU, bensì si stia dibattendo su quale rapporto si voglia avere con milioni di italiani che vivono fuori dai confini nazionali, ma che continuano ostinatamente a sentirsi parte di questa comunità nazionale. “Stiamo dicendo loro, in modo semplice ma molto chiaro: lo Stato vi vede, vi riconosce e smette di trattare la vostra casa d’origine come un lusso da tassare, ma come un ponte tra l’Italia e il mondo. Perché dietro ogni riga di questo provvedimento non ci sono solo numeri: ci sono dei volti, ci sono delle storie, ci sono delle famiglie, ci sono dei sacrifici. Ci sono persone che, mentre noi parliamo, dall’altra parte dell’Oceano o del mondo stanno seguendo questi lavori con la speranza che, per la prima volta, lo Stato non li consideri cittadini di serie B”, ha sottolineato Di Giuseppe rimarcando che la proprietà immobiliare ha un valore affettivo, spesso legato alla casa d’origine, alla casa dei genitori o dei nonni, alla quale conseguentemente si riflette anche un legame con la specifica comunità territoriale. “Per tanti connazionali la casa in Italia non è un investimento speculativo: è un luogo da dove sono partiti i loro nonni, molte volte con la valigia di cartone; è il luogo dove tornando ritrovano una lingua, un dialetto, un odore, una chiesa, un cimitero dove sono sepolti i loro affetti”, ha aggiunto Di Giuseppe evidenziando che le nuove generazioni, spesso professionisti qualificati, considerano la casa d’origine un porto sicuro: “un’Itaca alla quale sperano di fare ritorno”. “Quegli italiani che vivono a New York, a Toronto, a San Paolo, a Sydney o a Londra non sono un problema amministrativo: sono una parte della nostra Nazione che si è spostata fisicamente ma non si è mai staccata davvero e la casa in Italia spesso è il loro ultimo filo diretto con il territorio d’origine”, ha proseguito Di Giuseppe tornando alla questione dell’IMU che rappresenta un aspetto cruciale sia per le comunità storiche che per i giovani italiani all’estero. “Il pagamento di questa imposta ha spesso scoraggiato il mantenimento e la valorizzazione degli immobili di famiglia provocando, specialmente nei piccoli comuni, un impoverimento territoriale e immobiliare progressivo. Iniziative come il turismo delle radici cercano di invertire questa tendenza, riportando luce ai borghi e preservando storie che oggi costituiscono orgoglio e identità per le comunità italiane nel mondo”, ha sottolineato il deputato. (Inform/dip 23)

 

 

 

 

 

Donne in fuga, corridoi umanitari e politica europea

 

Sebbene le informazioni disponibili ci dicano che nella popolazione in situazione di sradicamento forzato nel mondo, in generale, il numero di uomini e donne si equivalgono, tra coloro che affrontano i cosiddetti “viaggi della speranza”, via mare o terra, verso l’Europa, solo poco più del 10% sono donne. Il dato mostra la loro difficoltà rispetto agli uomini, la non pari opportunità di mettersi in cammino e raggiungere Paesi sicuri in autonomia, anche in ragione delle violenze da loro subite, della tratta e della morte che si incontra lungo il cammino.

Questa è una delle evidenze emerse da una ricerca qualitativa condotta dall’Osservatorio Giovani dell’Istituto Giuseppe Toniolo nel biennio 2022-2024 insieme a 20 giovani donne under 35, provenienti da diversi Paesi. Il frutto della ricerca è un volume dal titolo Libere da, libere di? Storie di giovani donne in Italia con i corridoi umanitari, a cura di Cristina Pasqualini e Fabio Introini (Vita e Pensiero, 2025).

Il dramma delle donne in fuga da guerre, disastri ambientali, persecuzioni culturali e religiose ha trovato certamente in questi anni un canale alternativo, quello promosso dalla società civile e dalle Chiese, cattolica e riformate, in collaborazione con il Governo italiano e alcuni altri Governi dei Paesi europei, e denominato “corridoio umanitario”.

I corridoi umanitari nascono inizialmente per permettere alle persone più fragili – donne con bambini, anziani, disabili, famiglie –, bisognose di protezione, di poter lasciare un Paese che vive guerre e disastri ambientali, in sicurezza e senza intraprendere lunghi viaggi, di poter usufruire dell’ “accoglienza diffusa”, un modello che prevede l’inserimento in un contesto familiare, associativo o parrocchiale, e di iniziare un percorso di integrazione a carico dei diversi soggetti della società civile. È un percorso reso possibile da una clausola del regolamento visti del Trattato di Schengen.

Dal 2016, anno di una prima esperienza, al settembre 2023 sono state 6.473 in Europa le persone rifugiate che hanno ottenuto una forma di protezione internazionale grazie ai corridoi umanitari. L’utilizzo è avvenuto soprattutto in Italia. Le donne sono coloro che hanno maggiormente beneficiato di corridoi umanitari e dei percorsi di protezione attivati, anche se non abbiamo dati statistici elaborati.

Le loro provenienze sono diverse: la Siria (67%) soprattutto e, a seguire, l’Eritrea (15%); e poi, con percentuali ancora più ridotte, la Somalia, l’Afghanistan, il Sudan e il Sud Sudan, l’Iraq, lo Yemen, la Repubblica democratica del Congo e il Camerun. Donne tutte diverse, ma animate dalla stessa speranza, la maggior parte delle quali dall’Italia hanno continuato il cammino verso Paesi europei con comunità più numerose, verso gruppi parentali e territori linguisticamente più affini o che proponevano maggiori opportunità rispetto, ad esempio, al titolo di studio da loro posseduto.

Certo, potrebbe nascere un problema se la politica italiana ed europea usasse i corridoi umanitari per ridurre il numero di arrivi e selezionare le persone: in questo caso, il corridoio costituirebbe un alibi per nascondere la non volontà di riconoscere il diritto alla protezione internazionale in capo alla persona.

In questo senso, preoccupa il Patto europeo per la migrazione e l’asilo, approvato a fine legislatura nel 2024. L’accordo – che non presenta una parola sui corridoi umanitari e non considera la fatica del partire delle donne – entrerà in vigore nel 2026 e segna un’ulteriore limitazione dei diritti dei richiedenti asilo e rifugiati. Il Patto prevede, annualmente, l’accoglienza di 30.000 rifugiati, un numero che è di poco superiore a quelli accolti da 17 Paesi nel 2023 con i reinsediamenti: questo a dimostrare che la politica europea ha di fatto utilizzato i corridoi umanitari come unico canale per stabilire il numero dei richiedenti asilo da accogliere. Sarà anche l’unico canale legale di ingresso in Europa? (mons. Gian Carlo Perego – “Migranti Press” 9/2025)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MINT-Report. Fachkräftemangel ohne Zuwanderung nicht lösbar

 

Arbeitskräfte in technischen und naturwissenschaftlichen Berufen sind gefragt – es gibt viele offene Stellen. Laut einer aktuellen Studie des Instituts der deutschen Wirtschaft führt an Zuwanderung kein Weg vorbei.

Vor dem Hintergrund einer trotz konjunkturellem Rückgangs weiterhin großen Lücke an Fachkräften in technischen und naturwissenschaftlichen Berufen sieht eine neue Studie Chancen vor allem bei Frauen, Älteren und in Zuwanderung. Der Report des Instituts der deutschen Wirtschaft (IW) weist ein Defizit von 148.500 qualifizierten Arbeitskräften in Mint-Berufen (Mathematik, Informatik, Naturwissenschaften, Technik) auf. Im Vergleich zum Vorjahreswert aus dem Oktober 2024 mit 205.800 Personen sank die Lücke um 27,8 Prozent. Der Mint-Herbstreport zeige gleichzeitig, dass Zuwanderung ein wichtiger Hebel sei, so die Autoren.

Im Bereich der Spezialisten- und Akademikerberufe wuchs die Beschäftigung ausländischer Arbeitskräfte im Zeitraum vom vierten Quartal 2012 bis zum ersten Quartal 2025 deutlich stärker als die Beschäftigung deutscher Arbeitskräfte. Bei den Facharbeiterberufen sank letztere sogar um 7,3 Prozent, während sie unter Ausländern um 85,7 Prozent zunahm.

Einwanderungsverfahren vereinfachen und beschleunigen

„Wäre die Beschäftigung von Ausländerinnen und Ausländern seit Ende 2012 nur in der geringen Dynamik wie die Beschäftigung von Deutschen gestiegen, würde die Fachkräftelücke heute um 480.600 Personen höher ausfallen“, heißt es.

Eine Sonderauswertung zeige zudem, dass auch die Zahl der internationalen Studierenden in MINT-Fächern, die hierzulande einen Abschluss anstrebten, von 131.000 im Wintersemester 2017/2018 auf 189.000 im Wintersemester 2022/2023 gestiegen ist. Um das Potenzial internationaler Fachkräfte im MINT-Bereich weiter zu heben, sollten etwa Einwanderungsverfahren vereinfacht und beschleunigt werden.

Frauen und Ältere mit Plus

Zugenommen hat in dem Zeitraum ebenso der Anteil von Frauen an allen sozialversicherungspflichtig Beschäftigten in MINT-Berufen – von 13,8 Prozent auf 16,5 Prozent. Ein deutliches Plus zeigt sich bei Beschäftigten ab 55 Jahren: Ihr Anteil wuchs von 15,1 Prozent auf 23 Prozent. Potenziale von Frauen und Älteren sollten gehoben werden, fordern die Autoren des Reports. So sollten etwa Hochschulen ihre Weiterbildungsangebote für zukunftsorientierte Kompetenzen gezielt ausbauen.

Der MINT-Report wird zweimal jährlich vom arbeitgebernahen Institut der deutschen Wirtschaft Köln erstellt. (dpa/mig 28)

 

 

 

 

Mehr ausländische Studierende in Deutschland

 

Ausländische Studierende machen inzwischen rund 14 Prozent aller Studierenden in Deutschland aus. Ihre Zahl nimmt weiter zu. Abbruchquoten sind auf einem ähnlichen Level wie bei deutschen Studierenden.

Die Zahl ausländischer Studierender in Deutschland nimmt zu. Nach Angaben des Deutschen Akademischen Austauschdienstes (DAAD) waren im Wintersemester 2024/25 rund 402.100 internationale Studierende an deutschen Hochschulen eingeschrieben, sechs Prozent mehr als im vorherigen Wintersemester. Wie die am Mittwoch in Bonn veröffentlichte DAAD-Publikation „Wissenschaft weltoffen 2025“ zeigt, machten die Studentinnen und Studenten aus dem Ausland 14 Prozent aller Studierenden in Deutschland aus.

Im Wintersemester 2013/14 habe die Zahl der ausländischen Studierenden noch bei rund 218.800 gelegen, hieß es. Die Zahlen basieren laut DAAD auf Daten des Statistischen Bundesamtes. Die wichtigsten Herkunftsregionen waren den Angaben zufolge im Wintersemester 2023/24 die Region Asien und Pazifik (33 Prozent), gefolgt von Nordafrika und Nahost (19 Prozent), Westeuropa (15 Prozent) sowie Mittel- und Südosteuropa (13 Prozent).

Interesse an Ingenieurswissenschaften hoch

Vergleichsweise wenige Studierende seien aus Osteuropa und Zentralasien (8 Prozent), Subsahara-Afrika sowie Lateinamerika (jeweils 5 Prozent) und Nordamerika (2 Prozent) nach Deutschland gekommen. Die meisten internationalen Studierenden mit Abschlussabsicht in Deutschland seien in Ingenieurswissenschaften (43 Prozent) sowie Wirtschafts-, Rechts- und Sozialwissenschaften (25 Prozent) eingeschrieben.

Die Abbruchquote internationaler Studienanfängerinnen und -anfänger sei „nur geringfügig höher“ als die deutscher Studierender, erklärte der DAAD. Bezogen auf die ersten drei Studiensemester habe die Abbruchquote beim Jahrgang 2020 bei 16 Prozent im Bachelor und 9 Prozent im Master gelegen. Zum Vergleich: Bei deutschen Studierenden seien es 13 beziehungsweise 6 Prozent gewesen. (epd/mig 28)

 

 

 

 

Vielfalt, Fahne, Vaterland

 

Ein Plädoyer für ein inklusives nationales Narrativ, das der rechten Identitätspolitik die Deutungshoheit nimmt. Von Filip Milai

Die extreme Rechte hat sich in vielen Ländern der Welt zur dynamischsten politischen Kraft entwickelt, und zwar auch deshalb, weil sich Rechtspopulisten geschickt als Beschützer einer bedrohten nationalen Identität und Souveränität präsentieren.

US-Präsident Donald Trump ist das offensichtlichste Beispiel. Kurz nach seinem Amtsantritt insistierte er, es sei seine „Pflicht als Präsident“, die Amerikaner vor „der über unsere Grenzen schwappenden Flutwelle illegaler Ausländer und Drogen“ zu schützen. Seine Einwanderungs- und Handelspolitik stellte er dabei als eine Form der nationalen Rettung dar.

Andere rechte Staats- und Regierungschefs wie der ungarische Ministerpräsident Viktor Orbán, Indiens Premier Narendra Modi und der türkische Präsident Recep Tayyip Erdo?an sowie prominente Politiker wie Nigel Farage in Großbritannien und Marine Le Pen in Frankreich bedienen sich ähnlicher nationalistischer und fremdenfeindlicher Tropen.

Die liberalen Eliten, die den Nationalismus seit langem ablehnen, neigen dazu, eine derartige Rhetorik als rückschrittlich zu betrachten. Vor allem im Westen war der Nationalismus nach dem Zweiten Weltkrieg diskreditiert, und Appelle an die nationale Identität wurden weitgehend zugunsten der Betonung individueller Autonomie aufgegeben.

Doch zeigen Umfragen immer wieder, dass das Selbstverständnis der meisten Menschen nach wie vor stark durch die Nationalität geprägt wird. Das mag paradox erscheinen. Doch die wichtigsten politischen Einheiten der modernen Welt sind die Nationalstaaten, sodass die nationale Identität gewissermaßen strukturell vorgegeben ist. Studien zeigen zudem, dass die Zugehörigkeit zu einem großen Kollektiv uns hilft, die Welt zu kategorisieren und uns in ihr zu verorten, was unser Selbstwertgefühl stärkt und das Risiko sozialer Entfremdung verringert.

Die reflexhafte Ablehnung nationaler Identität hat diese nicht weniger bedeutsam gemacht. Vielmehr schuf sie ein Vakuum, das politische Unternehmer eilig füllten. In Ermangelung einer überzeugenden liberalen Konzeption des Selbst griffen viele auf traditionelle und oftmals ausgrenzende Merkmale wie Ethnizität, „Rassenzugehörigkeit“ und Religion zurück. Rechtsextreme Politiker nutzten diese Form der Identitätspolitik, um Ängste zu schüren: vor Einwanderern, vermeintlich unassimilierbaren Minderheiten und supranationalen Organisationen, die unerwünschte Gesetze erlassen.

Die progressiven Kräfte haben diese Ängste allzu oft ignoriert oder ihre Ursachen als Probleme behandelt, die sich durch eine technokratische Politik lösen lassen, aber nicht erkannt, wie eng sie mit der kulturellen Identität der Wähler verbunden sind. So ist es nicht verwunderlich, dass das politische Geschehen in so vielen Ländern heute gekennzeichnet ist von einem Wiedererstarken der extremen Rechten und einem liberalen Establishment, das Mühe hat, wieder Tritt zu fassen.

Um dem ausgrenzenden Nationalismus und der unablässigen Panikmache der extremen Rechten etwas entgegenzusetzen, müssen die Liberalen ein einendes politisches und kulturelles Narrativ entwerfen. Doch auf welchen Idealen sollte dieses beruhen? Zwar ist die Betonung gemeinsamer Werte wichtig, doch ist der Verfassungspatriotismus allein zu abstrakt, um einen echten sozialen Zusammenhalt zu schaffen. Ein enger Fokus auf gute Regierungsführung ist ebenfalls riskant, da selbst gut geführte Systeme ins Wanken geraten können.

Drei Kriterien sind wesentlich für die Entwicklung einer dauerhaften politischen Überzeugung. Erstens muss sie einen emotionalen Kern haben. Ihre konkrete Form wird sich wahrscheinlich von Land zu Land unterscheiden, aber Emotionen sind unerlässlich.

Die progressiven Kräfte im Westen könnten sich von der Protestbewegung inspirieren lassen, die sich 2023 in Israel Bahn brach. In Massenkundgebungen im ganzen Land stellten sich patriotische Demonstranten als die wahren Verteidiger der nationalen Identität Israels dar und beschuldigten Premierminister Benjamin Netanjahu, eine autoritäre Vision durchsetzen zu wollen, die mit dem demokratischen und jüdischen Charakter des Landes, wie er in der Unabhängigkeitserklärung skizziert ist, unvereinbar sei.

Eine ähnliche Dynamik gab es in Polen. Im Vorfeld der Parlamentswahlen von 2023 stellten die Oppositionsparteien die EU-Mitgliedschaft als integralen Bestandteil der westlichen Identität des Landes dar und warnten, die autoritäre Wende der damals regierenden Partei für Recht und Gerechtigkeit (PiS) gefährde diese.

Die brasilianische Erfahrung zeigt, dass alternative Narrative auch durch externen Druck befeuert werden können. Als Reaktion auf Trumps Angriffe auf die brasilianische Souveränität präsentierte sich Präsident Luiz Inácio Lula da Silva als Verfechter eines unabhängigen, pluralistischen Brasiliens und stellte seine rechtsextremen Gegner – insbesondere den ehemaligen Präsidenten Jair Bolsonaro – als unterwürfig gegenüber US-Interessen dar.

Zweitens: Ein erfolgreiches liberal-nationalistisches Narrativ muss wirklich inklusiv und in der Lage sein, ein breites Wählerbündnis zu mobilisieren, indem es demografische, soziale und schichtbedingte Unterschiede überwindet. Wie Lula es ausdrückte: Ein Land gehört „dem Militär, dem Lehrer, dem Arzt, dem Zahnarzt, dem Anwalt, dem Hot-Dog-Verkäufer, dem Kleinunternehmer und dem Mittelständler“.

Drittens: Da Menschen ein angeborenes Bedürfnis nach Zugehörigkeit haben, muss jedes wirksame politische Narrativ ein Gefühl der Gemeinschaft und des gemeinsamen Schicksals fördern. Dazu müssen von der extremen Rechten vereinnahmte nationale Symbole zurückerobert und mit demokratischen Werten besetzt werden. Der jüngste Sieg von Rob Jetten über den rechtsextremen Geert Wilders bei den niederländischen Parlamentswahlen, der zum Teil auf seinen strategischen Einsatz nationaler Symbole zurückzuführen ist, bietet ein nützliches Modell. Auch in Israel, Polen und Brasilien haben zivilgesellschaftliche Gruppen und Oppositionsparteien Nationalflaggen in den Mittelpunkt ihrer Kampagnen gestellt.

Jedoch sollte sich ein liberaler Nationalismus nicht auf eine einzige Erzählung stützen, sondern aus mehreren Narrativen erwachsen, die sich gegenseitig verstärken und eine gemeinsame staatsbürgerliche Vision widerspiegeln. Dabei geht es nicht darum, hartgesottene Fremdenfeinde für sich zu gewinnen, sondern gemäßigte und konservative Wähler zu erreichen, denen ihr Land am Herzen liegt und die möglicherweise aus Angst illiberale Politiker unterstützen. In der heutigen polarisierten politischen Landschaft können selbst kleine Verschiebungen in der öffentlichen Meinung darüber entscheiden, ob die Zukunft den Autoritären oder den Befürwortern offener, demokratischer Gesellschaften gehört. PS/IPG 27

 

 

 

 

Abschlusserklärung. EU und Afrika planen engere Zusammenarbeit in der Flüchtlingspolitik

 

Zwei Tage lang haben europäische und afrikanische Staaten über die Zusammenarbeit beraten. Ein Schwerpunkt lag auf der Migrationspolitik – von der Bekämpfung sog. „irregulärer“ Migration bis zum Ausbau legaler Wege. Manche Punkte dürften eher symbolischer Natur sein.

Die Afrikanische Union (AU) und die Europäische Union (EU) wollen ihre Zusammenarbeit in der Migrationspolitik ausbauen. In der am Dienstag verabschiedeten Abschlusserklärung des 7. AU-EU-Gipfels kündigen beide Seiten an, die sogenannte irreguläre Migration stärker zu verhindern sowie Schleuserei und Menschenhandel entschiedener zu bekämpfen.

Gemeint ist damit auch die Flucht von Menschen, die Schutz suchen und Asyl beantragen möchten. Weil es an sicheren und legalen Fluchtwegen fehlt, bleiben ihnen oft keine anderen Möglichkeiten, als Grenzen zunächst ohne gültige Dokumente zu überqueren, um ihr international verbrieftes Recht auf Asyl geltend zu machen. Juristisch sind sie damit nicht „irregulär“, sondern nehmen ein regulär geltendes Recht wahr.

Wie aus der Erklärung außerdem hervorgeht, sollen Abschiebungen und die Reintegration effizienter gestaltet werden. Dafür soll die sogenannte „freiwillige“ Rückkehr durch Geldzahlungen angekurbelt werden.

Schutz von Menschenrechten – nur auf dem Papier?

Zugleich bekräftigen AU und EU ihr gemeinsames Bekenntnis zum Schutz von Menschen, die vor Gewalt, Konflikten oder Verfolgung fliehen. Die Asylsysteme sollen weiter gestärkt werden.

Beobachter weisen jedoch darauf hin, dass dieses Bekenntnis bislang vor allem auf dem Papier steht. Die EU baut ihren Grenzschutz seit Jahren massiv aus und erschwert Asylsuchenden zunehmend, europäischen Boden überhaupt zu erreichen. Mehrere afrikanische Staaten erhalten EU-Gelder, um Menschen bereits vor der Ausreise zu stoppen. Nach neuesten Plänen sollen Asylverfahren sogar in Drittstaaten ausgelagert werden – in Ländern, in denen zahlreiche Menschenrechtsverletzungen dokumentiert sind. Menschenrechtsorganisationen werfen der EU Mitwisserschaft und Mittäterschaft vor.

Migration auch als Chance

Einen Schwerpunkt setzt die Erklärung zudem auf den Ausbau legaler Wege für Migration und Mobilität, etwa für Studierende, Forschende und Fachkräfte. Dazu gehört die bessere Anerkennung von Hochschul- und Berufsabschlüssen. Gut gesteuerte, reguläre Migration könne ein „Katalysator für wirtschaftliche, soziale und menschliche Entwicklung“ in Herkunfts- wie Aufnahmeländern sein, heißt es.

Doch eine aktuelle Studie zeigt, dass Menschen aus wirtschaftlich armen Ländern deutlich schlechtere Chancen auf ein Visum haben als Antragstellende aus wohlhabenderen Staaten. Fachleute bezweifeln, dass sich daran viel ändern wird – nicht zuletzt, weil dieses Ungleichgewicht seit Jahren bekannt ist und insbesondere Deutschland wenig Interesse zeigt, daran etwas zu ändern.

Erklärung mit symbolischem Charakter

Vieles spreche dafür, dass auch dieser Abschnitt der Erklärung vor allem symbolischen Charakter hat. Kritiker sehen darin das zentrale Ziel der EU: Menschen aus Afrika sollen möglichst selten nach Europa gelangen – außer, sie sind als bereits ausgebildete Fachkräfte unmittelbar nützlich für den Arbeitsmarkt.

Am zweitägigen Gipfel nahmen die Mitgliedstaaten von AU und EU teil. Zusammen vertreten sie 82 Länder mit nahezu zwei Milliarden Menschen. (epd/mig 27)

 

 

 

 

 

Wer wirklich antisemitisch ist

 

Studie entlarvt These vom „importierten Antisemitismus“

In öffentlichen Debatten wird Antisemitismus häufig als „importiertes“ Problem aus muslimisch geprägten Ländern ausgemacht. Einer Studie zufolge ist diese These nicht haltbar. Sie diene eher dazu, den eigenen Antisemitismus zu verdecken.

Die These vom „importierten Antisemitismus“ greift zu kurz. Dafür seien Menschen aus mehrheitlich muslimisch geprägten Ländern in ihren Einstellungen zu heterogen. Es gebe erhebliche Unterschiede, abhängig etwa von der Herkunftsregion, der Religionsausübung und der deutschen Staatsangehörigkeit. Zu diesem Ergebnis kommt eine repräsentative Untersuchung des Deutschen Zentrums für Integrations- und Migrationsforschung (DeZIM), die am Dienstag in Berlin veröffentlicht wurde.

Demnach gibt es bei den Befragten mit muslimischem Hintergrund im Vergleich zu Deutschen ohne Migrationsgeschichte bei klassischen antisemitischen Einstellungen wie Vorurteile und Verschwörungserzählungen kaum Unterschiede. Bei Muslimen gebe es lediglich teils höhere Zustimmungswerte bei israelbezogenem Antisemitismus, doch auch dies sei kein ausschließlich migrantisches Phänomen, sondern in unterschiedlichen gesellschaftlichen Milieus verbreitet.

AfD-Wähler besonders oft antisemitisch

Antisemitische Einstellungen hängen der Vorlage zufolge vielmehr stark mit parteipolitischen Präferenzen zusammen. Bei dieser Aufschlüsselung zeigt sich, dass es teilweise höhere antisemitische Einstellungen bei nicht zugewanderten Deutschen gibt. So weisen insbesondere Wähler der AfD überdurchschnittlich hohe Zustimmungswerte zu antisemitischen Einstellungen auf; Anhänger der Grünen und der Linken durchweg besonders geringe Zustimmungsraten.

Beispiel: Der Aussage „Mich nervt es, immer wieder von den deutschen Verbrechen an den Juden zu hören“ stimmten 28 Prozent der muslimisch geprägten Befragten zu. Unter AfD-Wählern ohne Migrationsgeschichte betrug der Zustimmungswert fast doppelt soviel (55 Prozent). Aber auch 37 Prozent der FDP-, 34 Prozent der BSW- und 31 Prozent der Union-Wähler wiesen höhere Werte aus als die von Muslimen.

Entlarvt: Wer „Importthese“ zustimmt, verdeckt eigenen Antisemitismus

Trotz der nachweisbar antisemitischen Einstellungen in breiten Teilen der AfD ist die Hälfte der befragten AfD-Wähler (51 Prozent) zugleich davon überzeugt, dass der Antisemitismus „fast weg“ war und „jetzt mit den muslimischen Eingewanderten wieder nach Deutschland gekommen ist“. Den Analysten zufolge geht die Zustimmung zur „Importthese“ bei Deutschen ohne Migrationsgeschichte signifikant mit antisemitischen Einstellungen einher. Dies gelte ebenso für muslimfeindliche Einstellungen.

„Diese Verschränkung von antisemitischen und muslimfeindlichen Ressentiments legt nahe, dass die Zustimmung zur ‚Importthese‘ tendenziell nicht für ein tatsächliches Interesse steht, die Ursachen von Antisemitismus zu bekämpfen. Vielmehr scheint die These dazu zu dienen, den eigenen Antisemitismus zu verdecken beziehungsweise zu externalisieren und historische Verantwortung abzuwehren“, erklären die Autoren der Studie.

Antisemitische Einstellungen entstehen teils in Deutschland

Wie aus der Studie außerdem hervorgeht, entstehen antisemitische Einstellungen teils in Deutschland. So kämen bestimmte Alltagsphänomene unter neu Zugewanderten Muslimen deutlich seltener vor. So würden vergleichsweise wenige (11 Prozent) von ihnen beispielsweise die Verwendung von „Jude“ als Schimpfwort kennen. Bei den Deutschen ohne Migrationsgeschichte seien es hingegen 30 Prozent. Am bekanntesten sei das Schimpfwort bei Befragten mit muslimischem Hintergrund, die in Deutschland geboren sind (42 Prozent).

„Das deutet darauf hin, dass solche antisemitischen Sprachmuster möglicherweise eher in Deutschland erlernt als mitgebracht werden“, schreiben die Studienautoren.

Umfrage nach Hamas-Überfall

Die Autoren der Studie weisen darauf hin, dass die Befragung wenige Monate nach dem Hamas-Massaker in Israel am 7. Oktober 2023 und dem Beginn des Krieges im palästinensischen Gazastreifen durchgeführt wurde.

Um auf Israel bezogenen Antisemitismus von politischer Kritik an Israel zu unterscheiden, hatten die Forschenden den Befragten zusätzlich die Aussage „Es ist ungerecht, dass Israel den Palästinensern Land wegnimmt“, vorgelegt. Dieser Aussage stimmten über alle Herkunftsgruppen hinweg demnach 60,3 Prozent der Befragten ganz oder teilweise zu, während sich 9,2 Prozent ablehnend äußerten. Ein relativ großer Teil der Bevölkerung (30,5 Prozent) positionierte sich zu dieser Aussage ambivalent.

Für die Analyse „Importierter Antisemitismus?“ wurden zwischen Dezember 2023 und April vergangenen Jahres 6.295 Personen befragt, darunter 2.643 ohne Migrationsgeschichte. (epd/dpa/mig 27)

 

 

 

 

Wie Europa mit den Rechten umgeht. Lehren für die deutsche Brandmauer

 

Wie soll man umgehen mit rechtsextremen Parteien? Diese Frage stellt sich in vielen europäischen Ländern. Mehrere Konzepte wurden bereits erprobt. Im Wesentlichen gibt es zwei Möglichkeiten: bekämpfen oder einbinden. Welche hat funktioniert – und welche nicht? Von Christoph Driessen

Niederlande – Brandmauer ist wichtig

Warum er eine solche Schlappe erlitten habe, wurde Geert Wilders kurz nach der ersten Prognose zum Ausgang der niederländischen Parlamentswahl gefragt. Der Rechtspopulist analysierte die Lage erstaunlich offen: „Ich glaube, dass viele Leute gedacht haben: ‚Naja, wenn alle Parteien sagen, dass sie nicht mit ihm regieren wollen, dann geben wir unsere Stimme vielleicht doch besser einer Partei, die eine Chance hat zu regieren.‘“

Mit anderen Worten: Dieses Mal stand die Brandmauer – alle großen Parteien hatten eine Zusammenarbeit mit Wilders ausgeschlossen. Vor zwei Jahren war das anders, und damals hatte Wilders einen spektakulären Wahlerfolg errungen. Allerdings hat sich auch gezeigt: Obwohl er in dem knappen Jahr, in dem seine Partei die Regierung anführte, nach einhelligem Urteil nichts zustande gebracht hat, hat ihm das kaum geschadet – er hat zwar Sitze eingebüßt, bleibt aber eine der stärksten politischen Kräfte.

„Die Annahme, Rechte würden langfristig verlieren, weil man sieht, dass sie in der Regierung scheitern, ist ein fundamentaler Irrtum“, sagt der deutsch-britische Historiker Prof. Frank Trentmann aus London, Autor des gerade erschienenen Buchs „Die blockierte Republik“. „Hinter dem Rechtspopulismus steht ein Wählerkern, der gar keine anderen Parteien in Erwägung zieht.“

Österreich – Entzauberung durch Einbindung?

Die FPÖ galt in den 80er Jahren unter Führung von Jörg Haider als die erste rechtspopulistische Partei Europas. Die traditionelle konservative Partei ÖVP verfolgte zunächst einen Kurs der Abgrenzung, ging dann aber im Jahr 2000 erstmals eine Koalition mit der FPÖ ein. Die Hoffnung war damals, dass die Wählerinnen und Wähler sehen würden: Die FPÖ kann auch keine Wunder bewirken – im Gegenteil. Aber hat das funktioniert?

Zwar brach die FPÖ zwischenzeitlich durchaus mal ein, etwa nach dem „Ibiza“-Korruptionsskandal, aber dies war nie von Dauer. „Ich halte das für den Knackpunkt, wenn es darum geht: Funktioniert Einbindung zur Schwächung und Mäßigung der Rechtspopulisten?“, sagt Sebastian Enskat, Autor einer kürzlich erschienenen Studie der Konrad-Adenauer-Stiftung zum Umgang mit rechtspopulistischen Parteien in Europa.

„Man muss feststellen: Es gibt diesen Effekt der Entzauberung – aber er hält ernüchternd kurz an. Wenn man sich ansieht, wie groß der Ibiza-Skandal war, dann ist es frappierend, wie schnell sich die FPÖ davon erholt hat und dass sie jetzt in den Umfragen bei über 35 Prozent steht.“

Großbritannien – Übernahme rechter Positionen

In Großbritannien führt derzeit die Partei des Rechtspopulisten Nigel Farage alle Umfragen an. Labour-Premierminister Keir Starmer reagiert darauf, indem er teilweise die Rhetorik der Rechten übernimmt. So kündigte er an, er werde das „Experiment der offenen Grenzen beenden“ und das „unwürdige Kapitel“ der illegalen Zuwanderung schließen.

Bisher hat dies Labour in den Umfragen allerdings nicht nach vorn gebracht, und Trentmann glaubt auch nicht, dass sich daran in Zukunft etwas ändern wird. „Wir haben dazu eine wirklich eindeutige statistische Datenlage, und diese zeigt, dass seit den späten 1980er Jahren konservative Parteien und Parteien der Mitte in europäischen Ländern Stimmen an die Rechten verloren haben, wenn sie sich in ihrer Position den Rechten annäherten. Der Versuch, den Rechten in der Migrationsfrage durch eine strengere Politik das Wasser abzugraben, ist nach hinten losgegangen.“

Griechenland und Spanien – Rechte einfach links liegen lassen

Die erfolgreichsten Beispiele für den Umgang mit Rechten, die Enskat in seiner Studie gefunden hat, sind Griechenland und Spanien. „Aus meiner Sicht ist die permanente Beschäftigung mit den Rechtspopulisten kontraproduktiv, und das ist in diesen Ländern anders. Dort beschäftigen sich die Mitte-Rechts-Parteien eher mit sich selbst – mit guter Regierungsarbeit, wenn sie daran beteiligt sind, aber auch mit ihrer Programmatik, mit politischer Innovation.“

Die Parteien machten dort tendenziell ihr Ding und ließen die Rechten sozusagen links liegen. Die derzeitige deutsche „Stadtbild“-Debatte dagegen mache die AfD seit Wochen permanent zum Thema.

Und Deutschland?

Hier hält CDU-Chef Friedrich Merz die Brandmauer aufrecht und lehnt jede Zusammenarbeit mit der AfD ab. Gleichzeitig bemüht er sich darum, Themen der AfD-Wähler zu adressieren – bisher hat dies allerdings nicht dazu geführt, dass die AfD in den Umfragen zurückgefallen ist – im Gegenteil.

Eine Erklärung dafür dürfte sein, dass ein großer Teil der AfD-Wähler für Parteien der Mitte gar nicht mehr zurückzugewinnen ist. Eine weitere Studie der Adenauer-Stiftung hat das Ergebnis zutage gefördert, dass das Stammwählerpotenzial der AfD mittlerweile das deutlich größte von allen Parteien ist – 70 Prozent der AfD-Wähler sagen demnach, dass sie sich gar nicht mehr vorstellen können, eine andere Partei als die AfD zu wählen.

„Diese Werte sind bei allen anderen Parteien deutlich niedriger“, sagt Enskat. „Der Faktor ‚Protestwähler‘ hat mit der Zeit immer weiter abgenommen.“ Der Studie zufolge liegt das Potenzial für die Union bei AfD-Wählern nur im Bereich von etwa zehn Prozent.

Experten: Probleme offen angehen – das „Wie“ entscheidet

Nach Auffassung von Historiker Trentmann ist die eigentlich entscheidende Frage, wie die Parteien der Mitte wieder die Deutungshoheit über die wichtigsten gesellschaftlichen Probleme erlangen können. „Nehmen wir das Beispiel Wohnungsnot. Hier sagen die Rechtsparteien: ‚Das liegt an den vielen Migranten.‘“ Vielfach werde diese Aussage von anderen Parteien übernommen.

Trentmanns Analyse: „Das ist grundfalsch. Stattdessen müssten die alten Volksparteien sagen: ‚Nein, es ist anders. Wir haben da in der Vergangenheit große Fehler gemacht, und deswegen sind zu wenig Wohnungen gebaut worden. Und obendrauf kommt, dass es immer mehr Einzelhaushalte gibt. Diese Probleme verschwinden nicht, wenn wir mehr Abschiebungen ausführen.‘“

Eine solche offensive und ehrliche Kommunikation wäre nach Trentmanns Überzeugung der vielversprechendste Weg, eigene Wähler zu halten und Neuwähler, Nichtwähler und Zweifler für sich zu gewinnen, bevor sie ins rechte Lager abrutschen. (dpa/mig 26)

 

 

 

 

 

Diaspora und Konflikte in den Herkunftsregionen

 

Wenn in der Heimat Krieg herrscht, verändert das auch die Menschen, die längst woanders leben. Die Geschichte Jugoslawiens zeigt, wie politische Konflikte ganze Diaspora-Gemeinschaften spalten – und nachwirken.

Als Jugoslawien nach dem Ersten Weltkrieg gegründet wurde, verbanden viele Menschen damit große Hoffnungen. Zum ersten Mal sollten die südslawischen Völker – Serben, Kroaten, Slowenen, Mazedonier, Montenegriner und Bosnier – in einem gemeinsamen Staat leben. Doch bald prallten unterschiedliche Vorstellungen aufeinander: Während die serbische Führung ein zentralistisches Groß-Serbien anstrebte, wollten andere Völker mehr Eigenständigkeit.

Nach dem Zweiten Weltkrieg stabilisierte der kommunistische Staatschef Josip Broz Tito das Land, indem er eine föderale Struktur schuf. Die sechs Teilrepubliken und zwei autonomen Provinzen (Kosovo und Vojvodina) erhielten weitreichende Rechte. Tito hielt die Spannungen zwischen den Nationalitäten mit seiner Autorität im Zaum – doch die Einheit blieb brüchig.

Mit der neuen Verfassung von 1974 wurde Jugoslawien de facto zu einer lockeren Konföderation. Nach Titos Tod 1980 wuchsen die Konflikte erneut. Besonders in Serbien fühlten sich viele benachteiligt. Der Aufstieg von Slobodan Miloševi? und seine Forderung nach einem stärker zentralisierten Staat führten schließlich zu den Abspaltungstendenzen in Slowenien, Kroatien und Mazedonien. Der Vielvölkerstaat begann auseinanderzubrechen.

Zerfall und Fluchtbewegungen

Mit dem Zerfall Jugoslawiens Anfang der 1990er Jahre brachen brutale Kriege aus – zuerst in Kroatien, dann in Bosnien-Herzegowina und schließlich im Kosovo. Millionen Menschen wurden vertrieben, Zehntausende getötet. Ganze Dörfer und Städte wurden ethnisch „gesäubert“, Familien auseinandergerissen.

Die NATO-Intervention 1995 beendete den Bosnienkrieg, und das Abkommen von Dayton schuf einen fragilen Frieden. Wenige Jahre später griff die NATO erneut ein, diesmal im Kosovo-Krieg, um serbische Angriffe auf die mehrheitlich albanische Bevölkerung zu stoppen.

Die Kriege hinterließen zerstörte Gesellschaften – und sie hinterließen tiefe Spuren in den Gemeinschaften jener, die längst im Ausland lebten: in Deutschland, der Schweiz, Kanada oder den USA. Die Konflikte verlagerten sich in die Diaspora.

Wie sich die Konflikte in der Diaspora spiegelten

1. Zerfall der Gastarbeiter-Community in Westeuropa

In den 1970er Jahren galt die jugoslawische Gastarbeitergemeinschaft in Westeuropa als Beispiel für ein funktionierendes Miteinander der Volksgruppen. Serben, Kroaten, Bosnier und Mazedonier lebten eng beieinander, organisierten gemeinsame Feste und gründeten Vereine, die eng mit der Heimat verbunden waren.

Doch mit Beginn der Kriege brach dieses fragile Gleichgewicht zusammen. Plötzlich definierten sich viele nur noch über ihre ethnische Herkunft. Alte Freundschaften zerbrachen, gemischte Vereine lösten sich auf. Serben und Kroaten mieden einander, die einstige Solidarität wurde durch Misstrauen ersetzt. Aus einer jugoslawischen Gemeinschaft wurde eine Sammlung verfeindeter Gruppen. Der Traum von einem gemeinsamen Jugoslawien zerfiel – auch im Ausland.

2. Die serbische Diaspora in den USA

In Nordamerika hatte die serbische Diaspora bereits vor dem Zerfall Jugoslawiens eine starke politische Stimme. Viele von ihnen stammten aus Familien, die nach dem Zweiten Weltkrieg vor dem Kommunismus geflohen waren. Als die Kämpfe in den 1990er Jahren begannen, unterstützten sie zunächst mehrheitlich die Politik Belgrads – aus Loyalität zur Heimat und in der Hoffnung, Serbien könne die Vormachtstellung in der Region sichern.

Der NATO-Angriff auf Serbien 1999 war für viele ein Schock. Er spaltete die Gemeinschaft und löste heftige Loyalitätskonflikte aus: zwischen Dankbarkeit gegenüber den USA als neuer Heimat und Solidarität mit den Landsleuten im Kosovo. Die serbische Diaspora organisierte Demonstrationen, sammelte Spenden und versuchte, Einfluss auf die US-Politik zu nehmen – ohne großen Erfolg.

Nach dem Krieg wandten sich viele von Slobodan Miloševi? ab, fühlten sich aber weiterhin unverstanden. Der Glaube an ein großserbisches Projekt schwand, doch der nationale Stolz blieb. Die Mehrheit der serbischstämmigen US-Bürger versuchte fortan, die Beziehungen Serbiens zum Westen zu verbessern.

3. Die kroatische Diaspora in Kanada

Auch in Kanada kam es mit dem Ausbruch der Kriege zu einer Welle nationaler Mobilisierung. Viele Kroaten, die sich zuvor dem jugoslawischen Sozialismus verbunden gefühlt hatten, identifizierten sich nun stark mit dem neuen, unabhängigen Kroatien.

Die kroatische Diaspora organisierte Hilfslieferungen, sammelte Geld und betrieb intensive Lobbyarbeit. Einige halfen sogar bei Waffenlieferungen. Nach dem Krieg dankte der kroatische Staat dieser Unterstützung, indem er Sitze im Parlament für Vertreter:innen der Auslandskroaten reservierte.

Doch auch hier zeigte sich die Kehrseite: Als kroatische Truppen in Bosnien gegen muslimische Bosniaken vorgingen, kam es zu einem moralischen Bruch innerhalb der Diaspora. Während nationalistische Gruppen das Vorgehen rechtfertigten, verurteilten viele andere Kroaten die Gewalt. Mit dem Ende des Krieges schwand die politische Energie der Diaspora, viele zogen sich ins Private zurück.

Zweite Generation und Identitätsbrüche

Besonders schwer traf der Zerfall Jugoslawiens die zweite Generation – die Kinder der Gastarbeiter. Sie waren in Deutschland, der Schweiz oder Österreich aufgewachsen, fühlten sich oft zugleich jugoslawisch und europäisch. Plötzlich aber gab es das Land, mit dem sie sich identifiziert hatten, nicht mehr.

Viele Jugendliche mussten sich zwischen „serbisch“, „kroatisch“ oder „bosnisch“ entscheiden – Kategorien, die ihnen zuvor fremd waren. Wer sich weiterhin als „Jugoslawe“ bezeichnete, galt schnell als Verräter. Der Konflikt ihrer Eltern wurde zu einem Identitätskonflikt ihrer Generation.

Auch gemischte Familien, in denen Serben und Kroaten zusammenlebten, gerieten unter Druck. Freundeskreise zerfielen, Kinder wurden in Schulen mit Feindbildern konfrontiert, die sie kaum verstanden. Psycholog:innen berichteten von inneren Spannungen, Scham und Schuldgefühlen. Der Krieg, tausende Kilometer entfernt, spaltete auch jene, die längst in Frieden lebten.

Fazit: Lektionen für die Gegenwart

Der Fall Jugoslawien zeigt eindrücklich, dass Konflikte in den Herkunftsländern nicht an Grenzen enden. Sie setzen sich in den Diasporas fort – oft in abgeschwächter, aber emotionaler Form.

Wenn ethnische oder religiöse Identitäten politisiert werden, greifen diese Mechanismen auch in der Ferne. Das gilt nicht nur für den Balkan: Ähnliche Dynamiken lassen sich heute bei syrischen, ukrainischen oder palästinensischen Gemeinschaften in Europa beobachten.

Diaspora-Gesellschaften tragen das Erbe ihrer Herkunft in sich – und werden damit zu Schauplätzen, an denen sich die alten Konflikte in neuen Formen wiederholen. Der Umgang mit diesen Spannungen bleibt eine zentrale Aufgabe für Einwanderungsgesellschaften wie Deutschland. Mig 25

 

 

 

 

Zusammen halt

 

Warum der Ruf nach Gemeinschaft zurückkehrt – und die Sozialdemokratie ihn nicht ignorieren darf. Von Leander Scholz

Als Anfang der 1980er Jahre in den USA die kommunitaristische Debatte geführt wurde, war es kein Zufall, dass die sozialen Probleme der großen Metropolen zu den wesentlichen Auslösern der Auseinandersetzung gehörten. Unter den Bedingungen einer wachsenden Anonymität der Nachbarschaften schien das öffentliche Leben einem unaufhaltsamen Zerfall und einer zunehmenden Verwahrlosung preisgegeben zu sein. Wer es sich leisten konnte, zog in die sauberen Vorstädte, um den gesellschaftlichen Folgen des exzessiven Drogenkonsums und der steigenden Kriminalität zu entkommen. Im Zentrum der kommunitaristischen Kritik stand daher sowohl ein paternalistischer Wohlfahrtsstaat, der zur dauerhaften Untätigkeit der Leistungsempfänger beitrug, als auch ein Liberalismus, der Freiheit vor allem als eine private Angelegenheit begriff. Ausgangspunkt der kommunitaristischen Argumentation war die Annahme, dass eigenverantwortliches Handeln nur in einer gelebten Gemeinschaft gelingen kann, die zugleich Anforderung und Unterstützung bedeutet.

Auch heute ist die kommunale Ebene entscheidend, um die massiven politischen Spannungen verstehen zu können. Hier zeigt sich in unmittelbarer Weise die Überforderung des Staates, eine angemessene Sicherheit und Ordnung öffentlicher Räume zu gewährleisten. An den städtischen Schulen bestehen die kulturellen Konflikte nicht in abstrakten identitätspolitischen Debatten, sondern sind handgreiflich und konkret. Auf den Bürgerämtern werden die Menschen mit einer Bürokratie konfrontiert, die es ihnen schwer macht, sich mit ihrem Gemeinwesen zu identifizieren. Und in den Städten haben vor allem Familien mit einer Wohnungsnot zu kämpfen, die den Glauben an die Fähigkeit zur Gestaltung kommunaler Räume erschüttert. Wer die Wut nachfühlen will, die das Land fest im Griff zu haben scheint, muss sich mit dem Zustand der Kommunen und den alltäglichen Erfahrungen auf der Straße beschäftigen. Denn dort wird der Zustand gesellschaftlicher Integration besonders augenfällig, nicht nur von Zugewanderten, auch von Einheimischen.

Maßgeblich geführt wurde die kommunitaristische Debatte von liberalen amerikanischen Philosophen. Den Anfang machte Michael Sandel mit einer Kritik des Freiheitsverständnisses von John Rawls. Dessen Theorie der Gerechtigkeit war zum Leitstern der Bürgerrechtsbewegung geworden, hatte aber zugleich die Idee der Freiheit auf individuelle Rechte verengt. Waren die emanzipativen Strömungen für eine umfassende Selbstbestimmung in allen Lebensbereichen eingetreten, verwiesen die Kommunitaristen auf den Zerfall der Familien, die zunehmende Isoliertheit in der Konsumwelt und die mangelnde Bereitschaft, sich überhaupt noch in irgendeiner Weise in die Gemeinschaft einzubringen. Jeder Freiheitsgewinn hatte ihrer Meinung nach auch einen Preis, dessen Entrichtung eine Gesellschaft auf Dauer ruinieren könne. Charles Taylor machte geltend, dass gemeinsam geteilte Werte nur durch die Zugehörigkeit zu einer Gemeinschaft wirksam bewahrt werden könnten. Und der Soziologe Amitai Etzioni legte weitreichende Vorschläge vor, wie ein neues Gemeinwesen einzurichten sei.

Es ist ebenso kein Zufall, dass diese Debatte, die nach den welthistorischen Ereignissen von 1989 mit der beginnenden Globalisierung zunehmend an Bedeutung verlor, heute unter den Bedingungen einer Krise der liberalen Weltordnung erneut aufflammt. Allerdings wird sie nun vorwiegend von konservativer Seite geführt. Den Auftakt hat Russel Ronald Reno gemacht, ein amerikanischer Theologe und Philosoph, indem er das Ende des „langen 20. Jahrhunderts“ verkündete und damit die liberalen Grundüberzeugungen in der Nachkriegszeit bis heute meinte. Er prophezeite eine Wiederkehr des Bedürfnisses nach starken Bindungen, nach Identität, Solidarität und Loyalität. Im Unterschied zu den 1980er Jahren spielt die Religion heute eine zentrale Rolle. Waren die Kommunitaristen noch für die Erneuerung republikanischer Werte eingetreten, werden die nötigen Bindekräfte heute dem Glauben zugetraut. Dahinter verbirgt sich nicht nur die Sorge um den Zerfall der Gesellschaft, sondern auch die Befürchtung, die Überzeugungen anderer Kulturen könnten stärker sein als die eigenen.

Galt es bislang als ausgemacht, dass der westliche Liberalismus ein Alleinstellungsmerkmal weltpolitischer Überlegenheit sei, hat sich inzwischen der Verdacht erhärtet, eine allein nach liberalen Prinzipien geordnete Gesellschaft könnte der neuen globalen Rivalität nicht gewachsen sein. Vor diesem Hintergrund plädiert der Politologe Patrick Deneen, der zu den einflussreichsten Stichwortgebern der aktuellen Debatte in den USA gehört und auch von J.D. Vance sehr geschätzt wird, für einen „katholischen Kommunitarismus“. Demnach habe der Westen nur dann eine Überlebenschance in der „postliberalen Zukunft“, wenn er sich auf gemeinschaftsstiftende Werte besinnen kann. Während die Zäsur von 1989 eine globale Liberalisierung in Gang gesetzt hat, zeichnet sich derzeit eine identitätspolitische Wende im weltweiten Maßstab ab. Nach dem Ende der bisherigen Globalisierung sind zahlreiche Länder auf der Suche nach ihrer Position in der entstehenden neuen Weltordnung, die nicht mehr wie in der Vergangenheit durch den Westen dominiert werden wird.

Im Horizont dieses weltgeschichtlichen Umbruchs hat die liberale Gesellschaft ihre einstige Vorreiterrolle eingebüßt. Hatten sich die Europäer nach dem Ende der Blockkonfrontation noch als Avantgarde einer postnationalen Weltgesellschaft gesehen, müssen sie sich jetzt mit ganz neuen Anforderungen an ihre Selbstbehauptung auseinandersetzen. Dazu gehört nicht nur die Notwendigkeit, ihre militärischen Fähigkeiten zur Verteidigung auszubauen, sondern auch die Herausforderung, wie der Zusammenhalt in einer zunehmend heterogenen und von Einwanderung geprägten Gesellschaft gewährleistet werden soll. Neben der Wehrpflicht, die bereits einige europäische Länder wieder eingeführt haben, wird es auch um gesellschaftspolitische Antworten wie eine allgemeine Dienstpflicht gehen müssen, um die Bindung an das Gemeinwesen sicherstellen zu können. Weder die USA noch die Europäische Union können sich weiterhin als Vorbild für den Rest der Welt begreifen, sondern müssen ihre Gesellschaften auf die fundamental veränderte Weltlage einstellen.

In diesem Kontext findet in Deutschland, wie in anderen Ländern auch, eine tiefgreifende Auseinandersetzung über das nationale Selbstverständnis statt, die allerdings vorwiegend dem rechten Lager überlassen wird. Dabei ist es entscheidend für den Ausgang dieser Debatte, dass sie auch in der politischen Mitte geführt wird. Denn es wäre zu kurz gegriffen, die Polarisierung allein als politischen Antagonismus zwischen rechten und linken Kräften zu begreifen, bei der jede Seite glaubt, die Probleme wären gelöst, wenn nur die andere Seite nicht wäre. Für die Progressiven stellen die reaktionären Kräfte die Ursache eines gesellschaftlichen Rückschritts dar. Und die reaktionären Kräfte sehen den nationalen Niedergang in der Ideologie der Progressiven begründet. Aber beiden Positionen liegt ein Problem gesellschaftlicher Resilienz zugrunde, das es zu lösen gilt. Denn mit der Verschiebung der politischen Gewichte in der Welt von West nach Ost haben die bisherigen Zukunftserwartungen an die liberale Gesellschaft ihre stabilisierende Funktion weitgehend verloren.

Ausgerechnet die Sozialdemokratie tut sich besonders schwer damit, ihren Beitrag zu dieser Debatte zu leisten. Dabei kann sie auf eine lange kommunitaristische Tradition zurückblicken. Seit der Gründung der Partei ging es in der gewerkschaftlichen Bewegung immer auch darum, der Konkurrenzgesellschaft eine Gemeinschaftserfahrung entgegenzusetzen. Es war der Sozialdemokrat Ferdinand Tönnies, der das bis heute wichtige Begriffspaar „Gesellschaft und Gemeinschaft“ in die politische Diskussion eingeführt und die SPD angesichts der fragilen politischen Lage in der Weimarer Republik als die maßgebliche „Partei der Republik“ verstanden hat. Aber das bedeutete für ihn zugleich, dass auch eine liberale Gesellschaft auf eine politische Gemeinschaft angewiesen ist, deren Mitglieder nicht nur zufällig, sondern auch wesentlich miteinander verbunden sind. Die SPD hat sich stets als eine Partei mit einem hohen Anspruch an die gesellschaftliche Integration ausgezeichnet, die sich nicht bloß in der liberalen Forderung nach einer „offenen Gesellschaft“ erschöpfen kann.

Auch wenn sich die Gesellschaft seit den 1980er Jahren verändert hat und die Problemlage eine andere geworden ist, haben die philosophischen Argumente der Kommunitaristen nichts an ihrer Gültigkeit verloren. Anstelle des liberalen Fokus auf individuelle Rechte und individuelle Sozialleistungen richteten sie den Blick auf starke Einrichtungen, die sowohl unterstützen als auch fordern. Denn dort entstehen die gesellschaftlichen Bindekräfte, aufsteigend von der kommunalen bis zur nationalen Ebene. Ein wesentlicher Faktor dabei ist die Gestaltung des öffentlichen Raums, in dem sich die Menschen wechselseitig wahrnehmen, negativ oder positiv. Die SPD stellt immer noch eine große Anzahl an Bürgermeisterinnen und Bürgermeistern, deren Wissen richtungsweisend ist, um die gesellschaftlichen Konflikte überhaupt begreifen und wirksam bearbeiten zu können. Von der kommunalen Ebene ausgehend, sollte die Partei in die Diskussion eingreifen und dem rechten Lager die Hoheit über die Debatte streitig machen. Denn auch in Deutschland gibt es gegenwärtig ein übergreifendes Bedürfnis nach Gemeinschaft und kollektiver Identität. IPG 25

 

 

 

 

Weltklimakonferenz strauchelt und lässt Millionen Menschen im Stich

 

Es gibt Geld für eine Anpassung an den Klimawandel und für den Regenwald. Doch beim Umgang mit den Haupttreibern des Klimawandels findet die Weltgemeinschaft nur den kleinsten gemeinsamen Nenner. So bleibt der Kampf gegen Fluchtursachen wieder auf der Strecke. Von Martina Herzog, Larissa Schwedes und Torsten Holtz

Mächtige Blockierer waren in Hochform und die USA als einer der größten Klimasünder gar nicht erst dabei: Wegweisende Fortschritte im Kampf gegen die Erderwärmung sind auf der Weltklimakonferenz in Brasilien trotz turbulenter zweiwöchiger Verhandlungen nicht gelungen. Damit schwinden auch die Hoffnungen, dass Fluchtursachenbekämpfung endlich höher priorisiert wird.

Umweltorganisationen und Aktivisten kritisierten die Beschlüsse als unzureichend und inakzeptabel. Auch Bundesumweltminister Carsten Schneider (SPD) zeigte sich „ein bisschen enttäuscht“ und warf den Ölstaaten eine Blockadetaktik vor.

Zeitweise schien es unter dem Druck großer Proteste und breiter Länder-Allianzen – darunter Deutschlands und der EU – möglich, einen Plan für den Ausstieg aus der klimaschädlichen Verbrennung von Kohle, Öl und Gas anzugehen. Doch selbst die Einigung, einen solchen Plan in den nächsten Jahren zu erarbeiten – über derartige Trippelschritte ringt man auf UN-Konferenzen – scheiterte.

Was beschlossen wurde – und was nicht

Vereinbart wurde statt des tagelang heiß diskutierten Wegs zum Ausstiegsplan lediglich eine freiwillige Initiative, um die Klimaschutz-Anstrengungen der Staaten zu beschleunigen. Schon bei der Klimakonferenz vor zwei Jahren in Dubai hatten die rund 200 Staaten eine Abkehr von diesen fossilen Brennstoffen beschlossen – wann und wie dies geschehen soll, wurde nun anders als erhofft in Belém nicht präzisiert.

Die USA sind unter Präsident Donald Trump aus dem Pariser Klimaabkommen ausgestiegen und blieben Belém fern. In der Vergangenheit waren sie ein wichtiger Geldgeber im Kampf gegen den Klimawandel.

Trotzdem sollen reiche Staaten ihre Klimahilfen an ärmere Länder zur Anpassung an die Folgen der Erderhitzung deutlich erhöhen: Von einer Verdreifachung bis 2035 ist die Rede. Doch wird kein Basisjahr dafür und kein konkreter Betrag genannt. Die Summe dürfte deutlich unter den jährlich 120 Milliarden US-Dollar liegen, die Entwicklungsländer vehement gefordert hatten. Sabine Minninger von Brot für die Welt kritisierte, auch die Bundesregierung habe in dem Punkt zu den „Bremsern“ gehört.

Gestartet wurde von Brasilien ein neuer Fonds zum Schutz des Regenwalds, für den Deutschland eine Milliarde Euro über zehn Jahre gestreckt bereitstellt. Länder, die ihre Wälder erhalten, sollen nach diesem neuen Modell belohnt werden. Umgekehrt sollen sie für jeden zerstörten Hektar Wald Strafe zahlen. Einen konkreten „Waldaktionsplan“, um die Zerstörung von Wald einzudämmen, beschloss die Konferenz hingegen nicht. Es wird lediglich an einen früheren Beschluss erinnert, die Entwaldung bis 2030 zu stoppen.

Eine „Konferenz der Wahrheit“ – nur anders als gedacht

UN-Generalsekretär António Guterres sagte, viele seien wohl enttäuscht, insbesondere junge Menschen, indigene Völker und alle, die unter den Folgen des Klimawandels leiden. „An alle, die demonstriert, verhandelt, beraten, berichtet und mobilisiert haben: Gebt nicht auf! Die Geschichte ist auf eurer Seite!“, ermutigte Guterres.

Enttäuschung macht sich Beobachtern zufolge vor allem in den Regionen breit, wo die Menschen am stärksten unter den Folgen des Klimawandels leiden und ihren Lebensraum verlieren. Zunehmende Dürren, Überschwemmungen und andere Naturkatastrophen schlagen weltweit immer mehr Menschen in die Flucht. Studien zufolge gehört der Klimawandel inzwischen zu den größten Fluchtursachen. Perfide sei es vor diesem Hintergrund, dass reichte Industriestaaten einerseits in Klimafragen wenig Engagement zeigen, andererseits hohe Zäune bauen, damit Geflüchtete nicht in ihre Länder ziehen.

Mäßige Entschlossenheit

Brasilien hatte eine „Konferenz der Wahrheit“ versprochen und auf einen großen Erfolg gehofft. Stattdessen ist nun eher die Wahrheit über die mäßige Entschlossenheit der Weltgemeinschaft bei der Krisenbekämpfung ans Licht gekommen. Die Konferenz sei nicht von wegweisenden Beschlüssen geprägt, bemängelte der Direktor des Potsdam-Instituts für Klimafolgenforschung, Ottmar Edenhofer. „Die Staaten versprechen zu wenig und selbst diese Zusagen werden nicht eingelöst.“

Andererseits: Parallel zum Klimagipfel bekannten sich am anderen Ende der Welt in Südafrika die G20-Staaten – wenn auch in abgespeckter Besetzung und ebenfalls unverbindlich – zur verstärkten Bekämpfung des Klimawandels. Sie sind für den Mammutanteil der weltweiten Emissionen verantwortlich.

Wer Fortschritte blockierte

Umweltminister Schneider sagte, die Ölstaaten hätten mit einer „Blockade“ ehrgeizigere Beschlüsse verhindert. Im zentralen Abschlussdokument ist nicht die Rede von fossilen Energieträgern, auch Öl, Kohle und Gas werden nicht explizit genannt – außer im Begriff „Treibhausgase“.

Der deutsche Greenpeace-Chef Martin Kaiser sprach von einem Versagen. „Ölkonzerne und Exportländer wie Saudi-Arabien und Russland haben verhindert, dass die Konferenz einen beschleunigten Ausstieg aus Öl, Gas und Kohle verabschiedet.“ Auch die USA hätten vorher Druck auf kleine Länder ausgeübt und so aus der Ferne zum Scheitern beigetragen.

Wo sich die Länder in Verhandlungen regelmäßig verhaken

Während viele Industriestaaten Fortschritte beim Kampf gegen die Erderwärmung verlangen, rufen ärmere Länder nach mehr Geld für die Anpassung daran. Jede Seite verlangt Zugeständnisse als Voraussetzung für Fortschritte.

Ärmere Staaten und Schwellenländer verweisen auf die Verantwortung der Industrieländer als Hauptverursacher der aktuellen Erderwärmung. Sie fürchten, dass zu viel Tempo beim Klimaschutz ihre Chancen auf wirtschaftliche Entwicklung beeinträchtigt. Ölförderländer wollen hingegen ihr Geschäftsmodell sichern. „Trotz der sich dramatisch zuspitzenden Klimakrise ist eine kleine Gruppe großer Staaten bereit, alles zu tun, um das fossile Geschäftsmodell zu verlängern“, bilanzierte Christoph Bals, der politische Vorstand von Germanwatch.

Selbst 20 Stunden nach dem geplanten Ende lieferten sich die übernächtigten Kontrahenten im Abschlussplenum noch leidenschaftliche Wortgefechte und versuchten mit Anträgen, ihre Inhalte auf den letzten Drücker doch noch in den Beschlusstexten unterzubringen. Ein Vertreter Russlands warf den lateinamerikanischen Staaten vor, wie Kinder nach den Süßigkeiten zu grapschen – ein ungewöhnlich undiplomatischer Vorwurf, den diese entrüstet zurückwiesen.

Was die Klimakonferenz in Brasilien besonders machte

Die Millionenstadt Belém am Rande des Regenwalds hielt für die Gäste aus aller Welt manch ungewohnte Überraschung bereit: Mehrfach konnten die hallengroßen Zelte den fast täglichen tropischen Regengüssen nicht standhalten und es tropfte in die Flure der Konferenz hinein. Im Endspurt brach dort sogar ein Feuer aus und legte den Gipfel stundenlang lahm. Indigene Aktivisten belagerten im Kampf um mehr Mitsprache und Landrechte mehrfach das Gelände der Konferenz.

Anders als bei vorherigen Konferenzen in autoritären Staaten wie Aserbaidschan oder Ägypten regte sich draußen viel Protest. Höhepunkt waren ein mehrtägiger „Gipfel des Volkes“ auf dem Uni-Gelände und ein riesiger, bunter Marsch von Zehntausenden für mehr Klimaschutz.

Ob es im nächsten Jahr ähnlich sichtbare Proteste der Zivilgesellschaft geben wird, bleibt abzuwarten. Dann soll die Klimakonferenz im türkischen Badeort Antalya stattfinden, mit einer besonderen Rolle für Australien. Die Türkei solle „Gastgeber und Präsidentschaft“ der nächsten Klimakonferenz werden, Australien hingegen „Präsidentschaft für die Verhandlungen“, hatte Umwelt-Staatssekretär Jochen Flasbarth erklärt.

Was der Klimawandel für Mensch und Natur bedeutet

Beim Verbrennen von Öl, Gas und Kohle entstehen die meisten klimaschädlichen Treibhausgase, die dafür sorgen, dass sich der Planet immer mehr aufheizt. Die zehn wärmsten Jahre seit Beginn der Aufzeichnungen waren die vergangenen zehn.

Inzwischen geht die Wissenschaft davon aus, dass die im Pariser Klimaabkommen angestrebte maximale Erderwärmung von 1,5 Grad im Vergleich zur vorindustriellen Zeit mindestens befristet überschritten wird, und zwar schon spätestens zu Beginn der 2030er Jahre. Die drastischen Folgen wären mehr und heftigere Stürme, Waldbrände, Dürren, Überschwemmungen – und Flucht. (dpa/mig 24)

 

 

 

 

Bundesverfassungsgericht rügt Polizeipraxis bei Abschiebung

 

Die Polizei darf nicht auf Grundlage einer Vermutung die Wohnungstür in einem Flüchtlingsheim aufbrechen, um eine Abschiebung durchzusetzen. Das Verfassungsgericht stellt damit eine in den vergangenen Jahren verschärfte Abschiebepraxis infrage. Pro Asyl spricht von einem „Denkzettel für die Regierung“.

Bei der Durchsetzung einer Abschiebung darf die Polizei die Wohnungstür in einem Flüchtlingsheim in der Regel nicht ohne richterliche Befugnis aufbrechen. Ist der aktuelle Aufenthaltsort des Flüchtlings nicht „sicher“ bekannt, handele es sich bei dem Vorgehen um eine Durchsuchung, sodass eine richterliche Genehmigung erforderlich sei, entschied das Bundesverfassungsgericht in einem am Donnerstag veröffentlichten Beschluss (AZ: 2 BvR 460/25). Andernfalls werde gegen das Grundrecht auf Unverletzlichkeit der Wohnung verstoßen. Die Unterstützer des Beschwerdeführers sehen mit der Entscheidung einer erst vor wenigen Jahren verschärften Abschieberegelung die rechtliche Grundlage entzogen.

Im konkreten Fall sollte 2019 ein in einem Berliner Übergangswohnheim untergebrachter Flüchtling morgens abgeschoben werden. Ob dieser sich tatsächlich in seinem Zimmer aufhielt, war nicht bekannt. Polizisten klopften mehrfach an der verschlossenen Tür und brachen diese schließlich mit einem Rammbock auf. Eine richterliche Genehmigung hatten sie nicht. Die Beamten fanden den gebürtigen Guineer in seinem Bett. Der Mann sollte nach Italien abgeschoben werden, was jedoch wegen der abgelaufenen Überstellungsfrist scheiterte.

Erfolgreiche Verfassungsbeschwerde

Der Geflüchtete hielt das Vorgehen der Beamten für rechtswidrig und verwies auf das Grundrecht der Unverletzlichkeit der Wohnung. Sowohl die zuständigen Behörden als auch das Oberverwaltungsgericht Berlin-Brandenburg hielten die Maßnahme für rechtens. Sie argumentierten, das Handeln der Polizei sei keine Durchsuchung gewesen.

Das Bundesverfassungsgericht sah das anders. Den Beamten sei nicht sicher bekannt gewesen, ob sich der Flüchtling tatsächlich in seinem Zimmer aufhält. Damit stellten das Aufbrechen der Tür und das Eindringen in den Raum eine Durchsuchung dar. Der betroffene Mann hatte mit Unterstützung der Flüchtlingshilfsorganisation Pro Asyl und der Gesellschaft für Freiheitsrechte Verfassungsbeschwerde eingelegt.

Gesetzesverschärfung aus 2019

Hintergrund des Verfahrens ist eine 2019 beschlossene Änderung im Aufenthaltsgesetz. Sie erlaubte der Polizei, die Wohnung eines Menschen, der abgeschoben werden soll, auch ohne richterliche Genehmigung zu betreten, „wenn Tatsachen vorliegen, aus denen zu schließen ist, dass sich der Ausländer dort befindet“.

In der vergangenen Wahlperiode wurde der Passus nochmals verschärft. Seitdem soll es bei beabsichtigten Rückführungen von Bewohnern von Flüchtlingsheimen auch erlaubt sein, die Wohnungen anderer Personen und Gemeinschaftsräume zu betreten. Ziel der Verschärfungen war, der Polizei mehr Möglichkeiten bei der Durchsetzung von Abschiebungen einzuräumen.

Verschärfter Abschieberegel Grundlage entzogen

Für diese Regelung bleibe mit der Entscheidung des Bundesverfassungsgerichts „nahezu kein Anwendungsbereich mehr“, bewertete der Anwalt des Beschwerdeführers, Christoph Tometten, den Beschluss. Sarah Lincoln, Juristin bei der Gesellschaft für Freiheitsrechte erklärte: „Abschiebungen sind kein Freibrief und Schlafzimmer von Geflüchteten keine rechtsfreie Zone“, sondern grundrechtlich besonders geschützt. Wiebke Judith von Pro Asyl bewertete das Urteil als „Denkzettel für die Regierung“.

Die Linken-Bundestagsabgeordnete Clara Bünger forderte politische Konsequenzen, indem statt über Verschärfungen bei Abschiebungen über eine wirksame Bleiberechtsregelung nachgedacht werde. Seit Jahren sei zu beobachten, dass Gesetzesverschärfungen und politischer Druck zu immer brutaleren Abschiebungen führten. Rechte von Geflüchteten dürfen „nicht immer weiter ausgehöhlt werden“. (epd/mig 21)

 

 

 

 

 

Interviews. „Moralische Empörung reicht nicht aus“

 

Raphaël Glucksmann über die Krise der Sozialdemokratie, überfällige Selbstkritik und den drohenden Wahlsieg der Rechten in Frankreich. Die Fragen stellte Philipp Kauppert.

Sie sind derzeit „Sonderbeauftragter für die sozialdemokratische Erneuerung“ in der S&D-Fraktion im Europäischen Parlament. Was bedeutet diese Erneuerung für Sie?

In ganz Europa stehen wir vor nahezu derselben Situation. Die Krise ist nicht national – sie ist europäisch, ja westlich. Was wir in den USA mit der MAGA-Bewegung sehen, spiegelt sich hier wider. Angesichts des Aufstiegs der extremen Rechten und des Mangels an Energie und Substanz auf unserer eigenen Seite müssen wir grundlegende Fragen stellen: Wer sind wir? Wofür stehen wir? Wie können wir nicht nur die europäische Sozialdemokratie, sondern auch die europäische Demokratie selbst retten?

Deshalb haben wir in unserer Fraktion beschlossen, dass es nicht reicht, drei Wochen vor den Wahlen ein gemeinsames Manifest zu schreiben. Dann wiederholen wir nur Schlagworte – soziale Gerechtigkeit, gerechte Transformation, soziale Ökologie. Wir brauchen eine tiefere Reflexion. Erstens: Was haben wir falsch gemacht? Wenn man überall Wahlen verliert, funktioniert irgendetwas nicht. Zweitens: Warum sind wir überhaupt Sozialdemokraten? Was wollen wir verändern? Und drittens: Wie wollen wir das tun?

Politik ist nicht nur transaktional – ein Reagieren auf Bedürfnisse oder Ängste –, sie ist auch transformativ. Wir müssen die Agenda gestalten und nicht nur auf eine reagieren, die uns andere aufzwingen. Andernfalls spielen wir jede Partie auf dem Spielfeld des Gegners. Wir wollen aber auch zu Hause, auf unserem eigenen Platz spielen – müssen dafür aber zunächst neu definieren, was dieses „Zuhause“ für uns bedeutet. Paradoxerweise hat es die nationalistische extreme Rechte geschafft, sich über Grenzen hinweg besser zu koordinieren als wir. Sie handeln international, während wir, die selbsternannten Internationalisten, fragmentiert bleiben. Dieser Widerspruch muss enden, sonst werden wir weiter verlieren.

Sie haben einige Tage in Deutschland verbracht und mit SPD-Politikern und Intellektuellen gesprochen, während die Partei an einem neuen Grundsatzprogramm arbeitet, das 2027 fertiggestellt sein soll. Geben solche langfristigen Programme heute noch die nötige Orientierung?

Es geht nicht nur um ein Programm. Entscheidend ist der Prozess der Selbstbefragung – dieselben Fragen, die wir uns in Frankreich und in ganz Europa stellen: Wer sind wir, und welche Vision bieten wir an? Ja, ein glaubwürdiges politisches Programm ist notwendig. Aber vor den politischen Maßnahmen müssen Werte und ein gemeinsames Verständnis von Politik stehen. Die Herausforderung der SPD ist besonders komplex: Sie muss Lehren aus den jüngsten Wahlen und der Stimmung in Deutschland ziehen – und gleichzeitig regieren. Das erzeugt Konflikte, nicht nur inhaltlicher, sondern auch zeitlicher Art.

Wenn man in der Regierung ist, insbesondere als Juniorpartner, trägt man Verantwortung für Entscheidungen, die nicht unbedingt von einem selbst stammen – und sieht sich gleichzeitig einer Krise nach der anderen gegenüber. Dennoch darf man langfristiges Denken nicht zugunsten kurzfristigen Überlebens opfern. In Frankreich haben wir das zu oft getan – taktisch auf jede Krise reagiert und die tiefere Erneuerung vernachlässigt. Man übersteht zwar jede Welle, aber am Ende fehlt die Substanz für eine transformative Agenda. Alle, mit denen ich hier gesprochen habe, verstehen, dass jenseits taktischer Fehler oder einzelner Themen eine tiefere Krise der Sozialdemokratie besteht. Und genau jetzt ist der richtige Moment, sich ihr zu stellen.

Viele argumentieren, sozialdemokratische und Mitte-links-Parteien hätten die Arbeiterschaft verloren, die zunehmend rechtsextrem wählt. Wie kann dieser Trend umgekehrt werden?

Das ist tatsächlich der Kern des Problems. Die Arbeiterklasse hat sich verlagert – frühere sozialistische Wähler in Frankreich stimmen nun für die extreme Rechte. Doch das ist nicht nur eine Krise der Sozialdemokratie; es ist eine Krise der Demokratie selbst. Jahrzehntelang waren westliche Demokratien stabil, weil sie den arbeitenden Menschen ein zentrales Versprechen gaben: Durch Arbeit kannst du dir ein besseres Leben aufbauen. Dieses Versprechen wurde lange erfüllt – es trug Wohlstand und Vertrauen in die Demokratie. Jetzt ist es gebrochen. Und wenn es zerbricht, wächst der Populismus.

Wir können nicht länger einfach sagen: „No pasarán.“ Moralische Empörung reicht nicht aus. Wir müssen verstehen, warum ein Fabrikarbeiter in Michigan oder Nordfrankreich, der sein Leben lang links gewählt hat, heute Trump oder Le Pen unterstützt. Die Antwort ist: Er sieht keinen Fortschritt und keine Würde mehr innerhalb der Demokratie. Die Erneuerung der Sozialdemokratie bedeutet daher eine Rückkehr zu ihren Quellen. Arbeitende Menschen müssen wieder eine demokratische Zukunft erkennen, die ihnen Verbesserungen bietet. Andernfalls schwächt sich die Demokratie, und die extreme Rechte wird zur Partei der Arbeiter – wie es bereits geschehen ist. Das ist nicht nur eine tödliche Gefahr für die Sozialdemokratie, sondern für die Demokratie selbst.

Natürlich ist die heutige Arbeiterschaft nicht mehr dieselbe wie früher: diversifizierter, fragmentierter, individualisierter. Wir müssen diese Transformation verstehen und dürfen die Vergangenheit nicht romantisieren. Und wir müssen klar definieren, für wen wir sprechen und gegen wen wir kämpfen. Heute stehen wir einem Phänomen gegenüber, das ich „Kapitalismus der Einsamkeit“ nenne. Große digitale Plattformen beherrschen nicht nur den politischen Diskurs, sondern auch den Alltag. Sie profitieren von Vereinzelung und Isolierung – und diese untergräbt Solidarität, die Grundlage der Sozialdemokratie. Wir stehen Machtkonzentrationen gegenüber wie der von Elon Musk oder auch der Kommunistischen Partei Chinas mit TikTok, wo Geschäftsinteressen mit ideologischem Einfluss verschmelzen. Um die Demokratie zu verteidigen, müssen wir wissen, für wen wir kämpfen – und gegen wen.

Kommen wir zur französischen Politik. Die Lage dort wirkt extrem angespannt. Wie beurteilen Sie den aktuellen Moment? Und würden Sie eine Kandidatur bei den nächsten Präsidentschaftswahlen in Erwägung ziehen?

Die Wahlen 2027 werden ein Moment von Leben oder Tod für die französische Demokratie – und für das europäische Projekt insgesamt. Die Möglichkeit, dass Marine Le Pen oder ein anderer rechtsextremer Kandidat gewinnen könnte, ist sehr real. Es gibt keine Obergrenze mehr für ihre Unterstützung. Das bedeutet: Jede Entscheidung, die heute getroffen wird, muss mit einer Ernsthaftigkeit erfolgen, die der französischen Politik oft fehlt. Die Geschichte wird uns daran messen, was wir jetzt tun – oder unterlassen. Wenn die französische Demokratie kollabiert, wird das gesamte europäische Demokratieprojekt erschüttert.

Wir müssen daher mit einem Ziel handeln: diesen Kollaps zu verhindern. Die Sozialdemokratie muss zeigen, dass sie der echte Schutzwall der Demokratie ist. Ja, wir teilen mit den Konservativen die Überzeugung, dass eine starke Verteidigung gegen Putins Aggression notwendig ist. Aber wir verstehen „Verteidigung“ ganzheitlich: Sie umfasst militärische Stärke, sozialen Zusammenhalt und den ökologischen Übergang. Diese drei Säulen bilden gemeinsam die Verteidigung der Demokratie. Nur wir können eine solche umfassende Vision anbieten – eine Alternative zu den antidemokratischen Kräften. In Frankreich arbeite ich daran, diesen Ansatz aufzubauen, ohne Sektierertum und ohne Dogma. In diesem Kampf werden wir alle brauchen, die an die Demokratie glauben – auch jene, die in der Vergangenheit Macron gewählt haben.

Was auf der persönlichen Ebene geschieht, weiß ich noch nicht. Aber es geht nicht um individuelle Ambitionen. Es geht darum, einen Zusammenbruch zu verhindern. Die Wahl besteht nicht zwischen Sieg oder Niederlage – sondern zwischen Erneuerung oder Ruin. Um erfolgreich zu sein, müssen wir zuerst klären, wer wir sind. Es reicht nicht, „gegen die extreme Rechte“ zu sein. Die Menschen müssen auch wissen, wofür wir stehen. Sie wissen vielleicht, dass wir für soziale Gerechtigkeit oder höhere Löhne eintreten, aber unsere politische Identität bleibt unklar – während nationalistische Kräfte eine sehr klare haben. Diese Klarheit ist unser fehlendes Puzzlestück.

Zum Schluss: Wie sehen Sie die linksextreme La France Insoumise im größeren Kampf um die Demokratie – und was bedeutet das für mögliche Kooperationen bei zukünftigen Wahlen?

Wenn man den Kampf für die Demokratie anführt, kann man sich nicht mit antidemokratischen Kräften verbünden. Tut man es doch, schenkt man der extremen Rechten den Sieg. Sie wird einfach auf unsere Inkohärenz verweisen: „Ihr werft uns Autoritarismus oder Putin-Nähe vor, aber ihr verbündet euch mit Populisten, die gegen die EU und die europäische Verteidigung sind.“ Sozialdemokrat zu sein, bedeutet zuallererst, Demokrat zu sein. Das unterscheidet uns von der populistischen Linken. Wenn wir diesen Unterschied verwischen, verlieren wir unsere Identität. Und dieses Verwischen ist nicht nur moralisch falsch, sondern auch strategisch ein Fehler.

Deshalb: keine Allianz mit La France Insoumise (LFI). Sie würde eine Niederlage garantieren. Wenn ein LFI-Kandidat die zweite Runde der Präsidentschafts- oder Parlamentswahlen erreichen würde, wäre ein Sieg der extremen Rechten sicher. Und sogar wenn wir selbst den Kandidaten stellten [aber in einer Allianz mit LFI, Anmerkung der Redaktion], würden wir das moralische Argument verlieren. Man würde uns Komplizenschaft mit Kräften vorwerfen, die mit den schlimmsten Instinkten des Populismus gespielt haben. Ja, die Ablehnung solcher Allianzen wird auch Rückschläge bringen. Aber Kohärenz schafft langfristig mehr Glaubwürdigkeit. Ich werde sicherstellen, dass es keine „unscharfe Strategie“ gibt. Die Menschen verdienen Klarheit.

Am Ende zweifeln die Wählerinnen und Wähler nicht am meisten an unserer Kompetenz, sondern an unserer Aufrichtigkeit. Glaubwürdigkeitsprobleme kann man mit guter Politik lösen; Probleme der Aufrichtigkeit allerdings nicht. Die Menschen müssen glauben, dass wir meinen, was wir sagen – auch wenn es etwas kostet. Für die Sozialdemokratie in Frankreich wünsche ich mir, dass sie ohne Zögern wieder ihren Platz in der europäischen sozialdemokratischen Familie einnimmt. Wir sollten aufhören, so zu tun, als wären wir Radikale in der Opposition und Liberale an der Macht. Sagt den Menschen die Wahrheit darüber, wer ihr seid. Langfristig werden sie Authentizität dem politischen Schauspiel vorziehen. IPG 20

 

 

 

 

Statistikamt. Weniger Einwanderung führt zu weniger Einschulung

 

Weniger Erstklässler – und ein klarer Grund: Seit die Einwanderung zurückgeht, brechen auch die Einschulungszahlen ein. Besonders stark ist der Rückgang im Saarland. Welche Entwicklungen das Statistische Bundesamt sieht.

In Deutschland sind vorläufigen Ergebnissen zufolge erneut weniger Kinder eingeschult worden. Die Zahl sank nach Angaben des Statistischen Bundesamts zu Beginn des Schuljahres 2025/2026 um 2,2 Prozent auf rund 811.500 Kinder. Bereits im vorangegangenen Schuljahr war die Zahl der Erstklässler im Vorjahresvergleich gesunken – erstmals seit 2015.

Das Bundesamt führte die aktuelle Abnahme zum einen auf den Rückgang der Geburtenzahl im Jahr 2019 zurück. Zum anderen hätte in den vergangenen Jahren auch die große Zahl der zugewanderten Kinder aus dem Ausland, insbesondere der Ukraine, zu steigenden Einschulungszahlen geführt. Dieser Effekt sei durch den Rückgang der Zuwanderung nun aufgehoben.

Größter Rückgang im Saarland

Sowohl die Zahl deutscher (minus 1,1 Prozent) als auch ausländischer Kinder (minus 0,8 Prozent) im einschulungsrelevanten Alter sank den Angaben zufolge zum Jahresende 2024 gegenüber dem Vorjahr. Insgesamt lebten Ende vergangenen Jahres demnach 1,1 Prozent weniger Kinder im Alter von 5 oder 6 Jahren in Deutschland.

Die Zahl der Einschulungen liegt dem Bundesamt zufolge im aktuellen Schuljahr in fast allen Bundesländern unter dem Vorjahresniveau – bei den Zahlen handelt es sich teils noch um vorläufige Ergebnisse oder geschätzte Werte. Den größten prozentualen Rückgang gab es demnach mit minus 8,5 Prozent im Saarland, gefolgt von Sachsen-Anhalt (minus 5,6 Prozent), Thüringen (minus 5,5 Prozent) und Berlin (minus 4,2 Prozent). Lediglich in Bremen stieg die Zahl der Einschulungen leicht um 0,6 Prozent.

Anteil der Einschulungen an Förderschulen leicht gestiegen

Mit 93 Prozent bundesweit startete der überwiegende Teil der Kinder die Schullaufbahn an einer Grundschule. 3,5 Prozent wurden an Förderschulen eingeschult, 2,5 Prozent an Schularten mit drei Bildungsgängen sowie 0,9 Prozent an Freien Waldorfschulen. Die Zahl der Schulanfängerinnen und Schulanfänger an Förderschulen stieg um 0,5 Prozent. Sie sank dagegen an Grundschulen (minus 2,3 Prozent), Schularten mit drei Bildungsgängen (minus 2,0 Prozent) sowie an Freien Waldorfschulen (minus 4,0 Prozent).

51 Prozent der eingeschulten Kinder waren den Angaben zufolge Jungen, 49 Prozent Mädchen. Während das Geschlechterverhältnis in Grundschulen, Schularten mit drei Bildungsgängen und Freien Waldorfschulen weitgehend ausgeglichen war, wurden mit 69 Prozent deutlich mehr Jungen in Förderschulen eingeschult. (dpa/mig 20)

 

 

 

 

 

Freiwilligensurvey. Migranten werden beim Ehrenamt immer wichtiger

 

Während das freiwillige Engagement insgesamt sinkt, steigt es bei Menschen mit Migrationserfahrung spürbar an. Besonders stark unterstützen sie Geflüchtete – trotz schlechterer Löhne, knapperer Zeit und geringerer Einbindung in Vereine.

Das Ehrenamt steht in Deutschland weiter hoch im Kurs: 2024 engagierten sich laut dem sechsten Freiwilligensurvey im Auftrag der Bundesregierung 36,7 Prozent der Bevölkerung freiwillig im Sportverein, für karitative Zwecke, Kultur oder die Kirche. Das sind nach dem am Freitag veröffentlichten Bericht zwar weniger als bei der Erhebung zuvor im Jahr 2019 (39,7 Prozent). Engagierte üben ihr Ehrenamt aber demzufolge inzwischen häufiger aus und nehmen sich mehr Zeit dafür als vor sechs Jahren.

Dem Bericht zufolge wendet knapp ein Viertel der Ehrenamtler (24 Prozent) drei bis fünf Stunden für die Tätigkeit auf, fast jede oder jeder Fünfte (19 Prozent) sechs Stunden oder mehr. 2019 lagen diese Anteile zwei bis drei Prozentpunkte darunter. Für die Erhebung, die rund alle fünf Jahre stattfindet, wurden rund 27.500 zufällig ausgewählte Menschen ab 14 Jahren telefonisch befragt.

Ehrenamtliches Engagement ist der Erhebung zufolge zudem keine Frage von Geschlecht oder Alter. Frauen und Männer engagieren sich demnach gleich häufig. Auch in den Altersgruppen unterscheiden sich die Werte nur minimal, mit Ausnahme der ab 75-Jährigen, bei denen das Engagement deutlich abnimmt. Am meisten sind laut Survey 30- bis 49-Jährige ehrenamtlich aktiv. Unterschiede zeigen sich bei einer Betrachtung des Bildungsstands: Menschen mit hoher Schulbildung engagieren sich demnach häufiger.

Engagement von Migranten steigt

Ebenfalls auffällig sind Unterschiede nach Migrationsgeschichte. Laut Bericht engagieren sich 2024 rund 28 Prozent der Menschen mit Migrationshintergrund freiwillig – ein Wert, der seit 2019 stabil geblieben ist. Während das Engagement in der Gesamtbevölkerung und insbesondere bei Menschen ohne Migrationshintergrund zurückging, legten Personen mit eigener Zuwanderungserfahrung zu. Ihr Anteil stieg von gut 20 Prozent im Jahr 2019 auf knapp 26 Prozent. Besonders stark engagieren sich Menschen dieser Gruppe für Geflüchtete: 37 Prozent der Engagierten mit eigener Migrationserfahrung unterstützten in den vergangenen fünf Jahren Geflüchtete, deutlich mehr als 2019.

Aus der Forschung weiß man, warum Menschen mit Migrationserfahrung insgesamt seltener ehrenamtlich aktiv sind. Der Grund liegt selten in fehlender Bereitschaft, sondern meist in fehlenden Möglichkeiten: Viele arbeiten überdurchschnittlich häufig in schlechter bezahlten Branchen, müssen mehr Stunden leisten, um ein vergleichbares Einkommen zu erzielen, und haben dadurch weniger zeitliche und finanzielle Spielräume für unentgeltliches Engagement. Zudem sind Menschen mit Migrationsgeschichte oft weniger stark in etablierte Vereinsstrukturen eingebunden – sei es, weil sie dort kaum vertreten sind oder weil der Zugang durch fehlende Netzwerke erschwert ist.

Ministerin: Engagement beständig trotz gesellschaftlichem Wandel

Die Staatsministerin für Sport und Ehrenamt, Christiane Schenderlein (CDU), folgerte aus dem Bericht, dass freiwilliges Engagement sich auch bei rasantem gesellschaftlichen Wandel als sehr beständig erweise. Als eine Herausforderung sieht sie die bessere Vereinbarkeit von Familie und Ehrenamt vor dem Hintergrund, dass der stärkste Rückgang des Engagements bei den Frauen zwischen 30 und 49 Jahren zu beobachten ist, wenngleich dies nach wie vor die engagierteste Gruppe ist. Möglichkeiten sieht Schenderlein nach eigenen Worten in der stärkeren Nutzung digitaler Möglichkeiten, um etwa zu umgehen, dass Mütter kleiner Kinder zu abendlichen Vereinssitzungen gehen müssen.

Feuerwehr und Katastrophenschutz gewinnen Engagierte – Kultur und Kirche verlieren

Das meiste freiwillige Engagement findet dem Bericht zufolge im Sport statt, gefolgt von karitativen Tätigkeiten. An dritter Stelle landen die Bereiche Kultur und Musik, Schule und Kindergarten sowie kirchliche oder andere religiöse Engagements.

Der Rückgang der Zahl der Engagierten zeigt sich dem Survey zufolge in nahezu allen Bereichen, insbesondere bei Kultur und Musik, Schule und Kindergarten sowie Kirche und Religionen. Freiwillige gewonnen hat in den vergangenen Jahren nur der Bereich Unfall- und Rettungsdienst, Freiwillige Feuerwehren sowie Bevölkerungs- und Katastrophenschutz.

Der am Freitag veröffentlichte Kurzbericht über die Ergebnisse der Umfrage kann auf der Internetseite der Staatsministerin heruntergeladen werden. Es soll den Angaben zufolge später noch ein ausführlicherer Bericht erscheinen, der Potenziale bei der Gewinnung Freiwilliger sowie deren Motive vertieft beleuchten soll. (dpa/mig 20)

 

 

 

 

Studie zeigt. Globaler Süden im deutschen Visasystem „extrem“ benachteiligt

 

Je ärmer das Herkunftsland, desto länger müssen Antragsteller auf einen Visa-Termin an deutschen Auslandsvertretungen warten – oder sie bekommen gar keinen. Eine neue Studie macht sichtbar, wie stark wirtschaftliche Ungleichheit die Chance auf Einreise prägt.

Menschen aus ärmeren Ländern müssen deutlich länger auf einen Termin in deutschen Auslandsvertretungen warten – und haben oft kaum eine Chance, überhaupt einen zu bekommen. Das zeigt eine neue Auswertung von mehr als 16.000 Terminabfragen, die globale Unterschiede im deutschen Visasystem sichtbar macht.

Durchgeführt wurde die Analyse von Forscher:innen des Deutschen Zentrums für Integrations- und Migrationsforschung (DeZIM), der Europa-Universität Flensburg und des Europäischen Hochschulinstituts in Florenz. Im Mittelpunkt der Untersuchung stand die Frage, wie gerecht die Chancen auf einen Termin im weltweiten Vergleich verteilt sind – und welche Rolle strukturelle Faktoren spielen.

Die Ergebnisse zeichnen ein klares Bild: Je ärmer ein Land, desto schlechter sind die Aussichten auf einen Visatermin. Das Pro-Kopf-Bruttoinlandsprodukt steht laut Studie in einem „deutlichen Zusammenhang“ mit Terminchancen und Wartezeiten: Eine geringere Wirtschaftskraft bedeutet im Durchschnitt geringere Chancen, überhaupt einen Termin zu bekommen, und längeres Warten auf den Termin.

Lange Wartezeiten in Afrika, kurze in Singapur und Kuba

Die längsten durchschnittlichen Wartezeiten fanden die Forscher:innen in afrikanischen Ländern. Vertretungen in Ouagadougou (Burkina Faso), Antananarivo (Madagaskar) und Kinshasa (DR Kongo) wiesen im Schnitt besonders lange Wartezeiten bis zum nächsten buchbaren Termin auf. Nach Ländern lagen Burkina Faso mit durchschnittlich 75,7 Tagen und Madagaskar mit 71,3 Tagen an der Spitze. Auffällig war auch Zypern mit 60,7 Tagen. Dies könnte, so die Analyse, im Zusammenhang mit Anträgen von Drittstaatsangehörigen stehen, da Zypern an einer hochfrequentierten Flüchtlingsroute im Mittelmeer liegt. In 17 Ländern betrugen die Wartezeiten mehr als einen Monat. Lange Wartezeiten gingen dabei im Schnitt mit geringeren Terminchancen einher.

Ganz anders das Bild in anderen Regionen: In Singapur lag die durchschnittliche Wartezeit auf einen Termin bei zwei Tagen, in Kuba bei 2,7 Tagen. Insgesamt waren die Wartezeiten in Europa, Lateinamerika, der Karibik und Ozeanien deutlich kürzer als in vielen Ländern Afrikas.

Auch wirtschaftliche Beziehungen entscheiden über Visavergabe

Eine Rolle spielen laut Studie auch wirtschaftliche Beziehungen und Sprache. Länder, die enge Handelsbeziehungen zu Deutschland pflegen, verzeichnen kürzere Wartezeiten. Zudem gilt: Je mehr Menschen eines Landes sich mit der deutschen Bevölkerung verständigen können, desto größer ist die Chance, in den dortigen Auslandsvertretungen einen freien Visatermin zu finden.

Die Forscher:innen sehen in den Mustern Hinweise auf eine ungleiche Verteilung von Ressourcen und politischen Prioritäten. Offizielle Daten zur Personalstärke oder zu Budgets einzelner Auslandsvertretungen lagen ihnen jedoch ebenso wenig vor wie Zahlen zu den tatsächlichen Terminanfragen.

Forscher kritisieren „extrem ungleiche Chancen“

Prof. Dr. Emanuel Deutschmann, Autor der Studie und Juniorprofessor für Soziologische Theorie an der Europa-Universität Flensburg, warnt vor den Folgen: „Die extrem ungleichen Chancen auf einen zeitnahen Visatermin sind ungerecht, führen zu Frust und werden von den Betroffenen zu Recht als diskriminierend empfunden.“

Auch wenn unklar bleibe, ob längere Wartezeiten im Globalen Süden eine Nebenfolge von Unterbesetzung und Überforderung oder das Ergebnis einer gezielten Abschreckungs- und Ausgrenzungspolitik sind, die Folgen seien eindeutig: „Deutschlands Reputation als Einwanderungsland und Tourismusdestination leidet, dringend benötigte Fachkräfte werden abgeschreckt, Austausch und Kooperation eingeschränkt und globale Ungleichheiten letztlich reproduziert und verstärkt.“

Studienautor fordert Transparenz

Dr. Niklas Harder, Co-Autor der Studie und Co-Leiter der Abteilung Integration am DeZIM, fordert Chancengleichheit und mehr Transparenz für eine gute Migrationspolitik – „egal aus welchem Land“. Er schlägt eine öffentlich zugängliche Plattform mit aktuellen Wartezeiten vor als Teil des Auslandsportals des Auswärtigen Amtes. „Transparenz ist auch die Grundlage dafür, die Frage zu diskutieren, wie die unterschiedlichen Wartezeiten entstehen“, so Harder.

Für die Studie wurden Angaben zufolge 16.182 computergestützte Terminabfragen bei 130 deutschen Botschaften und Konsulaten in 109 Ländern ausgewertet. Die Abfragen fanden zwischen November 2023 und September 2024 statt. Alle sechs Tage wurde erfasst, ob Termine verfügbar waren und wie lange auf den nächstmöglichen Termin gewartet werden müsste. (mig 19)

 

 

 

 

„Wir versagen beim Klimaschutz“

 

Mit Sorge verfolgt Leo XIV. das Hin und Her auf der laufenden Klimakonferenz COP30 in Brasilien. „Noch ist es Zeit, um den Anstieg der globalen Temperatur unter der 1,5°C-Marke zu halten, aber das Zeitfenster schließt sich gerade. Von Stefan von Kempis

 Das sagte der Papst in einer Videobotschaft an Kirchenvertreter aus dem globalen Süden, die sich im Amazonasmuseum des Tagungsortes Belém getroffen haben. Die Botschaft wurde in der vergangenen Nacht (MEZ) veröffentlicht.

„Das Klimaabkommen von Paris (von 2015) hat konkrete Fortschritte gebracht und stellt weiterhin unser stärkstes Werkzeug dar, um die Menschen und den Planeten zu schützen. Aber wir sollten ehrlich sein: Nicht das Abkommen versagt, sondern wir sind es, die in unserer Antwort (auf den Klimawandel) versagen. Was fehlt, ist der politische Wille bei einigen.“

Den Namen Trump erwähnt der Papst nicht

Den Namen Donald Trump erwähnt der Papst, der aus den USA stammt, in seiner Videobotschaft nicht. Auf Anweisung des Präsidenten sind die Vereinigten Staaten aus dem Klimaabkommen ausgetreten; sie haben keine nationale Delegation nach Belém geschickt.

„Die Schöpfung schreit auf“

„Die Schöpfung schreit auf – durch Überschwemmungen, Trockenheiten, Stürme und unerbittliche Hitze. Ein Drittel der Menschheit lebt in einer Situation großer Verwundbarkeit wegen dieser klimatischen Veränderungen. Für sie ist der Klimawandel keine ferne Drohung. Diese Menschen zu ignorieren, würde bedeuten, unser gemeinsames Menschsein zu leugnen!“

Klimaschutz als Investition in eine gerechtere Welt

Leo XIV. rief – ganz im Stil seines Vorgängers Franziskus, der vor zehn Jahren eine Enzyklika zum Thema Umwelt verfasst hat – zu „schnellem Handeln“ auf, „mit Glauben und Prophetie“. An die Verhandler in Belém gewandt bemerkte er: „Stärkerer Klimaschutz würde wirtschaftliche Systeme hervorbringen, die robuster und gerechter wären. Das wäre eine Investition in eine gerechtere und stabilere Welt.“

Papst Leo XIV. zum Klimagipfel in Brasilien - Ein Bericht von Radio Vatikan

„Hüter der Schöpfung, nicht Rivalen bei ihrer Ausplünderung“

Dass er nicht zu den Leugnern des Klimawandels zählt, machte Papst Leo deutlich, als er dazu ermunterte, sich „an die Seite der Wissenschaftler“ zu stellen. „Wir sind Hüter der Schöpfung, nicht Rivalen bei ihrer Ausplünderung. Senden wir gemeinsam ein klares globales Signal aus: Nationen, die mit unverbrüchlicher Solidarität das Abkommen von Paris und die Zusammenarbeit in der Klimapolitik unterstützen.“ Vn 18

 

 

 

 

Ungleiche Chancen. Armut trifft Kinder mit Migrationsbiografie viermal so häufig

 

Armut trifft eingewanderte Familien besonders hart: Kinder mit Migrationserfahrung sind viermal so häufig gefährdet wie Gleichaltrige ohne solche Einwanderungsgeschichte. Ihnen fehlen Geld für Möbel, Urlaub oder ein zweites Paar Schuhe – mit spürbaren Folgen für Bildung, Chancen und Teilhabe.

Kinder und Jugendliche in Deutschland, die selbst oder deren Eltern eingewandert sind, sind viermal so häufig armutsgefährdet (31,9 Prozent) wie Gleichaltrige ohne Einwanderungsgeschichte (7,7 Prozent). Das geht aus Zahlen des Statistischen Bundesamtes hervor, die am Montag veröffentlicht wurden.

Danach war insgesamt jedes siebte Kind in Deutschland im vergangenen Jahr aus statistischer Sicht armutsgefährdet. 2,2 Millionen Kinder und Jugendliche unter 18 Jahren entsprachen einem Anteil von 15,2 Prozent aller Menschen in dieser Altersgruppe. Ein Jahr zuvor hatte der Anteil erst 14,0 Prozent betragen. Deutschland steht im Vergleich zum europäischen Durchschnittswert von 19,3 Prozent besser da. Im Vergleich zur Gesamtbevölkerung (15,5 Prozent) sind Kinder und Jugendliche etwas seltener von Armut bedroht.

Risikofaktor: Bildung

Als armutsgefährdet gelten nach statistischer Definition Menschen, die über weniger als 60 Prozent des mittleren „Nettoäquivalenzeinkommens“ verfügen. Das ist ein gewichtetes Pro-Kopf-Einkommen, das beispielsweise auch die Haushaltsgröße berücksichtigt. Im Jahr 2024 lag die Schwelle für eine alleinlebende Person bei 1.381 Euro pro Monat. Ein Alleinerziehenden-Haushalt mit einem Kind unter 14 Jahren gilt mit weniger als 1.795 Euro netto im Monat als gefährdet. Haushalte mit zwei Erwachsenen und zwei Kindern unter 14 Jahren waren unterhalb eines Netto-Einkommens von 2.900 Euro armutsgefährdet.

Als Risikofaktor für geringe Einkommen und daraus folgende Armutsgefährdung haben die Statistiker unter anderem niedrige Bildungsabschlüsse der Eltern ausgemacht. 41,8 Prozent der Kinder von Eltern ohne Berufsabschluss waren 2024 armutsbetroffen. Bei Kindern mit Eltern mit Hochschulabschluss waren es 7,2 Prozent.

Möbel, Urlaub, Schuhe

Die konkreten Folgen der Armut zeigen sich an den Möglichkeiten der Kinder und Jugendlichen, am sozialen und kulturellen Leben teilzuhaben. Dies wird anhand von 17 Merkmalen abgefragt. Wenn mindestens drei Kriterien aus finanziellen Gründen nicht erfüllt werden können, gelten die Betroffenen als materiell oder sozial benachteiligt. Das trifft in Deutschland demnach auf 11,3 Prozent der unter 16-Jährigen zu. In der EU beträgt der Wert 13,6 Prozent.

So lebten in Deutschland beispielsweise 19 Prozent der unter 16-Jährigen in einem Haushalt, der abgewohnte oder kaputte Möbel nicht ersetzen konnte. Eine einwöchige Urlaubsreise war für 12 Prozent der Kinder und Jugendlichen aus finanziellen Gründen nicht möglich. 3 Prozent konnten sich kein zweites Paar Schuhe leisten. (dpa/epd/mig 18)

 

 

 

 

Nationale Ego-Trips

 

Die wahre Krise Europas? Souveränismus. Denn Alleingänge der Nationalstaaten lösen keine transnationalen Probleme. Von Jan Zielonka

Was ist derzeit die größte antieuropäische Plage? Viele würden an dieser Stelle wohl den Populismus oder den Nativismus nennen. Während Ersterer einfache Lösungen für komplexe Probleme verspricht, steht Letzterer für Bewegungen, welche die Rechte der einheimischen Mehrheit betonen und sich gegen Zuwanderung oder Minderheiten richten. Aus meiner Sicht ist jedoch der sogenannte „Souveränismus“ ein noch gravierenderes Problem. Er beschreibt den Wunsch von EU-Staaten, auf eigene Faust und notfalls gegen die Präferenzen der übrigen Mitglieder zu handeln – und verhindert damit, dass Europa die großen Herausforderungen dieses Jahrhunderts wirksam angeht. Diese sind offenkundig transnationaler Natur: von der Finanz- über die Migrations- und die Corona-Krise bis hin zur durch Russland ausgelösten Sicherheitskrise. Keine einzige davon konnte oder kann ein einzelner Staat allein bewältigen.

Wenn Regierungen sich als unfähig oder gar machtlos erweisen, suchen die Bürger nach Sündenböcken, denen sie die Schuld für ihr Elend geben können – und hoffen auf Wunder, die ihr Leben verbessern. Das erklärt den Erfolg von Populismus und Nativismus: Sie sind nicht die Ursache, sondern das Symptom einer tieferliegenden Malaise. Eigentlich wäre zu erwarten, dass sich liberale Politikerinnen und Politiker dem Souveränismus und dessen einfachen Antworten entgegenstellen. Doch sie beschränken sich meist auf die Kritik an Populismus und Nativismus. Populismus gilt als gefährlich, Nativismus als offen rassistisch. Der Souveränismus dagegen stößt selbst bei Liberalen oft auf Zustimmung. Warum? Die Antwort darauf hängt eng mit unserem gegenwärtigen Demokratiemodell und der europäischen Integration zusammen.

Der Nationalstaat bleibt der zentrale Ort der Demokratie – wo das Volk, ob in Frankreich, Deutschland oder den Niederlanden, souverän entscheidet und frei von äußeren Einflüssen sein soll. Die europäische Integration war nach den Verwüstungen zweier Weltkriege von Beginn an darauf ausgelegt, die Nationalstaaten zu bewahren, nicht darauf, sie abzuschaffen. Aus diesem Grund hat der Rat der Europäischen Union, in dem die Staats- und Regierungschefs zusammenkommen, und nicht die Kommission oder das Parlament, bei allen wichtigen Entscheidungen das letzte Wort. An dem Tisch, an dem über Europas Zukunft entschieden wird, sitzen letztlich nur Vertreter der Nationalstaaten, die verpflichtet sind, ihre jeweiligen nationalen Interessen zu verteidigen. Manche glauben fest an die Souveränität ihrer Länder, andere agieren zurückhaltender. Doch keiner von ihnen möchte sich von der Kommission oder anderen Mitgliedstaaten unter Druck setzen lassen.

Wenn die Nationalstaaten die zentralen Akteure im EU-Geschehen sind – warum versprechen dann so viele Politikerinnen und Politiker, die Entscheidungsmacht von Brüssel „zurück“ in ihre Hauptstädte zu holen? Sie tun es, weil es bequem ist, die Brüsseler Eurokraten für die eigenen Versäumnisse verantwortlich zu machen – sei es bei der Regulierung von Migration, beim Kampf gegen steigende Schulden, Finanzspekulation, Klimawandel, Sicherheitslücken und ausländische Desinformationskampagnen. Diese Kritik ist substanzlos: Das Vereinigte Königreich hat die EU vor einigen Jahren verlassen, und keines dieser Probleme ist auf der Insel verschwunden – im Gegenteil, sie haben sich sogar noch verschärft.

Nach den Erfahrungen mit dem Brexit will heute kein Staats- oder Regierungschef auf dem Kontinent die EU verlassen. Stattdessen versuchen viele, sie in einen losen Zusammenschluss autonomer Staaten zu verwandeln – mit wenigen bis gar keinen Auflagen aus Brüssel. Diese Politik wird nicht nur von Figuren wie Viktor Orbán oder Geert Wilders betrieben. Auch vermeintlich liberale und proeuropäische Politiker wie Polens Ministerpräsident Donald Tusk oder Bundeskanzler Friedrich Merz beteiligen sich an diesem souveränistischen Spiel. Wie sonst ließe sich die Wiedereinführung von Grenzkontrollen zwischen Deutschland und Polen erklären? Und ist Ihnen schon aufgefallen, wie oft gerade diese angeblich europäisch denkenden Regierungschefs von der Verteidigung ihrer egoistischen nationalen Interessen sprechen, wenn es um Sicherheit, Migration oder Wirtschaft geht?

Hier zeigt sich ein Paradoxon: Je offensichtlicher die Nationalstaaten daran scheitern, transnationale Entwicklungen und die disruptiven Folgen wechselseitiger Abhängigkeiten zu bewältigen, desto hartnäckiger pochen ihre Politiker darauf, ihren eigenen Weg zu gehen – und ignorieren dabei Institutionen wie die Vereinten Nationen, die Welthandelsorganisation, die Weltgesundheitsorganisation und sogar die EU. Der einzige Akteur, den sie nicht ignorieren, sind die USA, regiert vom unberechenbarsten, transaktionsgetriebensten und gierigsten Präsidenten in der Geschichte dieses großen Landes.

Die Europäische Union steckt derzeit in einer schwierigen Lage. Den Souveränisten ist es gelungen, zentrale Vorhaben wie die grüne Agenda oder den Migrationspakt zu verwässern, wenn nicht sogar ganz zu stoppen. Zwar spricht die EU viel über ihre neue Rolle im Sicherheitsbereich, doch in der Praxis sind die Fortschritte minimal. Die Mitgliedstaaten haben lediglich zugesagt, mehr Geld für den Kauf amerikanischer Waffen auszugeben, die jedoch nur mit Zustimmung der USA eingesetzt werden können, wie die Ukraine kürzlich erfahren musste.

Selbst die „Koalition der Willigen“, die sich einem aggressiven Russland entgegenstellen soll, ist von gegenseitigem Misstrauen, Ressourcenmangel und Abhängigkeit von Uncle Sam geprägt. Diese Entscheidungsunfähigkeit, die zu halbherzigen, oft nur kosmetischen Lösungen für wachsende Probleme führt, ist nicht neu. Ein ähnliches Muster zeigte sich bereits in früheren Krisen, als nationale Alleingänge eine gemeinsame europäische Antwort verhinderten. Optimisten mögen einwenden, dass diese Alleingänge immerhin nicht mehr zu Kriegen zwischen europäischen Staaten führen. Angesichts der derzeitigen Lage der Union ist es jedoch wohl nur eine Frage der Zeit, bis der Hobbes’sche Geist wieder in Europa Einzug hält, genährt durch interne Konflikte und äußere Einflussnahme.

Was also kann getan werden, um die Zukunft Europas und seiner verunsicherten, desorientierten und zunehmend verarmenden Bürgerinnen und Bürger zu sichern? Die Antwort ist bekannt: Europa muss endlich zu einem föderalen Superstaat werden. Oder, wie Josep Borrell, Guy Verhofstadt und Domènec Ruiz Devesa es kürzlich formulierten: „Wir müssen eine echte föderale Union werden, die endlich von den Zwängen der Einstimmigkeitspflicht befreit ist und mit Kompetenzen in der Außen- und Sicherheitspolitik ausgestattet ist.“ Doch das ist leichter gesagt als getan, zumal in einer Zeit, in der das Versprechen, zum stolzen und souveränen Nationalstaat zurückzukehren, ein bewährtes Rezept für Wahlerfolge ist. Eine Föderation von Souveränisten aber ist ein Widerspruch in sich.

Auch liberale Regierungschefs in Europa sehen ihre Staaten als die stärkeren und besser legitimierten Akteure und lehnen eine Föderation entsprechend ab. Doch man muss fragen: Sind die Nationalstaaten heute überhaupt noch in der Lage, ihre traditionellen Aufgaben in Bereichen wie der Sozial-, der Währungs- oder der Verteidigungspolitik zu erfüllen? Und ist die Demokratie in den Nationalstaaten tatsächlich stark genug, um tragfähige Legitimität zu schaffen? Daran habe ich erhebliche Zweifel.

Studien zeigen, dass die demokratische Legitimität unserer Staaten einen historischen Tiefpunkt erreicht hat. Eine kürzlich von der Sciences Po durchgeführte Umfrage ergibt, dass nur 26 Prozent der Franzosen der Politik vertrauen, während 71 Prozent der Meinung sind, die Demokratie in ihrem Land funktioniere nicht gut. Eine andere Erhebung zeigt, dass sich mehr als die Hälfte der Europäer vorstellen kann, den klassischen Gesetzgeber durch eine KI zu ersetzen. Auch die Fähigkeit der Staaten, gesellschaftliche und wirtschaftliche Probleme wirksam zu lösen, befindet sich auf einem historischen Tiefpunkt, mit nur geringen Unterschieden zwischen den einzelnen Ländern.

Die öffentlichen Dienste vieler Länder stehen kurz vor dem Kollaps. Regierungen rühmen sich damit, ihre Grenzen gegen Migranten zu verteidigen, doch die verfügbaren Daten stützen diese Behauptung kaum. Ebenso offensichtlich ist, dass keiner der europäischen Staaten in der Lage wäre, sich wirksam gegen ein wiedererstarktes Russland zu verteidigen oder entscheidenden Einfluss auf die schwelenden Konflikte an Europas Südflanke, im Nahen Osten oder in Nordafrika zu nehmen.

Damit soll nicht behauptet werden, Staaten seien völlig nutzlos, geschweige denn, dass sie im Verschwinden begriffen wären. Doch sie sind weder so leistungsfähig noch so demokratisch, wie sie selbst behaupten. Nicht nur die EU, sondern auch Städte, Regionen und zahlreiche Nichtregierungsorganisationen in Europa können oft eine bessere Bilanz bei der Bereitstellung öffentlicher Güter vorweisen, selbst in sensiblen Bereichen wie Migration, Sicherheit und Diplomatie. Zudem genießen diese nichtstaatlichen Akteure ein höheres Maß an Vertrauen als die Nationalstaaten.

Eine Eurobarometer-Umfrage vom Frühjahr 2025 zeigt: 52 Prozent der Europäerinnen und Europäer vertrauen der EU, aber nur 36 beziehungsweise 37 Prozent ihrer nationalen Regierung beziehungsweise ihrem Parlament. Schon die Erhebung des Vorjahres hatte ergeben, dass rund 60 Prozent der Menschen in der EU Vertrauen in ihre regionalen oder lokalen Behörden haben. Was also rechtfertigt das Quasi-Monopol der Staaten auf Entscheidungen und Ressourcen? Vielleicht sollten wir die Staaten endlich dazu drängen, ihre Souveränität und ihre Mittel nicht nur mit der EU, sondern mit einer breiteren Gruppe von Akteuren zu teilen, die ich als die „fünfte Gewalt der Demokratie“ bezeichnen würde. Vielleicht ist es an der Zeit, den abstrakten Begriff der europäischen Mehrebenen-Governance Wirklichkeit werden zu lassen.

Das Problem ist, dass diese fünfte Gewalt zersplittert und unkoordiniert ist. Zudem fehlt ihr eine gemeinsame Stimme. Die EU richtet sich in erster Linie nach den Bedürfnissen der Mitgliedstaaten und behandelt NGOs, Regionen und Städte eher wie Kunden denn als unverzichtbare Partner. Einige Regionen agieren beinahe wie eigenständige Staaten, andere konzentrieren sich vor allem darauf, mehr Geld aus Brüssel zu erhalten. Städte hingegen sind weniger an Souveränitätsspielen interessiert, doch ihre Anliegen sind meist praktischer als politischer Natur, eher lokal als europäisch orientiert.

NGOs engagieren sich für wichtige, aber höchst unterschiedliche Anliegen und müssen zugleich um öffentliche Unterstützung konkurrieren. Da es keine Plattform gibt, welche die verschiedenen Zweige dieser fünften Gewalt zusammenführt, sind sie anfällig für Manipulation und Marginalisierung. Der Ausschuss der Regionen und die Social Platform, der Dachverband europäischer Nichtregierungsorganisationen, sind lose organisiert und wenig einflussreich. Die Europäische Bürgerinitiative, die es EU-Bürgerinnen und -Bürgern erlaubt, neue Gesetzesvorschläge einzubringen, hat bislang kaum praktische Wirkung entfaltet und konzentriert sich meist auf eng umrissene Themen wie Käfighaltung oder Regionalsprachen.

Solange sich die unterschiedlichen Akteure dieser fünften Gewalt nicht organisieren und zusammenschließen, um eine grundlegende Reform des europäischen Entscheidungsprozesses zu fordern, werden die Nationalstaaten sich weigern, wesentliche Befugnisse und Ressourcen mit ihnen zu teilen. Macht wird selten freiwillig abgegeben, sie muss erkämpft werden. Die Empfehlung ist daher einfach und klar: Diejenigen, die auf effektive Weise zu öffentlichen Werten beitragen, sollten sich vereinen und ihre Stimme erheben.

Europa braucht einen grundlegenden Wandel. Im Moment treiben jedoch die Souveränisten diesen Wandel voran. Wenn Bürgermeister, NGO-Aktivisten und Proeuropäer an einen anderen, einen besseren Kontinent glauben, sollten sie sich zusammenschließen und ihre eigene Vision vorantreiben. Nennen wir sie einfach: ein Europa der Netzwerke. IPG 18

 

 

 

 

Bundesregierung kündigt Update für den Aktionsplan gegen Rassismus an

 

Was genau ist Rassismus und wie kann der Staat am besten dagegen vorgehen? Bis 2027 soll ein Aktionsplan dafür vorliegen. Zugleich sind Kürzungen beim Programm „Demokratie leben“ geplant – also im Kampf gegen Rassismus.

Die Bundesregierung will den Kampf gegen Rassismus auf eine neue Grundlage stellen. Der im Koalitionsvertrag von CDU, CSU und SPD dazu vereinbarte Prozess hat jetzt mit einer Auftaktsitzung von Vertretern der verschiedenen Ministerien begonnen, wie das Büro der Integrations-Staatsministerin und Beauftragten für Antirassismus, Natalie Pawlik, mitteilte. Wie zugleich bekannt wurde, steht auch das Programm „Demokratie leben“ unter besonderer Beobachtung. Union und SPD wollen dafür weniger Geld geben als ursprünglich geplant.

Das geht aus einer Vorlage für die entscheidende Sitzung des Haushaltsausschusses im Bundestag hervor, die der Deutschen Presse-Agentur vorliegt. Demnach sollen statt der im ersten Etatentwurf vorgesehenen 191 nur noch 186,5 Millionen Euro fließen. Das wäre allerdings immer noch mehr als in den vergangenen Jahren (182 Millionen). Das Programm „Demokratie leben“ fördert zivilgesellschaftliches Engagement für ein demokratisches Miteinander und die Arbeit gegen Radikalisierung in der Gesellschaft – also auch gegen Rassismus.

Arbeitsdefinition aus der Zeit der Ampel-Koalition

Die Beauftragte, die die Federführung hat, sagte laut einer Mitteilung: „Wir starten für die Bundesregierung den neuen Nationalen Aktionsplan gegen Rassismus. Dort werden wir Maßnahmen gegen Rassismus bündeln und gezielt weiterentwickeln.“ Im Koalitionsvertrag heißt es: „Wir werden den Nationalen Aktionsplan gegen Rassismus aufbauend auf einer wissenschaftsbasierten Rassismus-Definition neu auflegen, um Rassismus in seinen verschiedenen Erscheinungsformen zu bekämpfen.“

Die frühere Beauftragte der Bundesregierung für Antirassismus und heutige Entwicklungsministerin, Reem Alabali-Radovan (SPD), hatte im März – vor der Bildung der schwarz-roten Koalition – der öffentlichen Verwaltung eine Arbeitsdefinition von Rassismus an die Hand gegeben. Die von Expertinnen und Experten in einem mehr als eineinhalb Jahre dauernden Prozess formulierte Definition sollte Beamtinnen und Beamten im Alltag mehr Klarheit verschaffen. Sie sei allerdings nicht verbindlich, sondern stelle lediglich ein Angebot dar, wurde damals betont.

„Historisch gewachsene Einteilung von Menschen“

„Rassismus basiert auf einer historisch gewachsenen Einteilung und Kategorisierung von Menschen anhand bestimmter äußerlicher Merkmale oder aufgrund einer tatsächlichen oder vermeintlichen Kultur, Abstammung, ethnischen oder nationalen Herkunft oder Religion“, heißt es in der Definition.

Bestimmte Merkmale würden diesen Gruppen zugeschrieben, die sie und die ihnen zugeordneten Personen als höher- oder minderwertig charakterisierten. Die als minderwertig kategorisierten Gruppen werden demnach herabgewürdigt und auf der Grundlage von negativen Stereotypen und Vorurteilen abgewertet.

Alabali-Radovan hatte für die Formulierung der Arbeitsdefinition im Juni 2023 einen Rat von zwölf Expertinnen und Experten für Antirassismus berufen. An der Erarbeitung des nun von Pawlik angekündigten neuen Plans sollen Wissenschaftler, die Zivilgesellschaft und die Bundesländer beteiligt werden. Geplant ist den Angaben zufolge, den Plan 2027 dem Kabinett zum Beschluss vorzulegen.

Aktionsplan aus 2017

Pawlik betonte: „Rassismus ist längst kein Randproblem mehr.“ Alle 75 Minuten ereigne sich in Deutschland eine rassistische Straftat. Betroffene müssten besser geschützt werden.

Der aktuelle Nationale Aktionsplan gegen Rassismus stammt von 2017. Er formuliert konkrete Ziele wie etwa die Förderung von Diversität in Arbeitsleben, Ausbildung und Beruf und die Bekämpfung von Rassismus im Internet.

(dpa/mig 17)

 

 

 

 

Unicef-Bericht. Eine Million Kinder in Deutschland wachsen in Armut auf

 

Bei der Bekämpfung von Kinderarmut stagniert die Entwicklung in Deutschland laut Unicef seit Jahren. Für die betroffenen Kinder bedeutet das Ausgrenzung und kaum Aufstiegschancen. Besonders schwer haben es Kinder von Asylbewerbern. Von Markus Geiler

Mehr als eine Million Kinder in Deutschland wachsen laut Unicef in Armut auf. Dadurch fehlten ihnen wesentliche Voraussetzungen zur Teilhabe am gesellschaftlichen Leben und für späteren beruflichen Erfolg, heißt es in dem am Mittwoch in Berlin vorgestellten Bericht des UN-Kinderhilfswerks.

Die Kinder hätten beispielsweise keinen Platz, um Hausaufgaben zu machen, könnten sich kein zweites Paar Schuhe oder vollwertige Mahlzeiten leisten und aus Geldmangel kaum an Freizeitaktivitäten Gleichaltriger teilnehmen. 44 Prozent von ihnen lebten in überbelegten Wohnungen. Mindestens 130.000 Kinder seien wohnungslos und in kommunalen Unterkünften untergebracht.

Ein Viertel kann nicht gut lesen

Bei der Bekämpfung von Kinderarmut stagniere die Entwicklung in Deutschland seit Jahren, kritisierte die Direktorin des Deutschen Jugendinstituts und Miterstellerin des Berichts zur Lage der Kinder in Deutschland, Sabine Walper. Insgesamt 1,9 Millionen der knapp 14 Millionen Kinder und Jugendlichen hierzulande lebten vom Bürgergeld ihrer Familie. Hinzu kämen Kinder, die mit Asylbewerberleistungen auskommen müssen.

Die ungleichen materiellen und sozialen Voraussetzungen in den Familien wirkten sich auf alle Lebensbereiche der Kinder aus. So könne ein Viertel der Kinder nicht gut lesen. 41 Prozent der Achtklässlerinnen und Achtklässler verfügten lediglich über rudimentäre digitale Kompetenzen. Dabei seien Kinder aus prekären Elternhäusern deutlich überrepräsentiert.

Jährlich 62.000 ohne Schulabschluss

Hinzu komme, dass sich besonders benachteiligte Kinder und Jugendliche von ihrem Umfeld selten gut unterstützt fühlen. Jährlich verließen mehr als 62.000 Jugendliche die Schule ohne Abschluss. Im internationalen Vergleich steht Deutschland laut Walper damit schlechter da als andere europäische Länder wie Finnland, Norwegen oder Portugal.

Immer mehr Kinder und Jugendliche leiden dem Bericht zufolge zudem an gesundheitlichen Beschwerden. Im Jahr 2022 gaben 40 Prozent der 11- bis 15-Jährigen an, dass sie mehrfach pro Woche oder sogar täglich Beschwerden wie Kopfschmerzen, Bauchschmerzen oder Schlafprobleme haben. 2014 waren es 24 Prozent.

Steigende psychische Belastungen

Auch schätzt ein großer Teil der Kinder und Jugendlichen die eigene psychische Gesundheit und Lebenszufriedenheit als nicht gut ein. „Auch hier sind die Werte alarmierend“, sagte Walper. Sie liegen demnach nur bei 51 bis 67 von 100 Punkten, variierend nach Geschlecht und familiärem Wohlstand. Den niedrigsten Durchschnittswert hätten finanziell benachteiligte Mädchen.

Der Vorsitzende von Unicef Deutschland, Georg Graf Waldersee, betonte, wer Deutschlands Zukunft sichern wolle, müsse jetzt gezielt in Kinder investieren – insbesondere in die aus armen Familien.

Die Kinderrechtsorganisation Save the Children erklärte, Diskussionen um Social-Media-Nutzung seien wichtig, aber sie führten bei der Beseitigung sozialer Ungleichheiten nicht weiter. Kinder bräuchten gut ausgestattete Bildungs- und Betreuungseinrichtungen mit ausreichend Fachpersonal sowie niedrigschwellige Hilfsangebote. (epd/mig 14)

 

 

 

 

Der nächste Völkermord?

 

Der Krieg im Sudan eskaliert, es herrschen apokalyptische Zustände. Europa hat zu lange weggeschaut. Von Achim Vogt & Talal Salih

Die Lage im Sudan sei „apokalyptisch“, so fasste es Außenminister Johann Wadephul am Rande der Sicherheitskonferenz Manama Dialogue in Bahrain zusammen. Sein jordanischer Amtskollege Ayman Safadi zeigte sich erschüttert über eine „humanitäre Katastrophe unmenschlicher Ausmaße“. Der Sudan, gestand Safadi selbstkritisch ein, habe nicht „die nötige Aufmerksamkeit“ bekommen. Einige Tage später folgten 16 Außenpolitiker, auch aus Deutschland, mit einer gemeinsamen Erklärung: „Solche Handlungen stellen (…) Kriegsverbrechen und Verbrechen gegen die Menschlichkeit nach dem Völkerrecht dar.“ Neun weitere Staaten billigten die Erklärung. Adressiert wurden damit die Gräueltaten der Rapid Support Forces (RSF) und der mit ihnen verbündeten Milizen im Zuge der Erstürmung der Provinzhauptstadt El Fasher in der sudanesischen Provinz Nord-Darfur. Der UN-Sicherheitsrat verurteilte am 30. Oktober den Angriff und dessen verheerende Folgen für die Zivilbevölkerung, der Internationale Strafgerichtshof (IStGh) in Den Haag nahm am 3. November Ermittlungen auf.

Das Eingeständnis, zu lange weggeschaut zu haben, kommt reichlich spät. Seit Monaten hatten Beobachter gewarnt, wenn El Fasher nach anderthalb Jahren Belagerung fallen sollte, sei mit schwersten Verbrechen zu rechnen. Ein potenzieller Völkermord mit Ansage sozusagen. Insofern ist der Krieg im Sudan kein vergessener, sondern – wie es die Sudan-Expertin Marina Peter formuliert – ein ignorierter. Bereits zu Beginn des inzwischen seit zweieinhalb Jahren wütenden Krieges hatten die RSF ethnische Säuberungen in El Geneina verübt, der Hauptstadt der Provinz West-Darfur. Schon diese Aktionen trugen Züge eines Völkermordes. Die Massaker, denen laut Schätzungen bis zu 15 000 Menschen zum Opfer fielen, richteten sich vor allem gegen die Massalit, eine nicht-arabische Bevölkerungsgruppe. In El Fasher trifft es nun die Zaghawa, ebenfalls eine nicht-arabische Gruppe.

Die RSF gingen 2013 aus den Dschandschawid hervor, die bereits Anfang der 2000er Jahre für einen Völkermord in Darfur verantwortlich waren. Aber es dauerte zwei Jahrzehnte, bis am 6. Oktober 2025 – just drei Wochen vor den jüngsten Massakern – mit Ali Abd-Al-Rahman der erste Verantwortliche der Dschandschawid vom IStGH für Kriegsverbrechen in Darfur verurteilt wurde. Sudans Langzeitdiktator Omar al Bashir, der die Dschandschawid systematisch für seine Zwecke eingesetzt hatte, wurde 2009 als erstes amtierendes Staatsoberhaupt vom IStGH angeklagt, ein Jahr später auch wegen Völkermordes.

In den 2000er Jahren erfuhr der Völkermord in Darfur erhebliche mediale Aufmerksamkeit, nicht zuletzt aufgrund des Engagements vieler Prominenter, darunter George Clooney und Mia Farrow. Sie reisten seinerzeit öffentlichkeitswirksam selbst nach Darfur und sorgten für eine Welle weltweiter Aufmerksamkeit, die heute vergessen und unmöglich zu wiederholen scheint.

Das Schicksal des Sudan war es, dass der aktuelle Krieg am 15. April 2023 ausgerechnet in einer Zeit ausbrach, in der der russische Angriffskrieg in der Ukraine bereits ein Jahr tobte, und wenige Monate bevor mit dem Massaker der Hamas und dem nachfolgenden Krieg in Gaza Medien und Politik, aber auch breite Teile der internationalen Öffentlichkeit vollständig gebunden waren. Obwohl die Medien durchaus berichteten – soweit das unter den Umständen und bei fast völlig fehlenden Zugängen für Berichterstatter überhaupt möglich war –, blieben ein öffentlicher Aufschrei und damit letztlich politische Reaktionen weitgehend aus.

Inzwischen ist Bewegung in die verfahrene Situation gekommen – maßgeblich und ausgerechnet durch Donald Trump. Der selbsternannte Friedensstifter und verhinderte Nobelpreisträger hat sich nun auch die Beendigung des Sudan-Krieges auf seine Fahnen geschrieben, im Quartett („Quad“) mit Ägypten, Saudi-Arabien und den Vereinigten Arabischen Emiraten. Die drei arabischen Staaten sind die wichtigsten Unterstützer der am Konflikt beteiligten Parteien im Sudan. Während Ägypten und Saudi-Arabien (mit anderen Staaten wie der Türkei, Katar sowie eingeschränkt Russland und selbst dem Iran) die De-facto-Regierung des Generals Abdel Fattah al-Burhan und die ihm unterstehenden Sudanese Armed Forces (SAF) unterstützen, stehen die Vereinigten Arabischen Emirate an der Seite der RSF.

In einer Erklärung einigten sich die Quad-Mitglieder am 12. September in Washington auf fünf zentrale Bedingungen: die Wahrung der territorialen Integrität des Sudan, das Primat der Diplomatie über eine militärische Lösung, den ungehinderten Zugang für humanitäre Hilfe und den Schutz von Zivilisten, den Stopp von Waffenlieferungen und – wohl am bedeutendsten – einen inklusiven und transparenten politischen Übergangsprozess, der auf einen dreimonatigen Waffenstillstand folgen und zu einer zivil geleiteten Regierung führen soll. Ob allerdings ausgerechnet die drei arabischen Unterstützer, die in ihren eigenen Ländern selbst wenig Inklusivität zulassen, in der Lage sind, die Kriegsparteien wie gefordert aus diesem Übergangsprozess herauszuhalten, ist fraglich. Stattdessen steht zu befürchten, dass sich das Engagement der Trump-Administration auf das Erreichen eines Waffenstillstands beschränkt.

Ohne Verständnis für die inneren Abläufe im Sudan läuft Diplomatie jedoch Gefahr, die Zyklen zu wiederholen, die sie eigentlich beenden will. Die aktuelle Katastrophe im Sudan kann nicht losgelöst von der Geschichte des Landes verstanden werden. Seit der Unabhängigkeit im Jahr 1956 ist das Land in einem Teufelskreis gefangen, in dem kurze und fragile demokratische Phasen immer wieder durch Militärputsche unterbrochen wurden, die die Macht an dieselben Eliten zurückgaben, die wiederholt daran gescheitert waren, einen auf gefestigten Institutionen basierenden Staat aufzubauen. Von Anfang an war der Staat Sudan strukturell unausgewogen – mit einem dominanten politischen Zentrum, marginalisierten Randgebieten und einer Armee, die sich als Hüterin der Nation versteht, statt sich der zivilen Autorität unterzuordnen.

Infolgedessen erlebte der Sudan nie eine nachhaltige demokratische Regierungsführung. Jeder Versuch eines zivilen Übergangs wurde schnell gewalttätig zunichtegemacht. Dies führte zu einer fast ununterbrochenen Kette von Bürgerkriegen, die die Ressourcen des Landes erschöpften und sein soziales Gefüge zerstörten. Der erste Krieg brach weniger als ein Jahrzehnt nach der Unabhängigkeit aus und dauerte ein halbes Jahrhundert, bis er 2011 zur Abspaltung des Südsudans führte. Die nachfolgenden Konflikte waren Symptome derselben ungelösten Krise – der fehlenden Gerechtigkeit bei der Verteilung von Macht und Reichtum und des Versagens, ein inklusives Konzept der Staatsbürgerschaft zu formulieren. Im Laufe der Zeit zerfielen die zentralen Institutionen des Staates. Der Sudan trat in eine „Ära der multiplen Armeen“ ein, in der fast jeder politische Akteur über eigene Streitkräfte verfügt. Das Monopol legitimierter Gewalt – die Grundlage jedes Staates – hörte schlichtweg auf zu existieren. Heute sind Waffen zu einem Instrument der politischen Macht anstelle der nationalen Verteidigung geworden. Sudans ehemaliger Premierminister Abdalla Hamdok warnte in einem Interview im Juni 2025: „Es gibt keine militärische Lösung für dieses Problem. Keine Seite wird einen vollständigen Sieg erringen können.“

Für viele zivilgesellschaftliche Kräfte – auch nach zweieinhalb Jahren Krieg immer noch das Rückgrat der sudanesischen Gesellschaft – ist der gegenwärtige Konflikt nur die logische Fortsetzung des Staatsstreichs vom 25. Oktober 2021. Damals hatten Armee und RSF gemeinsam die nach der Revolution von 2019 entstandene verfassungsmäßige Übergangsregierung und damit die zarte Blüte einer sudanesischen Demokratiebewegung zerschlagen.

Die umfassende Lösung, die der Sudan jetzt braucht, kann nicht aus einem vorübergehenden Waffenstillstand zwischen zwei Warlords hervorgehen. Es muss ein nationales Projekt des Wiederaufbaus sein – die Schaffung einer geeinten Armee unter vollständig ziviler Kontrolle, die Einrichtung einer echten Übergangsjustiz, und die Erneuerung eines inklusiven demokratischen Prozesses. Dies ist sowohl eine innenpolitische Notwendigkeit als auch eine Bewährungsprobe für die internationale Gemeinschaft.

Hier wäre eine stärkere deutsche und europäische Intervention dringend notwendig, um den Quad-Prozess, an dem realpolitisch zurzeit kein Weg vorbeiführt, qualitativ zu unterfüttern. In einem ersten Schritt hat der Rat der EU am 20. Oktober, wenige Tage vor dem Fall El Fashers, die Forderungen des Quartetts unterstützt. Bei reinen Deklarationen darf es indes nicht bleiben, eine substantielle EU-Politik würde eine eigene diplomatische Initiative bedingen. Und sie müsste durch deutliche Akzente gekennzeichnet sein: mehr Nachdruck bei der Durchsetzung des Waffenembargos und Bereitstellung von deutlich mehr humanitärer Hilfe für das geschundene Land und seine Menschen. IPG 13

 

 

 

 

Klima-Risiko-Index. Wetterextreme treffen arme Staaten am härtesten

 

Vor allem ärmere Länder haben in den letzten Jahrzehnten viele Tote und hohe Schäden wegen Extremwettern verzeichnen müssen. Wer sich dem entziehen will, hat oft nur eine einzige Option: Flucht. Von Silvia Vogt

Nahezu 10.000 Wetterextreme mit mehr als 830.000 Toten und Billionen an Schaden: Die Bilanz für die vergangenen drei Jahrzehnte ist dem Klima-Risiko-Index 2026 zufolge verheerend. Die Rangliste der besonders betroffenen Länder führen in dem Bericht der Organisation Germanwatch vor allem ärmere Staaten an, aber auch Industrieländer landen im oberen Bereich. Auch Deutschland gehört auf Platz 29 mit dazu, heißt es in der am Dienstag auf der Weltklimakonferenz in Brasilien veröffentlichten Bestandsaufnahme.

An der Spitze des Index über die vergangenen 30 Jahre steht Dominica, ein kleiner karibischer Inselstaat, der mehrfach von verheerenden Wirbelstürmen getroffen wurde. Dominica nehme vor allem wegen der enormen Schäden im Verhältnis zum Bruttoinlandsprodukt Rang eins ein, erklärte Germanwatch. Auf Platz zwei folgt Myanmar. In dem südostasiatischen Land habe allein der Zyklon „Nargis“ im Jahr 2008 fast 140.000 Menschen getötet und Schäden in Höhe von 5,8 Milliarden US-Dollar angerichtet.

Viele Hitzeopfer in Europa

Auch Deutschland stehe mit Rang 29 auf dem Langzeit-Index weit oben, heißt es weiter. In der EU seien nur Frankreich, Italien, Spanien und Griechenland noch stärker betroffen. Neben den Sachschäden seien die Todesopfer für die Platzierung Deutschlands verantwortlich – vor allem durch Hitzewellen, die auch andere europäische Länder schwer getroffen hätten. Insgesamt seien in Deutschland seit 1995 mehr als 24.400 Menschen durch Wetterextreme ums Leben gekommen, fast 1,1 Millionen weitere seien zum Beispiel durch Gesundheitsschäden oder Verlust des Eigentums direkt betroffen gewesen. Die Schäden beliefen sich inflationsbereinigt auf fast 130 Milliarden US-Dollar (112 Milliarden Euro).

„Bei Wetterextremen stellen Hitzewellen und Stürme die größte Gefahr für Menschenleben dar“, fasste Co-Autorin Laura Schäfer die Auswirkungen zusammen. „Stürme verursachten zugleich die mit Abstand größten Sachschäden. Überflutungen hingegen waren für die meisten direkt von Extremwetter Betroffenen – zum Beispiel durch Verlust ihres Eigentums – verantwortlich.“ Dabei würden Länder wie Haiti, die Philippinen oder Indien – allesamt in den Top Ten – teilweise in so kurzen Abständen von Überflutungen, Hitzewellen oder Stürmen getroffen, dass sich ganze Regionen kaum noch von den Katastrophen erholen könnten, erklärte Germanwatch.

Flucht oft die einzige Option

Für die Menschen in diesen Regionen ist Flucht oft die einzige Option, wenn sie überleben wollen. „Überschwemmungen im Juli 2024 trieben tausende Menschen in die Flucht, während im April und Mai eine Hitzewelle mit biszu 47 °C den Tod von 50 Menschen zur Folge hatte“, heißt es in der deutschen Zusammenfassung des Berichts über Myanmar. Ein weiteres Beispiel aus Papua-Neuguinea: „Im Mai 2024 tötete ein großer Erdrutsch in der Provinz Enga 670 Menschen, zwang 1.250 Menschen zur Flucht.“

In der Wissenschaft herrscht Einigkeit: Der Klimawandel gehört inzwischen zu einem der größten Fluchtursachen. Um dem entgegenzuwirken fordern Experten von reichen Industriestaaten, mehr Engagement und Hilfe. Doch das Gegenteil ist derzeit auf der Weltklimakonferenz in Brasilien zu beobachten. Entwicklungshilfe sowie Klimaschutz werden immer weiter zurückgefahren. Dass die reichen Länder sich zugleich abschotten, ihre Grenzen für Geflüchtete schließen, bezeichnen Menschenrechtler als perfide und zynisch. Die Folgen des Klimawandels seien akut, mit bloßem Auge sichtbar und aktuell.

Deutschland für Einzeljahr 2024 auf Rang 50

Bei der Auswertung allein bezogen auf das vergangene Jahr führen die karibische Inselgruppe St. Vincent und die Grenadinen sowie Grenada die Liste an. Sie wurden im Sommer 2024 von einem Hurrikan verwüstet. An dritter Stelle folgt der Tschad. Das zentralafrikanische Land litt unter verheerenden und teils über Monate anhaltenden Überflutungen. Deutschland steht im Index für 2024 auf dem 50. Rang.

Seit 2006 erfasst der Klima-Risiko-Index von Germanwatch die Zahl der Todesopfer, der betroffenen Menschen und die wirtschaftlichen Schäden durch Extremwetter weltweit. Seit 2025 wird er nach einer methodischen Überarbeitung auf der Basis der International Disaster Database (EM-DAT) sowie sozioökonomischer Daten des Internationalen Währungsfonds (IWF) erstellt. (epd/mig 13)

 

 

 

 

EU-Analyse. Deutschland wird von der Asyl-Reform erheblich profitieren

 

Deutschland hat viel Energie für die Reform des EU-Asyl- und Migrationssystems aufgewendet. Nicht umsonst, wie eine neue Analyse zeigt. Danach wird die Bundesrepublik erheblich von der Reform profitieren – denn sie sei gefährdet. Die Bundesregierung begrüßt den Bericht.

Deutschland kann verlangen, dass es unter dem neuen EU-Solidaritätsmechanismus bis mindestens Ende 2026 keine zusätzlichen Geflüchteten aus anderen Mitgliedstaaten aufnehmen muss. Das geht nach Informationen der Deutschen Presse-Agentur aus einer Analyse von EU-Innenkommissar Magnus Brunner zum sogenannten Solidaritätspool hervor, der Staaten mit hohem Migrationsdruck im Zuge der EU-Asylreform entlasten soll.

Deutschland kann sich demnach darauf berufen, dass es sich bereits um sehr viele Asylbewerber kümmert, für die eigentlich andere EU-Staaten zuständig wären. Auch andere Solidaritätsbeiträge wie Geld- oder Sachleistungen wären demnach von deutscher Seite nicht notwendig. Diese können theoretisch von unterstützungspflichtigen EU-Staaten geleistet werden, die keine Flüchtlinge aufnehmen wollen.

Deutschland begrüßt Bericht der EU-Kommission

Die Bundesregierung folgert daraus, im nächsten Jahr keine Migranten aus anderen EU-Staaten übernehmen zu müssen. Wichtigste Schlussfolgerung sei, „dass Deutschland 2026 keine Migranten aus anderen EU-Mitgliedstaaten aufnehmen muss“, sagte Regierungssprecher Stefan Kornelius am Mittwoch in Berlin. Die EU-Kommission erkenne in ihrem Bericht die Leistungen an, die Deutschland in dem Bereich bereits mit der Aufnahme vieler Migranten erbracht habe. Die Bundesregierung begrüße dies.

Als Länder, die im kommenden Jahr wegen eines hohen Migrationsdrucks Anrecht auf Solidarität anderer EU-Staaten haben, stuft die Kommission in ihrer Analyse Griechenland und Zypern sowie Spanien und Italien ein. Griechenland und Zypern stehen demnach wegen unverhältnismäßig vieler Ankünfte im vergangenen Jahr unter Druck, Spanien und Italien aufgrund zahlreicher Seenotrettungen. Insbesondere Italien setzt deshalb Organisationen privater Seenotretter durch politische, polizeiliche sowie juristische Maßnahmen unter Druck, weist ihnen entferne Hafen zu oder setzt ihre Schiffe fest.

„Ausgeprägte Migrationslage“ in Ländern wie Österreich

Deutschland wird gemeinsam mit Staaten wie Belgien, Frankreich und den Niederlanden zu der Gruppe von Ländern gerechnet, die im kommenden Jahr Gefahr laufen könnten, aufgrund hoher Ankunftszahlen oder Belastungen der Aufnahmesysteme unter hohen Migrationsdruck zu kommen. Sie müssen Solidarität leisten, wenn sie sich nicht wie Deutschland die Bearbeitung von Asylanträgen anrechnen lassen können, für die sich eigentlich nicht zuständig wären.

Eine aktuelle Umfrage in deutschen Kommunen kommt indes zu einer anderen Lagebewertung. Durch den Rückgang der Zahl der Asylsuchenden in Deutschland seit Herbst 2023 hat sich demnach die Lage in den meisten deutschen Kommunen entspannt. Nur noch jede rund zehnte Kommune arbeite bei der Unterbringung geflüchteter Menschen noch „im Notfallmodus“.

Österreich, Polen, Bulgarien, Tschechien, Estland und Kroatien befinden sich nach Einschätzung der Kommission in einer „ausgeprägten Migrationslage“. Dies bedeutet, dass sie aufgrund der kumulierten Belastungen der vergangenen fünf Jahre beantragen können, von Solidaritätspflichten ganz oder teilweise befreit zu werden.

Zu den EU-Staaten, die nach den neuen Regeln wahrscheinlich Migranten aus anderen Ländern aufnehmen oder andere Solidaritätsbeiträge leisten müssen, zählen Länder wie Schweden, Portugal, Ungarn, Rumänien und Luxemburg. Die neuen EU-Regeln sehen vor, dass jährlich mindestens 30.000 Übernahmen erfolgen sollen beziehungsweise Finanzbeiträge in Höhe von 600 Millionen Euro geleistet werden müssen. Im kommenden Jahr dürften es allerdings weniger werden, da der Solidaritätsmechanismus erst Mitte 2026 in Kraft tritt.

EU-Innenkommissar sieht bereits Erfolge von neuer Migrationspolitik

EU-Innenkommissar Magnus Brunner erklärte zu den Ergebnissen der Analyse, es sei offensichtlich, dass Deutschland schon vor dem Inkrafttreten des neuen Asylpakts einen großen Teil dieser Solidarität getragen habe. Die Bundesrepublik werde daher erheblich von der Reform des Asyl- und Migrationssystems profitieren – insbesondere durch die neuen Aufgaben der Mitgliedstaaten an den Außengrenzen.

Dazu gehörten die Registrierung von Neuankommenden, die Durchführung von Sicherheitsüberprüfungen und das neue Grenzverfahren. Letzteres sieht vor, dass bestimmte Migranten künftig nach einem Grenzübertritt unter haftähnlichen Bedingungen in streng kontrollierte Aufnahmeeinrichtungen kommen könnten.

Grundsätzlich betonte Brunner, dass die strengere Asylpolitik bereits heute Wirkung zeige. „Die illegale Migration ist im vergangenen Jahr um 35 Prozent zurückgegangen“, sagte er. Als „illegale Migration“ werden irreführend auch Grenzübertritte von Schutzsuchenden bezeichnet. Nach internationalem Recht haben diese Menschen das Recht auf ein Asylverfahren, die sie mangels legaler Fluchtwege zunächst nur durch einen Grenzübertritt ohne Einreisepapiere beanspruchen können. Mithin sind sie nicht „illegal“, sondern fordern ihr ausdrücklich verbrieftes Recht ein.

Der nun erstmals vorgelegte Bericht gilt als ein entscheidender Schritt bei der Umsetzung der Reform des europäischen Asylsystems (GEAS), die auch einen Solidaritätsmechanismus zur Entlastung von besonders von Migration betroffenen Mitgliedstaaten enthält. Für ihn berücksichtigte die EU-Kommission verschiedenste Kennzahlen – etwa, wie viele illegale Grenzübertritte, Bootsrettungen oder Asylanträge ein Land registriert sowie die wirtschaftliche Leistungskraft und Bevölkerungszahl eines Landes.

Daten werden vorerst unter Verschluss gehalten

Besonders belasteten Ländern steht nach dem neuen Asylsystem die Solidarität anderer Mitgliedsstaaten zu, indem diese entweder Migranten aufnehmen oder einen finanziellen Beitrag leisten. Solidarität kann demnach aber auch geleistet werden, indem EU-Staaten Projekte gegen illegale Migration in Drittstaaten fördern oder Material zur Verfügung stellen.

Das Ziel des Ausgleichs: Flüchtlinge sollen in dem Land bleiben, in dem sie ankommen und nicht etwa nach Deutschland weiter fliehen. Staaten wie Griechenland oder Italien sollen zudem an den Außengrenzen beschleunigte Asylverfahren abwickeln. Dafür sollen die EU-Länder, in denen die meisten Migranten ankommen, dann entlastet werden. Für diesen Solidaritätsmechanismus bildet der Bericht der EU-Kommission die entscheidende Grundlage.

Über die Vorschläge der EU-Kommission für den sogenannten Solidaritätspool müssen nun die Mitgliedstaaten verhandeln. Sie haben dafür auch detaillierte Zahlen bekommen, die von der EU-Kommission allerdings entsprechend der Verordnung über das Asyl- und Migrationsmanagement vorerst nicht öffentlich gemacht werden. Umgesetzt werden soll das neue Migrations- und Asylpaket ab Mitte kommenden Jahres. (dpa/mig 13)

 

 

 

 

COP30, Krisentreffen am Amazonas: Worum geht es bei der Klimakonferenz?

 

Zehn Jahre nach dem Abkommen von Paris ist die Klimakrise alles andere als bewältigt. Stattdessen ist das Problem noch größer geworden. Nun gibt es ein Krisentreffen an einem ganz besonderen Ort. Von Larissa Schwedes

Vor zehn Jahren brach Jubel aus in Paris: Nach zähem Ringen hatte sich die Weltgemeinschaft darauf verständigt, die Klimakrise in den Griff bekommen zu wollen. Das Pariser Klimaabkommen war geboren. Inzwischen hat sich die Krise aber deutlich weiter zugespitzt – und man trifft sich in Brasilien am Rande des für das Weltklima so wichtigen Tropenwalds am Amazonas.

In den vergangenen Tagen kamen bereits Bundeskanzler Friedrich Merz (CDU) und viele seiner Kollegen aus aller Welt nach Belém. Doch erst jetzt, wo die Staats- und Regierungschefs wieder abgereist sind, geht es richtig los mit den harten Verhandlungen. Es steht viel auf dem Spiel.

Wie steht es denn mittlerweile ums Klima?

Laut aktueller UN-Prognose steuert die Welt mit ihrer aktuellen Klimapolitik auf 2,8 Grad Erwärmung bis zum Ende des Jahrhunderts zu und reißt das international vereinbarte 1,5-Grad-Ziel schon innerhalb des nächsten Jahrzehnts. Das würde heißen: mehr Stürme, mehr Überschwemmungen, mehr Dürren und so weiter – von drohenden Kipppunkten mit unumkehrbaren Folgen mal ganz abgesehen.

UN-Generalsekretär António Guterres betonte vor den Staatenlenkern aus aller Welt: „Die bittere Wahrheit ist, dass wir es nicht geschafft haben, unter 1,5 Grad zu bleiben.“ Bislang vermochten es die Menschen trotz aller Konferenzen und Pläne nicht, das Ruder herumzureißen: Die weltweiten Emissionen erhöhen sich weiterhin. Im vergangenen Jahr stiegen sie der Weltwetterorganisation (WMO) zufolge sogar so drastisch wie seit Beginn der modernen Messungen 1957 nicht.

Die Folgen sind real und messbar: Immer mehr Menschen müssen aufgrund klimatischer Veränderungen ihren Lebensraum verlassen. Dürren, Überschwemmungen aufgrund Starkregen und andere Naturkatastrophen machen ganze Regionen unbewohnbar. Die meisten Menschen ziehen innerhalb ihrer Länder um, nicht Wenige suchen ihr Glück aber auch im Ausland und zunehmend in reichen Industriestaaten. Europa und USA wiederum machen ihre Grenzen dicht für Geflüchtete. Menschenrechtler und Klimaschützer sehen darin einen Widerspruch. Einerseits wolle man wenig gegen den Klimawandel tun, andererseits wolle man keine Verantwortung für die Folgen tragen. Das sei kurzsichtig und keine Lösung.

Und nun soll am Amazonas die Kehrtwende gelingen?

Brasilien will die Symbolkraft des Amazonas nutzen, um der Welt die Dringlichkeit vor Augen zu führen. „Wer den Wald nur von oben sieht, weiß nicht, was unter seinem Dach geschieht“, betont der brasilianische Gastgeber Präsident Luiz Inácio Lula da Silva. Die Welt müsse der Realität ins Auge sehen.

Der deutsche Greenpeace-Chef Martin Kaiser warnt: Nehme die Entwaldung durch Abholzung noch um einige Prozent zu, verwandle sich der Regenwald in eine Savanne. „Dann kippt das globale Klima. Ohne den Schutz des Amazonas gibt’s keinen Klimaschutz. Das ist eine so simple wie unbequeme wissenschaftliche Wahrheit.“ Große Waldgebiete wie der Amazonas sind natürliche Speicher für Treibhausgase – was in Bäumen und Pflanzen steckt, belastet nicht das Klima.

Mit Brasilien findet der Klimagipfel nach drei Jahren in autoritär regierten Staaten – Ägypten, Vereinigte Arabische Emirate und Aserbaidschan – erstmals wieder in einem demokratischen Land statt, das mehr Raum für Proteste von Aktivistinnen und Aktivisten bietet.

Doch die Vorzeichen sind nicht die besten. Kriege und andere Krisen lassen das Klima auf der Prioritätenliste vieler Regierungen nach unten rutschen, fast überall sind die Kassen klamm. Die Öl- und Gaslobby will die Energiewende ausbremsen – und hat mit US-Präsident Donald Trump einen mächtigen Unterstützer bekommen.

Lässt sich Trump in Brasilien blicken?

In Belém wird der US-Präsident nicht erwartet – schon am ersten Tag seines Amtsantritts hatte er im Januar den erneuten Austritt aus dem Pariser Klimaabkommen unterzeichnet. Wirksam wird dieser Austritt allerdings erst ein Jahr später.

Als Elefant im Raum ist Trump trotzdem präsent: Mit dem Rückzug der USA fehlt Geld – sowohl für die UN-Konferenzen als auch bei der für die ärmeren Länder so wichtigen Unterstützung bei Klimaschutz und Anpassung an die steigenden Temperaturen und ihre Folgen.

Worum geht es bei der Konferenz konkret?

Viele Staaten haben ihre Hausaufgaben nicht gemacht: Nur rund ein Drittel hat entgegen aller Verpflichtungen überhaupt bis zur Konferenz neue Klimaschutzpläne bis zum Jahr 2035 eingereicht – und die vorliegenden reichen zur Eindämmung der Krise nicht aus. „In den kommenden Jahren bis 2035 muss deutlich mehr geschehen als das übliche ‚business as usual’“, betont Kaiser. Auch UN-Klimachef Simon Stiell macht zum Auftakt Druck: „Wir müssen viel, viel schneller werden.“

Auf der offiziellen Agenda steht vor allem die Anpassung an die Klimafolgen. Hier brauche es Indikatoren, die Fortschritte messbar machen, erklärt Laura Schäfer, die bei der Organisation Germanwatch den Bereich Internationale Klimapolitik leitet. „Dazu brauchen die ärmsten und verletzlichsten Länder Klarheit und Verlässlichkeit, wie sie bei Maßnahmen für Klimaschutz und dem Umgang mit Klimawandelfolgen finanziell unterstützt werden.“

Gastgeber Brasilien wirbt für einen neuen, milliardenschweren Fonds zum Schutz tropischer Regenwälder. Länder, die ihre Tropenwälder erhalten, sollen belohnt werden. Für jeden zerstörten Hektar sollen hingegen üppige Strafen fällig werden und in den Fonds fließen.

Welche Rolle spielen Deutschland und die EU?

Deutschland und die EU galten auf den Klimakonferenzen lange als Kämpfer für mehr Ehrgeiz – doch diese Zeiten haben sich geändert. Wegen enormer Widerstände hat sich die EU erst in letzter Minute auf das für die Konferenz fällige Klimaziel bis 2035 geeinigt. Die EU will nun bei ihren angestrebten Emissionsminderungen bis zu fünf Prozentpunkte schon ab 2031 durch Klimazertifikate aus dem Ausland erzielen.

Der Klimaforscher Niklas Höhne vom NewClimate Institute bezeichnete dies als Rückschritt, der es auch unwahrscheinlicher mache, tatsächlich bis 2050 klimaneutral werden zu können. Die EU lasse nun Zertifikate zu, die sie noch für ihr 2030er-Ziel wegen Zweifeln an ihrer Seriosität ausgeschlossen habe.

Kanzler Merz hatte bei seinem Besuch in Belém angekündigt, Deutschland wolle sich am Fonds beteiligen – eine konkrete Summe hatte er jedoch nicht im Gepäck.

Was wäre ein Erfolg in Brasilien?

Im besten Fall würde ein Paket beschlossen, „um alle notwendigen Schritte zu gehen, damit die globale Erwärmung doch noch unter 1,5-Grad-Pfad stabilisiert werden kann“, betont Kaiser – inklusive eines verbindlichen Plans zum Ausstieg aus fossilen Energien. Bei der vergangenen Klimakonferenz hatten Ölstaaten wie Saudi-Arabien versucht, eine Vereinbarung zum angestrebten Ausstieg aus Kohle, Öl und Gas zu blockieren.

Zudem wäre Beobachtern zufolge wichtig, Zusagen an ärmere Länder mit Geld zu unterfüttern. Im vergangenen Jahr in Aserbaidschan waren einige dieser heiklen Fragen aufgeschoben worden.

Ist das Pariser Abkommen gescheitert?

Die Expertinnen und Experten sind sich einig: Ohne das Abkommen wäre die Welt auf einem noch schlechteren Kurs – nämlich vier bis fünf Grad Erderwärmung, wie sie zuvor prognostiziert wurden. „Das Pariser Klimaabkommen hat etwas ins Rollen gebracht und das ist überhaupt nicht mehr aufzuhalten“, hält Klimaforscher Höhne etwa mit Blick auf den rasanten Ausbau erneuerbarer Energien fest. Die Welt habe sich verändert und das werde auch weitergehen. (dpa/mig 12)

 

 

 

 

Vereinte Nationen. 86 Millionen Menschen auf der Flucht von Klimawandel bedroht

 

Das Hilfswerk UNHCR schlägt Alarm: Drei von vier Flüchtlingen und Vertriebenen leben in Ländern, die besonders anfällig für klimabedingte Gefahren sind. Flüchtlingssiedlungen befinden sich oft in Gebieten mit rauen Wetterbedingungen. Hilfsorganisationen protestieren in Berlin gegen Kürzungen.

Millionen Menschen sind nach Angaben der Vereinten Nationen einer doppelten Bedrohung durch Kriege und Klimawandel ausgesetzt. Für viele Menschen auf der Flucht gebe es kein Entkommen aus diesem Gefahrenmix, erklärte das Flüchtlingshilfswerk am Montag in Genf.

Anlässlich der beginnenden Weltklimakonferenz im brasilianischen Belém betonte das UNHCR, dass 86 Millionen Menschen auf der Flucht 2025 unter extremen Klimasituationen wie Dürre oder Hitzewellen gelitten hätten. Laut UNHCR belief sich die Gesamtzahl der Menschen auf der Flucht 2025 auf 117 Millionen.

Flüchtlingshilfe verlangt mehr Hilfe für betroffene Länder

Somit lebten drei von vier Flüchtlingen und anderen Vertriebenen in Ländern, die besonders anfällig für klimabedingte Gefahren seien. Viele der weltweit größten Flüchtlingssiedlungen befinden sich dem UNHCR zufolge in Gebieten, in denen die Wetterbedingungen rau und gefährlich seien.

Mark Ankerstein, Direktor der UNO-Flüchtlingshilfe, betonte: „Wir müssen diese meist ärmeren Länder, die kaum Möglichkeiten haben, die Menschen vor den Folgen von Extremwetter zu schützen, dringend stärker unterstützen.“ Die UNO-Flüchtlingshilfe ist Partnerorganisation des UNHCR.

Vertreibungen durch Klimawandel

Zugleich verschärfen laut UNHCR Überschwemmungen, Stürme und andere extreme Wetterereignisse sowie langsame Veränderungen wie der Anstieg des Meeresspiegels und die Wüstenbildung die Krisensituationen, die zu gewaltsamen Vertreibungen führen.

Derweil schließen immer mehr Industrieländer ihre Grenzen für Geflüchtete und kürzen zugleich Hilfsgelder. Experten bezeichnen diese Politik als zynisch. Einerseits seien die reichen Staaten für den Großteil der Emissionen verantwortlich und die Treiber des Klimawandels. Andererseits wollen sie den Opfern des Klimawandels nicht helfen. Diese Rechnung werde nicht aufgehen.

Hilfsorganisationen protestieren gegen Kürzungen

In Berlin protstierten am Montag 16 Hilfsorganisationen gegen geplante Kürzungen in der humanitären Hilfe und der Entwicklungsarbeit. Mit einem großen Bumerang mit der Aufschrift „Die Kürzungen von heute sind die Krisen von morgen“ warnten sie vor dem Bundestag vor weiteren Einschnitten und deren Folgen. Für zahlreiche Menschen weltweit sei die humanitäre Hilfe aus Deutschland „existentiell“, betonte die Welthungerhilfe. Ende November will der Bundestag den Haushalt für das Jahr 2026 festlegen.

Die Organisationen verwiesen darauf, dass der Etat des Bundesministeriums für wirtschaftliche Zusammenarbeit und Entwicklung auf 9,9 Milliarden Euro gesenkt werden solle. Das seien fast 30 Prozent weniger als 2022. Die Kürzungen bei der humanitären Hilfe seien noch drastischer und seit 2022 um 60 Prozent auf eine Milliarde Euro für 2026 geschrumpft.

Die geplanten Kürzungen würden den Zielen widersprechen, die sich die Bundesregierung gesetzt habe, kritisierten die Organisationen. Armut, Hunger und Ungleichheit müssten bekämpft und die humanitäre Hilfe für Menschen in Not gestärkt werden. Durch ausbleibende Hilfe könnten sich Konflikte wie etwa in Syrien, im Sudan, in Burkina Faso, Mali oder Somalia verschärfen. Es sei im Interesse Deutschlands und Europas, das zu verhindern. (epd/mig 11)

 

 

 

 

Die Macht der Megawatt

 

Im globalen Wettrennen um Künstliche Intelligenz entscheidet die Verfügbarkeit von Strom. Für den Westen ist das ein Problem. Von Jeffrey Wu

Nicht Algorithmen oder Chips, sondern elektrischer Strom wird über die nächste Phase des globalen KI-Wettrennens entscheiden – und dies verschafft China einen entscheidenden Vorteil. Während westliche Technologieriesen geschlossene, kapitalintensive und enorme Rechenleistung erfordernde Modelle in den Vordergrund stellen, setzt China auf Open-Source-KI und baut seine Kapazitäten im Bereich erneuerbarer Energien und Kernenergie massiv aus. Damit ist das Land in der Lage, leistungsstarke KI-Technologien in großem Maßstab einzusetzen, ohne dabei sein Budget zu sprengen.

Diese Unterschiede sind Ausdruck einer grundsätzlicheren Kluft. Während die Vereinigten Staaten und ihre Verbündeten KI als proprietäre Technologie betrachten, sieht China darin eine öffentliche Infrastruktur und baut ein offenes KI-Ökosystem auf, in dem sich dieselbe Philosophie widerspiegelt, die auch in der Fertigung zum Tragen kommt: breite Akzeptanz, schnelle Iteration und unablässige Kostensenkung. Bei den chinesischen Open-Source-Modellen wie DeepSeek, Qwen und Kimi handelt es sich nicht nur um wissenschaftliche Errungenschaften, sondern um strategische Instrumente, die auf Beteiligung ausgelegt sind und die die wirtschaftliche Seite der KI verändern.

Die neueste Version von DeepSeek soll angeblich mit den Fähigkeiten der von US-Unternehmen entwickelten Spitzensysteme mithalten können, und das zu einem Bruchteil der Rechenkosten. Die API-Preise von Qwen und Kimi sind um ein Vielfaches gesunken. Rein wirtschaftlich betrachtet brechen die Grenzkosten des „Denkens“ ein. Die Inferenzkosten einiger chinesischer Modelle betragen ein Zehntel oder weniger der Kosten, die bei GPT-4 von OpenAI anfallen.

Doch je billiger KI wird, desto mehr wird weltweit davon konsumiert, wobei jedes eingesparte Token 1 000 weitere generiert. Die gleiche Dynamik, die einst das Kohlezeitalter befeuerte, ist nun die treibende Kraft des digitalen Zeitalters. In China geschieht dies ganz bewusst: Niedrige Inferenzkosten in Verbindung mit den offenen Gewichten chinesischer Modelle sollen Universitäten, Start-ups und lokale Behörden zu Experimenten anregen. All diese Aktivitäten erfordern jedoch Energie: Die Internationale Energieagentur erwartet, dass sich der weltweite Stromverbrauch von Rechenzentren bis 2030 (gegenüber dem Niveau von 2024) verdoppeln wird und zwar vor allem aufgrund der KI-Workloads. Allein das Training von GPT-4 hat wahrscheinlich Millionen Kilowattstunden verbraucht – genug, um San Francisco drei Tage lang mit Strom zu versorgen.

Was einst als Wettstreit der Algorithmen galt, entwickelt sich zusehends zu einem Wettbewerb der Kilowatt, und China ist auf dem besten Weg, als Sieger daraus hervorzugehen. Im Jahr 2024 hat das Land 356 Gigawatt an Kapazitäten im Bereich erneuerbarer Energien geschaffen – mehr als die USA, die Europäische Union und Indien zusammen – wobei 91 Prozent der gesamten neuen Energieerzeugung aus Solar-, Wind- und Wasserkraft stammen. Die Batteriespeicherkapazität hat sich gegenüber 2021 verdreifacht, und ein Ultra-Hochspannungsnetz transportiert nun saubere Energie über tausende Kilometer, von Wüsten zu Datenzentren.

China investiert zudem massiv in Kernenergie. Laut der Information Technology and Innovation Foundation liegen die Ausgaben für Forschung und Entwicklung im Bereich Kernenergie etwa fünfmal höher als in den USA. Mit Reaktoren der vierten Generation und kleinen modularen Designs, die sich in der Pilotphase befinden und bald zum Einsatz kommen werden, sorgt die Kernenergie im Hintergrund für die Grundlastversorgung, die intermittierende erneuerbare Energien nicht leisten können.

Diese Kombination aus offenen KI-Modellen, kostengünstigen erneuerbaren Energien und einer stabilen Versorgung mit Kernenergie bildet so etwas wie ein Schwungrad aus Energie und Rechenleistung: Mehr sauberer Strom ermöglicht mehr Rechenleistung, wodurch wiederum das Stromnetz optimiert wird. Bereits heute liefern maschinelle Lernsysteme Prognosen im Bereich Solarstromproduktion, verwalten die Energiespeicherung und gleichen die Last im riesigen chinesischen Stromnetz in Echtzeit aus. Das Resultat besteht in einer Neuordnung der Branche, da die herkömmlichen Trennlinien zwischen Energie, Halbleitern und Software verschwinden. Rechenzentren sind die neuen Kraftwerke und GPUs die neuen Turbinen. China elektrifiziert nicht nur seine Industrie, sondern auch seine Intelligenz.

Abgesehen von der Stärkung seines eigenen Netzes für saubere Energie exportiert China auch die Bausteine des neuen weltweiten Energiesystems. Die Exporte aus dem Bereich sauberer Technologien – darunter Solarmodule, Netzakkus und Elektrofahrzeuge – erreichten im August dieses Jahres den Rekordwert von 20 Milliarden US-Dollar und übertrafen damit die Exporte von Unterhaltungselektronik aus dem vorangegangenen Jahrzehnt. Auch wenn der Westen Chips und Software exportiert, so ist es doch China, das den für deren Nutzung erforderlichen Strom herstellt.

Unterdessen führen die Energieprobleme des Westens – veraltete Stromnetze, langwierige Genehmigungsverfahren und hohe Preise – zu digitalen Engpässen. In den USA und anderen Ländern wird der Ausbau von Rechenzentren in zunehmendem Maße durch einen erschwerten Zugang zu zuverlässiger Stromversorgung eingeschränkt. In einigen Gebieten – wie beispielsweise Virginia und Dublin – gelten Moratorien für neue Rechenzentren.

Schon immer begünstigten industrielle Revolutionen jene Gesellschaften, die Energie am effizientesten in Produktivität umwandeln konnten. Im 19. Jahrhundert war Kohle der Schlüssel zu einem Weltreich. Im 20. Jahrhundert war Erdöl Trumpf. Und im 21. Jahrhundert wird es saubere Energie in Verbindung mit Rechenleistung sein. Wer den billigsten Strom hat, verfügt auch über die kostengünstigste Intelligenz – und profitiert von wachsendem Wohlstand in beiden Bereichen.

Dank einer systemischen Abstimmung von Investitionen und Anreizen, die in Demokratien nur schwerlich rasch repliziert werden könnte, richtet sich China derzeit in dieser begehrten Position ein. Doch China wird von seinem Erfolg nicht allein profitieren. Für Schwellenländer, die sich Hochleistungsrechner bislang nicht leisten konnten, bieten offene Modelle und sinkende Energiekosten die Möglichkeit, KI zugänglich und sogar unverzichtbar zu machen, ähnlich wie dies bei Strom oder Breitband der Fall war.

Überfluss garantiert jedoch keine Stabilität. Ohne ausreichende Investitionen in die Erzeugung und Speicherung sauberer Energie könnte der steigende Energiebedarf für KI die Stromnetze belasten und die Fortschritte bei der Dekarbonisierung gefährden. Wie im Industriezeitalter könnte Effizienz zu Überfluss führen, und Fortschritt womöglich mit wachsenden Ungleichgewichten einhergehen. Der Umgang mit dem Spannungsfeld zwischen Überfluss und Einschränkung wird darüber entscheiden, ob KI zu einem Instrument der Selbstermächtigung oder zu einem neuen Motor der Ungleichheit wird.

Vor zwei Jahrhunderten wandelte die Dampfmaschine Wärme in Bewegung um – und veränderte die Weltwirtschaft. Heute verwandelt KI Elektrizität in Erkenntnis, und wer beides beherrscht, wird die Regeln des Fortschritts wieder neu schreiben. PS/IPG 10

 

 

 

 

COP30: Vatikan hofft auf „Kurswechsel“ in Klimapolitik

 

Hohe Dringlichkeit, niedrige Erwartungen: In Belém (Brasilien) hat an diesem Montag der 30. Klimagipfel der Vereinten Nationen begonnen.

Der Vatikan nimmt an der COP30 mit einer zehnköpfigen Delegation unter der Leitung von Kardinalstaatssekretär Pietro Parolin teil. Stellvertretender Leiter der Delegation ist der Apostolische Nuntius in Brasilien, Erzbischof Giambattista Diquattro. Er hofft, wie er im Interview mit Radio Vatikan sagt, auf einen „Kurswechsel“ in der internationalen Klimapolitik.

„Die Überlegung, die Papst Franziskus vor zwei Jahren in seiner Botschaft an die COP 28 anstellte, scheint mir aktueller denn je: ‚Es ist ein Kurswechsel erforderlich – nicht nur eine teilweise Änderung des Kurses, sondern eine neue Art, gemeinsam voranzugehen‘. Das Pariser Klima-Abkommen hat eine Art Neuanfang markiert, jetzt muss der Weg neu beschritten, jetzt muss ein konkretes Zeichen der Hoffnung gesetzt werden!“

Das Pariser Abkommen, das Diquattro erwähnt, wurde vor genau zehn Jahren geschlossen – vorbereitet unter anderem durch eine beispiellose Umwelt-Enzyklika aus dem Vatikan, ‚Laudato si‘‘ von Papst Franziskus.

Für eine deutliche Beschleunigung des ökologischen Wandels

„Auch diese COP (von Belém) sollte ein Wendepunkt sein: Sie sollte einen klaren und greifbaren politischen Willen zum Ausdruck bringen, der zu einer deutlichen Beschleunigung des ökologischen Wandels führt!“

Konkret hofft der Papst-Vertreter in Belém auf Maßnahmen, die drei Merkmale aufweisen: Sie sollten „effizient, verbindlich und leicht überprüfbar“ sein. „Und sie müssen in vier Bereichen umgesetzt werden: Energieeffizienz, erneuerbare Energiequellen, Abschaffung fossiler Brennstoffe und Aufklärung über einen weniger von diesen abhängigen Lebensstil.“

Ein Wunschzettel für Belém

Der Vatikan will mit seiner Anwesenheit auf dem internationalen Klimagipfel im Amazonasgebiet dafür sorgen, dass bestimmte Themen nicht untergehen.

„Erstens scheint die Erziehung zu einer ganzheitlichen Ökologie ein entscheidender Bereich zu sein, um die Klimakrise anzugehen. Dieses Thema gewinnt zunehmend an Bedeutung, da viele Länder die Bildungsdimension in ihre nationalen Beiträge (NDCs) bis 2035 aufnehmen. Es wird daher von entscheidender Bedeutung sein, diesen Prozess aufmerksam zu verfolgen.“

Ein zweiter Aspekt betrifft nach Diquattros Angaben die Umsetzung der auf einem früheren Klimagipfel beschlossenen Verpflichtung, die Abhängigkeit von fossilen Brennstoffen global zu verringern. „Der Heilige Stuhl betont die Notwendigkeit einer konsequenten Anwendung dieses Instruments und bekräftigt, dass Bildung eine wesentliche Säule für die Erreichung der Ziele des Pariser Abkommens in der nächsten Überprüfungsphase darstellt.“

Ruf nach Umbau der globalen Finanzarchitektur

Ein weiterer Punkt auf der Vatikan-Wunschliste von Belém wäre eine Reform der globalen Finanzarchitektur und ihrer Verbindung zur Klimafinanzierung. Aus der Sicht des Heiligen Stuhls sollte die Auslandsverschuldung armer Staaten gegen die ökologische Schuld entwickelter Staaten gewissermaßen aufgerechnet werden.

„Ein weiteres Thema wird der gerechte Übergang sein, der nicht nur wirtschaftliche, sondern auch soziale und ökologische Kriterien umfassen muss… Schließlich wird die Debatte über den Gender-Aktionsplan Gelegenheit bieten, die unverhältnismäßige Belastung von Frauen durch den Klimawandel zu bekräftigen und zu ihrer aktiven Beteiligung an der Umsetzung des Pariser Abkommens aufzurufen.“

Der Nuntius nennt noch einige weitere Punkte, für die sich die Vatikan-Delegation in Belém interessieren wird, etwa die Dossiers zum Schutz des Amazonas-Regenwaldes, der Landwirtschaft und der Ernährungssicherheit. Mit einer Rede auf dem der COP vorgeschalteten Klimagipfel hat Kardinal Parolin die Positionen des Heiligen Stuhls schon öffentlich markiert. In den nächsten Tagen wird die Delegation vor allem auf Hintergrundgespräche setzen. (vn 10)

 

 

 

 

Haushaltspläne. UNHCR warnt Berlin: Weniger Hilfe = mehr Flüchtlinge

 

Die Bundesregierung will die Zahl der Geflüchteten senken, gleichzeitig halbiert sie die humanitäre Hilfe. UN-Flüchtlingshochkommissar Grandi warnt: Bleiben Hilfsgelder so knapp wie jetzt, dürften bald mehr Menschen aus Afrika und dem Nahen Osten nach Europa fliehen.

Der UN-Hochkommissar für Flüchtlinge, Filippo Grandi, appelliert an den Bundestag in Berlin, die humanitäre Hilfe auszuweiten. „Die humanitäre Hilfe so niedrig zu lassen, wie sie jetzt ist, ist ein riesiger strategischer Fehler“, sagte Grandi der Deutschen Presse-Agentur.

Am 13. November trifft sich der Haushaltsausschuss im Bundestag, um letzte Hand an den Bundeshaushalt 2026 zu legen. Deutschland hat die humanitäre Hilfe dieses Jahr gegenüber 2024 mehr als halbiert – von 2,3 Milliarden Euro auf 1,05 Milliarden Euro. Für 2026 sind Ausgaben in gleicher Höhe vorgesehen. Gleichzeitig ist es erklärtes Ziel der Bundesregierung, die Zahl der Geflüchteten zu senken. Laut Grandi ist das ein Widerspruch.

Flüchtlingssituation wie 2015 denkbar

„Wenn humanitäre Hilfe zurückgeht, werden wieder Menschen Richtung Europa drängen, das macht mir große Sorge“, sagte Grandi. „Denken Sie an 2015.“ Er erinnert an das Jahr, in dem Hunderttausende Flüchtlinge nach Deutschland kamen. In den Monaten war die humanitäre Unterstützung für syrische Flüchtlinge in Nachbarländern ihrer Heimat wegen Geldmangels gekürzt worden. Das sei einer der Gründe für die Fluchtbewegung gewesen.

In diesem Jahr sei die Lage ähnlich: wegen drastisch gekürzter Mittel aus den USA, Deutschland, Großbritannien, Frankreich und anderen Ländern sei etwa die Hilfe für Menschen aus dem Sudan geschrumpft, die in den Tschad geflohen sind. „Wissen Sie, wer die Gegend dort heute kontrolliert? Die Schlepper“, sagte Grandi. „Sie sagen den Leuten: hier bekommst Du nichts, gib mir ein bisschen Geld, dann bringen wir Dich nach Libyen, und dann nach Europa.“

Krisen ohne mehr Geld nicht zu bewältigen

Grandi appelliert an die deutschen Politiker, die Gelder für 2026 doch noch zu erhöhen. Neben den Flüchtlingen aus dem Sudan suchten auch Menschen in der von Konflikten und Klimawandel stark betroffenen Sahel-Zone in Afrika Auswege, wenn sie vor Ort keine Lebenschance mehr sähen. „Erwarten Sie nicht, dass die humanitären Organisationen diese Krisen bewältigen können, wenn Sie den Kurs nicht umkehren“, sagte Grandi. (dpa/mig 10)

 

 

 

 

„Klimaschutz dient unserer Sicherheit“. Podium unmittelbar vor der UN-Klimakonferenz COP30

 

„Ein intaktes Klima und eine umfassende Artenvielfalt kommen uns Menschen unmittelbar zugute.“ Diese Auffassung hat gestern (6. November 2025) Weihbischof Rolf Lohmann (Münster) bei der Podiumsdiskussion „Schöpfungsbewahrung 10 Jahre nach Laudato si’ – Luxus oder Notwendigkeit?“ in Berlin vertreten. Das müsse, so Weihbischof Lohmann, der Vorsitzender der Arbeitsgruppe für ökologische Fragen der Deutschen Bischofskonferenz ist, deutlicher zur Sprache kommen. Es gäbe eine internationale Verpflichtung, sich gegen die weltweit nachlassenden Bemühungen für Klima- und Umweltschutz zu stellen. Anlass der Veranstaltung war das zehnjährige Jubiläum der Umwelt- und Sozialenzyklika Laudato si’ von Papst Franziskus. Dazu eingeladen hatten die Kommission für gesellschaftliche und soziale Fragen der Deutschen Bischofskonferenz und die Katholische Akademie in Berlin.

Im Vorfeld der COP30 in Belém (Brasilien), die am kommenden Montag beginnt, erörterte das Podium Möglichkeiten, den Klima- und Umweltschutz wieder oben auf die gesellschaftliche und politische Tagesordnung zu bringen. Einig waren sich alle, dass es sachliche Debatten und transparente Kommunikation über den Wert des Klima- und Umweltschutzes für Wirtschaft und Gesellschaft braucht. Denn nur gemeinsam könne die Bewahrung der Schöpfung gelingen.

Die Klimaökonomin Prof. Dr. Sabine Fuss betonte mit Blick auf die COP30: „Zehn Jahre nach Laudato si’ und dem Pariser Klimaabkommen sehen globale Gemeingüter wie Klima und Biodiversität sich steigendem Druck ausgesetzt. Mit Blick auf die COP30 in Brasilien wird deutlich, dass eine wirksame Governance dieser Gemeingüter und die Stärkung multilateraler Kooperationen entscheidend sind, um ökologische Stabilität und soziale Gerechtigkeit miteinander zu verbinden.“

Der stellvertretende Vorsitzende der CDU/CSU-Bundestagsfraktion für Umwelt, Klimaschutz, Naturschutz und nukleare Sicherheit, Wirtschaftliche Zusammenarbeit und Entwicklung, Nachhaltigkeit, Andreas Jung MdB, erklärte: „Es ist wichtig, dass wir ein gesamtgesellschaftliches Bewusstsein schaffen, dass Klima- und Umweltschutz wichtig ist. Das ist kein bloßes ‚grünes‘ Thema, sondern muss ein überparteiliches Anliegen sein.“ Die Präsidentin des Deutschen Caritasverbands, Eva Maria Welskop-Deffaa, bekräftigte das weiterhin beflügelnde Potenzial der Enzyklika: „Die Erinnerung an zehn Jahre Laudato si’ ist zugleich die Erinnerung an zehn Jahre Pariser Klimaabkommen. Als Caritas setzen wir alles daran, den ermutigenden Geist der Klima-Enzyklika für die Verhandlungen in Belém wachzuhalten: Das Klima ist ein Gemeingut, das für alle da ist und von allen geschützt werden muss. Ohne mutige Vorreiter-Allianzen bei der globalen Klimafinanzierung werden die Klimaziele nicht erreichbar sein.“

Der Geschäftsführer des Zentralverbands des Deutschen Handwerks, Karl-Sebastian Schulte, hob die Verbindung von Energiewende und lokaler Wirtschaft hervor: „Das Handwerk spielt eine zentrale Rolle für den Klimaschutz, da es wirksame Maßnahmen umsetzt und selbst zunehmend energie- und ressourceneffizient arbeitet. Wie die Kirche trägt das Handwerk aktiv zur Bewahrung der Schöpfung bei und schafft durch seine regionale Verbundenheit Ausbildungs- und Arbeitsplätze vor Ort, sodass Menschen nicht nur Beschäftigung erhalten, sondern auch aktiv am Klima- und Umweltschutz mitwirken können. Kirche und Handwerk verbindet seit jeher der Werteansatz der Bewahrung von Schöpfung, Werten und Traditionen.“

Wie aktuell der Auftrag von Laudato si’ heute ist, verdeutlichte Weihbischof Lohmann mit Verweis auf die Sicherheitspolitik: „Kooperation und gemeinsame Finanzierung sind nicht nur zentral für den Klima- und Umweltschutz; sie sind zugleich auch geopolitisch wichtig, weil sie die weltweite Zusammenarbeit zwischen den Staaten befördern und einen Interessenausgleich ermöglichen. Klima- und Umweltschutz dient somit unserer Sicherheit.“ Dbk 7

 

 

 

 

„Die Konjunkturritter der Angst wollen keinen Dialog“

 

Martin Schulz über die Verteidigung der Demokratie, Vertrauen in die Politik und den Umgang mit Rechtspopulismus. Die Fragen stellte Philipp Kauppert.

In der neu erschienenen Mitte-Studie der FES ist die erste gute Nachricht, dass die deutlich überwiegende Mehrheit der Deutschen weiter demokratisch eingestellt ist. 76 Prozent lehnen explizit rechtsextreme Einstellungen ab. Reicht das aus, um positiv in die Zukunft zu blicken?

Ja und nein. 76 Prozent sind eine stabile Grundlage, aber dass fast ein Viertel der Deutschen bei dieser Frage zumindest indifferent ist, ist eine zu hohe Zahl. Deshalb gilt: Die demokratischen drei Viertel der Gesellschaft sind gefordert, die anderen von der demokratischen Sache zu überzeugen. Dabei gibt es allerdings eine Gefahr: Diese Mehrheit besteht aus sehr unterschiedlichen politischen Strömungen, von neoliberal bis sozialistisch. Wenn sie sich nur auf einen Minimalkonsens gegen rechts einigt, droht sie konturlos zu werden. Wir müssen also lernen, gemeinsam für die Demokratie zu streiten, und gleichzeitig unsere Unterschiede in Grundüberzeugungen und Politikansätzen deutlich zu zeigen. Wenn das gelingt, ist die Demokratie stabil.

Ein weniger positives Ergebnis der Studie ist das wachsende Misstrauen in die Demokratie und ihre Institutionen. Wie erklären Sie sich dieses Phänomen – auch mit Blick auf die Bundesregierung und die Parteien der sogenannten demokratischen Mitte?

Der alltägliche Blick in die Nachrichten ist schwer erträglich – selbst für Berufspolitiker. Bürgerinnen und Bürger, die sich nicht ständig mit Politik beschäftigen, fühlen sich hingegen von den Nachrichten regelrecht überfordert. Früher sagten viele: „Was die da in Berlin machen, betrifft mich doch nicht.“ Das hat sich geändert. Heute spüren die Menschen: Ich bin betroffen. Gleichzeitig empfinden sie: Ich kann es nicht beeinflussen. Und dann folgt der Gedanke: Dafür gibt es doch Politiker – aber die schaffen es ja auch nicht. Diese Wahrnehmung führt zu einem angstbesetzten Misstrauen, auf das demokratische Parteien in der westlichen Welt bislang nicht ausreichend reagieren, und damit lassen sie den Extremisten Platz für ihre radikale antidemokratische Agenda.

Zwei Dinge sind entscheidend: Erstens müssen wir anders kommunizieren. Ehrlich sagen: Ja, die Lage ist instabil, und es gibt keine schnellen Lösungen – aber wir arbeiten daran. Vertrauen wächst nur, wenn man die Realität beschreibt, statt sie zu beschönigen. Zweitens: Viele Alltagsbelastungen kann der Staat sehr wohl verbessern – aber im Moment wirkt es für viele so, als passiere das nicht. Steffen Mau hat es treffend gesagt: Wenn die Bahn immer zu spät kommt, zerstört das auch das Vertrauen in die Demokratie. Wenn es keinen funktionierenden ÖPNV mehr gibt, obwohl du drei Kinder hast und leider nicht vier Chauffeure beschäftigen kannst – das ist Demokratiezerstörung. Wenn Schulen marode sind, Pflegeplätze fehlen, und Kitas kein Personal haben – das alles zerstört Demokratie, weil es das Vertrauen in staatliches bürgerzentriertes Handeln untergräbt. Viele Menschen glauben, dass die Politiker gar nicht mehr wissen, wie es ist, wenn man einen normalen Job hat, sich an die Regeln hält und Kinder großzieht. Vertrauen für Demokratie zurückzugewinnen heißt, ehrlich zu sagen, dass Veränderungen Zeit brauchen – und zugleich die Alltagsprobleme dieser Menschen ernst zu nehmen.

Die Mitte-Studie zeigt außerdem eine zunehmende Polarisierung. Wie können wir als Gesellschaft damit umgehen – und vor allem: Wie lässt sich verhindern, dass sich Menschen weiter abwenden, etwa in Richtung Rechtspopulismus?

Die Konjunkturritter der Angst wollen keinen Dialog. Sie haben eine apodiktische Meinung, und wer widerspricht, ist ein Feind. Kompromisse sind nicht vorgesehen. Das ist die Zerstörung demokratischer Kultur. Demokratie lebt nämlich vom Dialog. Hier kommt der viel zitierte Begriff der Zivilgesellschaft ins Spiel. Es sind nicht Bundestag oder Landtage, die das alleine lösen können, sondern alle demokratischen zivilgesellschaftlichen Akteure: Gewerkschaften, Kirchen, NGOs, Gemeinden, Städte, Bürgermeisterinnen und Bürgermeister. Sie alle sind prädestiniert, Dialogplattformen zu schaffen. Ebenso die Universitäten, Schulen, Sportvereine, Altenheime, Jugendzentren, Brauchtumsvereine. Überall dort, wo Öffentlichkeit entsteht und Menschen zusammenkommen, müssen wieder mehr und neue Räume des Gesprächs entstehen.

Nach meiner Erfahrung als Kommunalpolitiker gelingt das am besten tatsächlich auf der lokalen Ebene. Sie ist die Ebene, auf der sich das Leben der Menschen abspielt – und auf der Vertrauen am besten wachsen kann: Man trifft die Leute in der Bäckerei oder im Park, kann sie ansprechen, sieht, was sie direkt bewegen. Deshalb ist eine bessere finanzielle Ausstattung der Städte und Gemeinden von existenzieller Bedeutung: sowohl um kleine Probleme wie fehlende Fußgängerübergänge schnell zu lösen, aber auch um Alltagsrisiken abzufedern. Vor Ort werden dadurch Räume für den Dialog geschaffen, die bei der Überwindung der Polarisierung helfen.

Die aktuelle Debatte über die „Brandmauer“ nach rechts hat in den letzten Wochen hohe Wellen geschlagen, vor allem innerhalb der CDU. Was bedeutet diese Diskussion für das progressive Lager?

Für uns ist klar: Wir sind die Gegner der extremen Rechten – und sie haben uns als ihre Gegner identifiziert. Die AfD ist eine anti-aufklärerische, anti-diverse, anti-sozialdemokratische, anti-grüne Partei. Wir sind für sie der Feind. Die CDU dagegen ist nicht nur ihr Feind, sondern ihre Beute. Der Raubvogel hat sich seine Beute ausgeschaut. Die AfD will die Union spalten und schwächen. Deshalb ist die Brandmauer-Debatte vor allem eine Debatte der Union. Wir als progressive Kräfte brauchen sie nicht – wir sind die Brandmauer.

Ich empfehle der CDU und CSU, die eigenen Studien der Konrad-Adenauer-Stiftung ernst zu nehmen. Überall dort, wo sich moderate Konservative auf einen Deal mit der extremen Rechten eingelassen haben, wurden sie von ihr pulverisiert. Sie können nie so radikal sein, wie die Extremisten es fordern. Man muss den Zauberlehrlingen in der Unionsfraktion sagen: Wer den Geist aus der Flasche lässt, bekommt ihn nicht mehr hinein. Schaut nach Frankreich, Italien, in die Niederlande, nach Belgien, Schweden, Finnland – überall, wo sich die Moderaten mit den Rechtsextremen eingelassen haben, sind sie abgestürzt.

Das Gegenargument lautet: Die Einbindung der extremen Rechten könne sie mäßigen und so auch zu einer Entzauberung ihrer Radikalpositionen beitragen – etwa wie in Schweden, wo die konservative Minderheitsregierung faktisch von den rechtsextremen Schwedendemokraten gestützt wird.

In Schweden sehen wir, dass die Moderaten zwar regieren, aber quasi täglich Wähler verlieren – sowohl an die Sozialdemokraten als auch an die Schwedendemokraten. In Finnland ist es ähnlich. In Spanien versucht die konservative Partido Popular aktuell eine Art Mittelweg zu gehen. Sie sprich die Anliegen der Wähler von VOX durchaus an, grenzt sich aber stärker von der rechtsextremen Partei als solcher ab. Der Ausgang ist offen. Aber die Erfahrungen zeigen: Parteien wie die Schwedendemokraten, die Wahren Finnen oder VOX in Spanien wollen sich gar nicht mäßigen. Und die deutschen Rechtsextremen sind im internationalen Vergleich aktuell die radikalsten. Deshalb ist die Brandmauer-Debatte in Deutschland eine andere. Bei uns sollte es nicht um taktische Optionen gehen, sondern zuallererst um die Verteidigung und Stärkung demokratischer Grundsätze. IPG 7

 

 

 

 

Mitte-Studie. Demokratiefeindlichkeit und Rassismus im „Stadtbild“ verfestigt

 

Die große Mehrheit der Bundesbürger sieht sich als überzeugte Demokraten. Doch einige haben auch ganz andere Ansichten. Der Wunsch nach einem starken Führer ist verbreitet – ebenso gruppenbezogener Rassismus. Von Basil Wegener

Mehr als jede und jeder Siebte würde einer Studie zufolge Verhältnisse wie in einer Diktatur in Deutschland befürworten. Sogar rund jede fünfte Person zeigt sich offen für extreme und nationalistische Positionen. Ein klar rechtsextremes Weltbild teilen laut der neuen „Mitte-Studie“ der Universität Bielefeld und der Friedrich-Ebert-Stiftung 3,3 Prozent. Abwertende Meinungen über Asylbewerber und Langzeitarbeitslose seien für viele selbstverständlich geworden.

Allerdings ist nach den neuen Umfragedaten der Anteil der Menschen mit klar rechtsextremen Einstellungen im Vergleich zur Vorgängerstudie von vor zwei Jahren damit von acht um 4,7 Prozentpunkte zurückgegangen. Doch im längeren Zeitvergleich sei das Niveau konstant: Seit 2014 habe es stets zwischen zwei und drei Prozent Rechtsextreme gegeben.

Sorgen wegen des zunehmenden Rechtsextremismus

Zu so einem rechtsextremen Weltbild gehört dabei eine Befürwortung einer Diktatur, die Verharmlosung des Nationalsozialismus, eine völkisch-nationalistische Ideologie, Fremdenfeindlichkeit oder Sozialdarwinismus, also eine Unterscheidung zwischen Höher- und Minderwertigen, wie der Studienautor Andreas Zick erläuterte. „Wir reden hier von Menschen, die 18 Aussagen eindeutig zustimmen.“ Konstant bleibe ein Graubereich mit Teilzustimmungen mit 21 Prozent.

Nach eigener Einschätzung verorteten 57 Prozent der Befragten ihre politischen Ansichten „genau in der Mitte“ – eine leicht steigende Tendenz. „Die Mehrheit der Menschen in Deutschland ist demokratisch eingestellt und äußert Sorgen wegen des zunehmenden Rechtsextremismus“, so die Autoren um den Bielefelder Konfliktforscher. Für die laut der Universität repräsentative Umfrage führten die Umfrageinstitute Uzbonn und Nhi² vom 30. Mai bis zum 4. Juli 2.001 Interviews mit 18- bis 94-Jährigen durch. Auftraggeber ist die SPD-nahe Friedrich-Ebert-Stiftung.

Nationalistischer Graubereich

Rund 20 Prozent äußern sich ambivalent gegenüber rechtsextremen und nationalchauvinistischen Aussagen, stimmen also weder zu noch lehnen sie ab. „Dieser Graubereich“, so die Experten, „hat sich gegenüber dem Vorjahr gefestigt und zeigt eine Offenheit für antidemokratische Orientierungen“.

Zustimmung findet bei fast einem Viertel der Befragten der Satz: „Das oberste Ziel der deutschen Politik sollte es sein, Deutschland die Macht und Geltung zu verschaffen, die ihm zusteht.“ 30 Prozent finden dies teils/teils. 15 Prozent bejahen voll oder überwiegend: „Wir sollten einen Führer haben, der Deutschland zum Wohle aller mit starker Hand regiert.“ Zehn Prozent finden dies teils/teils, rund 75 Prozent lehnen die Aussage ab. Ein Viertel findet: „Was Deutschland jetzt braucht, ist eine einzige starke Partei, die die Volksgemeinschaft insgesamt verkörpert.“

Antidemokratische Einstellungen

„Das Demokratie-Misstrauen ist sehr deutlich angestiegen“, sagte Zick. Beim Großteil der Misstrauenden sei dies eine umfassende Einstellung. Kein Vertrauen in die demokratischen Institutionen hätten zwei von fünf Bundesbürgerinnen und -bürgern, in demokratische Wahlen rund 18 Prozent – dreimal so viel wie vor vier Jahren. Nur 52 Prozent der Befragten stimmt zu, dass die deutsche Demokratie im Großen und Ganzen ganz gut funktioniere. Ein Viertel (24 Prozent) verneint dies – ein Rekordwert.

Einhergehen diese Zweifel laut der Analyse mit Einstellungen, die „dem liberalen Geist des Grundgesetzes“ widersprechen: Zwar meinen laut der Studie fast 88 Prozent, in einer Demokratie solle die Würde und Gleichheit aller an erster Stelle stehen. Doch 34 Prozent sind laut Umfrage der Ansicht: „Im nationalen Interesse können wir nicht allen die gleichen Rechte gewähren.“ Ein Viertel meint, es werde zu viel Rücksicht auf Minderheiten genommen. 7,5 Prozent billigten körperliche Gewalt gegen „Fremde“.

Gruppenbezogene Menschenfeindlichkeit

Generell stellen die Wissenschaftler „Gewöhnungseffekte und Normalisierung“ bei rechtsextremen Einstellungen fest. Abwertende Ansichten gegenüber Asylsuchenden haben mehr als 30, gegenüber Langzeitarbeitslosen sogar 36 und gegenüber Transmenschen 19 Prozent. Ein Drittel unterstellt Geflüchteten Sozialmissbrauch. Dass für Menschen mit Behinderung in Deutschland teils „zu viel Aufwand betrieben“ werde, meinen acht Prozent.

Und wie verbreitet ist Antisemitismus? Die Forscher fassen die Zustimmungswerte als stabil zusammen. 5,5 Prozent meinen eher oder voll, Juden hätten eine Mitschuld an ihren Verfolgungen. Knapp 13 Prozent meinen dies teils/teils. Aufgrund des Nahostkonflikts geben 17 Prozent an, sie könnten „gut verstehen, dass man etwas gegen Juden hat“.

Die Mehrheit tickt anders

Fast vier von fünf Befragten bezeichnen sich grundsätzlich als überzeugte Demokratinnen und Demokraten – sechs Punkte mehr als vier Jahre zuvor. Drei Viertel lehnen rechtsextreme Einstellungen ab, 70 Prozent empfinden den zunehmenden Rechtsextremismus als Bedrohung für Deutschland. 88 Prozent meinen, Würde und Gleichheit solle an erster Stelle stehen.

Der Vorsitzende der Friedrich-Ebert-Stiftung, der frühere SPD-Kanzlerkandidat Martin Schulz, forderte, Verantwortungsträger und Zivilgesellschaft müssten gegenhalten. „Mandatsträgerinnen und Mandatsträger, von lokaler über Länderebene bis hin zur Bundesregierung und darüber hinaus müssen zeigen, dass sie mit den Mitteln der Demokratie die bestehenden Herausforderungen meistern und das Alltagsleben der Menschen spürbar verbessern können.“

Soziale und ideologische Hintergründe

Ein hoher Schulabschluss geht laut der Studie mit deutlich geringerer Zustimmung zu antidemokratischen Einstellungen einher. Männer befürworten teils deutlich häufiger als Frauen Rechtsextremismus und Gewalt. Im Osten gebe es mehr Fremdenfeindlichkeit und Rassismus. Im Westen seien Sozialdarwinismus und Klassismus, also Herabwürdigung aufgrund sozialer Herkunft, weiter verbreitet.

Ein Viertel der Befragten hängt laut der Studie einer „libertär-autoritären Ideologie“ an. Motto: Jeder und jede solle in erster Linie auf sich selbst achten. Diese Gruppe neige deutlich stärker zu einem rechtsextremen Weltbild und billige stärker politische Gewalt. Befragte mit dieser Ideologie stimmten zu 20 Prozent der Aussage zu: „Gegen politische Gegner muss man auch mal Gewalt einsetzen, um nicht den Kürzeren zu ziehen.“

Klima im Abseits?

Der Anteil derer, die den Klimawandel als große Bedrohung sehen, ist von früher rund 70 gemäß der Studie auf 56 Prozent gesunken. Entsprechend sinke der Anteil in der Bevölkerung, die eine „klar klimaprogressive Haltung“ vertritt, auf nur noch gut die Hälfte. Klimapolitisch aus Sicht der Forscher rückschrittliche Haltungen sind dabei laut Studie oft mit Distanz zur Demokratie verbunden. (dpa/mig 6)

 

 

 

 

Jenseits der Schlagzeilen

 

Wegen angeblicher Christenverfolgung droht Trump Nigeria mit dem Militär. Doch die Gewalt im Land hat ganz andere Ursachen. Von Lennart Oestergaard

Das internationale Anprangern der Verfolgung von Christen gehört seit langem zu den bevorzugten politischen Themen von Donald Trump und seiner Administration. Jüngstes Ziel seiner verbalen Attacken ist nun Nigeria: Die USA stuften das Land vergangene Woche als Country of Particular Concern ein – als Staat, in dem die Religionsfreiheit systematisch verletzt werde. Auf dieser Liste stehen sonst Länder wie China, Myanmar, Nordkorea, Russland oder Pakistan. Gleichzeitig drohte Trump, US-Hilfen für Nigeria zu streichen, und stellte sogar militärische Maßnahmen in Aussicht, sollte das Land Christen nicht besser schützen.

Auslöser für diese Rhetorik scheinen Berichte der United States Commission on International Religious Freedom und anderer Organisationen zu sein. Unbestritten ist, dass in Nigeria seit Jahren zahlreiche christliche Zivilisten durch Gewalt ums Leben kommen. Entscheidend ist jedoch: Das Gleiche gilt für viele Muslime. Die Hauptursache ist nicht religiöse Verfolgung, sondern die weitreichende Unsicherheit im Land. Nigeria ist von vielen unterschiedlichen Konflikten geprägt – und Religion spielt dabei meist keine zentrale Rolle. Oft wird sie erst im Nachhinein herangezogen, um die Opfer oder die Konfliktparteien zu beschreiben, ohne dass der Streit ursprünglich etwas mit Glauben zu tun gehabt hätte.

Im Norden Nigerias fordert der islamistische Terrorismus – vor allem durch Boko Haram und den westafrikanischen Ableger des Islamischen Staates (IS), der derzeit an Einfluss gewinnt – zahlreiche muslimische Zivilopfer. Immer wieder werden ganze Dörfer überfallen und Muslime getötet, die sich der extremistischen Ideologie der Terrorgruppen verweigern. Durch die jahrelange Vernachlässigung des Nordens und die schwache Präsenz des nigerianischen Staates ist dort ein Machtvakuum entstanden. Dieses wird nun vom IS genutzt, der teilweise über modernste Ausrüstung bis hin zu Drohnen verfügt und vor allem Polizei- und Militäreinrichtungen angreift.

Auch der häufig als religiös dargestellte Konflikt zwischen sesshaften christlichen Bauern und nomadischen muslimischen Hirten in Zentralnigeria ist im Kern ein Streit um Acker- und Weideland – ein Konflikt, der durch den Klimawandel weiter verschärft wird. Die Hirten gehören meist der Fulani-Ethnie an, während die Bauern anderen Volksgruppen entstammen. In den vergangenen Jahren kam es vor diesem Hintergrund zu brutalen, teils gezielten Angriffen, etwa auf Kirchen. Doch auch diese Gewalt hat eine ausgeprägte ethnische Dimension. In einem Land mit mehr als 300 ethnischen Gruppen stiftet die Zugehörigkeit zu einer Volksgruppe oft mehr Identität als die Religion. Die Angriffe – ebenso wie manche Vergeltungsakte – lassen sich daher nicht von den tieferliegenden Konflikten um Land und Ressourcen trennen.

In vielen Landesteilen bestimmen außerdem Bandenkriminalität und Entführungen den Alltag. Dies ist vor allem eine Folge schwacher staatlicher Kontrolle, fehlender Strafverfolgung und tiefer wirtschaftlicher Spannungen – und nicht religiöser Motive. Die Regierung von Präsident Bola Tinubu, die 2023 mit dem Versprechen angetreten ist, die massive Unsicherheit entschieden zu bekämpfen, hat dieses Versprechen bislang nicht eingelöst. Ihr Umgang mit den zahlreichen Sicherheitskrisen wirkt träge und selbstzufrieden – und unterscheidet sich damit kaum von dem früherer Regierungen.

Die Reaktionen auf Trumps Drohungen fallen in Nigeria sehr unterschiedlich aus. Viele erinnern sich an seine vollmundigen Ankündigungen zur Rolle Grönlands, auf die letztlich kaum Taten folgten. Auch jetzt sehen viele seine Äußerungen eher als innenpolitische Symbolik – als Signal an seine christlich geprägte, teils fundamentalistische Anhängerschaft.

Angesichts der weit verbreiteten Unzufriedenheit mit der Regierung Tinubu, der es trotz des großen wirtschaftlichen Potenzials des Landes bisher nicht gelingt, die Lebensbedingungen spürbar zu verbessern, äußern manche Nigerianer – teils sarkastisch – sogar den Wunsch nach einer externen Intervention. Andere lehnen jede Einmischung von außen entschieden ab und verweisen auf die desaströse Bilanz früherer US-Einsätze im Irak, in Libyen und Afghanistan sowie auf negative Erfahrungen mit dem französischen Engagement in Westafrika. Vor dem Hintergrund des Ressourcenreichtums Nigerias, insbesondere bei seltenen Erden und anderen Rohstoffen, wirft die plötzliche Aufmerksamkeit für die angebliche Christenverfolgung Fragen auf: Könnte sie nicht vielmehr ein Vorwand für geoökonomische Interessen sein?

Die nigerianische Regierung hat inzwischen deutlich gemacht, dass sie grundsätzlich an einer engeren sicherheitspolitischen Zusammenarbeit und an gemeinsamen Militäreinsätzen interessiert ist – allerdings nur, wenn diese abgestimmt und mit Zustimmung der Regierung erfolgen, ohne die Souveränität des Landes einzuschränken. Gerade das Thema Souveränität ist in Westafrika derzeit besonders heikel: Der Austritt Malis, Burkina Fasos und Nigers aus der Westafrikanischen Wirtschaftsgemeinschaft ECOWAS wurde auch als Protest gegen westlichen Einfluss inszeniert. Im Senegal wiederum verdankt der neue Präsident seinen Wahlsieg nicht zuletzt seiner stark antifranzösischen Rhetorik; Frankreich hat inzwischen alle Truppen aus dem Land abgezogen. Ein US-Engagement, das dem früheren französischen Einfluss in den frankophonen Staaten Westafrikas ähnelte, ist für die meisten Nigerianerinnen und Nigerianer völlig undenkbar.

Für Deutschland und Europa bedeutet das: Nigeria braucht Respekt, keine Bevormun

dung. Europas Botschaft sollte eindeutig sein – uneingeschränkte Unterstützung der nigerianischen Souveränität und Anerkennung seiner Bedeutung in Westafrika, auf dem afrikanischen Kontinent und weit darüber hinaus. Der „Gigant Afrikas“ ist mit mehr als 230 Millionen Einwohnern und seinem großen Rohstoffreichtum nicht nur demografisch und wirtschaftlich ein Schwergewicht, sondern auch ein zentraler Partner bei der Verteidigung einer regelbasierten Weltordnung. Globale Zukunftsfragen in einer multipolaren Welt – von Migration über Sicherheit im Sahel bis hin zu Klimaschutz, Energieversorgung und Rohstoffsicherheit – lassen sich nur in enger Zusammenarbeit mit Ländern wie Nigeria lösen, und nicht durch sinnfreie Drohungen. IPG 4

 

 

 

 

OECD-Studie. Große Lücken bei Jobs und Löhnen für Migranten

 

Rekordhoch bei den Asylanträgen, weniger dauerhafte Zuwanderung: Die OECD-Länder erleben bei der Migration gegenläufige Trends. Auf den Arbeitsmärkten zeigen sich große Ungleichheiten.

Migrantinnen und Migranten werden in Deutschland im Vergleich zu Einheimischen deutlich seltener angestellt als in anderen OECD-Ländern und bekommen beim Jobeinstieg auch weniger Geld. Angesichts der großen Unterschiede sollten Deutschland und andere Staaten mehr ausländische Qualifikationen anerkennen, empfiehlt die Organisation für wirtschaftliche Zusammenarbeit und Entwicklung (OECD) in ihrem jährlichen Migrationsbericht.

Während der Anteil der Angestellten unter den Eingewanderten in der Bundesrepublik 2024 bei 69,6 Prozent lag, war er demnach bei Einheimischen 10,3 Prozentpunkte höher. Diese Lücke war bei den untersuchten OECD-Ländern nur in der Türkei und den Niederlanden größer.

Bei hoch qualifizierten Migrantinnen und Migranten war der Abstand im vergangenen Jahr in Deutschland sogar noch deutlicher – der Unterschied zu den einheimischen Arbeitskräften beträgt hier etwa 15 Prozentpunkte. Zur OECD gehören 38 Länder, darunter fast alle EU-Staaten sowie die USA, Großbritannien oder Japan.

Migranten verdienen weniger als einheimische Arbeitskräfte

Allgemein führt der Bericht die erschwerte Anerkennung von in anderen Ländern erlangten Qualifikationen in den OECD-Ländern – etwa im Gesundheitssektor – als einen Grund für solche Unterschiede an. Die Autorinnen und Autoren empfehlen den Ländern, bei der Jobsuche zu unterstützen und mehr Jobmobilität zu ermöglichen.

Der in Brüssel vorgestellte Bericht untersucht zudem, wie sich Einkommen von eingewanderten und einheimischen Arbeitskräften im Zeitraum von 2000 bis 2019 unterscheiden. Migranten verdienten demnach in den 15 untersuchten OECD-Ländern beim Eintritt in den Arbeitsmarkt im Schnitt 34 Prozent weniger als einheimische Arbeitskräfte im selben Alter und mit gleichem Geschlecht. In Deutschland sind es 43 Prozent weniger.

Größtenteils ließe sich dieser Unterschied dadurch erklären, dass Migranten überdurchschnittlich oft in Branchen und Firmen mit niedriger Bezahlung arbeiteten, sagte OECD-Generalsekretär Mathias Cormann. Etwa 71 Prozent der Migranten in den OECD-Ländern sind laut Bericht angestellt, weniger als 10 Prozent arbeitslos gemeldet.

Erstmals seit drei Jahren nimmt dauerhafte Zuwanderung in OECD-Länder ab

Erstmals nach drei Jahren nahm die dauerhafte Zuwanderung in die Mitgliedsstaaten der OECD ab. Etwa 6,2 Millionen Menschen – rund vier Prozent weniger als 2024 – wanderten im vergangenen Jahr in die 38 OECD-Länder ein und können dort langfristig bleiben.

Trotz sinkender Zahlen bleibe die dauerhafte Zuwanderung auf einem historisch hohen Niveau, heißt es im Bericht der Organisation mit Sitz in Paris. Demnach gab es 2019 insgesamt noch 15 Prozent weniger Einwanderer, die in einem OECD-Land eine klare Bleibeperspektive hatten. Dauerhaft eingewandert sind laut Definition im Bericht Menschen mit der klaren Absicht und rechtlichen Perspektive, auf unbestimmte Zeit in einem Land zu bleiben.

Besonders in Deutschland und anderen EU-Ländern kamen im Vergleich zum Vorjahr weniger Menschen dauerhaft an. Während auch in Großbritannien die Zuwanderung abnahm, verzeichneten die USA einen Anstieg von 20 Prozent.

Erneut so viele Asylanträge wie nie zuvor

Die Zahl der Asylanträge in der OECD-Staaten erreichte im vergangenen Jahr wie schon 2023 ein Allzeithoch. Mit 3,1 Millionen lag sie 13 Prozent höher als im Vorjahr. Der Anstieg geht dabei aber vor allem auf die USA, Kanada und Großbritannien zurück – in den OECD-Ländern in der EU, Asien und Lateinamerika baten hingegen weniger Menschen um Asyl.

EU-Migrationskommissar Magnus Brunner sagte bei der Vorstellung des Berichts in Brüssel, während weniger irreguläre Migration in die EU ein Erfolg sei, brauche es mehr legale Zuwanderung für den Arbeitsmarkt. Der OECD-Bericht zeigt: Arbeitsmigration nahm im vergangenen Jahr stark ab, die Zuwanderung aus humanitären Gründen in OECD-Staaten ist hingegen deutlich mehr geworden. Hauptgrund für die Zuwanderung bleibt laut dem Bericht die Zusammenführung von Familien. (dpa/mig 4)

 

 

 

Migranten teilen demokratische Werte

 

Die meisten Migranten in Deutschland und Europa stimmen demokratischen Werten wie Pressefreiheit und Rechtsstaatlichkeit zu. Auch antidemokratische Einstellungen sind ähnlich verbreitet wie bei Menschen ohne Einwanderungsgeschichte.

Zuwanderer in Deutschland und anderen europäischen Staaten haben laut einer Untersuchung der Universität Mannheim ähnlich ausgeprägte demokratische Werte wie Menschen ohne Migrationshintergrund. Die Wissenschaftler des Mannheimer Zentrums für Europäische Sozialforschung stellten außerdem fest, dass die demokratischen Überzeugungen mit der Dauer des Aufenthalts in Europa zunehmen.

Bei Menschen, die vor der Migration viele Jahre in autoritär regierten Staaten verbracht haben, seien die Zustimmungswerte für Kernelemente der liberalen Demokratie etwas geringer als bei Menschen aus diesen Staaten, deren politische Sozialisation vorwiegend im Zielland stattfand.

Antidemokratische Einstellungen gleich hoch

Laut der Untersuchung, die im „European Journal of Political Research“ veröffentlicht wurde, lehnt eine Minderheit aus autoritären Ländern von rund fünf Prozent demokratische Werte ab. Dieser Anteil sei vergleichbar mit den Menschen ohne Migrationshintergrund, die antidemokratische Einstellungen vertreten.

Für ihre Untersuchung haben die Autoren der Studie Daten des European Social Survey und des deutschen Integrationsbarometers ausgewertet. Als Migrantinnen und Migranten im Sinne der Untersuchung wurden nur Zugewanderte betrachtet, die selbst im Ausland gelebt haben und bei denen mindestens ein Elternteil ebenfalls außerhalb des Ziellandes geboren wurde. (dpa/mig 3)