Webgiornale 1-15 maggio 2025
UE. Buone intenzioni, poca strategia
Mai nella sua
ormai lunga storia l’Ue ha vissuto un così drammatico periodo di incertezza.
Schiacciata fra Trump e Putin, Bruxelles e i suoi principali partner sembrano
muoversi a sussulti in un mondo ormai radicalmente diverso dopo l’emergere
prepotente del “fattore T”. Molte le buone intenzioni e le iniziative sul
tappeto, ma senza una vera e propria strategia comune per imparare a navigare
in questi procellosi scenari.
Come al solito
arrivare a una decisione comune è estremamente difficile, come dimostrano gli
scontati rinvii dell’ultimo Consiglio europeo del 20 marzo e perfino le
ripetute riunioni dei cosiddetti “volonterosi” indette a Londra o Parigi per
definire i contorni di una “forza di garanzia o di rassicurazione” in caso di
cessate il fuoco in Ucraina.
Di fronte a questa
profondissima crisi riemergono in tutta la loro evidenza i limiti politici e
istituzionali dell’Ue. Si ripete spesso che il processo di integrazione è
destinato ad approfondirsi sotto la pressione delle crisi esterne, ma fino ad
oggi non si è visto nulla di simile, anche se nei fatti alcuni adattamenti
cominciano ad emergere.
La prima grande
novità riguarda il ruolo della Commissione europea che, come nella passata
crisi del Covid o della successiva depressione economica, ha preso anche oggi
un’iniziativa coraggiosa su materie apparentemente lontane dalle sue
competenze: il piano originario di “ReArm Europe” ampliato poi in un più
convincente “Joint White Paper for European Defence Readiness 2030”. In
mancanza di altri attori istituzionali capaci di prendere con una certa
rapidità decisioni cruciali per il futuro dell’Unione, ecco che ancora una
volta è la Commissione europea ad assumersi la responsabilità di dare la linea
agli altri organismi dell’Ue e soprattutto al Consiglio europeo e ai 27 suoi
paesi membri. Che poi l’iniziativa di Ursula von der Leyen abbia sollevato le
proteste e i dubbi dei paesi e delle forze politiche sovraniste (comprese
quelle italiane) era da mettere nel conto delle tipiche reazioni
anti-comunitarie presenti un po’ dovunque. L’importante tuttavia è che qualcuno
si sia preso la responsabilità di lanciare l’allarme e di obbligare a dare
risposte concrete in un campo, quello della difesa comune, che attende ancora
dal 1954 (fallimento della CED) di essere affrontato.
In fondo l’Ue in
tutti questi decenni è stata ciò che si definisce una “potenza civile” in un
mondo dove gli sviluppi dell’economia erano al primo posto negli interessi
globali. Ma oggi la musica è radicalmente cambiata e in un mondo marcatamente
multipolare e nel quale lo strumento della guerra sembra essere tornato
utilizzabile nelle contese internazionali l’essere “potenza civile” non è più
sufficiente. Altiero Spinelli già decenni fa parlava di Europa come “terza
potenza” per significare la necessità di completare il processo di integrazione
economica anche con la dimensione di difesa. Oggi tale esigenza rimane valida
anche se essa si sostanzia essenzialmente nella necessità di interloquire da
pari con gli altri attori multipolari a cominciare dalla Russia, ma anche e
soprattutto dagli Stati Uniti vista la loro drammatica trasformazione da
alleati indispensabili per quasi 80 anni a concorrenti feroci nei
prossimi.
Sfide e
prospettive per l’Europa nella difesa e nei negoziati internazionali
Certo non basta
Ursula von der Leyen né la sua determinazione ad incamminarsi sulla via,
soprattutto industriale, di una difesa comune e di uno sviluppo tecnologico
accelerato per aprire il confronto con le altre potenze globali. Lo può fare
nel campo degli accordi commerciali e della difesa dai dazi di Trump ove la
Commissione ha competenze esclusive. In effetti, gli accordi con il Mercosur o
i negoziati con il Messico e forse in futuro con l’India possono costituire la
giusta risposta alle follie tariffarie di Trump. Ma sul piano dei negoziati di
sicurezza o di pace la voce della Commissione non può che essere debole. Nessun
invito alla Presidente della Commissione a sedersi a qualsivoglia tavolo con
Usa, Russia e Ucraina. Cosa che a maggior ragione vale per la nuova Alto
Rappresentante, Kaya Kallas, che ha dovuto soffrire la cancellazione all’ultimo
minuto dell’incontro con la controparte americana Carlo Rubio o che ha visto
respinta dal Consiglio europeo la sua proposta di un aiuto di 40 miliardi di Euro
all’Ucraina, poi ridotta a 5 miliardi (ma senza conseguente decisione). Né
migliori sono le performance internazionali del nuovo presidente del Consiglio
europeo Antònio Costa il cui organismo di riferimento è scarsamente adatto a
prendere con rapidità e consenso decisioni vitali per l’Ue.
Se questo è lo
stato penoso del decision-making comunitario di fronte alle nuove
responsabilità di sicurezza e difesa, la reazione di alcuni stati membri, ed è
questo l’altro motivo di novità, è stata quella di fare rinascere il vecchio
concetto di “willing and able”.
Sviluppato intorno
alla seconda metà degli anni ’80 per attrezzare la Nato a operazioni fuori
dalla sua area di competenza è stato poi largamente applicato dopo il 2001 con
le iniziative di ritorsione americana all’attacco alle due Torri. Sia in
Afghanistan che in Iraq sono infatti nate le cosiddette “coalition of the
willing” che hanno permesso la partecipazione volontaria di paesi alleati degli
Usa per combattere in Medioriente. Oggi sia Macron che Starmer hanno preso in
mano le redini dei cosiddetti gruppi di volonterosi per attrezzare in questo
caso l’Ue a mantenere le proprie responsabilità in sostegno dell’Ucraina,
prevedendo anche la costituzione di una forza di garanzia in caso di pace fra
Mosca e Kyiv.
In realtà queste
iniziative, soprattutto da parte francese e degli altri membri dell’Ue che
hanno deciso di farne parte, indicano la possibile strada anche istituzionale
per uscire dal deficit decisionale dell’Ue. La nascita cioè di un gruppo di
avanguardia che decida di procedere autonomamente verso un’integrazione di
livello superiore, magari con un nuovo accordo/trattato che lasci inalterato
l’assetto del resto dell’Ue, ma che nel gruppo di testa ponga rimedio alla
paralisi istituzionale e di rappresentanza di un’Europa “potenza”. Sarà questa
l’evoluzione futura? Sarebbe certamente auspicabile, ma viste le resistenze
passate rimane poco probabile. A meno che la crisi attuale non finisca per
imporsi. Gianni Bonvicini, AffInt 29
Papa Francesco, il leader radicale che ha rotto gli schemi papali
Papa Francesco,
morto lunedì 21 aprile all’età di 88 anni, passerà alla storia come un
pontefice radicale, un campione degli “sfavoriti” che ha forgiato una Chiesa
cattolica più compassionevole, pur senza rivedere dogmi secolari.
Soprannominato “il
Papa della gente”, il pontefice argentino amava stare in mezzo al suo gregge ed
era popolare tra i fedeli, anche se ha dovuto affrontare un’aspra opposizione
da parte dei tradizionalisti all’interno della Chiesa.
Primo Papa
proveniente dalle Americhe e dall’emisfero meridionale, ha difeso strenuamente
i più svantaggiati, dai migranti alle comunità colpite dal cambiamento
climatico, che ha avvertito essere una crisi causata dall’uomo.
Tuttavia, mentre
affrontava di petto lo scandalo globale degli abusi sessuali da parte dei
sacerdoti, i gruppi di sopravvissuti sottolineavano l’inefficienza delle misure
concrete messe in atto.
Fin dalla sua
elezione nel marzo 2013, Jorge Mario Bergoglio ha manifestato l’intenzione di
lasciare il segno come leader della Chiesa cattolica. È diventato il primo Papa
a prendere il nome di Francesco, in onore di San Francesco d’Assisi, un mistico
del XIII secolo che rinunciò alle sue ricchezze e si dedicò agli ultimi. “Come
vorrei una chiesa povera per i poveri”, ha dichiarato tre giorni dopo la sua
elezione a 266° papa.
Era una figura
umile che indossava abiti semplici, evitava i sontuosi palazzi papali e
telefonava da solo, per lo più a vedove, vittime di stupro o prigionieri. L’ex
arcivescovo di Buenos Aires, amante del calcio, è stato anche più accessibile
dei suoi predecessori, chiacchierando con i giovani su temi che vanno dai
social media alla pornografia e parlando apertamente della sua salute.
Come il suo
predecessore Benedetto XVI, che nel 2013 è diventato il primo pontefice dal
Medioevo a dimettersi, anche Francesco ha sempre lasciato aperta la possibilità
di ritirarsi. Dopo la morte di Benedetto nel dicembre 2022, Francesco è
diventato il primo papa in carica nella storia moderna a presiedere un funerale
papale.
Le sue condizioni
di salute sono peggiorate progressivamente dall’intervento al colon nel 2021
all’ernia nel giugno 2023, fino a bronchiti e dolori al ginocchio che lo hanno
costretto a usare la sedia a rotelle.
I migranti e la
diplomazia vaticana
Prima della sua
prima Pasqua in Vaticano, si è recato in un carcere di Roma per lavare e
baciare i piedi dei detenuti. È stato il primo di una serie di potenti gesti
simbolici che hanno aiutato il pontefice a ottenere l’entusiastica ammirazione
globale che era sfuggita al suo predecessore.
Per il suo primo
viaggio all’estero, Francesco ha scelto l’isola italiana di Lampedusa, luogo di
ingresso per decine di migliaia di migranti che sperano di raggiungere
l’Europa, e ha denunciato la “globalizzazione dell’indifferenza”.
Ha anche
condannato i piani del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, durante il
suo primo mandato, di costruire un muro di confine contro il Messico,
definendoli “non cristiani”. Dopo la rielezione di Trump, papa Francesco ha
denunciato le deportazioni di migranti previste come una “grande crisi” che
“finirà male”.
Nel 2016, quando
la crisi migratoria europea aveva raggiunto il suo apice, Papa Francesco ha
fatto visita all’isola greca di Lesbo, portando con sé tre famiglie di
musulmani siriani richiedenti asilo e tornando a Roma.
Si è anche
impegnato per la riconciliazione interreligiosa, baciando il patriarca
ortodosso Kirill di Mosca in uno storico incontro nel febbraio 2016 e
lanciando, nel 2019, un appello congiunto per la libertà di credo con il
principale chierico sunnita, Sheikh Ahmed al-Tayeb.
Francesco ha
rivitalizzato la diplomazia vaticana anche in altri modi, contribuendo a
facilitare il riavvicinamento storico tra Stati Uniti e Cuba e incoraggiando il
processo di pace in Colombia. Ha inoltre cercato di migliorare i legami con la
Cina, raggiungendo un accordo storico nel 2018 sulla nomina dei vescovi,
accordo che però è stato criticato.
Appello per il
clima
Gli esperti hanno
attribuito a Francesco il merito di aver influenzato gli storici accordi sul
clima di Parigi del 2015 con la sua enciclica “Laudato si'”, un appello
all’azione sul cambiamento climatico basato sulla scienza. Egli ha sostenuto
che le economie sviluppate sono responsabili di un’imminente catastrofe
ambientale e, in un nuovo appello del 2023, ha affermato che alcuni dei danni
sono ormai irreversibili.
Sostenitore della
pace, il pontefice ha ripetutamente denunciato i produttori di armi e ha
affermato che è in corso una Terza guerra mondiale, a causa della miriade di
conflitti che si registrano in tutto il mondo. Tuttavia, i suoi interventi non
hanno sempre riscosso consensi e ha scatenato l’indignazione di Kyiv dopo aver
elogiato coloro che, nell’Ucraina devastata dalla guerra, hanno avuto il
“coraggio di alzare bandiera bianca e negoziare”.
Nelle sue modeste
stanze nella foresteria vaticana di Casa Santa Marta, Francesco affrontava lo
stress scrivendo i suoi problemi in lettere a San Giuseppe. “Dal momento in cui
sono stato eletto, ho provato una sensazione molto particolare di pace profonda.
E questo non mi ha mai abbandonato”, ha dichiarato nel 2017.
Amava anche la
musica classica e il tango, tanto che una volta si era fermato in un negozio di
Roma per acquistare dei dischi.
Chi sono io per
giudicare?
Gli ammiratori di
Francesco gli attribuiscono il merito di aver trasformato la percezione di
un’istituzione che, al momento del suo insediamento, era afflitta da scandali,
riportando all’ovile i fedeli che si erano allontanati.
Sarà ricordato
come il Papa che, in merito ai cattolici gay, ha affermato: “Chi sono io per
giudicare?”.
Ha permesso ai
divorziati e ai risposati di ricevere la comunione, ha approvato il battesimo
dei transgender e la benedizione delle coppie omosessuali.
Tuttavia, ha
abbandonato l’idea di permettere ai sacerdoti di sposarsi, dopo un’ondata di
proteste, e, nonostante abbia nominato diverse donne a posizioni di rilievo
all’interno del Vaticano, ha deluso le aspettative di chi auspicava
l’ordinazione delle donne.
I critici lo hanno
accusato di aver manomesso pericolosamente i principi dell’insegnamento
cattolico e le sue riforme hanno sollevato una forte opposizione.
Nel 2017, quattro
cardinali conservatori hanno lanciato una sfida pubblica senza precedenti alla
sua autorità, affermando che le sue riforme avevano seminato confusione
dottrinale tra i credenti.
Tuttavia, la sua
Chiesa non ha mostrato alcuna intenzione di allentare il divieto di
contraccezione artificiale o di modificare la propria posizione riguardo al
matrimonio gay, ribadendo che l’aborto è “omicidio”.
Francesco ha anche
spinto le riforme all’interno del Vaticano, come permettere ai cardinali di
essere processati da tribunali civili o rivedere il sistema bancario della
Santa Sede.
Ha anche cercato
di affrontare il problema enormemente dannoso degli abusi sessuali da parte dei
sacerdoti, incontrando le vittime e giurando di chiamare i responsabili a
risponderne. Ha aperto gli archivi vaticani ai tribunali civili e ha reso
obbligatorio segnalare alle autorità ecclesiastiche i sospetti di abusi o il
loro insabbiamento. Tuttavia, i critici affermano che la sua eredità sarà una
Chiesa che fatica a consegnare i preti pedofili alla polizia.
Prima di divenire
Papa
Jorge Mario
Bergoglio è nato in una famiglia di emigranti italiani a Flores, un quartiere
borghese di Buenos Aires, il 17 dicembre 1936. Primogenito di cinque figli,
come scrive il biografo Paul Vallely, è “nato argentino ma cresciuto a pasta”.
A partire dai 13
anni lavorò in una fabbrica di calze nel pomeriggio, mentre di mattina studiava
per diventare tecnico chimico. In seguito, per un breve periodo, fece il
buttafuori in un locale notturno.
Si dice che gli
piacessero il ballo e le ragazze, al punto da chiederne una in sposa prima che,
all’età di 17 anni, scoprisse la vocazione religiosa. In seguito, Francesco
raccontò di un periodo di agitazione durante la sua formazione gesuita, quando
si invaghì di una donna incontrata a un matrimonio di famiglia.
A quel punto era
sopravvissuto a un’infezione quasi mortale che aveva comportato l’asportazione
di parte di un polmone. L’insufficienza respiratoria aveva compromesso le sue
speranze di diventare missionario in Giappone. Fu ordinato sacerdote nel 1969 e
nominato provinciale dei Gesuiti in Argentina solo quattro anni dopo.
Il suo periodo
alla guida dell’ordine, che ha coinciso con gli anni della dittatura militare
in Argentina, è stato difficile. I critici lo accusarono di aver tradito due
sacerdoti radicali che erano stati imprigionati e torturati dal regime. Non è
mai emersa alcuna prova convincente di questa affermazione, ma la sua guida
dell’ordine ha creato divisioni e, nel 1990, fu degradato ed esiliato a
Córdoba, la seconda città più grande dell’Argentina.
Poi, a 50 anni, la
maggior parte dei biografi lo descrive come un uomo che ha attraversato una
crisi di mezza età. Ha deciso di intraprendere una nuova carriera nel
mainstream della gerarchia cattolica, reinventandosi prima come il “vescovo dei
bassifondi” di Buenos Aires e poi come il papa che avrebbe rotto gli schemi.
AFP/AffInt 22
Europa: vecchie e nuove sfide. Cosa c’è dietro l’angolo?
L'eurocentrismo è
consegnato al passato. Ora i Ventisette hanno di fronte scenari inediti,
rispetto ai quali si possono serrare i ranghi oppure rischiare l'implosione. Le
risposte sono - forse - più vicine di quanto si pensi – di Gianni Borsa
Succede così:
l’Europa si porta nello zaino alcune sfide “storiche”, in parte risolte, in
parte no. Alle quali se ne aggiungono sempre di nuove. Tra quelle consegnate
dal passato si possono ricordare, senza ambire alla completezza, la costruzione
della pace – primo vero e grande obiettivo comune –, la realizzazione di un
solido e vantaggioso mercato unico senza barriere (libera circolazione delle
persone, delle merci, dei servizi e dei capitali), la promozione del benessere
e della sicurezza per tutti i suoi cittadini, la cooperazione internazionale e
l’“apertura al mondo”.
Nel tempo si sono
aggiunte altre “frontiere”: l’invecchiamento della popolazione e la crisi
demografica, mentre in altre regioni del pianeta nascono tanti figli e la media
d’età è giovane e promettente; l’avanzare del cambiamento climatico e la
necessità di proteggere l’ambiente naturale e umano; l’indebolirsi della
democrazia partecipativa e l’emergere prepotente di populismi e nazionalismi;
le instabilità politiche di diverse regioni attorno all’Europa. Quindi le
pressioni migratorie, il Covid, la guerra in Ucraina (dopo quella nei Balcani).
Per arrivare alla guerra commerciale scatenata da Trump.
L’Europa ha una
storia millenaria. Sempre costellata di nuove vicende, di guerre e di periodi
di pace, di cadute e di riprese sorprendenti. È stata al “centro della storia”
per secoli (anche in periodo bui, come il colonialismo…). Ora la storia è
cambiata e sia ha la convinzione che l’“eurocentrismo” sia finito da un pezzo.
Ciò non toglie che ancora oggi, nella versione dell’Unione europea, 27 Stati
collaborino in diversi ambiti – politico, istituzionale, economico, forse
persino militare – con obiettivi e regole comuni e con modalità che non si
riscontrano in nessun’altra parte del mondo. Talvolta con successi evidenti,
altre volte con ritardi, errori, equivoci.
È quanto avviene
ancora oggi. La questione difesa-riarmo, i dazi statunitensi, le preoccupanti
dinamiche dell’economia, le prospettive della rivoluzione digitale,
l’accoglienza (o meno) dei migranti, le profonde differenze interne negli
standard di vita e di welfare, il prospettato Green Deal: sono tutti capitoli
aperti, nei quali l’Ue fatica a trovare il bandolo della matassa.
Così l’Unione
europea è, ancora una volta, a rischio implosione; ma neppure si può escludere
che la ricerca di risposte “a 27” – o a geografie variabili? – alle sfide in
atto possa rilanciare lo spirito della “casa comune”. I giochi sono aperti:
occorrerebbero leadership realmente europeiste, convinte che l’unione fa la
forza, e cittadini che si sentano tali dell’Europa, oltre che dei rispettivi
Paesi membri. Sentenze certe al momento non ce ne sono, ma potremmo averne
molto presto.
Sir 16
Il Parlamento italiano omaggia Papa Francesco
Cerimonia a Camere
riunite per rendere omaggio al Pontefice defunto - Di Marco Mancini
Roma. Con una
cerimonia solenne il Parlamento italiano ieri ha ricordato la figura di Papa
Francesco, morto lunedì scorso all’età di 88 anni.
Ad aprire la
seduta ieri pomeriggio il Presidente della Camera dei Deputati Lorenzo Fontana.
“E’ stato il primo a chiamarsi Francesco. La scelta di quel nome fece
subito comprendere l'attenzione che avrebbe avuto per gli ultimi, per le
persone malate e per chi soffre”, le parole della terza carica dello Stato
mentre per il Presidente del Senato Ignazio La Russa Papa Francesco “è' stato
un autentico testimone di fede vissuta, capace di incarnare fondamentali valori
di misericordia e solidarietà. La sua attenzione verso gli ultimi, verso i più
fragili, e verso gli emarginati, ha superato le diversità religiose e
spirituali ed è diventata una continua esortazione ai leader del mondo a
lavorare insieme per la pace, il bene comune e il rispetto della dignità di
ogni persona”.
Per il governo ha
preso la parola in chiusura di seduta la Presidente del Consiglio Giorgia
Meloni. "Siamo qui per rendere omaggio ad un grande uomo e ad un grande
Pontefice. Papa Francesco era un uomo che sapeva essere determinato, quando
parlavi con lui non c'erano barriere. Ha restituito voce a chi non l'aveva
anche rompendo gli schemi. Il mondo ricorderà Francesco come pontefice degli
ultimi, ha saputo interpretare in modo nuovo molte cose, diceva che la
diplomazia è un esercizio di umiltà, e ha detto che la politica serve e che di
fronte a tante forme di politica meschine, la sua grandezza si mostra quando si
opera basandosi sui grandi principi, con lungimiranza" .
La salma del Papa,
che già martedì mattina aveva ricevuto a Santa Marta l’omaggio del Presidente
della Repubblica Sergio Mattarella, ieri è stata omaggiata nella Basilica
Vaticana anche dalla Presidente del Consiglio dei Ministri Giorgia Meloni che –
a nome del governo – aveva già proclamato cinque giorni di lutto nazionale.
Presenti a San Pietro anche il Ministro degli Esteri Antonio Tajani ed il
Ministro della Difesa Guido Crosetto. Aci 24
25 aprile 2025, 80 anni della Liberazione. Acli Baviera: 80 anni di libertà
e democrazia
Le Acli Baviera, a
distanza di 80 anni, intendono onorare il ruolo svolto dalle truppe alleate in
Italia, Americani, Inglesi, Polacchi e quanti altri, che nella fase finale
della seconda guerra mondiale, a partire dal settembre 1943, sostenuti dal
movimento partigiano, una Resistenza fondamentale nel recupero di una dignità
nazionale antifascista, hanno creato le condizioni, in Italia, per la
riaffermazione della libertà e democrazia.
Le ACLI Baviera
desiderano contribuire a rendere questa memoria storica responsabilità comune,
diffusa e popolare, radicata negli uomini e donne di buona volontà, perché
costituiscono il fondamento e i valori della Costituzione attuale della
Repubblica italiana, che senza quell’esperienza di sacrificio ed abnegazione
non sarebbe fiorita dalle ceneri della guerra e del fascismo. La Resistenza
incarna la volontá precisa, un impegno di coraggio ad opporsi al regime
fascista persecutorio e vile. Esso non produsse singoli responsabili di episodi
efferati; dietro ai sicari, una moltitudine che quei delitti ha coperto con il
silenzio e una codarda rassegnazione, una classe dirigente sospinta
dall’inettitudine e dalla colpa verso la totale rovina.
Se gelosamente
conservata, la memoria, sarà capace di generare nuova passione umana e civile
per nutrire una speranza condivisibile per il futuro. Ma il ricordo interpella
anche il ruolo delle Istituzioni, perché ad esse è affidato precipuamente il
compito di sostenere e forse anticipare la coscienza collettiva di una
Comunità, nei loro gesti vi è una valenza pedagogica irrinunciabile. La memoria
costituisce il debito inestinguibile da pagare verso questi Eroi e Martiri
della democrazia, avversari, a costo della propria vita, di tutte le forme di
dittatura, razzismo e genocidio. Essa
non ci rende prigionieri del passato, se riappropriarsi del ricordo del patire
e delle speranze spinge ad impegnarsi per una nuova stagione di libertà e
liberazione.
Il Presidente
regionale ACLI Baviera, dip 25
Alessandro Bove, virtuoso pianista lucano a Stoccarda
L’arte in genere,
ma la musica in, non conosce confini. Anzi i musicisti, come del resto i
cantanti, devono la loro notorietà ai tour e alle permanenze all’estero sia per
apprendere e affinare ulteriormente le tecniche e le virtuosità apprese in
Italia e sia per diffonderle nei paesi di accoglienza.
È quanto sta
vivendo Alessandro Bove a Stoccarda. Nato a Potenza (Basilicata), fin da
giovanissimo ha intrapreso la strada del Conservatorio diplomandosi
brillantemente in pianoforte a Siena spianando così la strada per un
Masterclass di Alto perfezionamento a Napoli e Parigi.
Fra i suoi
illustri Maestri spiccano l’argentino Hector Moreno e gli italiani Carlo Grante
ed Aldo Ciccolini.
La sua bravura gli
ha consentito di vincere numerosi concorsi, fra i quali l’Amadeus della città
di Taranto, Armonium Messapiae di Lecce, la Città di Cercola – Napoli e
Samik di Montecatini Terme.
Alessandro Bove
coltiva però anche una grande passione per l’insegnamento iniziata fin dall’età
di 15 anni. A lui, infatti, piace molto trasferire i suoi saperi musicali agli
adolescenti in modo da creare le basi per un ricambio generazionale.
È co-fondatore del
Lucus Trio e pianista/maestro del Coro polifonico dell’Università degli Studi
della Basilicata (Unibas).
Nel 2022 dopo il
riposo forzato del Covid decide di trasferirsi a Stoccarda, città che anche per
la musica gode di una grande fama internazionale, tant’è che in poco tempo
riesce ad inserirsi a pieno titolo nel variegato panorama della musica
pianistica, conquistando piacevoli collaborazioni in attività concertistiche
anche in Svizzera, Francia e Italia.
Attualmente sta
alacremente lavorando ad un progetto discografico per pianoforte.
La scelta della
Germania è stata dunque provvidenziale:
“La Germania è un
paese che mi attraeva fin dalla gioventù, oggi ancora di più — oltre la
bellezza del territorio — per le opportunità musicali e culturali, come anche
per l’apertura verso progetti internazionali.
Che grado
d’integrazione concertistica, sociale e culturale sei riuscito a raggiungere in
poco più di tre anni?
Mi sono inserito
nel panorama concertistico tra collaborazioni con istituzioni culturali e
artisti di un ampio e ricco panorama musicale.
Quali sono stati
gli scogli più difficili da superare?
La lingua, la
burocrazia e costruire una rete solida in un ambiente molto competitivo, seppur
ricco di opportunità per uscire dalla propria zona comfort.
Un pianista vive
di attività concertistica e d’insegnamento. Come ti sei inserito in questo
mercato, ricco di concorrenza internazionale?
Attraverso
concerti, collaborazioni varie e progetti con istituzioni locali e
internazionali.
Ti reputi un
concertista solista o di far parte di un ensemble?
Principalmente
solista, ma la musica da camera, nonché la collaborazione con cantanti, resta
sempre una passione e un impegno costante.
Quali sono le
proposte che riscuotono un maggiore interesse di pubblico?
Ho scelto di
vivere in un Paese di grandi compositori, di conseguenza in un contesto dove la
sensibilità e l’attenzione per la musica sono molto alte; Va da sé che il
repertorio che si può proporre è decisamente ampio: resta un amore innato per i
grandi compositori del passato ma al contempo si nota una grande voglia di
innovazione, scoperta, novità ed apertura ad un linguaggio che è in costante
evoluzione. Al di fuori della Germania ho riscontrato essere di particolare
impatto eseguire composizioni famose di grandi autori classici e romantici,
visto l’amore nei confronti della tradizione sempre molto importante.
Hai fatto delle
incisioni?
Sì, e sto
lavorando a nuove produzioni.
Partecipi a
Festival, concorsi nazionali italiani ed internazionali?
Certamente,
soprattutto in contesti che valorizzano la musica classica e contemporanea.
Qual è il
beneficio che se ne trae?
I benefici più
importanti sono visibilità, crescita artistica e l’opportunità di costruire
nuove collaborazioni.
Che opportunità ti
sta dando la Germania ed in particolare Stoccarda?
Un ambiente
stimolante con un forte interesse per la musica classica, la possibilità di
sviluppare progetti culturali e non ultimo siamo nel cuore d’Europa.
La fase di
recessione economica in atto in Germania tocca anche il vostro settore
concertistico?
Stiamo vivendo un
periodo storico molto importante, alla luce degli avvenimenti a cui ogni giorno
assistiamo, inevitabilmente tutti i settori subiscono, l’arte tutta non è
dispensata; il concerto resta comunque un momento di condivisione a cui le
persone non vogliono rinunciare.
Voi artisti avete
anche una sorta di salvataggio sociale?
Probabilmente sì,
come in ogni settore suppongo.
Ed ora qualche
curiosità: Quante ore trascorri giornalmente al pianoforte?
Dipende dai
periodi, dalle tre ore per mantenere una pratica costante e mirata fino a anche
10/12 ore in periodi particolari, per esempio prima di concerti, in fase di
preparazione a una registrazione o altro.
Che disagio o male
può causare la velocità sulla tastiera?
La preparazione è
una costante attitudine psicofisica. Per un musicista in generale, e nel mio
caso specifico un pianista, la domanda si pone al contrario: ,,Come si riesce
ad evitare di incorrere in infortuni legati alla velocità / al virtuosismo?”
Vista l’importanza anche della condizione fisica, presto costantemente
attenzione a un “allenamento adeguato”, postura giusta (non soltanto al
pianoforte), tanto stretching ed evitare sforzi che possano compromettere il
mio lavoro.
Dove ti eserciti?
Nel mio studio,
dove posso concentrarmi senza distrazioni.
Qual è il rapporto
col vicinato?
Oggi positivo
poiché da più di un anno abito in una casa singola dove posso studiare e
suonare anche di notte. Il vicinato è molto gentile e mi trovo decisamente
bene. Prima era ovviamente difficile perché in un appartamento bisogna trovare
il giusto compromesso tra le necessità dello studio e il rispetto degli orari
previsti.
Come fai a farti
conoscere?
Attraverso
concerti, collaborazioni e figure scelte di riferimento per promuovere i miei
progetti e per creare contatti nuovi.
Hai un’agenzia di
riferimento?
Sto valutando
collaborazioni con agenzie, ma ad oggi mi muovo autonomamente. Poi, come detto
precedentemente, ci sono diverse figure che promuovono i miei progetti.
Quali autori
garantiscono il pienone di una sala?
Il pienone di una
sala è garantito soprattutto dalla figura dell’artista e dall’organizzazione
dell’evento. Generalmente p.e. i Festival attirano un pubblico che di per sé
assicura il pienone anche indipendentemente dall’autore. Comunque i grandi
classici partendo da Bach, arrivando a Rachmaninov e oltre sono quasi sempre
una garanzia. Opere famose e autori conosciuti sono di sicuro una buona
ricetta, è anche importante però valutare bene il contesto e il pubblico legato
ad esso, soprattutto quando si presentano programmi più particolari.
Per esperienza,
che cosa chiede il pubblico?
Questa è una
domanda difficile in quanto molto generica – come detto sopra, dipende dai
posti, dalle abitudini e interessi del pubblico specifico. In generale si può
sicuramente dire che il pubblico desidera vivere emozioni e coinvolgimento,
oltre a un’esperienza unica che rende il concerto un momento da ricordare.
Che reazione
registri a nuove proposte di musica da camera? Per esempio, in Germania,
Italia, Svizzera, Francia e Austria?
Dalla mia
esperienza, in Germania e Austria c’è più apertura alla sperimentazione, mentre
in Italia il pubblico è più legato alla tradizione.
Chi fa da tramite
per esplorare “nuovi mercati” europei ed extraeuropei?
Ci sono diverse
strade, ma restano sicuramente sempre importanti i contatti con istituzioni, la
partecipazione a Festival e collaborazioni con altri artisti, oltre a figure
all’interno del settore.
Avete dei fans che
vi seguono costantemente come avviene in altri ambiti della musica?
Sì e no. Di certo
un musicista classico non è paragonabile a una rock star, ma ci sono comunque
fans o ammiratori che seguono concerti, pubblicazioni sia in forma liquida che
fisica (disco). Certamente si creano anche nell’ambito della musica classica dei
„legami“ tra l’artista e il pubblico.
Come superate lo
strapazzo delle dita?
Non è un problema
delle dita per quanto mi riguarda, piuttosto il punto è un costante “sano
atteggiamento psicofisico”.
Ormai la
tecnologia è entrata a far parte anche nel mondo della partitura o spartito.
Rimpiangi la carta?
Uso entrambi, ma
la carta mantiene sempre un fascino speciale. Sono comunque convinto che
l’apertura mentale sia un atteggiamento indispensabile, e nel caso degli
sviluppi tecnologici essere al passo con i tempi permette di percepire e quindi
usufruire dei vantaggi di entrambi.
Quanto ti senti
appagato?
Per me
l’appagamento è un concetto difficile in quanto tende facilmente a trasformarsi
nella sensazione di essere arrivati in un certo senso, e quindi di poter o
voler fermarsi – il ciò porta spesso allo spegnimento. Io vivo la vita e la
musica come una ricerca continua. La volontà di andare sempre oltre, di porsi
nuovi obbiettivi, di oltrepassare l’orizzonte appena raggiunto è una condizione
sine qua non. Per dirlo alla Faust: Mi sento appagato proprio perché non arrivo
a quel momento dove potrei dire a quell’attimo: fermati dunque, sei così bello!
Che legame riesci
a mantenere con la tua Basilicata, oltre a quello affettivo?
Attraverso
collaborazioni culturali e ritorni per eventi musicali.
Dove vedi il tuo
futuro?
Ovunque con la
musica!
Tony Màzzaro, CdI
on. 15
Monaco di Baviera. ILfest – Italienisches Literaturfestival München 2025
Celebrazione della
storia attraverso la letteratura italiana
Dal 9 all’11
maggio 2025, Monaco di Baviera accoglierà la settima edizione de ILfest –
Italienisches Literaturfestival, il prestigioso evento dedicato alla
letteratura italiana in Germania. Organizzato da Elisabetta Cavani di ItalLIBRI
e dall’Istituto Italiano di Cultura diretto da Giulia Sagliardi, il festival
gode del patrocinio del Consolato Generale d’Italia a Monaco di Baviera e del
sostegno dell’Assessorato alla cultura della città di Monaco.
Tema del 2025:
„Come si racconta la storia?“
Quest’anno ILfest
esplora il tema intrigante di „Come si racconta la Storia?“, riflettendo
sull’impatto delle vicende storiche nel contesto dei romanzi e saggi
contemporanei. A 80 anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, il festival
esamina come la letteratura italiane affronta temi di violenza, pace e memoria
storica. I libri in programma non solo narrano storie individuali, ma
riflettono anche sul ruolo della letteratura nel contesto delle narrazioni
ufficiali e personali.
Autori e opere in
evidenza:
Tra gli ospiti
illustri, Francesca Melandri presenterà „Piedi freddi“, mentre Gian Marco
Griffi discuterà del suo acclamato „Le ferrovie del Messico“. Stefano Nazzi
esplorerà „Canti di guerra“, ambientato nella Milano degli anni Settanta,
mentre Federica Manzon offrirà uno sguardo su „Alma“, vincitore del Premio
Campiello 2024. Marco Balzano presenterà il suo nuovo romanzo „Bambino“,
ambientato a Trieste in periodi chiave del Novecento.
Eventi speciali:
ILfest non si
limita alla letteratura per adulti ma include anche eventi per ragazzi, come le
letture di Manlio Castagna e la giuria del Premio ILfest Giovani che presenterà
romanzi per adolescenti. La Stadtbibliothek Neuhausen offrirà letture per
bambini in italiano, promuovendo la cultura e la lingua italiana tra i giovani.
Conversazioni e
incontri culturali:
Un momento
imperdibile sarà la conversazione tra Roberto Cepach del LETS – Museo della
letteratura Trieste e Alessandro Melazzini, regista del documentario „Italo
Svevo. Scrivere nascosto a Trieste“. Questo incontro offre uno sguardo
approfondito sulla storia e la cultura di Trieste, una città che ha influenzato
significativamente la letteratura del Novecento.
Partecipazione e
biglietti:
Il programma
dettagliato è disponibile sul sito ufficiale del festival www.ilfest.de, dove è
possibile acquistare i biglietti per gli eventi. Moderatori e interpreti
garantiranno la traduzione in tedesco per un’esperienza inclusiva e accessibile
a tutti.
ILfest –
Italienisches Literaturfestival München 2025 promette di essere un evento
imperdibile per gli amanti della letteratura italiana e per chi desidera
esplorare la storia attraverso le parole degli autori contemporanei. CdI on 17
La “Festa dell’Europa e degli italiani all’estero” il 9 maggio con
CabriniLand
Berlino - In
occasione della Giornata dell’Europa, l’Associazione CabriniLand ha lanciato un
invito rivolto a tutti i Com.It.Es, alle associazioni, agli enti e ai cittadini
italiani nel mondo per partecipare attivamente alla “Festa dell’Europa e degli
italiani all’estero, ambasciatori di italianità”, un evento virtuale e diffuso
che si svolgerà il 9 maggio 2025, nato con l’idea di unire culture, esperienze
e cuori sotto il segno dell’italianità e dell’Europa, con uno sguardo di pace,
solidarietà e memoria viva.
L’evento si terrà
online, all’interno di uno spazio simbolico: la Casa Natale di Santa Francesca
Cabrini, ricostruita virtualmente per accogliere una celebrazione condivisa e
globale. La Casa Natale di Santa Francesca Cabrini, a Lodi, è un luogo di memoria
e spiritualità, dedicato alla Patrona Universale degli Emigranti.
CabriniLand ha
spiegato che ogni partecipante potrà organizzare un micro o macro evento nel
proprio Paese, che sia un incontro, un convegno, un brindisi, o anche
attraverso una foto, un breve video, una diretta web da condividere online e
inviare all’indirizzo cabriniland@gmail.com.
Tutti i contributi
saranno pubblicati sulla pagina di CabriniLand.
Ad oggi, hanno già
confermato la propria partecipazione la presidente della Commissione Esteri del
Senato, alcuni parlamentari europei, rappresentanti CGIE e varie associazioni.
L’iniziativa si
ispira a Santa Francesca Saverio Cabrini, Patrona universale degli emigranti, e
ha come obiettivo quello di percorrere “il Cammino del Cuore”, un itinerario
simbolico e spirituale ma anche un “Cammino” dedicato a chi ha lasciato
l’Italia per costruire ponti nel mondo. Il messaggio guida è ispirato alle
parole di Papa Francesco: “Dobbiamo disarmare le parole, per disarmare le menti
e disarmare la Terra”. (aise/dip)
Friburgo/Brsg. “Storie di Volti” dedicato alla scienza
Friburgo. In
occasione dell’ottava Giornata della ricerca italiana nel mondo si è tenuto al
Planetario di Friburgo il tredicesimo appuntamento di “Storie di Volti”
dedicato alla scienza, promosso dal Consolato d’Italia. “La realtà di Friburgo
–si legge nella nota del Consolato – è nota nel contesto tedesco per la
presenza di numerosi centri di ricerca di eccellenza, per la sua prestigiosa
università e clinica universitaria. Moltissimi dei più di 60.000 connazionali
che vivono nel territorio della Circoscrizione di Friburgo, sono impiegati in
questi contesti e ricoprono spesso in essi posizioni di rilievo. Nella sera del
10 aprile, nel formato previsto da Storie di Volti, abbiamo ascoltato i
percorsi accademici, lavorativi e di vita di sei connazionali che da tempo
vivono a Friburgo. Da Giampietro Moras, responsabile simulazioni multiscala
dell’Istituto Fraunhofer IWM dedicato alla meccanica dei materiali, a Edoardo
Carnio e Giulio Rossi ricercatori fisici quantistici e medici che ricoprono
posizioni di prestigio presso l’università e la clinica universitaria, passando
poi all’ascolto dell’esperienza di un professore di elettronica Paolo Guagni,
di una project manager e di una key account manager in ambito farmaceutico,
Daria Monaldi e Valentina Marchesin. Tutti i percorsi dei connazionali sono
iniziati in Italia a dimostrazione della solidità del nostro sistema di
formazione e della qualità della ricerca e dell’alta formazione che il nostro
Paese sa assicurare. Come Consolato abbiamo deciso di valorizzare la loro
attività attuale e anche il loro percorso fatto di sacrifici e di resilienza e
di intraprendenza per continuare la loro carriera all’estero. I sei relatori
hanno saputo, al contempo, promuovere un’immagine moderna e dinamica
dell’Italia di fronte al numeroso pubblico italiano e tedesco presente.
L’evento si è svolto nella splendida cornice del Planetario di Friburgo,
scelto come luogo simbolo della ricerca e della capacità di andare oltre i
confini, e catalizzatore per il coinvolgimento tra il pubblico di
rappresentanti delle istituzioni scientifiche tedesche locali. Non poteva
mancare, in una circoscrizione nella quale la comunità è composta in gran parte
da giovani, un intervento dedicato alle future generazioni con lo stimolante
discorso dell’ingegnera Annamaria Nassisi in collegamento da Roma, che si
occupa da più di trent’anni di sistemi per l’osservazione della Terra e che con
la sua associazione e il suo esempio avvicina le giovani studentesse al mondo
STEM”. (Inform/dip 17)
A Colonia successo per “Approdi d'Autore”
"A Colonia ho
avuto il piacere di partecipare attivamente ad una serata di grande ispirazione
con “Approdi d’autore”: la premiazione degli scrittori di Graus Edizioni ha
celebrato il valore della cultura e delle parole degli Italiani in Germania.
Particolarmente
emozionante la proiezione del film "Global Harmony" di Fabio Massa,
che ci ricorda quanto sia urgente e necessario costruire ponti tra le persone e
i popoli.
La serata ha
previsto la premiazione sia di autori Graus italo-tedeschi sia di diversi
rappresentanti istituzionali: Gabriele Italia, Vincenzo Errico, Vincenza
Sanfilippo, Luigi Scotti, Mauro Pecchioli, Giovanni Falcone, Matilde Tortora,
Enrico Lo Verso, Luca Paglia, Maurizio Giangreco, Steffen Neck, il Sindaco di
Colonia Henriette Reker, l’Onorevole Simone Billi.
Hanno ricevuto una
menzione: Maurizio Del Greco, Patrizia Pili, Giuseppe Tecce, Antonio Pacifico,
Tommasina Crugliano.
Desidero
complimentarmi e ringraziare Maurizio Del Greco e Patrizia Pili per l’ottima
organizzazione e l’editore Piero Graus per promuovere questi importanti momenti
di condivisione e valorizzazione della cultura italiana all’estero" - lo
comunica Simone Billi, deputato per la Circoscrizione Estero-Europa e
presidente del Comitato sugli Italiani nel Mondo. Dip 18
"Francesco, un Papa figlio di emigranti": l’omaggio del Mei
Il Museo Nazionale
dell’Emigrazione Italiana di Genova ricorda con profonda commozione Papa
Francesco, scomparso lunedì, con un omaggio speciale intitolato: “Francesco, un
papa figlio di emigranti”, proiettato da oggi e fino a sabato 26 aprile, giorno
delle esequie, nella Sala Mostre Multimediali del museo e disponibile anche
online sul canale youtube del Mei.
Un gesto di
riconoscenza e affetto verso il Santo Padre, che nel corso del suo pontificato
non ha mai dimenticato le proprie origini italiane e l’esperienza di figlio di
emigranti, testimoniando fino all’ultimo il valore dell’accoglienza, della
dignità e della fraternità tra i popoli.
“Papa Francesco è
stato sempre fiero delle sue origini italiane”, ricorda Paolo Masini,
Presidente della Fondazione MEI. “Un’eredità che ha segnato molti aspetti del
suo pontificato, lasciando un’orma indelebile di cui tutti noi dobbiamo avere
cura. Con questo piccolo tributo, vogliamo ricordare la sua storia e il suo
messaggio universale”.
La clip con la
voce narrante di Massimo Wertmuller è stata realizzata in collaborazione con il
MUDEM Museo della Moneta della Banca d’Italia. Protagonista Jorge Mario
Bergoglio, nato nel 1936 a Buenos Aires, figlio di Mario Bergoglio e Regina
Maria Sivori, emigrati dall’Italia all’Argentina. I nonni paterni, Giovanni
Bergoglio e Rosa Vasallo, vivevano a Bricco Marmorito di Portacomaro Stazione,
in provincia di Asti, dove tentarono prima la via dell’agricoltura e poi quella
del commercio, senza successo. Le difficili condizioni economiche, unite alle
prospettive offerte dai parenti già emigrati, spinsero la famiglia a partire.
Il 1° febbraio
1929 si imbarcarono a Genova sul piroscafo Giulio Cesare, diretti a Buenos
Aires. Una scelta coraggiosa che ha segnato il destino della famiglia e che ha
contribuito a plasmare la sensibilità e il pensiero di Papa Francesco,
profondamente attento ai temi della migrazione, delle periferie e dell’incontro
tra i popoli.
Tra i simboli più
significativi di questa storia c’è il cedolino originale della Banca d’Italia
relativo a Mario Bergoglio, padre del Santo Padre, che lavorò presso la filiale
di Asti a partire dal 1926. In quel documento - oggi conservato presso l’Archivio
storico della Banca d’Italia - Mario viene descritto come “un giovane dotato di
intelligenza, capace, assiduo e galantissimo”. Nonostante l’impegno e le
qualità riconosciute, il suo stipendio era modesto: 300 lire mensili, poi
aumentate a 350 lire nel 1928.
Il MEI nei mesi
scorsi ha fatto pervenire il documento a Papa Francesco, come gesto simbolico
di memoria e di restituzione di un frammento importante della sua storia
familiare.
Un gesto che non
solo ha fatto commuovere il Santo Padre – ricorda il Mei – ma che l’ha portato
a commentare il ruolo rigoroso della nonna anche rispetto all’educazione di suo
padre. Un atto che ha rappresentato per il museo, e per il Santo Padre stesso,
un momento di grande emozione: consegnare quel piccolo pezzo di carta, così
carico di storia e significato, è stato gesto di riconoscenza verso una vicenda
familiare che rappresenta la storia di tanti italiani.
Una storia
protagonista del PCTO realizzato da Banca d’Italia e MEI con gli studenti della
scuola di Olivos, in Argentina.
Il video può
essere visionato e scaricato a questo link https://www.youtube.com/watch?app=desktop&v=NUGieWSOF1I&feature=youtu.be
Aise/Dip
Francoforte. A questo serve la memoria: a scrivere meglio la nostra storia
1945-2025 – A 80
anni dalla fine del secondo conflitto mondiale.
Oggi, 25 aprile, Festa
della Liberazione, parliamo di un evento, la Giornata dei valori democratici,
il cui obiettivo è sensibilizzare i giovani ai valori della democrazia, della
libertà, beni comuni, mai definitivamente acquisiti ma che vanno salvaguardati,
difesi e portati avanti. In quattro anni la Giornata dei valori democratici, un
progetto ANPI Francoforte, ha coinvolto seicento alunne e alunni delle classi
bilingue in Germania. Di Paola
Colombo
Il titolo è preso
da un lavoro di ricerca di alunne e alunni che hanno partecipato alla Giornata
dei valori democratici di quest’anno. „Tanti sono stati i martiri della follia
nazifascista, ma a volte è bene concentrarsi su un singolo episodio per innalzarsi
e avere uno sguardo più ampio sullo stato del mondo in cui viviamo e il
passato, se rivisitato con la dovuta attenzione, è un ottimo punto di partenza
per capire il presente e immaginare il futuro“, così Donato Prosdocimo, socio
ANPI Frankfurt, la sezione che ha dato vita quattro anni fa al progetto
Giornata dei valori democratici.
Il 31 marzo scorso
si è svolta la quarta edizione Giornata dei valori democratici, un progetto di
ricerca storica sulla Resistenza, sugli anni fondamentali che hanno portato
alla fine della Seconda guerra mondiale e alla fondazione della Repubblica
italiana con la Costituzione. Il progetto ha coinvolto diverse scuole bilingui
della Repubblica federale, coadiuvati dai/dalle loro insegnanti. I lavori sono
stati presentati nel liceo bilingue Freiherr-vom-Stein di Francoforte, che
quest’anno ha ospitato la Giornata dei valori democratici. Il tema di
quest’anno sono state le storie degli IMI, gli internati militari italiani e
degli internati nei lager. La Giornata dei valori democratici ha visto la
partecipazione di oltre 160 alunne e alunni i quali hanno interpretato con la
massima libertà espressiva (tramite i media più diversi) il tema „La guerra: le
vittime italiane nel terzo Reich e la loro memoria“. Le alunne e gli alunni
hanno presentato i loro lavori che hanno dato espressione ai valori
dell’umanità, dell’antifascismo, del rifiuto della guerra e della violenza, non
solo nel passato, ma anche nel nostro attuale e drammatico presente.
I lavori:
* „Le farfalle con
le stelle gialle“, una storia di inclusione della 2b della Holzhausenschule di
FFM, con le insegnanti Adalgisa Silvestri e Patrizia Spanu.
* „La valigia
della memoria“ della 3b della Scuola elementare Finow, Berlino, con
l’insengante Vanessa Pascocci.
* „Erano ragazzi:
quando la storia ci chiede di dire di no“, 6b Finow Grundschule, Berlino, con
l’insegnante Cecilia Cavallo.
* Inclusione. Oggi
e allora? 7b della Freiherr-vom-Stein-Schule, con l’insegnante Alessandra
Felici.
* IMI – Mario
Villa, 80 anni di silenzio – Nel lager – classe 9a, sezione italiana della
Scuola Europea, Francoforte sul Meno, con l’insegnante Alessandro Zangrossi.
* „I
dimenticati?“, 10b dell’istituto scolastico integrativo Gesamtschule Süd, con
l’insegnante Daniela Romeo.
* „Ascoltare e
tramandare la storia“, Sezione italiana dell’11° anno della Scuola Europea di
Francoforte sul Meno, con l’insegnante Silvia Cavaterra.
* „Una storia tra
tante: Fulvio De Antoni“ classe 11a, sezione italiana della Scuola Europea di
Francoforte sul Meno, con l’insegnante Fabia Geslao.
* „La libertà si
coltiva con la memoria“, corso di italiano avanzato, 12° anno della
Freiherr-vom-Stein-Schule, con l’insegnante Maria Pingitore.
* „Il campo di
prigionia di Rollwald e i prigionieri politici italiani“, classe 11a della
scuola Oswald-von-Nell-Breuning, Rödermark, con le insegnanti Angela Wallner,
Maurella Carbone.
Il direttore
scolastico del Consolato generale di Francoforte, Alessandro Bonesini, nel suo
saluto ha citato due articoli della Carta costituzionale tedesca e italiana che
sono a fondamento della società in cui viviamo o proveniamo: Articolo 26 della
Carta costituzionale tedesca: Le azioni che possono turbare la pacifica
convivenza dei popoli e intraprese con tale intento, in particolare al fine di
preparare una guerra offensiva, sono incostituzionali. Tali azioni devono
essere perseguite penalmente.
Anche la
Costituzione italiana, all’articolo 11 recita: L’Italia ripudia la guerra come
strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione
delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli
altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che
assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le
organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
L’importanza della
Carta costituzionale a difesa della libertà e democrazia è stata espressa da
Karin Müller, sottosegretario di Stato per gli affari federali ed europei della
Cancelleria di Stato dell’Assia. Ha ricordato che il Land Assia „sostiene la scuola
di pace Monte Sole per promuovere campus di pace in collaborazione con la
regione partner Emilia Romagna e mantenere vivo il ricordo della strage di
Marzabotto (1944), ha ricordato Karin Müller, dove più di 770 (di cui 213
bambini sotto i 13 anni) persone furono trucidate dai nazisti“. Per questo „i
partigiani italiani, il ricordo dei crimini del nazionalsocialismo sono temi
per noi importanti in Assia“. I lavori presentati dalle classi scolastiche dal
trattamento disumano dei internati militari, fino al trattamento allora di
persone con disabilità „sono temi molti diversi che hanno in comune: mostrano
come i regimi che classificano le persone in gruppi di migliori o peggiori,
perdono in umanità“.
Nella foto sopra i
ragazzi della Scuola europea di FFM hanno ricostruito alla luce dei pochi
riferimenti biografici, come è nella stragrande maggioranza dei casi degli IMI,
la storia del soldato Mario Villa di Vernasca e immaginato una toccante
corrispondenza epistolare con la madre. Mario Villa era primogenito di sedici
fratelli e aiutava i genitori nei campi e nell’allevamento per il sostentamento
della numerosa famiglia. È morto in un campo di concentramento in Germania il
18.03.1945 a poche settimane dalla fine della guerra.
Nella foto sopra i
ragazzi della 12a classe hanno raccontato con forte partecipazione emotiva gli
eventi tragici di Kassel, proprio nel giorno dell’ottantesimo della strage. Il
giorno prima alcuni di loro con la prof.ssa Pingitore erano stato nella città
assiana per la commemorazione con ANPI e alcune associazioni antifasciste
cittadine, davanti alla lapide che riporta i nomi delle vittime. Il 31 marzo si
è tenuta sempre a Kassel la commemorazione della città a cui ha partecipato il
console generale di Francoforte, Massimo Darchini.
Con progetto sul
campo di prigionia di Rollwand della Oswald-von-Nell-Breuning, Rödermark, le
alunne e gli alunni sono riusciti ad avere la lista dei nomi dei prigionieri
politici italiani lì detenuto, grazie alla collaborazione di un funzionario,
signor Höflein, che ha fatto vistare ai ragazzi atti non accessibili presso
l’archivio, Hessisches Landesarchiv.
Lavori di ricerca
pregevoli e originali, come quello sopra, che contribuiscono a far conoscere un
pezzo della nostra storia e che andrebbero resi pubblici. Al termine della
presentazione dei lavori tutti i partecipanti hanno ricevuto la pergamena ANPI
e un omaggio, una foto realizzata dell’artista Matthias Canapini: due mani che
tengono la foto di una casa distrutta, il tema della perdita della casa a causa
dei conflitti bellici.
(https://anpi-deutschland.de/la-casa-sulle-spalle-di-matthias-canapini-in-germania/).
Presenti alla
Giornata dei valori democratici 2025, il direttore scolastico della
Freiherr-vom-Stein-Schule, Procolino Antacido, che ha fatto „gli onori di
casa“, i già menzionati sopra, Alessandro Bonesini, direttore scolastico del
consolato generale di Francoforte, Karin Müller, sottosegretario di Stato per
gli affari federali ed europei della Cancelleria di Stato
dell’Assia, Donato Prosdocimo, della sezione ANPI di Francoforte, e Pamela
Garigali, dell’associazione biLiS, l’associazione dei genitori per la
promozione del ramo scolastico bilingue italo-tedesco che sostiene il progetto
della Giornata dei valori democratici e Matthias Canapini, giornalista e
fotografo della mostra “La casa sulle spalle”.
Infine, l’augurio
del direttore scolastico Bonesini alle ragazze e ragazzi che hanno animato con
i loro lavori la quarta Giornata dei valori democratici vale per noi tutti: „Vi
auguro di avere uno sguardo lucido e oggettivo sul mondo, e di essere capaci di
fare la vostra parte, per rimanere soggetto e non diventare oggetto di qualcuno
o di qualcosa. Vi auguro di saper difendere la libertà di parola e di stampa,
la libertà di associazione, la dignità del lavoro, la vita privata, il
pluralismo nel dibattito politico. Vi auguro di saper sempre individuare dove
si trova il pericolo, perché la storia ci insegna che questa non è una cosa
sempre facile da fare“. CdI on. 25
C’era da
aspettarselo, ma non così presto. Dai servizi televisivi di questi giorni
appariva infatti evidente che Papa Francesco non avrebbe potuto più governare
la Chiesa in quelle precarissime condizioni. Ma è morto “presente sul campo”,
fino all’ultimo.
È stato il Papa
dei migranti. Questa infatti è stata indubbiamente “la cifra del suo
pontificato”.
Venuto da lontano,
perché anche lui, come tanti altri, figlio di emigrati italiani in Argentina.
La prima sua uscita da Pontefice è stata a Lampedusa, per pregare in memoria
delle vittime giacenti nei fondali del cimitero più grande del mondo, il mare
Mediterraneo. Un gesto altamente simbolico, nei confronti di migliaia e
migliaia di persone che hanno perso la vita durante le migrazioni verso un
mondo libero con imbarcazioni di fortuna, diverse di esse finite affondate in
mezzo agli oceani. Una disgrazia ricorrente che lo toccava profondamente da
vicino. Infatti, sua famiglia non era riuscita a partire dall’Italia per
l’Argentina per un contrattempo, come da lui stesso raccontato: “I miei nonni e
mio papà avrebbero dovuto partire alla fine del 1928, avevano il biglietto per
la nave “principessa Mafalda”, nave che affondò al largo delle coste del
Brasile. Ma non riuscirono a vendere in tempo quello che possedevano e così
cambiarono il biglietto e si imbarcarono sulla “Giulio Cesare” il 1 febbraio
del 1929. Per questo sono qui" ha detto Papa Francesco.
Ma infiniti sono i
suoi gesti e i suoi interventi in tema di migrazioni, divenuti ormai indelebili
fonti di Magistero della Chiesa, su questioni cruciali per questa nostra epoca
storica, da lui personalmente seguite nei dodici anni del suo pontificato. Anni
che hanno trasformato la società e che la trasformeranno ancora, nei quali lui
ha fatto il possibile, Sinodo compreso, affinché la Chiesa fosse in grado di
affrontare le sfide presenti in questo momento storico.
Di come stava
cambiando il mondo è ormai diventata altrettanto storica e iconica la foto che
lo ritrae solo, sotto la pioggia, in una piazza San Pietro vuota la sera del 28
marzo 2020, durante la pandemia del Covid. “Da soli affondiamo – disse -
abbiamo bisogno del Signore come gli antichi naviganti delle stelle: siamo
tutti sulla stessa barca”.
E da ultimo
“Fratelli tutti”, una enciclica che propone la fraternità e l'amicizia sociale
come le vie indicate per costruire un mondo migliore. Questa riflessione
riguarda solo uno “spaccato di vita” di Papa Bergoglio, al quale se ne
aggiungono tanti altri, attraverso i quali egli ha “riformato” la Chiesa
cattolica, proiettandola nel futuro. Luigi Papais, direttivo Unaie, Aise/Dip
23
La guerra dei dazi di
Trump e le risposte europee
A poco più di
dieci settimane dall’inizio del suo mandato, il Presidente Donald Trump ha
annunciato una guerra commerciale verso il mondo con una messe di dazi che non
ha precedenti nel secondo dopoguerra. L’Europa è tra le maggiori vittime,
accusata ripetutamente da Trump di aver biecamente sfruttato in passato il
grande e ricco mercato americano. Le importazioni dall’Europa verranno gravate
di dazi del 20%, dopo le tariffe del 25% introdotte dall’Amministrazione
americana sulle importazioni di acciaio e alluminio e, più di recente, su
quelle di automobili.
Le ragioni
economiche avanzate dall’Amministrazione americana per giustificare tali nuove
pesanti misure (deficit commerciale americano e protezionismo europeo)
risultano del tutto inconsistenti, se analizzate con attenzione. È vero che
l’Unione ha accumulato, negli anni, un surplus commerciale nei confronti degli
Stati Uniti di entità rilevante. Ma considerando l’intera bilancia dei
pagamenti correnti – come si deve fare – e includendo quindi il surplus
statunitense nel settore dei servizi (109 miliardi di euro), il saldo
complessivo tra Ue e Usa risulta pressoché in equilibrio. Anche sotto il
profilo dei dazi reciproci, al centro delle accuse americane, le differenze
sono minime: la tariffa media ponderata americana è del 2,2%, contro il 2,7%
europeo.
Dietro l’apparente
crociata economica, c’è dunque altro. È una visione di politica internazionale,
una sorta di realpolitik, ben più aggressiva e mirata a rivoluzionare gli
equilibri globali. Donald Trump è da sempre convinto che l’ordine economico
liberale dei passati decenni con le sue regole e istituzioni e, in particolare,
il sistema commerciale multilaterale, abbiano depredato e reso vulnerabile
l’economia americana, soprattutto nei confronti di rivali strategici come la
Cina. Vanno dunque abbattuti e sostituiti con un sistema di rapporti
bilaterali, peraltro ancora abbozzato in modo vago dal Presidente americano, in
cui Washington possa esercitare la propria supremazia economica e militare
ricavandone vantaggi cospicui e di varia natura. Lo tsunami dei dazi del 2
aprile è dunque l’annuncio di un’offensiva su scala globale che apre una fase
di inusitata incertezza economica e politica.
Verso un negoziato
duro, lungo e difficile
Nel chiedersi come
debba e possa rispondere l’Europa, va innanzi tutto ricordato che tra le grandi
aree mondiali l’economia europea è quella più aperta agli scambi
internazionali. Difendere e consolidare questa profonda integrazione con
l’economia mondiale è un’assoluta priorità europea.
Tre appaiono le
direttrici lungo cui l’Unione dovrebbe muoversi per cercare di mitigare i danni
della guerra scatenata da Trump. La prima è affrontare con determinazione
l’Amministrazione americana sul terreno dei dazi, mantenendo una linea
negoziale dura e coesa. In qualsiasi buon manuale di politica commerciale si
afferma che di fronte a misure protezionistiche ingiustificate e vessatorie è
legittimo e doveroso reagire, anche per poi negoziare. La Commissione europea
deve dunque approntare dei propri dazi e altre misure restrittive in risposta
alle iniziative americane. D’altra parte, soltanto la minaccia di una
ritorsione dura anche se appropriata può spingere l’Amministrazione americana
ad aprire un negoziato, all’insegna del do ut des, che ha finora rifiutato. E
se l’Unione resterà compatta – un dato peraltro non scontato – la sua forza
commerciale sarà tale da essere in grado di contrastare l’aggressività di
Washington.
La difesa del
sistema aperto e il completamento del Mercato interno
La seconda strada
da seguire è rafforzare e ampliare la rete di accordi commerciali dell’Unione
diversificando ulteriormente i partner che ne fanno parte. Un accordo
transattivo con l’amministrazione statunitense non può essere in effetti
sufficiente, per quanto resti importante per cercare di evitare una guerra dei
dazi che, oltre a punire chi la scatena (stagflazione) – come insegna la storia
–, finisce per danneggiare tutti. Proprio perché così aperta, l’Europa deve
continuare a espandere e consolidare la rete di accordi bilaterali, regionali e
multilaterali costruita in questi anni. Va così rafforzata la cooperazione
commerciale sia, ad esempio, con i grandi paesi dell’Asia del Pacifico, colpiti
da dazi ancor più pesanti di quelli europei, sia con economie emergenti come
India, Indonesia e Brasile, che hanno ormai assunto un ruolo chiave e
condividono l’interesse a mantenere un sistema commerciale aperto e regolato.
Al riguardo, l’accordo con i paesi del Mercosur in America Latina andrebbe
ratificato al più presto dal Consiglio europeo, e il voto dell’Italia – va
ricordato – sarà determinante.
Per quanto gli
Stati Uniti restino un mercato fondamentale, essi rappresentano ormai solo il
13% delle importazioni mondiali: si apre così per l’Europa un ampio spazio per
diversificare i suoi legami commerciali e sostenere un sistema internazionale
aperto e regolato. È un percorso, quest’ultimo, già avviato nei mesi scorsi
dalla Commissione von der Leyen e che va proseguito con forza.
Infine, un terzo
fronte di risposta, spesso trascurato ma cruciale, riguarda il mercato interno
europeo. Le barriere commerciali tra i paesi membri sono ancora troppo elevate:
secondo il FMI, equivalgono in media a una tariffa del 44% per gli scambi di merci
(agricoltura esclusa) e addirittura del 110% per quelli di servizi. Le cause
sono molteplici, come la presenza di regimi nazionali frammentati in settori
chiave quali, ad esempio, gli appalti pubblici. Una conseguenza è che il
commercio intraeuropeo è oggi meno della metà di quello all’interno degli Stati
Uniti.
Eliminare questi
ostacoli e completare l’integrazione del Mercato interno non solo rafforzerebbe
la coesione economica dell’Unione, ma rappresenterebbe anche un’occasione per
rilanciare la domanda interna e la crescita europee, con più consumi e investimenti.
Finora le forti resistenze di alcuni Paesi membri hanno impedito una maggiore
integrazione. L’offensiva di Trump potrebbe forse convincerli ad agire
diversamente. Paolo Guerrieri, AffInt 29
Intanto, ci siamo
contati. Gli italiani residenti nel Bel Pese sono 60.487.973 (anno di
riferimento 2024). In UE, restiamo al quarto posto come popolazione residente.
Ci precedono la Germania, la Francia e il Regno Unito. Pur se al quarto posto
come densità umana, siamo in prima posizione, tra i Paesi UE, come disoccupati
e giovani alla ricerca di una prima occupazione. Anche la politica resta un
“rebus”.
Passando ai
numeri, che meglio evidenziano questo “primato”, scriviamo che il nuovo anno è
iniziato con due milioni d’italiani di senza lavoro. Il tenore di vita nazionale, per obiettività,
rimarrà, in sostanza, identico a quello dell’anno precedente. Però le tensioni
sociali aumenteranno; come le polemiche politiche correlato a un Esecutivo
ancora in “rodaggio.”
Questo sarà il quadro della Penisola
all’inizio de nuovo anno che si presenterà, da subito, “difficile”. Ora è
complesso fare delle previsioni attendibili su come andrà a evolversi la
situazione nazionale. Certo è che anche questo 2025 potrebbe essere considerato
di “transizione”. Per quanto ci compete, torneremo sul fronte dei Connazionali
in Europa (più di tre milioni) che, almeno secondo il nostro modo di vedere,
hanno il diritto d’essere meglio introdotti nel panorama socio/politico
nazionale.
Non a caso, il
prossimo potrebbe essere anche l’anno della premessa operativa del DIE
(Dipartimento per gli Italiani all’Estero) che dovrebbe essere inserito, a
nostro avviso, tra gli obiettivi possibili di questa Maggioranza di
“Centro/Destra”.
Giorgio Brignola,
de.it.press
Ue, migrazioni, rimpatri. Obiezioni a Europa e Italia
Lo studioso
dell'Università di Milano, editorialista di "Avvenire", segue passo
passo le decisioni italiane ed europee per far fronte al fenomeno migratorio.
Non di rado solleva le sue obiezioni, con un occhio di riguardo per il rispetto
dei diritti umani. Sulla recente proposta della Commissione Ue sui rimpatri
parla di una "Guantanamo europea" – di Gianni Borsa
“I rimpatri sono
il tallone d’Achille delle politiche di contrasto dell’immigrazione
irregolare”. Maurizio Ambrosini, sociologo, docente all’Università degli Studi
di Milano, è uno dei maggiori esperti in Italia sul fronte delle migrazioni. Da
anni studia il fenomeno demografico e sociale degli spostamenti di popolazione
nel mondo, con uno sguardo particolare sull’Europa. Dedica inoltre – sia nei
suoi studi e nelle lezioni accademiche, sia dalle pagine del quotidiano
“Avvenire” – un’attenzione puntuale alle normative e alle azioni politiche che
cercano di affrontare le migrazioni. Sulle quali mostra spesso le sue
perplessità.
Ancora di recente
ha sottolineato i modestissimi risultati delle politiche europee circa i
rimpatri dei migranti che giungono nell’Ue e non ha risparmiato una serie di
precise osservazioni sulla recente proposta della Commissione Von der Leyen per
la riforma della Direttiva del 2008 sui rimpatri, che, come noto, introduce la
possibilità di allestire centri di detenzione per gli immigrati da rimpatriare
– i cosiddetti “return hubs” – in Paesi terzi. Una scelta, questa, che apre
parecchi interrogativi sulla definizione di Paesi “sicuri” in cui spedire i
migranti e circa la tutela dei diritti fondamentali e del rispetto del
principio di non refoulement, il quale vieta di “trasferire delle persone in
Paesi dove potrebbero subire violenze o trattamenti degradanti”.
A questo proposito
Ambrosini ha parlato di “una sorta di progetto Guantanamo all’europea”. Ma, a
differenza del caso americano (Guantanamo resta sotto l’autorità Usa), coi
“return hubs” in Paesi terzi si consegnano persone, magari soggiornanti da anni
nell’Ue ad autorità di Stati esterni. “Non si vede come si potrà poi
controllare il loro operato, una volta che l’Ue li avrà pregati di gestire per
suo conto la spinosa partita della detenzione e dell’eventuale rimpatrio dei
migranti sgraditi. L’esempio libico dovrebbe suonare da monito”.
Ambrosini fra
l’altro ha criticato sin dall’inizio le ricollocazioni (qualcuno dice
deportazioni) dei migranti dall’Italia all’Albania. A suo avviso ora, con la
trasformazione di uno dei due centri allestiti nel Paese delle Aquile in Cpr,
il progetto italiano non si allineerebbe con l’Unione europea. “L’Italia – ha
scritto su Avvenire – mantiene infatti la giurisdizione sui centri realizzati
sul territorio albanese, senza delegarne la gestione alle autorità locali, e
senza che l’Albania sia definita come un Paese terzo di destinazione degli
immigrati espulsi. Pertanto dall’Albania non sono previsti dei rimpatri. In
caso di accordi con i Paesi di provenienza, i malcapitati dovrebbero essere
riportati in Italia, titolare degli accordi, per essere poi rimandati nel loro
Paese”. Non è neppure chiaro, secondo il sociologo, cosa ne sarà “di coloro
che, al termine della detenzione, anche allungata a 24 mesi come prevede la
nuova bozza europea, non saranno stati rimpatriati e dovranno essere liberati”.
La gestione
dell’immigrazione irregolare – riconosce Ambrosini – è “una questione spinosa”,
ma a suo avviso esistono strumenti per affrontarla: “Ritorni volontari
assistiti, regolarizzazioni mirate al lavoro, sponsorizzazioni da parte di
soggetti affidabili. Non servono invece – a suo dire – misure che, pur di
illudere l’opinione pubblica di aver trovato la soluzione, si accingono a
consentire la violazione dei diritti umani, aggravano i costi per l’erario,
rendono i governi europei più ricattabili da parte dei partner esterni, e
probabilmente neppure otterranno i risultati auspicati”. Obiezioni alle quali
sarebbe interessante – forse necessario – fornire convincenti spiegazioni. Sir
16
25 Aprile: la Liberazione e le sue ombre
“Io so. Ma non ho
le prove. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore che cerca la
verità.” (Pier Paolo Pasolini)
Il 25 aprile
segna, ufficialmente, la fine dell’occupazione nazifascista e l’avvio della
Repubblica democratica. Ma ridurre questa data a una semplice “festa della
libertà” rischia di appiattirne il significato. La Resistenza è stata
un’impresa grandiosa, ma anche controversa, attraversata da conflitti, tensioni
ideologiche, violenze reciproche, omissioni, e verità scomode ancora oggi in
parte rimosse.
La Resistenza non
unitaria
Come storici come
Claudio Pavone hanno chiarito, la Resistenza fu anche una guerra civile. Non
solo contro l’occupante tedesco e i fascisti della Repubblica di Salò, ma anche
tra diversi gruppi resistenziali. Le divisioni tra comunisti, cattolici, liberali
e anarchici esplosero anche con episodi di sangue. In molte zone d’Italia,
soprattutto nell’Emilia rossa e nel Piemonte, alcuni partigiani “bianchi”
furono eliminati da partigiani “rossi”. Le motivazioni andavano da sospetti di
collaborazione con il nemico, a differenze ideologiche, a vendette personali
mascherate da “giustizia rivoluzionaria”.
Un episodio
emblematico fu l’eccidio di Porzûs (febbraio 1945), in Friuli Venezia Giulia,
dove i partigiani comunisti della Brigata Garibaldi uccisero 17 partigiani
della Brigata Osoppo (cattolico-azionisti) accusati – falsamente – di
collaborazionismo. Tra le vittime, anche Guido Pasolini, fratello di Pier
Paolo. Un trauma che segnerà profondamente la visione politica del poeta.
Via Rasella e le
Fosse Ardeatine
Un altro punto
critico riguarda l’attentato di via Rasella del 23 marzo 1944, compiuto da un
gruppo dei GAP contro una compagnia di SS tedesche. L’azione militare fu
efficace ma provocò, come rappresaglia, la strage delle Fosse Ardeatine: 335
civili e prigionieri politici massacrati dai nazisti. I responsabili
dell’attentato non si consegnarono – una scelta strategica legittima per
alcuni, criticabile per altri – e per molti anni non ci fu una riflessione
aperta sul rapporto tra azione partigiana e conseguenze civili. Questo silenzio
fu vissuto da alcuni come una forma di rimozione collettiva.
Esecuzioni
sommarie e il dopoguerra violento
Negli ultimi
giorni della guerra e subito dopo, in molte zone si verificarono esecuzioni
sommarie di fascisti e collaborazionisti, ma anche di semplici sospettati.
Alcuni casi furono vendette personali o “regolamenti di conti” coperti
dall’ideologia. Il caso di Giuseppina Ghersi, una ragazzina di 13 anni uccisa a
Savona da partigiani nel 1945, è uno degli episodi più discussi,
strumentalizzato spesso dalla propaganda ma indicativo di una verità storica da
non ignorare: non tutta la violenza fu “giusta” o necessaria.
Altri episodi
dimenticati includono:
* La strage di
Codevigo (Padova, 1945): centinaia di fascisti e presunti collaborazionisti
fucilati senza processo da reparti partigiani.
* Le violenze
contro i vinti: in alcune zone del Nord Italia si verificarono linciaggi
pubblici, processi sommari, donne rasate e umiliate pubblicamente solo per aver
intrattenuto relazioni con soldati tedeschi.
Il cinema oltre la
retorica
Molti film hanno
raccontato la Resistenza nella sua dimensione più umana e meno celebrativa:
* “L’Agnese va a
morire” (1976) di Giuliano Montaldo, tratto dal romanzo di Renata Viganò,
racconta la scelta di una donna comune che entra nella Resistenza per vendetta
e giustizia. Non c’è eroismo, ma dolore e solitudine.
* “I piccoli
maestri” (1998) di Daniele Luchetti, tratto dal romanzo di Luigi Meneghello,
mostra un gruppo di giovani universitari che scoprono quanto sia difficile,
caotica e moralmente ambigua la lotta partigiana.
* “Corbari” (1970)
di Valentino Orsini, con Giuliano Gemma, narra la storia vera del partigiano
Silvio Corbari e della sua compagna Ada, in lotta contro i fascisti e traditi
dagli stessi contadini che difendevano.
* “Sanguepazzo”
(2008) di Marco Tullio Giordana, non parla di partigiani ma degli attori
fascisti Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, fucilati dai partigiani a guerra
finita: una riflessione cupa sulla giustizia sommaria.
Il dovere della
memoria inquieta
Pier Paolo
Pasolini lo aveva capito: la Resistenza non è un monumento da celebrare, ma un
processo irrisolto da interrogare. Il suo sguardo tagliente, profetico, scava
sotto la retorica per chiedere: chi ha davvero raccolto l’eredità di quei
morti? La borghesia democristiana, il potere televisivo, il consumismo anni
‘60, la sinistra compromissoria?
La liberazione
vera, per Pasolini, non è mai avvenuta: «abbiamo perso la guerra due volte»,
scriveva. Prima col fascismo, poi col fascismo che sopravvive nelle forme nuove
del potere.
Il 25 aprile,
dunque, non è una favola. È una storia dura, tragica, controversa. Ed è proprio
affrontandola senza paura, nella sua verità piena, che possiamo continuare a
darle senso. Non per sminuire i partigiani, ma per onorarli davvero —
riconoscendoli come uomini, e non come statue. Carlo Di Stanislao, dip 19
Papa Francesco, Donald Trump e la loro opposta “politica degli ultimi”
Tra muri da
abbattere e crisi climatica negata, ecco come si è sviluppato negli anni il
rapporto tra Papa Francesco e Donald Trump
Nel corso della
storia recente, pochi incontri tra leader mondiali hanno generato un dibattito
tanto acceso quanto quelli tra Donald Trump e Papa Francesco. Le loro biografie
non potrebbero essere più distanti: il primo, imprenditore newyorkese e presidente
statunitense dal 2017 al 2021 e di nuovo da gennaio di quest’anno, fautore di
una politica assertiva e divisiva; il secondo, pontefice argentino da sempre
vicino agli ultimi, protagonista di un pontificato segnato da appelli
all’inclusione e alla solidarietà. Eppure, le loro strade si sono incrociate
più volte, dando vita a una relazione fatta di visioni diverse, tensioni e
tentativi di dialogo.
Trump sarà ai
funerali di Papa Francesco
“Era un brav’uomo.
Lavorava sodo. Amava il mondo”. Così il presidente americano ha commentato la
morte di Bergoglio annunciando. Frasi misurate che giungono come l’ultimo atto
di un dialogo mai veramente sbocciato.
Il presidente
americano ha ordinato le bandiere a mezz’asta e, dopo un’iniziale esitazione,
ha annunciato su Truth Social che volerà a Roma con Melania per i funerali di
Papa Francesco, che si terranno sabato 26 aprile alle 10. Un gesto che non
cancella anni di tensioni ma li congela in un momento di rispetto
istituzionale, come l’ultimo capitolo di una relazione che ha più raccontato di
fratture che di ponti. Il giorno prima della sua dipartita, Bergoglio ha
incontrato per pochi minuti il vice di Trump, JD Vance, in occasione della
Pasqua.
Il primo scontro
tra Papa Francesco e Trump
Il primo vero
incontro-scontro tra i due leader risale al 2016, durante la campagna
elettorale americana. Francesco, visitando il confine tra Stati Uniti e
Messico, pronunciò parole destinate a entrare nella storia: “Una persona che
pensa solo a costruire muri, e non ponti, non è cristiana“. La reazione
dell’allora candidato alla Casa Bianca arriva fulminea. “Vergognoso mettere in
discussione la fede di un uomo”, tuona, accusando il Pontefice di essere caduto
nella rete della “propaganda messicana”.
Quella ferita
iniziale non si è mai veramente rimarginata. Non era solo questione di stile o
di temperamento. Lo scontro toccava il cuore stesso di come intendere la
società e il ruolo della leadership mondiale. Da una parte, il Pontefice che
predicava l’accoglienza e la responsabilità collettiva verso i più vulnerabili;
dall’altra, il presidente che fondava il suo consenso sulla protezione dei
confini e sulla difesa degli interessi nazionali.
Le cancellerie
vaticane tentano di smorzare, parlano di incomprensioni, ribadiscono
l’importanza dei rapporti diplomatici. Ma la frattura è ormai visibile, si
allarga su migrazioni, ambiente, diritti civili. Terreni dove i due Capi di
Stato marciano in direzioni opposte.
Il secondo
incontro e l’enciclica “Laudato Si'”
Il 24 maggio 2017,
le porte bronzee del Vaticano si aprirono per accogliere il presidente
americano. Un incontro di 29 minuti – significativamente più breve dei 52
concessi ad Obama – trascorsi in un colloquio privato con l’aiuto di un
interprete. Le immagini di quel giorno raccontano già tutto: Francesco serio,
quasi pensieroso; Trump con un sorriso di circostanza.
Il Papa donò a
Trump una copia della sua enciclica “Laudato Si’” sulla cura del creato e
dell’ambiente. Un messaggio nemmeno troppo sottile, considerando che poche
settimane dopo Trump avrebbe annunciato il ritiro degli Stati Uniti dagli
Accordi di Parigi sul clima. Trump ricambiò con una scultura in bronzo e una
raccolta di scritti di Martin Luther King, accompagnata da un “penso e spero le
piaceranno”.
“Non dimenticherò
quello che lei mi ha detto”, promise Trump al termine dell’incontro. Una
promessa che, alla luce delle scelte successive, fu più una formula di cortesia
che un impegno concreto.
Lo scontro sul
clima
Il dono papale non
passa inosservato: l’enciclica “Laudato si'” sull’ambiente e i cambiamenti
climatici. Un messaggio nell’oggetto, una provocazione gentile ma decisa verso
chi aveva già manifestato scetticismo sulla crisi climatica che qualche giorno
fa la senatrice repubblicana Mary Miller, replicando la politica di Trump, ha
definito una “farsa” sostenendo che “il clima è controllato da Dio, perché Dio
controlla il sole”.
I resoconti
parlano di colloqui su pace e libertà religiosa. Ma è quanto accade dopo a
svelare la verità: Trump, rientrato in patria, annuncia il ritiro dall’Accordo
di Parigi chiudendo le porte al pensiero francescano sulla “casa comune”.
Tornando alla Casa Bianca, il tycoon ha replicato questa scelta annunciando che
gli Usa usciranno dall’accordo sul clima entro il 2026.
Le nomine in
Vaticano
Lo scontro è
proseguito anche attraverso scelte diplomatiche significative. Trump ha
designato come ambasciatore presso la Santa Sede Brian Burch, presidente di
Catholic Vote e noto critico di Francesco. La risposta vaticana è stata la
nomina a arcivescovo di Washington del cardinale Robert Walter McElroy, che
aveva definito il muro al confine messicano “inefficace e grottesco”.
Una partita a
scacchi giocata su una scacchiera invisibile ai più, ma che ha segnato
profondamente le relazioni tra Stati Uniti e Vaticano.
Due visioni
inconciliabili
Dunque, lo scontro
tra i due capi di Stato si è giocato su più fronti:
Il muro. Per
Trump, simbolo di sicurezza e sovranità nazionale. Per Francesco, incarnazione
del rifiuto dell’altro, negazione dell’accoglienza evangelica.
I migranti.
“America First” contro “Nessuno è straniero”. Due concezioni che non trovano
punti di contatto.
L’ambiente. Da una
parte politiche orientate all’uso intensivo delle risorse, dall’altra l’appello
alla “conversione ecologica“. Posizioni che sembrano appartenere a epoche
diverse della storia umana.
Persino
sulla Cina, Papa Francesco e Donald Trump hanno avuto posizioni
differenti. Nel 2020, il segretario di Stato USA Mike Pompeo accusò il Vaticano
di “immoralità” per l’accordo sui vescovi firmato con Pechino nel
2018. Una mossa che sembrava più tesa a marcare differenze che a costruire
dialogo.
Il futuro di un
dialogo difficile
È paradossale che,
pur da posizioni così distanti, entrambi abbiano saputo parlare a chi si sente
ai margini: Francesco alle “periferie esistenziali” del mondo, Trump a
quell’America profonda che si sentiva dimenticata dalla
globalizzazione. Due uomini che hanno scosso, ciascuno a suo modo, le
istituzioni che rappresentavano.
Il loro confronto,
mai esploso in aperto conflitto ma mai veramente risolto, ci parla delle
fratture sempre più ampie del nostro tempo. Rivela la crescente incapacità di
costruire ponti tra visioni diverse del futuro dell’umanità, tra chi vede il
mondo come una fortezza da difendere e chi lo immagina come una casa dalle
porte aperte.
La presenza di
Trump ai funerali di Francesco rappresenterà l’ultimo capitolo di questa
complessa relazione, un epilogo che difficilmente cambierà il senso di una
storia fatta più di divergenze che di punti d’incontro. Adnkronos 22
Ammettiamo che
questo Esecutivo, per una serie d’alchimie politiche, possa rimanere al suo
posto. Concediamo, sempre per eccesso d’ottimismo, che la Legislatura possa
essere rinvigorita da un programma di “salvamento” per la Penisola. Lo
scriviamo in via suppositiva perché, almeno per quanto c’è dato sapere, non ci
sono opportunità per fare “conto” su altri Partiti del “vecchio” sistema sempre
presenti in Parlamento.
Però, tanto per rimanere in tema, ipotizziamo
che un’apertura sia credibile. In ogni caso, meglio sarebbe chiamarlo ”breccia”
per i coinvolgimenti che andrebbe a determinare nell’Esecutivo. Col rischio di
sgretolamento di questa Maggioranza eterogenea. La conseguenza, oltre al caos
politico, che ne deriverebbe, sarebbe l’ingovernabilità d’Italia.
Il buon senso,
nonostante tutto, dovrebbe vincere. Come a scrivere: Il Parlamento potrebbe
dare attuazione a provvedimenti indispensabili per il Paese. Al punto in cui
siamo, anche le presunzioni, non proprio ipotetiche, potrebbero avere un loro
valore politico. La “quarantena”politica, da quest’anno, non dovrebbe esserci
più. Senza altre garanzie, non ci resta che quella delle ipotesi.
Anche se non è di questo, certamente, di cui
ha bisogno l’Italia per ritrovare un ruolo che le consenta di frenare lo
“slittamento” in UE e l’affidabilità politica all’interno. E’ vero che queste
restano, per ora, nostre supposizioni; ma non troviamo altra condizione per
restituire alla Penisola la fiducia smarrita. Le potenziali “novità” troveranno
il loro spazio in questo nuovo anno. Se ci saranno, non mancheremo di
commentarle.
Giorgio Brignola,
de.it.press
Einstein settant’anni dopo. Il genio è ancora tra noi
Una mattina di
primavera, settant’anni fa, Albert Einstein si svegliò per l’ultima volta. Era
il 18 aprile 1955 a Princeton (New Yersey), in una stanza d’ospedale dove era
stato ricoverato a seguito di una emorragia causata da un aneurisma dell’aorta
addominale. Sul comodino dei fogli con degli appunti sulla cosiddetta “teoria del
tutto” che doveva riunire la relatività con la meccanica quantistica, un tema
verso il quale aveva mostrato un certo scetticismo ma che lo aveva tenuto
occupato negli ultimi giorni della sua vita. Morì poche ore dopo. Ma Einstein per certi versi lo ritroviamo
oggi ancora qui tra noi, nelle costellazioni piegate dal tempo, nei satelliti
che calcolano la tua posizione con precisione relativistica, nei pannelli
solari che assorbono fotoni come lui aveva predetto, nei circuiti quantistici
che smentiscono la sua diffidenza verso il caso. È nei meme, nei poster, nelle
tazze da colazione con la lingua di fuori.
Così settant’anni
dopo, quel vecchio uomo con i capelli arruffati continua a parlarci. E oggi,
nel tempo delle intelligenze artificiali, delle guerre infinite e delle verità
liquide, ascoltarlo è più urgente che mai. Nacque il 14 marzo 1879 a Ulma, in
Germania, nel giorno in cui si celebra il Pi greco — un presagio da romanzo. La
madre gli regala un violino, il padre una bussola. Lui capisce che c’è qualcosa
di invisibile che orienta gli aghi e le orbite, e decide di cercarla. Sarà
questo il suo daimon, la sua vocazione: ascoltare il mormorio segreto
dell’universo. A scuola qualche professore lo reputa inadeguato. Troppo
assorto, troppo libero. Ma Albert è come un uccello nato per volare fuori dal
reticolo scolastico. A 16 anni, la famiglia si trasferisce a Pavia, dove il
padre aveva avviato un’attività che avrebbe partecipato ai lavori per
l’illuminazione di un palazzo sede di alcuni istituti dell’ateneo pavese. E qui
succede qualcosa di magico. “Furono i giorni più felici della mia vita”,
scriverà. L’Italia gli regala bellezza, tempo per pensare, luce per immaginare.
Studia da solo ma non è ancora pronto per l’università. Verrà respinto. Dovrà
aspettare. Frequentare una scuola liberale a Aarau, in Svizzera. E poi il
Politecnico di Zurigo. È lì che incontra Mileva Mari?, sua futura moglie e
prima interlocutrice intellettuale. I due discutono di fisica, matematica,
sogni. Una coppia come un’equazione, finché il risultato non si complica.
L’Annus Mirabilis
Einstein fa fatica
a trovare un lavoro accademico. Troppo anticonformista, troppo giovane. Lo
otterrà invece all’ufficio brevetti di Berna. E qui, nel 1905, accade
l’incredibile. In quell’anonimo ufficio grigio, con carta e penna, Einstein
spalanca le porte del cosmo. Pubblica cinque articoli scientifici, di cui
almeno tre rivoluzionari. È il suo annus mirabilis. Uno di questi articoli
introduce la teoria della relatività ristretta. Il tempo, lo spazio, la massa:
tutto è relativo al punto di vista dell’osservatore. Niente è assoluto, tranne
la velocità della luce. “E = mc²” è la
sintesi più elegante e tremenda del secolo: massa ed energia sono la stessa
cosa che si traveste. La luce, scrive Einstein, non cambia mai passo. È come
una divinità neutra che scorre con la stessa velocità, sia che le si corra
accanto, sia che le si venga incontro. Da qui nasce una nuova visione del
mondo: non esiste un tempo universale. Ogni orologio batte secondo il proprio
viaggio.
Ma Albert non si
ferma. Nel 1915, dopo dieci anni di ostinazione e formule che sembrano
partiture musicali, pubblica la teoria della relatività generale. La gravità
non è più una forza misteriosa, ma la curvatura dello spazio-tempo. Come una
palla che deforma un tappeto, ogni massa curva l’universo attorno a sé. Anche
la luce curva. Le stelle si piegano nel buio. L’universo, d’un tratto, diventa
elastico, poetico, sorprendente. Eppure Einstein non era mai soddisfatto. Non
gli bastava spiegare. Cercava un senso. Voleva unificare tutto: le forze della
natura, i popoli della Terra, la mente e il cosmo.
Nel 1919,
un’eclissi di Sole conferma la teoria. La luce delle stelle devia come previsto
da Einstein. Il mondo si accorge del genio. La stampa lo celebra. Le fotografie
lo inseguono. Nasce il primo scienziato pop della storia. Ma dietro l’applauso,
Einstein resta un uomo inquieto, un viandante del pensiero. Nel suo violino
cerca armonie invisibili. Nei tramonti legge equazioni. Non indossa calzini,
non si pettina, non ama la formalità. A chi lo cerca per una verità definitiva,
offre sempre un dubbio in più. “Il mistero è la cosa più bella che possiamo
sperimentare”, dice. Ed è il mistero che comincia a sedurlo più della fisica.
Un viaggio dentro
la mente e l’anima dello scienziato
In un libro
pubblicato di recente, dal titolo Sono parte dell’infinito (Egea, 2024), Kieran
Fox — neuroscienziato, non biografo — ci accompagna in un viaggio diverso:
quello dentro la mente e l’anima di Einstein. Il titolo è una sua frase. “Una
parte dell’infinito”. Era così che si sentiva.
Einstein, ci spiega Fox, in un certo senso era anche un mistico oltre
che un grandissimo scienziato: un mistico razionale. Un panteista senza tempio.
Leggeva Spinoza, citava le Upanishad, parlava con Tagore di coscienza cosmica.
Non credeva in un Dio personale, ma in un ordine sacro sottostante il mondo.
Per lui, “scienza e spiritualità erano due sguardi sullo stesso mistero”.
La sua “religione
cosmica” — termine suo, non inventato — non chiedeva riti o dogmi, ma
meraviglia. “La sua spiritualità — racconta Fox — non offre credenze
confortanti. Anzi, ci chiede di accettare i nostri limiti con umiltà”?. Ed è
proprio per questo che è così attuale. In un tempo che idolatra l’onnipotenza
dell’Io, Einstein ci ricorda che il sapere più profondo è riconoscere ciò che
non possiamo sapere. Einstein, ebreo,
fuggì dalla Germania nazista nel 1933. Negli Stati Uniti divenne simbolo della
libertà intellettuale, ma anche di qualcosa di più: della coscienza inquieta
della scienza. Scrisse la famosa lettera a Roosevelt che diede impulso al
progetto Manhattan. Non partecipò direttamente alla costruzione della bomba
atomica, ma ne sentì il peso per il resto della vita. Pacifista da sempre, negli ultimi giorni
aveva scritto la sua ultima lettera a Bertrand Russell con la quale si
dichiarava d’accordo a firmare un manifesto che esortava tutte le nazioni a
rinunciare alle armi nucleari. Ma la sua battaglia più profonda era contro
un’illusione: quella della separazione. “La nostra disunità è un’illusione
ottica della coscienza”, scriveva. “Il compito della vera religione è
liberarsene.”
Einstein oggi: AI,
atomi e anima
Cosa direbbe
Einstein dell’intelligenza artificiale o del quantum computing? Fox ha un’idea:
“Applaudirebbe al progresso, ma ci avvertirebbe di non farne degli idoli, ha
affermato in un’intervista rilasciata a Wired. ‘Sii creativo — diceva — ma
assicurati che ciò che crei non sia una maledizione per l’umanità’”?. Einstein non si fidava dello sviluppo
scientifico-tecnologico se questo non era al servizio della saggezza. Credeva
più nella responsabilità che nel libero arbitrio. E oggi, nel tempo in cui
algoritmi decidono cosa vediamo e chi siamo, la sua voce risuona quasi come una
sveglia: sii parte dell’infinito, non del meccanismo. E non si tratta solo di
metafore. Le sue teorie vivono nei GPS, nelle risonanze magnetiche, nei buchi
neri osservati da LIGO. Ma anche nel modo in cui pensiamo alla realtà: come un
tessuto dinamico, relazionale, mai separato dallo sguardo di chi osserva.
Nel suo libro Fox
ricorda che quando andò a Princeton, Einstein ricevette l’incarico di
insegnamento con una raccomandazione ironica: “Non vi promettiamo di insegnarvi
la fisica, ma che vi divertirete con un uomo straordinario”. E lo era davvero.
Suonava il suo amato violino nei momenti di angoscia. Amava camminare da solo
per ore. Parlava lentamente, ma pensava più velocemente di chiunque. E quando
ricevette il Nobel, lo usò per aiutare la moglie Mileva, da cui era già
separato. Era geniale, sì, ma anche fragile, a volte brusco, sempre in cerca di
qualcosa. Una volta disse: “L’importante
è non smettere mai di fare domande.” Forse è questa la sua vera eredità. Una
fame insaziabile di senso. Un desiderio testardo di verità. E una fede
incrollabile nella bellezza del mistero. La teoria unificata che cercava non è
mai arrivata. La pace mondiale neppure. E la sua spiritualità radicale — così
scomoda, così priva di consolazioni — è ancora ai margini. “Siamo ancora
affamati di nutrimento spirituale”, scrive Fox, “ma viviamo in un’epoca barbara
e materialista”. Forse per questo,
settant’anni dopo, Einstein serve più che mai. Non come icona da stampare sulle
magliette, ma come guida per un futuro più umano. Perché, come dice Fox,
“l’invito di Einstein è continuare a esplorare, scoprire e usare al massimo le
nostre menti… per sentirci parte di un infinito accessibile”.
Sebastiano Catte,
dip 18
Il dibatto della prima Conferenza delle Scuole italiane all’estero
ROMA – Si è svolta
presso il museo di arte contemporanea MAXXI di Roma la prima Conferenza delle
Scuole italiane all’estero. Nel corso del dibattito, suddiviso in 3 panel a
tema scientifico, umanistico e socioeconomico, hanno preso la parola vari
esponenti delle scuole italiane all’estero che hanno raccontato le loro
esperienze, Fra queste segnaliamo l’intervento di Giuseppe Finocchiaro,
Dirigente scolastico Istituti Medi Italiani di Istanbul. “Le 7 scuole italiane
all’estero – ha affermato Finocchiaro – proseguono le attività di alta
formazione anche in questo anno scolastico, con l’obiettivo di diventare poli
scolastici negli ambiti di rispettiva specializzazione…Nello specifico gli
Istituti Medi italiani di Istanbul hanno concentrato gli studi sulla robotica e
nella intelligenza artificiale. La formazione già nello scorso anno scolastico
ha visto il coinvolgimento di esperti di Bologna, che sono venuti ad Istanbul.
Un percorso di alta formazione che è stato incentrato sull’intelligenza
artificiale e sulle sue applicazioni, con particolare riferimento alla robotica
in ambito industriale”. Finocchiaro ha proseguito parlando dallo straordinario
sviluppo delle applicazioni dell’intelligenza artificiale generativa, che si
sono diffuse in maniera capillare negli ultimi mesi. “Queste prospettive – ha
aggiunto – promettono di trasformare interamente non solo il mondo produttivo,
ma le stesse modalità di interazione con i sistemi automatici in tutti gli
ambiti sociali”. Finocchiaro ha inoltre spiegato che agli studenti vengono
fornite le competenze per poter essere dei protagonisti del settore, attraverso
esperienze di tipo laboratoriali in cui i giovani interagiscono con
l’intelligenza artificiale ed imparano a governarla. Nel suo intervento
Alessandro Acella, Coordinatore didattico della Scuola paritaria Roma di
Algeri, ha sottolineato come questo Istituto voglia aprirsi sempre più al
territorio e costruire ponti con il contesto di inserimento. “Da alcuni
anni – ha ricordato Acella – la scuola ha aperto le porte a studenti algerini,
così da offrire ai ragazzi la possibilità di poter vivere la formazione
italiana. Acella si è poi soffermato su un progetto che è nato da un rapporto
di amicizia con la start up Technology di Algeri. Una realtà fatta di giovani
ingegneri appassionati, che mettono questo talento a sostegno del servizio del
territorio ed in questo contesto nasce l’iniziativa di sviluppare una serie di
giornate su quello che è il concetto di robotica, Si cerca di avvicinare i
bambini al mondo dei robot, mentre nella scuola secondaria si lavora nella
parte di programmazione ed analisi. Da segnalare anche la riflessione di
Veronica Tania Roberta Sole, Dirigente scolastica dell’Istituto Italiano
Statale Omnicomprensivo di Atene, cha ha raccontato il progetto di alta
formazione “Centauromachia” dedicato all’archeologia e ai miti dell’antica
Grecia. Sole ha parlato dell’importanza di mettere a sistema le varie offerte
formative e del fatto che la scuola italiana di Atene sia sempre stata un
presidio dell’italianità all’interno del territorio greco. “ Un argomento
fondamentale della nostra alta formazione – ha rilevato dal canto suo Marina
Venturella, dirigente scolastica dell’Istituto Italiano Statale
Omnicomprensivo di Addis Abeba– è la cooperazione allo sviluppo, sicuramente
perché si è guardato al territorio dove la scuola insiste, ovvero Etiopia e
Africa. In questo ambito l’azione dell’AICS si espleta in quelli che sono gli
obiettivi fondamentali legati allo sviluppo economico dei territori, con la
creazione di impieghi e dei servizi di base”. Umberto Casarotti, Coordinatore
didattico della scuola Paritaria “Fondazione Torino” di Belo Horizonte, ha
parlato del progetto “La città di Leo”, con cui la scuola ha vinto il premio
“call of proposals”. “La città di Leo – ha spiegato Casarotti – è un progetto,
che ha essenzialmente 2 pilastri fondamentali. Uno fa riferimento a quelle che
sono le indicazioni dell’ONU sui 17 obiettivi di sviluppo sostenibile, che
dovrebbero essere raggiunti entro il 2030. L’altro pilastro invece riguarda il
concetto di fab city, sono dei laboratori che danno accesso a tecnologie e
strumenti per poter sviluppare idee e progetti. La città di Leo – ha proseguito
Casarotti – si sviluppa in varie tappe, abbiamo prima di tutto fornito ai
ragazzi una serie di creazioni di repertorio, quindi sono state intervistate
persone che vivono all’interno della città, a questo punto degli specialisti
hanno presentato alcuni elementi dell’ONU, i ragazzi si sono interessati a
questi elementi, hanno formato dei gruppi, ed ogni gruppo è stato affiancato da
un tutor”. Nel corso del dibattito Filippo Romano, Capo dell’Ufficio per
il Sistema della formazione italiana nel mondo del Maeci, ha presentato la rete
delle scuole paritarie italiane all’estero “La rete nelle scuole paritarie
italiane all’estero – ha rilevato Romano – è un ulteriore tassello che abbiamo
messo in atto per creare nuove sinergie e condividere nuove pratiche anche sul
modello di quello che è già stato fatto per le scuole statali all’estero.
Abbiamo pensato di replicare questo modello di rete anche per le scuole
paritarie e devo dire che questa proposta ha riscosso molto successo”. La
tematica è stata presentata anche Annalisa Frigenti, Dirigente scolastica
Ufficio per il Sistema della formazione italiana nel mondo del Maeci. “Abbiamo
fatto un ciclo di riunioni online in questi mesi – ha segnalato la dirigente –
con tutte le università sulle certificazioni linguistiche, ci siamo sentiti in
seguito con i colleghi delle 7 scuole statali, con cui stiamo pensando ad una
serie di progetti, tra cui la rete delle 47 scuole paritarie. Al momento si
sono iscritte 26 scuole, ma spero di avere al più presto l’iscrizione di tutte
le scuole paritarie, perché abbiamo lasciato per l’adesione un periodo di tempo
di tempo. A maggio convocheremo la prima assemblea, ed è un momento di
condivisione importante. Gli obiettivi di questa rete – ha proseguito Frigenti
– sono quello di sviluppare iniziative ed attività comuni per contribuire alla
promozione e diffusione della lingua italiana nel mondo, anche rapportandosi
alle scuole statali all’estero o creando reti con enti, istituzioni,
fondazioni, agenzie educative e terzo settore per appositi progetti”. È stata
poi presentata la prima web radio interscolastica internazionale “Italia
RADIOsa”. “E’ la prima web radio interscolastica – ha spiegato Filippo Romano –
che mette in connessione il mondo delle scuole nel territorio nazionale, con il
mondo delle scuole italiane all’estero”. “Questo è un progetto che va ben oltre
le reti – ha rilevato Annalisa Frigenti – perché noi crediamo nelle reti di
reti… La radio – ha aggiunto – è partita con 2 scuole in Italia e le 7
scuole statali nel mondo, abbiamo avviato le attività di formazione dei ragazzi
che proseguiranno fino a luglio, abbiamo anche scritto al comitato Marconi,
perché il progetto era stato ideato per i 150 anni di Guglielmo Marconi ed i
100 anni della radio. Oggi presentiamo il progetto anche alle scuole paritarie
chiedendogli di aderire al progetto tramite l’invio di podcast”.
Lorenzo Morgia,
Inform/dip 15
Il viaggio a Washington e il dilemma di Meloni
Il compito che
aspetta la premier Giorgia Meloni durante la sua visita lampo a Washington è il
più classico degli esercizi di equilibrismo. Meloni dovrà allo stesso tempo
difendere gli interessi commerciali italiani, ribadire la prossimità
dell’Italia agli Stati Uniti ed evitare di creare una frattura interna all’Ue.
Il compito è arduo, visto che si tratta di obiettivi difficili da raggiungere e
ancor più difficili da conciliare.
Il costo delle
tariffe per l’Italia
L’Italia è uno dei
paesi più esposti ai dazi sulle importazioni dall’Ue adottati da Donald Trump
il 2 aprile, poi parzialmente sospesi dopo preoccupanti scricchiolii del
mercato obbligazionario. Gli Stati Uniti assorbono il 10% delle esportazioni
italiane e dal 2023 sono diventati il secondo mercato di destinazione dei
nostri beni, per un valore che l’anno scorso ha superato i 64,7 miliardi di
euro.
Se
l’amministrazione Trump dovesse confermare il dazio del 20% sull’Ue dopo
lo scadere della pausa a luglio, le perdite per gli esportatori italiani
sarebbero significative. I settori più colpiti includono macchinari e
apparecchiature, prodotti farmaceutici, automotive e mezzi di trasporto, oltre
che prodotti chimici, tessili e agroalimentare. Né il quadro sarebbe tanto più
roseo se si dovesse restare alla soglia attuale del 10% (era di circa l’1%
prima del 2 aprile), a cui vanno aggiunti i dazi del 25% su alluminio, acciaio
e autovetture. Ancor più preoccupante è la prospettiva che le tariffe generino
un rallentamento della crescita globale. Il governo Meloni ha già dimezzato le
prospettive di crescita per quest’anno.
Approccio
unilaterale o europeo
Il governo è
notoriamente scettico sull’efficacia di adottare controtariffe, sostenendo che
l’effetto sarebbe quello di aggiungere danno a danno. Si è sempre detto a
favore di una via negoziale. Questa è una posizione al momento in linea con
quella della Commissione europea, che ha deciso di mettere da parte una
rappresaglia contro le tariffe del 2 aprile e sospendere l’attuazione delle
contromisure in risposta ai dazi su acciaio, alluminio e auto che erano già
state approvate, nel tentativo di approfittare della pausa annunciata da Trump
per trovare un compromesso. Tuttavia, il commissario al commercio Maroš
Šef?ovi? e il suo team per il momento non hanno ottenuto nulla
dall’amministrazione Trump, se non la conferma che un certo livello di dazi
resterà senz’altro. Questo rende il compito di Meloni ancora più ingrato.
La coalizione di
governo ospita, come è noto, opinioni contrastanti. La Lega di Matteo Salvini
spinge per un negoziato bilaterale, mentre Forza Italia insiste sulla necessità
di una posizione coordinata con l’Ue. La prima strada è impraticabile perché la
politica commerciale è competenza esclusiva dell’Unione. Inoltre, cercare
esenzioni per i prodotti italiani creerebbe una frattura interna all’Ue,
isolerebbe l’Italia e ne ridurrebbe l’influenza nei negoziati su dossier
cruciali come l’eventuale rilassamento del Patto di stabilità e crescita o il
ricorso a risorse comuni per sostenere gli investimenti in difesa. È plausibile
pertanto che Meloni cerchi un’interlocuzione con Washington su questioni su cui
ritiene possibile possa avere sostegno da almeno una parte dei suoi partner
europei.
Può ben essere che
Meloni ribadisca di essere a favore dell’idea di un’area commerciale
industriale a zero tariffe già avanzata dalla Commissione, pur sapendo che non
c’è alcuno spazio. Ma il suo messaggio centrale non può che essere l’insistenza
sul rafforzamento della relazione transatlantica battendo su due tasti: la
competizione con la Cina e un accordo per aumentare le importazioni di beni
americani nell’Ue.
Un fronte su cui
questi obiettivi possono essere conciliabili è quello delle tecnologie della
comunicazione: dal 5G a Starlink, il sistema di comunicazione satellitare di
Elon Musk, l’amministrazione Trump inquadra l’acquisto di beni americani come
una scelta di campo fra Washington e Pechino per gli europei. Gli americani
sono anche interessati ad aumentare le vendite agli europei di gas naturale
liquefatto (gnl) e sistemi d’arma. Né è un segreto che l’amministrazione vede
le regolamentazioni Ue in campo digitale, ambientale e alimentare come
discriminatorie verso compagnie ed esportatori americani.
Margini di manovra
limitati
A meno che non si
decida per la linea unilaterale favorita dalla Lega, lo spazio di manovra di
Meloni è limitato. L’accettazione delle richieste americane risulterebbe in un
ulteriore aumento della dipendenza europea dagli Stati Uniti in un momento in
cui la domanda di una maggiore autonomia è diventata più urgente.
Il governo
italiano potrebbe superare le sue stesse reticenze ad adottare Starlink, ma
altri governi europei sono riluttanti a dare un’influenza strutturale a un
tecno-miliardario che non esita a interferire direttamente nella loro politica
interna appoggiando partiti di estrema destra e promuovendo disinformazione
anti-Ue. Il tema della sovranità digitale e tecnologica del resto è sempre più
presente nel dibattito interno all’Ue e non è un caso che la Commissione abbia
escluso la possibilità di rivedere le leggi europee che regolamentano la
concorrenza sui mercati digitali (Digital Markets Act) e impongono ai giganti
dell’high-tech di vigilare sui contenuti diffusi sulle piattaforme social
(Digital Services Act). È anche impossibile o quasi un allentamento delle
barriere all’importazione di prodotti agricoli americani trattati con ormoni o
lavati col cloro o cresciuti con organismi geneticamente modificati.
Dove la premier
italiana può avere più spazio di manovra in Europa è sul fronte dell’acquisto
di GNL americano, in teoria utile a compensare la riduzione delle importazioni
dalla Russia, sebbene decisamente più caro. Meloni potrebbe anche promettere di
incoraggiare acquisti europei di armi americane, anche se le scarse spese per
la difesa non fanno dell’Italia il candidato ideale per perorare la causa.
Meloni potrebbe promettere a Washington di battersi per un’applicazione meno
aggressiva delle regolamentazioni digitali (cosa che in parte la Commissione
sta già facendo), contro la tassazione di Big Tech (una questione nazionale ma
che ha peso nel dibattito europeo), e per la rimozione o quantomeno
rilassamento delle regolamentazioni ambientali (invise anche a molti attori
industriali europei).
Mission
impossible?
In definitiva, per
Meloni esiste uno spazio di convergenza fra interessi americani ed europei che
riflette tanto la sua visione strategica, quanto le sue convinzioni
ideologiche. Meloni è persuasa che i paesi europei non possano che far parte di
un ordine euro-atlantico centrato su Washington, e che se Washington cambia
rotta sia dovere degli europei adeguarsi invece di inseguire la chimera di una
maggiore autonomia.
Questo ben si
concilia con la sua idea di Occidente come una comunità di nazioni di origine
europea, legate fra loro non tanto dai valori universalistici della
liberaldemocrazia quanto da storia, tradizioni e radici religiose, una civiltà
che deve serrare i ranghi per proteggersi internamente dai migranti e dalle
élite globaliste ed esternamente dalla Cina.
Il problema per
Meloni è che questa amministrazione americana, pur ospitando un’ideologia
affine alla sua, sembra assai poco disposta a venire incontro alle sensibilità
dei paesi europei, che vuole non solo allineati ma anche divisi e deboli.
Meloni finora si è
dimostrata abile a navigare le acque di uno spazio atlantico in tempesta, e non
si può escludere che torni da Washington con qualcosa in mano. Ma alla lunga
conciliare le sue convinzioni ideologiche e strategiche con l’interesse italiano
in un commercio più aperto e in un’Europa più coesa e resiliente può diventare
una missione impossibile. Riccardo Alcaro, AffInt 16
L’Esecutivo porta
avanti una strategia che dovrebbe riequilibrare, col tempo, la nostra economia.
Però, ci vuole costanza e disciplina nell’adeguarsi alle regole. Così non è
facile focalizzare la realtà nazionale senza mettere in conto il nostro
comportamento. Siamo entrati in una sorta di limitazioni alle quali è meglio
adeguarsi. Non per timore, ma per coerenza. Dato che non siamo in grado di
attribuire “colpe” o “ragioni”, non ci resta che conformarci alla bisogna. La
“disciplina”, ora, resta una regola. La politica l’”impossibile” ha da lasciare
posto al ”possibile”.
Anche per non affossare l’economia nazionale,
che non è stata mai tanto in discesa, Il Primo Ministro metterà in campo le sue
strategie. Nel Bel Paese si dovrebbero non confondere le “necessità” collettive
con i “desiderata” dei singoli. Prima di tutto, la stabilità politica; il resto
seguirà col tempo. Dalla recessione se ne esce solo se l’economia torna a
essere integra.
E’ su questo
fronte che riteniamo restare al servizio dei Lettori. L’incertezza, figlia di
una situazione, imprevista e imprevedibile, dovrebbe essere, nei limiti di
ciascuno, ridotta. L’”impossibile”, in questo caso, non ha da trovare terreno
d’affermazione. Resta, però, da mantenere integra la volontà di ripresa; senza
“lacci” politici di sorta. Solo il “comportamento” di questo Governo dovrà dare
segnali di “coerenza”.
Giorgio Brignola,
de.it.press
Giovani in fuga: l’Italia perde i suoi talenti
L’Italia perde i
suoi talenti migliori mentre cresce l’emigrazione verso la Germania e avanza il
declino demografico
Mentre il
dibattito politico italiano si concentra sull’immigrazione verso il nostro
Paese, un fenomeno silenzioso ma altrettanto dirompente avanza con forza:
l’emigrazione dei giovani italiani. Secondo gli ultimi dati ISTAT, nel 2024 ben
191.000 persone hanno lasciato l’Italia, con un aumento del 20% rispetto
all’anno precedente. Di questi, 156.000 erano cittadini italiani, per lo più
giovani adulti e laureati. Un esodo che non si registrava con questa intensità
dai primi anni Duemila.
Tra il 2013 e il
2022, oltre un milione di persone ha trasferito la propria residenza
all’estero. Un terzo di loro aveva tra i 25 e i 34 anni e quasi il 38% era in
possesso di una laurea. Solo un’esigua minoranza – meno di un terzo – ha fatto
ritorno. Il saldo netto per l’Italia è drammatico: 87.000 giovani laureati in
meno nel giro di dieci anni.
La destinazione
preferita? La Germania (12,8%), seguita da Spagna (12,1%) e Regno Unito
(11,9%). In questi paesi i giovani trovano ciò che in Italia manca: stipendi
più alti, possibilità concrete di carriera, un mercato del lavoro più
meritocratico e flessibile.
Dietro questa fuga
non c’è solo il desiderio di fare un’esperienza all’estero, ma una sorta di
“esilio forzato”, come lo definisce l’economista Tito Boeri. «Oggi sono i
giovani i più infelici – ha dichiarato a La Stampa –. I loro salari crescono
meno rispetto a quelli degli over 50, e il sistema italiano premia più le
relazioni personali che il merito».
Un giovane manager
italiano trasferitosi a Londra, intervistato da un quotidiano tedesco, ha
riassunto così la differenza culturale: «Qui puoi anche uscire prima del tuo
capo, se hai portato a termine il lavoro. In Italia questo sarebbe
impensabile».
L’impatto di
questa emigrazione si inserisce in un contesto già segnato dal declino
demografico. Il tasso di fertilità italiano ha toccato un nuovo minimo: 1,8
figli per donna. Parallelamente, l’aspettativa di vita è in crescita e ha
raggiunto gli 83,4 anni nel 2024, con un balzo di 5 mesi in un solo anno.
Questo squilibrio
tra giovani in fuga e anziani in aumento aggrava la sostenibilità del sistema
pensionistico. Nonostante ciò, il governo – su spinta della Lega – continua a
puntare su pensioni anticipate per ragioni elettorali, bloccando l’aumento
dell’età pensionabile previsto dalla legge. Una scelta che cozza con la realtà:
l’Italia ha la seconda più alta spesa pensionistica d’Europa rispetto al PIL,
dopo la Grecia.
Se il Nord riesce
almeno in parte a compensare le perdite grazie alla migrazione interna, il Sud
Italia è la vera area in sofferenza. L’Istat parla apertamente di una “erosione
del capitale umano”: i migliori se ne vanno, pochi tornano, e il territorio resta
privo delle competenze necessarie per lo sviluppo.
L’Italia si trova
di fronte a una sfida esistenziale. Incentivare il rientro dei giovani, rendere
il mercato del lavoro più dinamico e meritocratico, investire in politiche per
la natalità e la conciliazione lavoro-vita privata: queste dovrebbero essere le
priorità.
Per ora, però, le
misure adottate sembrano più orientate alla gestione dell’immediato che alla
costruzione del futuro. E intanto, un pezzo dopo l’altro, il futuro dell’Italia
prende un volo sola andata. Licia Linardi, CdI on. 17
Rafforzare la rete dell’italianità all’estero con l’associazionismo
In un tempo in cui
il mondo sembra accelerare verso l’individualismo e la frammentazione, gli
italiani all’estero sentono più che mai la necessità di coesione, appartenenza
e riconoscimento. Vivere lontani dalla propria terra significa convivere ogni
giorno con una doppia identità: quella che si costruisce nel Paese
d’accoglienza e quella che ci portiamo dentro, come eredità culturale,
affettiva e storica. Quando si crea uno scollamento tra queste due dimensioni,
il rischio è lo smarrimento. Ed è proprio in questi momenti che dobbiamo
tornare alle origini, a ciò che ci tiene uniti: l’associazionismo.
L’associazionismo
non è solo una struttura organizzativa o un insieme di eventi: è una forma di
resistenza culturale. È un modo per continuare a sentirsi parte di un tutto,
per custodire la memoria collettiva, per trasmettere ai giovani i valori, la
lingua, le tradizioni, e quel senso di italianità che non si misura solo con i
documenti, ma con il cuore. Anche se molte associazioni storiche chiudono, ciò
che non può e non deve venir meno è lo spirito che le ha generate: la volontà
di restare comunità.
Con oltre 7
milioni di iscritti all’AIRE sparsi in tutto il mondo, l’Italia non può più
permettersi di vedere questi cittadini come un’appendice, una voce distante del
bilancio nazionale. Sono una risorsa viva, un’estensione dell’identità
nazionale, un ponte tra culture, economie e visioni. Ma per far sì che questa
rete sia realmente attiva e solida, occorre ripensare radicalmente gli
strumenti di rappresentanza.
Oggi i Com.It.Es.
e il CGIE, per quanto nati con nobili intenzioni, faticano a interpretare i
bisogni delle nuove generazioni e dell’emigrazione contemporanea. Le forme
della rappresentanza non possono rimanere cristallizzate mentre il mondo
cambia. Occorre riformarle con coraggio, restituendo loro dinamismo,
operatività e un legame reale con le comunità. I Com.It.Es., ad esempio, devono
essere messi in condizione di collaborare a stretto contatto con la propria
comunità, non come entità burocratiche, ma come veri e propri nodi vitali di
una rete. Il dialogo con i Consolati deve essere continuo, sinergico, fondato
su obiettivi comuni: solo così si potrà trasmettere all’esterno un’immagine
unitaria, autorevole e rispettata.
Il CGIE, dal canto
suo, ha bisogno di essere riconosciuto dallo Stato per quello che realmente
rappresenta: la voce organica e complessa dell’emigrazione italiana nel mondo.
È da lì che passa la possibilità di ascoltare, comprendere e rispondere alle
istanze dei nostri connazionali. Ma per farlo, deve essere messo nelle
condizioni operative e politiche adeguate. Non basta più che esista: deve
contare.
Oggi, purtroppo,
la situazione è diventata insostenibile. Gli italiani all’estero sentono il
peso dell’invisibilità. La distanza non è solo geografica: è emotiva,
culturale, istituzionale. L’integrazione nei Paesi d’accoglienza – se non
accompagnata da un dialogo aperto con le istituzioni italiane – rischia di
trasformarsi in assimilazione. E con il tempo, l’italianità si sbiadisce, si
perde, si riduce a un ricordo sbiadito nei racconti dei nonni.
Ma l’italianità
non è folklore. Non è una cartolina, un piatto di pasta, o una canzone
nostalgica. È coscienza. È sentirsi parte di una storia millenaria, è portare
nel mondo un modo unico di guardare alla vita, di costruire relazioni, di
creare bellezza. E quando questo legame si spezza, si perde molto più di una
lingua o di una tradizione: si perde un pezzo della nostra anima collettiva.
Forse è proprio
questo che, in modo implicito o inconsapevole, alcuni governi hanno accettato:
trasformare gli italiani all’estero in semplici consumatori del Made in Italy,
in veicoli di promozione turistica, in numeri da esibire nelle statistiche. Ma
un popolo non si misura con le esportazioni, si misura con l’identità. E
l’identità va nutrita, ascoltata, rispettata.
Finché ci sarà
anche un solo italiano nel mondo che si sentirà tale nel profondo, quel
tricolore continuerà a sventolare con dignità. Non come simbolo retorico, ma
come bandiera viva di un’appartenenza che chiede solo di essere riconosciuta.
Ed è nel suo nome – nel nome di milioni di italiani che ancora credono, sperano
e costruiscono – che dobbiamo rafforzare questa rete. Non solo per non
dimenticare, ma per continuare a vivere da italiani, ovunque siamo.
Carmelo Vaccaro,
consigliere cgie, aise/dip 15
Il permanere degli
atti di guerra nel mondo, stimola l’urgenza d’esporre una riflessione
sull’importanza della Democrazia al confronto della violenza che è sempre stato
l’arma dei prepotenti. Solo la “Democrazia” è una tangibilità esercitata dal
Popolo tramite i suoi Rappresentanti.
Essa si fonde sul
concetto, inscindibile, di “sovranità”. Tutto ciò che capita al di fuori di
questo costrutto, può anche essere “destabilizzazione”. Idea che pretende
d’imporre un sistema sotto la dipendenza con la violenza. Purtroppo, non siamo
nuovi a fatti di guerra, la cui matrice, qualunque essa sia, è sempre
riprovevole.
Non è con la violenza, a fronte di tante
vittime innocenti, che un’idea potrà trovare spazio in una società che fonda le
sue radici nella libera convivenza. Il dialogo ha da subentrare alla
coercizione, i segni di buona volontà, alle armi e alla violenza. I progetti
non si possono affermare in altro modo. Subirli, col terrore, non è una
soluzione; ma solo l’acuirsi di un problema. La convivenza dei Popoli, senza
sconfinamenti di territorio e di potere estorto, traccia la via per garantire la vita e la pace. Cioè la
Democrazia.
Ne deriva che è
meglio affrontare, con la certezza d’essere nel giusto, ogni azione atta a non
confondere gli equilibri socio/politici del mondo in essere. La vita, in tutte
le sue manifestazioni, è sacra. La guerra, alla fine, ricade su chi l’ha
cagionata. La storia è la testimone di quanto abbiamo rilevato. Meglio non
dimenticarlo mai.
Giorgio Brignola,
de.it.press
Gli Stati Generali della lingua italiana nel mondo
ROMA – Si sono
tenuti al MAXXI di Roma gli Stati Generali della lingua italiana nel mondo,
indetti dal MAECI, considerati come il principale appuntamento sulla promozione
della lingua italiana nel mondo. L’evento ha rappresentato un momento di
riflessione tra le istituzioni e la società civile per la costituzione di una
“Comunità dell’italofonia” in occasione della prossima Conferenza
Internazionale dell’Italofonia. Il Presidente della Fondazione MAXXI,
Maria Emanuela Bruni, ha aperto i lavori precisando anzitutto ciò che
rappresenta la lingua italiana in senso identitario: “è una delle espressioni
più profonde della nostra identità, è ciò che ci precede e ciò che ci definisce
come una radice che nutre”. Bruni ha evidenziato che la lingua connota la nostra
cultura: “la lingua non è mai solo una parola, è un segno e un’immagine”, ha
aggiunto ricordando che proprio attraverso la lingua l’Italia si racconta al
mondo. Una studentessa ha quindi dato lettura al messaggio del Presidente della
Repubblica, Sergio Mattarella. “La lingua, prima ancora di essere un veicolo di
comunicazione, si identifica con un universo di sapere ricchissimo”, ha
spiegato Mattarella invitando a continuare ad alimentare quella curiosità
culturale che è alla base della diffusione dell’italiano nel mondo. “Nelle
visite all’estero ho sempre constatato quanto interesse ci fosse per la nostra
lingua: una testimonianza che ho raccolto non solo nei Paesi dove risiedono
comunità italiane e di italo-discendenti”, ha evidenziato Mattarella definendo
questo incontro come momento importante anche in vista della Conferenza
internazionale dell’italofonia che si terrà a Roma nel prossimo autunno. Sono
seguite testimonianze di studenti stranieri di lingua italiana del Collegio del
Mondo Unito di Duino: “l’Italia è una seconda casa e mi ha accolto
calorosamente”, ha espresso ad esempio una ragazza afghana che è salita sul
palco insieme ad altri quattro studenti: un israeliano, un palestinese, un
russo e un’ucraina. Ha poi preso la parola il Ministro degli Esteri, Antonio
Tajani, che ha fatto eco ai messaggi di speranza e pace giunti dalla presenza
di questi studenti appartenenti anche a nazioni tuttora in conflitto. “Quello
dell’Italia è un messaggio di pace: quando ascoltiamo questi ragazzi che
parlano di pace e non di odio vuol dire che la pace si può costruire e si deve
raggiungere. Certo, deve essere una pace giusta ma questo deve essere il nostro
obiettivo”, ha spiegato Tajani definendo la lingua italiana un ponte di pace.
“Abbiamo il dovere di difendere l’italiano”, ha aggiunto Tajani invitando gli
studenti, anche italiani, a parlarlo correttamente. Il Ministro poi ha
ricordato che l’italiano è lingua ufficiale anche in Paesi come Svizzera, San
Marino, Vaticano, Slovenia e Croazia. “Nella prossima Conferenza Internazionale
dell’Italofonia vogliamo coinvolgere anche tutti quei Paesi che hanno una
tradizione di italofonia: gli italofoni nel mondo sono circa 80 milioni”, ha
ricordato Tajani rendendo omaggio al padre della lingua italiana ossia Dante
Alighieri e allo stesso tempo parlando dell’italiano come di un veicolo anche
per la promozione del Made in Italy. Il Ministro ha poi segnalato come
l’italiano abbia influenzato anche il modo di parlare di alcune comunità
ispanofone, lì dove sono più presenti storicamente le comunità italiane:
ovviamente il riferimento non poteva non andare all’America Latina. Tajani ha
poi segnalato la forzatura eccessiva che si vede nell’uso di termini
inglesi al posto di espressioni equivalenti in italiano che, tra l’altro, hanno
spesso anche sfumature più ampie e raffinate. A seguire è intervenuto il
Ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, che ha parlato
dell’idea della costituzione di una comunità globale dell’italofonia. “La
promozione della lingua e della cultura italiane sono uno strumento chiave per
diffondere i nostri valori e per diffondere il nostro saper fare e le
eccellenze italiane”, ha spiegato Valditara parlando di strumenti per far
crescere l’economia e più in generale la nazione. Il Ministro ha poi espresso
soddisfazione per l’aumento di sezioni di lingua italiana nelle scuole
straniere. “C’è necessità di espandere le scuole italiane all’estero”, ha
aggiunto Valditara sottolineando che sempre più giovani sembrano essere
appassionati alla nostra lingua e che il nostro è uno stile di vita che
affascina. “Pensiamo a quello che ha rappresentato la cultura latina nel mondo
o la storia di Roma e la civiltà cristiana”, ha precisato il Ministro
suggerendo di tornare a un rapporto più stretto con il nostro passato. Dal
canto suo il Presidente della Dante Alighieri, Andrea Riccardi, si è soffermato
sul tema dell’italofonia considerato un punto importante per far avanzare
l’orgoglio della lingua italiana. “Non siamo ingenui: sappiamo che la lingua
italiana non è imperiale come quella di Spagna, Francia, Gran Bretagna e
Portogallo ma non è neanche una lingua provinciale. Provinciale è
l’atteggiamento rinunciatario verso la lingua”, ha spiegato Riccardi parlando
di una lingua farcita delle parole di Dante e della Divina Commedia. “La patria
non è tutta dentro i confini materiali dello Stato”, ha aggiunto Riccardi
citando una frase di Carducci o meglio un concetto fondamentale per
l’italofonia attuale che si nutre tra l’altro di una crescente simpatia nel
mondo per il nostro idioma. Riccardi ha dunque evidenziato che l’italiano non è
solo una lingua di uso interno ma attrae anche scrittori non italiani. Secondo
il Presidente della Dante Alighieri l’italofonia è una rete che tiene insieme
mondi diversi: riesce a farlo in “un mondo che, nella vertigine della
globalizzazione, ha superato tante frontiere ma ne ha create di nuove”.
Fra gli altri
interventi segnaliamo quello del Direttore Generale per la Diplomazia Pubblica
e Cultura Alessandro De Pedys che ha auspicato la creazione di una vera
comunità attorno al concetto di italofonia: un progetto che naturalmente
necessita di negoziazione con le controparti estere tramite le ambasciate, i
consolati, gli Istituti di Cultura e la Dante Alighieri. “Sarà un lavoro
complesso per non sprecare quanto fatto finora”, ha aggiunto De Pedys
sottolineando che dall’Italia ci si aspetta un’offerta culturale in grado di
rispecchiare l’interezza del proprio patrimonio. Allo stesso tempo
bisognerà riflettere su quale possa essere il potenziale pubblico nelle diverse
aree del mondo, in base anche alle sensibilità locali. Il Direttore Generale ha
anche segnalato gli importanti investimenti messi in campo da altri Paesi per
la promozione della propria lingua, superiori a quelli posti in essere
dall’Italia. De Pedys ha anche sottolineato come questa edizione degli Stati
Generali sia da intendere come tappa di avvicinamento alla Conferenza
internazionale dell’italofonia quale punto di partenza per la costituzione di
una comunità dell’italofonia. Un appuntamento, quello della Conferenza, che in
futuro potrebbe ripetersi negli anni e diventare strutturale coinvolgendo
realtà estere. Nei prossimi mesi verrà poi definita la struttura della nuova
comunità, nonché gli enti partecipanti. (Inform/di 16)
Cittadinanza: il parere con osservazioni approvato dalla Commissione Esteri
ROMA - È stato
approvato questa mattina in Commissione Affari Esteri al Senato il parere sul
decreto – cittadinanza del 28 marzo, all’esame degli Affari Costituzionali.
Stilato dal senatore Roberto Menia – relatore del testo in III Commissione – il
parere annovera tra le osservazioni l’opportunità di riconsiderare il
presupposto della nascita in Italia degli ascendenti, l’auspicio che si
prevedano norme per il riacquisto della cittadinanza, l’opportunità di inserire
test di lingua e che si prevedano “percorsi facilitati” per “discendenti di
cittadini o ex cittadini italiani residenti in Paesi vittime di regimi
dittatoriali, anche in direzione dell'acquisto agevolato della cittadinanza”.
Nel dibattito che
ha preceduto il voto, Spagnolli (Aut (SVP-PATT, Cb)) ha dichiarato il voto
contrario della propria parte politica sostenendo che “il provvedimento
rappresenta, effettivamente, una sorta di espropriazione di competenze da parte
del Governo nei confronti dell'organo legislativo, che dovrebbe essere titolato
prima facie a regolamentare una materia così delicata come quella della
cittadinanza”. Nel merito, “non può essere condivisa la filosofia di fondo,
sottesa al decreto-legge, che, nei fatti, tende a non facilitare la vita dei
vari connazionali che all'estero vogliono sentirsi italiani”.
Critico anche il
senatore Alfieri (Pd) che ha comunque dato atto a Menia di aver “ulteriormente
affinato la sua bozza di parere”; nonostante ciò “le molteplici criticità
menzionate nel dispositivo contraddicono il tenore stesso del parere, che
risulta formalmente favorevole”. Per il senatore Pd, con il decreto –
cittadinanza, il Governo “ha deciso di passare, evitando ogni pur minima
occasione di approfondimento, da una situazione che potrebbe essere definita di
"lassismo", in materia di concessione della cittadinanza per le
persone di origine italiana residenti all'estero, ad una situazione che
improvvisamente dispone una disciplina tranchant e rigida nella materia”.
Annunciando il voto contrario del Pd, Alfieri ha concluso “confidando nella
possibilità di enucleare possibili emendamenti al testo durante l'esame nella
Commissione di merito”.
Il voto contrario
dei 5 Stelle è stato annunciato da Marton; divisioni nella Lega: se il voto
favorevole del partito è stato confermato da Pucciarelli, il collega Dreosto ha
deciso di astenersi vista “la delicatezza e la complessità di una problematica
come quella riguardante la cittadinanza”.
Confermando il
voto favorevole di Fratelli d’Italia, Barcaiuolo ha ricordato la possibilità di
discutere “eventuali proposte migliorative” in I Commissione.
I senatori hanno
quindi approvato il parere con osservazioni proposto da Menia.
“La Commissione
affari esteri e difesa,
esaminato il
disegno di legge in titolo per gli aspetti di propria competenza;
preso atto delle
disposizioni di cui all'articolo 1, comma 1, che recano modifiche alle norme in
materia di cittadinanza e che sono volte a rafforzare la necessità di un
vincolo effettivo con l'Italia da parte dei figli nati all'estero da cittadini
italiani;
valutate altresì
le norme di cui all'articolo 1, comma 2, che dispongono in ordine alle
controversie in materia di accertamento della cittadinanza, in particolare con
riferimento all'onere della prova e all'inammissibilità di giuramento e prova
testimoniale;
evidenziato come
la materia oggetto del provvedimento risulti particolarmente complessa e
necessiti di una valutazione attenta non solo in ordine alle conseguenze
giuridiche derivanti dall'applicazione delle nuove norme ma anche in ordine ad
un possibile affievolimento di diritti finora garantiti ai discendenti degli
Italiani;
espressi
sentimenti di preoccupazione circa la possibilità che interpretazioni
eccessivamente restrittive delle nuove norme sulla cittadinanza per discendenza
iure sanguinis potrebbero creare sentimenti di disaffezione nelle comunità
degli Italiani all'estero e dei loro discendenti;
espresso il
convincimento che il tema della cittadinanza italiana non riguardi unicamente
uno status giuridico ma abbia a che fare con realtà vive, intessute di storia,
di sacrifici e di legami familiari che andrebbero preservati, e ritenuto che la
lingua costituisca un patrimonio e uno dei principi fondanti della trasmissione
della cittadinanza stessa;
richiamata
l'importanza anche di considerare il trend demografico in atto nel territorio
nazionale al fine di individuare misure legislative che favoriscano l'aumento
della popolazione italiana e il possibile ritorno in Italia di quanti abbiano
un vincolo effettivo con il nostro Paese e intendano preservare e perpetuare
tale legame anche attraverso l'accesso alla cittadinanza;
ritenuto altresì
che le misure normative in via di approvazione debbano rafforzare i legami
culturali e linguistici della comunità di origine italiana con la madrepatria,
evitando, in particolare di escludere dall'accesso alla cittadinanza proprio
coloro che intendano tenere viva l'italianità anche in contesti geografici
lontani dal territorio nazionale;
auspicando
attenzione crescente e maggiori risorse per la diffusione e valorizzazione
della lingua e della cultura italiana all'estero ed in particolare presso le
comunità degli Italiani iscritti all'Anagrafe Italiani residenti all'estero;
esprime, per
quanto di competenza, parere favorevole, con le seguenti osservazioni:
- che il
presupposto della nascita nel territorio nazionale di un ascendente di primo
grado di genitore o adottante possa essere riconsiderato o ampliato;
- che
nell'adozione delle nuove disposizioni in materia di cittadinanza si possano
valutare elementi di riequilibrio del criterio territoriale della nascita;
- che si prevedano
norme puntuali per il riacquisto della cittadinanza per quanti l'abbiano persa
in ragione di normative restrittive previgenti, sia nazionali che estere;
- che si valuti
l'opportunità di introdurre elementi per la valutazione della cittadinanza
consapevole per i casi di nuovo accesso alla cittadinanza, accompagnando il
percorso giuridico in direzione della cittadinanza con momenti di formazione e
requisiti verificabili di conoscenze linguistiche e culturali;
- che si prevedano
percorsi facilitati per l'accoglienza nella comunità nazionale a favore di
discendenti di cittadini o ex cittadini italiani residenti in Paesi vittime di
regimi dittatoriali, anche in direzione dell'acquisto agevolato della
cittadinanza”. (aise/dip)
“Verso una Comunità globale dell'Italofonia”
La dichiarazione
conclusiva degli Stati Generali della Lingua italiana nel mondo 2025
ROMA - Si sono
tenuti questa mattina, presso l’Auditorium del MAXXI di Roma, gli Stati
Generali della lingua italiana nel mondo. Principale appuntamento sulla
promozione della lingua italiana nel mondo, gli Stati Generali hanno fornito un
momento di riflessione tra istituzioni e società civile in vista della
Conferenza Internazionale dell’Italofonia che si terrà entro la fine dell’anno.
Non a caso la manifestazione, giunta alla sua quinta edizione, è stata
intitolata quest’anno “Verso una comunità globale dell’italofonia”, titolo dato
anche alla Dichiarazione finale dei lavori.
Ne riportiamo di
seguito il testo integrale.
“Consapevoli che
la lingua, presupposto essenziale per il dialogo tra le culture e tra i popoli,
è un prezioso strumento a servizio della costruzione e del mantenimento della
pace, della prevenzione dei conflitti e della cooperazione tra gli Stati e tra le
comunità di persone;
Considerando che
l'italiano, per storia e per vocazione, è lingua privilegiata di dialogo,
creatività e scambio, in grado di costruire ponti fra i popoli a sostegno di
una visione dei rapporti internazionali fondata sul rispetto, sulla libertà,
sulla tutela dei diritti umani e sulla cooperazione multilaterale:
Considerando che
l'italiano, lingua di bellezza, cultura e scienza, ha fornito un contributo
conoscitivo inestimabile al patrimonio letterario, artistico e musicale
mondiale e al progresso scientifico dell'umanità;
Considerando che
l'italiano, coniugando tradizione e innovazione, sapere umanistico e conoscenza
scientifica, arte e industria, si fa portavoce di una contemporaneità che,
sulla solidità delle proprie radici storiche e culturali, è proiettata verso il
futuro;
Considerando che
la lingua italiana è patrimonio di una comunità di territori, popoli e culture,
che vedono in essa un elemento della propria identità e dei propri valori;
Riconoscendo il
ruolo delle comunità di italo-discendenti, delle diaspore in Italia, degli
italiani all'estero e di tutti gli italofili per la diffusione nel mondo della
lingua italiana e la trasmissione della sua identità:
Riconoscendo il
valore aggiunto di una rete di coordinamento e scambio tra Stati, popoli,
soggetti privati, enti pubblici e persone - ed in particolare i giovani - uniti
dalla conoscenza e dalla passione per la lingua italiana;
Coscienti che la
funzione della lingua italiana quale motore di relazioni commerciali e vettore
per l'internazionalizzazione delle imprese possa contribuire a rafforzare il
partenariato economico tra le entità italofone e alimentare crescita e
innovazione condivisa;
Consapevoli che
l'interesse comune per l'Italofonia possa contribuire a promuovere le relazioni
culturali, educative, accademiche e scientifiche tra Stati e società civili:
Riconoscendo il
contributo che la diffusione della lingua italiana può offrire alla tutela del
pluralismo linguistico quale elemento essenziale per la salvaguardia del
patrimonio culturale universale e il
dialogo tra i
popoli;
Sottolineando
l'importanza di rafforzare la comunicazione pubblica in lingua italiana anche
nello spazio digitale, come contributo alla diffusione di una informazione
plurale, affidabile, libera da manipolazioni e discorsi d'odio;
Consci del ruolo
dell'italiano nel mondo in quanto lingua di inclusione e civiltà, veicolo dei
principi di solidarietà e strumento di dialogo tra culture, fedi e religioni
diverse;
AUSPICHIAMO
l'istituzione di
una Comunità dell'italofonia formata da Stati e rappresentanze della società
civile unite dall'interesse e dalla passione per la lingua italiana, che abbia
tra le sue finalità: la promozione del dialogo politico e della cooperazione
internazionale; la promozione degli scambi e dei legami tra le società civili e
le persone italofone; lo sviluppo delle relazioni culturali, economiche,
scientifiche e accademiche tra i suoi membri.
INVITIAMO
a tutelare in ogni
modo la lingua italiana, ampliandone ove possibile gli ambiti di utilizzo a
livello internazionale così come nello spazio digitale.
COMPOSIZIONE
A tal fine,
auspichiamo che la Comunità dell'Italofonia possa fondarsi sulla piena
condivisione di obiettivi e modalità operative da parte dei suoi membri. Essa
rappresenterebbe uno spazio di condivisione e promozione di iniziative
volontarie, di scambio di contenuti e di arricchimento reciproco, senza
generare obblighi per le parti coinvolte.
Invitiamo le Parti
a considerare la creazione di un Segretariato della Comunità dell'Italofonia,
che ne guidi l'operato, e la realizzazione di una Conferenza di Stati, persone,
soggetti, Istituzioni e Associazioni che, su base biennale, quale piattaforma
di dialogo politico, possa definirne le linee strategiche, definirne gli
strumenti e discutere delle tematiche specifiche che dovessero essere poste
alla sua attenzione.
Il Segretariato
della Comunità dell'Italofonia riceverebbe impulso, nella sua attività di
gestione, dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale
e dalla Società Dante Alighiert.
In tale schema,
tutti i membri della Comunità sono parte di una piattaforma digitale che
assicura la formazione di una rete di contatti e scambi, così come l'accesso e
la condivisione di un ampio ventaglio di contributi che valorizzi in primis i
circuiti già attivi, e il materiale e le esperienze già disponibili sul piano
della promozione della lingua.
Ogni Stato e/o
entità membro della Comunità dell'Italofonia nomina un referente responsabile
di monitorare le iniziative di interesse e può a sua volta costituire e/o
partecipare a reti più ristrette su base settoriale o tematica.
MANDATO
Per raggiungere le
finalità sopra indicate, invitiamo i futuri membri della Comunità
dell'Italofonia a valutare le seguenti azioni e aree di intervento, quale punto
di partenza per un'azione che preveda e includa successivi e ulteriori
orizzonti di collaborazione:
• Creazione di una
rete tra gli amanti della lingua italiana, che dia un adeguato spazio anche
alle comunità di italiani residenti all'estero, e che sia in grado di
valorizzare le risorse e le specificità di ogni singola comunità
dell'Italofonia;
• Rafforzamento e
promozione dell'insegnamento della lingua italiana in ogni contesto formativo,
con particolare riguardo ai percorsi educativi per fini professionali, e della
formazione dei docenti, anche tramite il ricorso all'Intelligenza Artificiale;
• Valorizzazione e
consolidamento dei Dipartimenti e delle cattedre di italianistica e dei Centri
linguistici di lingua italiana nei contesti formativi superiori all'interno di
un sistema di collaborazione tra tutte le componenti coinvolte;
• Rafforzamento
della collaborazione accademica e della mobilità di studenti, docenti e
ricercatori, anche mediante la predisposizione di corsi di laurea congiunti in
lingua italiana, l'offerta di borse di studio per programmi di scambio e di
ricerca, con particolare riferimento a quelli relativi alle discipline nel
campo dell'italianistica, e l'organizzazione di Summer school
"Italofonia", con la partecipazione di studenti da tutto il mondo;
• Potenziamento e
valorizzazione della rete delle biblioteche e delle librerie italiane
all'estero in quanto luoghi privilegiati per il dialogo e lo scambio
interculturali e per la nascita di nuove comunità italofone;
• Rafforzamento
della collaborazione nel settore editoriale, anche mediante programmi di
incentivi ad hoc per la traduzione di opere da e verso l'italiano e la
pubblicazione di opere in italiano, anche di carattere scientifico;
• Valorizzazione
della lingua italiana quale strumento per la redazione di opere letterarie
scritte da autori e autrici italofoni, costituendo - nell'ambito della Comunità
- l'Assemblea degli scrittori e delle scrittrici italofoni;
• Messa a punto di
iniziative collettive di comunicazione in lingua italiana, anche attraverso la
definizione di progetti in ambito televisivo, radiofonico o più in generale
mediatico.
• Organizzazione
di iniziative culturali e/o promozionali, con particolare riferimento
all'ambito del teatro, del cinema, della musica, della moda e della
gastronomia, volte a dare espressione all'identità della Comunità
dell'Italofonia e a rafforzare l'interesse e la conoscenza dell'italiano nel
mondo, anche attraverso l'individuazione di figure di riferimento, e
nell'ambito di ricorrenze e anniversari di rilievo;
• Organizzazione
di iniziative volte a rafforzare gli scambi economici e commerciali tra i Paesi,
come forum di imprese, anche nell'ottica del contrasto all'Italian sounding; Rafforzamento
della collaborazione scientifica, con valutazione degli spazi per una maggiore
presenza di contributi in lingua italiana all'interno dei programmi nazionali,
con progetti specifici per Paesi e settori, e con incentivi alle pubblicazioni
in lingua italiana nelle scienze dure e nelle discipline quali architettura e
ingegneria;
• Sostegno ai
contenuti in lingua italiana nello spazio digitale, nei settori tecnologici e
nell'ambito dell'Intelligenza Artificiale, anche nell'ottica di favorire lo
sviluppo di linguaggi e processi di lA in lingua italiana;
• Sviluppo di una
rete in italiano delle istanze di solidarietà e cooperazione, che valorizzi uno
degli ambiti a cui è maggiormente associata la lingua italiana”. (aise/dip 16)
Erste Maßnahmen geplant. Dobrindt
will Asylpolitik „vom Kopf auf Füße stellen“
Im Wahlkampf war ein
Kurswechsel bei der Zuwanderung eines der wichtigsten Themen. Umsetzen soll das
nun CSU-Mann Dobrindt. Er gibt sich zuversichtlich und verweist auf seine
ersten Pläne. Viele davon stehen bei Menschenrechtlern in der Kritik.
Die im Wahlkampf von der
Union versprochene Wende in der deutschen Migrationspolitik steht ganz oben auf
der Prioritätenliste des designierten Bundesinnenministers Alexander Dobrindt.
„Wir müssen die Polarisierung in Deutschland zurückdrängen. Wir müssen die
Balance wiederherstellen“, sagte der CSU-Politiker RTL/ntv. Beobachter
verweisen darauf, dass die unionsgeführte Migrationsdebatte selbst erheblich
zur gesellschaftlichen Spaltung beigetragen habe.
„Die Migrationsfragen müssen
geklärt werden. Wir müssen die Migration wieder vom Kopf auf die Füße stellen
und das heißt, dafür zu sorgen, dass die Zahlen runtergehen“, betonte Dobrindt.
Er habe bereits erste Maßnahmen geplant: „Wir werden an den Grenzen dafür
sorgen, dass die Zurückweisungen deutlich steigen. Wir werden den
Familiennachzug aussetzen, und wir werden zurückführen, auch in Länder wie
Syrien und Afghanistan.“ Solche Rückführungen gelten wegen der weiterhin
unsicheren Lage in vielen dieser Staaten als menschenrechtlich
hochproblematisch und werden von Hilfsorganisationen scharf kritisiert.
Dobrindt erwartet
Diskussionen in der Koalition
Dobrindt erklärte, zwar müsse
man sich innerhalb einer Koalition immer wieder abstimmen und das werde auch zu
Diskussionen führen, „aber wir haben im Koalitionsvertrag harte Maßnahmen
vereinbart, um die Migrationswende zu ermöglichen. Und meine Aufgabe ist es,
die auch entsprechend umzusetzen und zu erfüllen.“ Viele dieser Maßnahmen
betreffen Grundrechte von Geflüchteten, etwa durch Einschränkungen beim
Familiennachzug oder durch beschleunigte Rückführungsverfahren.
Bereits vor der
Bundestagswahl waren die Zuwanderungszahlen in Deutschland nach Angaben des
Bundesinnenministeriums wieder deutlich gesunken. Im vergangenen Jahr hatten
229.751 Menschen erstmals in Deutschland einen Asylantrag gestellt. Das waren
rund 100.000 Asylerstanträge weniger als im Jahr zuvor. Dennoch blieb Migration
ein zentrales innenpolitisches Thema im Wahlkampf.
Im Koalitionsvertrag von
CDU/CSU und SPD heißt es: „Wir werden in Abstimmung mit unseren europäischen
Nachbarn Zurückweisungen an den gemeinsamen Grenzen auch bei Asylgesuchen
vornehmen.“ Neue freiwillige Bundesaufnahmeprogramme wird es nicht geben. Mindestens
zwei Jahre lang soll es keinen Familiennachzug zu Menschen mit eingeschränktem
Schutzstatus geben. Diese Aussetzung trifft besonders schutzbedürftige
Geflüchtete und stößt bei Menschenrechtsorganisationen auf deutliche Kritik.
(dpa/mig 30)
Europäische Hochschulen als Motor
der Veränderung in Europa
Im Rahmen der bundesweiten
Europawochen im Mai veranstaltet der Deutsche Akademische Austauschdienst
(DAAD) ab heute (30.4.) die „Wochen der Europäischen Hochschulen“. Die
Themenwochen bieten rund um den Europatag am 9. Mai vielfältige Einblicke in
die Arbeit der Europäischen Hochschulallianzen. 37 deutsche Hochschulen
beteiligen sich mit rund 50 Angeboten in 20 Städten sowie online.
Bonn. „Die Europäischen
Hochschulallianzen haben das Potenzial, die Hochschullandschaft in Deutschland
und der gesamten EU mit innovativen Formen von Zusammenarbeit und Mobilität zu
verändern. Dies kommt nicht nur Studierenden, Forschenden und Lehrenden zugute,
sondern der gesamten europäischen Gesellschaft: Allein bis 2023 haben die
Allianzen mehr als 600 gemeinsame Studiengänge entwickelt, davon rund 160 mit
gemeinsamem Abschluss. 14 Allianzen haben zudem einen gemeinsamen rechtlichen
Status geschaffen, um ihre Zusammenarbeit langfristig zu institutionalisieren –
der erste Schritt zu wirklichen Europäischen Universitäten. So fördern die
Europäischen Hochschulallianzen das, was Enrico Letta in seinem Bericht zur
Zukunft des Binnenmarktes als ‚fünfte Freiheit‘ bezeichnet hat: Lernen,
Studieren, Lehren und Forschen ohne Grenzen. Darauf wollen wir erneut mit den
Themenwochen zu den Europäischen Hochschulen hinweisen“, sagte DAAD-Präsident
Prof. Dr. Joybrato Mukherjee.
Themenwochen zum Europatag
Die DAAD-Themenwochen finden
rund um den Europatag (9. Mai) vom 30. April bis 30. Mai statt. Sie bieten
Einblicke, wie die Europäischen Hochschulallianzen die Vielfalt europäischer
Forschung, Lehre, Innovation und Transfer in neuen Strukturen bündeln, um den
Herausforderungen Europas zu begegnen. Geplant sind Podiumsdiskussionen,
Informationsstände, Workshops, Social-Media-Kampagnen, Radiobeiträge und
virtuelle Vorlesungen. Die Veranstaltungen richten sich an Studierende,
Lehrende und Forschende sowie die interessierte Öffentlichkeit.
Folgende Aktionen sind unter
anderem geplant:
* „From Advocacy to
Action" eine öffentliche Podiumsdiskussion an der Universität Heidelberg.
* “European Union Week” ein
hybrides Veranstaltungsformat an der Technische Universität München.
* „ENLIGHT
Förderausschreibungen 2025: Unterstützung internationaler Zusammenarbeit“ eine
Informationsveranstaltung der Georg-August-Universität Göttingen.
Europäische
Hochschulallianzen
Die Europäischen
Hochschulallianzen sind grenzüberschreitende Hochschulverbünde, die gemeinsam
innovative Lehr- und Lernformate sowie neue Kooperationsformen bei Bildung,
Forschung und Technologietransfer entwickeln. Aktuell fördert die EU im Rahmen
von Erasmus+ 65 Allianzen mit mehr als 500 beteiligten Hochschulen. 67 deutsche
Hochschulen sind an 59 Allianzen beteiligt – mehr als jedes andere EU-Land.
Nationales Begleitprogramm
In Deutschland fördert der
DAAD die deutschen Hochschulen im Rahmen des vom BMBF finanzierten
Begleitprogramms „Europäische Hochschulnetzwerke (EUN) – nationale Initiative“.
Im Begleitprogramm erhalten die beteiligten deutschen Hochschulen zusätzliche
finanzielle Förderung sowie Unterstützung für mehr Sichtbarkeit ihrer
Allianzen. Dazu gehören Vernetzungsangebote für die beteiligten Hochschulen
sowie Austauschformate mit der Politik auf Bundesebene und Ebene der Länder.
Daad 30
Brandmuster. Trügerische Sicherheit
Anschläge auf
Flüchtlingsunterkünfte gibt es nicht nur in Deutschland. Auch im
Geflüchtetenlager Al-Mawasi im Südwesten Gazas sterben immer wieder Dutzende
palästinensische Zivilist:innen – und es gibt kaum Diskurs darüber. Von Joel
Schülin
Nach Angriffen der Israeli
Defense Forces (IDF), dem israelischen Militär, am 17. April 2025 verschlingen
Flammen Teile des Geflüchtetenlagers Al-Mawasi in Gaza. Mindestens zehn
palästinensische Zivilist:innen sterben. Es ist jedoch bei weitem nicht der erste
Angriff auf das Lager nördlich der Stadt Rafah. Eine Untersuchung des
englischen Nachrichtensenders BBC zählt zwischen Mai 2024 und Januar 2025
allein knapp unter hundert IDF-Angriffe auf die „humanitäre“ Zone.
Darunter fallen Vorfälle wie
die Militäraktion zur Tötung des Hamas-Funktionärs Mohammed Deifs im Juli 2024,
bei dem 90 Personen sterben (der Tod von Deif wird von der Hamas nicht
bestätigt).
Die Angriffe auf Al-Mawasi
unterscheiden sich insofern von den anderen tausenden Vorfällen „kollateraler“
Schäden, dass es sich bei dem Küstenabschnitt bis zum Bruch der Waffenruhe im
März 2025 um eine durch die IDF definierte „sichere Zone“ handelte. Bis heute
fordert die IDF Zivilist:innen auf, nach Al-Mawasi zu evakuieren.
Humanitäre bzw. sichere Zonen
dienen nach dem Völkerrecht einerseits als Schutzraum – Kriegshandlungen sind
in solchen Zonen verboten –, andererseits sollen sie Zugang zu humanitärer
Versorgung gewährleisten.
Wie die IDF in Infografiken
immer wieder auf Social Media erklärt, sind Hamas-Infrastrukturen das Ziel der
„präzisen“ Angriffe im Camp. Dass sich tatsächlich Hamas-Kämpfer in dem
Geflüchtetenlager befinden, ist wahr. Die in Al-Mawasi lebenden Geflüchteten
werden jedoch nicht immer vor Angriffen durch das Militär gewarnt, wie
Bewohnende des Camps der Agence France-Presse mitteilten.
Dass das von der
IDF-konstruierte Narrativ der Präzisionsschläge gegen militante Positionen
nicht haltbar ist, zeigt unter anderem eine Recherche des
palästinensisch-israelischen Nachrichtenmagazins +972.
„Die exorbitanten
Kollateralschäden verdeutlichen die Folgen einer Kriegsführung, in der Menschen
zu Zahlen reduziert werden.“
Im Beitrag beschreiben
israelische Militärs, dass für die Tötung eines hochrangigen Hamas-Offiziellen
kollaterale Schäden von über 100 Zivilpersonen autorisiert wurden. Wie kann
hier noch von Proportionalität gesprochen werden? Die exorbitanten Kollateralschäden
verdeutlichen die Folgen einer Kriegsführung, in der Menschen zu Zahlen
reduziert werden.
Viele der aktuellen Angriffe
in Al-Mawasi werden durch sogenannte SkyStriker Drohnen durchgeführt, die zu
einem Teil in Deutschland produziert werden. Sie sind kleinere Geschütze,
unbemannt und vollkommen autonom, „passend“ für dünnere Strukturen wie Zelte,
der Zerstörungsradius ist „relativ“ gering, die hohe Zahl der zivilen Opfer
tangiert das jedoch nicht.
„Während mit der einen Hand
die Zerstörung vorangetrieben wird, erhebt die andere den moralischen
Zeigefinger.“
Weiterhin ist Deutschland
immer noch ein zentraler Waffenlieferant für Israel, auch in Zeiten der
Waffenruhe in Gaza. Kritische Kommentare von Seiten Baerbocks gegenüber der
Missachtung humanitärer Hilfeleistungen durch Israel lassen sich in diesem
Kontext nur mit bitterem Beigeschmack betrachten. Während mit der einen Hand
die Zerstörung vorangetrieben wird, erhebt die andere den moralischen
Zeigefinger.
Derweil stoßen Versuche, in
Deutschland einen konstruktiven Diskurs über Palästina zu führen, häufig an
Grenzen – nicht selten wird mit Verweis auf die deutsche Staatsräson
interveniert. Offiziell zur Sicherheit und zum Schutz jüdischen Lebens.
Der Kampf gegen
Antisemitismus und der Schutz jüdischen Lebens in Deutschland ist essenziell,
da besteht kein Zweifel. Ebenso wie der Kampf gegen jede andere Form der
Diskriminierung.
Aber was bedeutet
Antisemitismus, wenn selbst jüdische Stimmen in Deutschland aufgrund ihrer
Kritik am Staat Israel in das antisemitische Spektrum fallen? Wenn eine
kritische Auseinandersetzung mit Gaza durch politische Entscheidungen, wie
bspw. die Antisemitismusresolution der Bundesregierung, im Keim erstickt wird?
„Kritische
Auseinandersetzung“ bedeutet keineswegs, die Gewalttaten der Hamas am 7.
Oktober 2023 und danach zu relativieren. Sie sind ein Akt der Unmenschlichkeit
und müssen als solcher benannt werden. Der Krieg wird sowohl von der Hamas als
auch der israelischen Regierung immer wieder provoziert.
Eine kritische
Auseinandersetzung beinhaltet vielmehr, Stimmen aus gegensätzlichen Lagern
einen Gesprächsraum zu geben und miteinander in Resonanz zu treten, um sich zu
verstehen, aber auch sich zu widersprechen. Denn auch Dissonanzen sind Teil
einer demokratischen Gesprächskultur.
Anstatt jedoch einen
konstruktiven Dissens auszuhalten, in dem jüdische, israelische und
palästinensische Positionen und Perspektiven Raum finden, führen die deutsche
Regierung und Polizei im Namen der Sicherheit eine unerbittliche staatliche und
polizeilich orchestrierte Repressions- und Zensurkampagne gegen
palästinensische und nicht-palästinensische Individuen und Organisationen, die
sich kritisch zur israelischen Rolle in Gaza und dem Westjordanland äußern.
Mit dem „Tunnelblick der
Staatsräson“ kommentiert Kristin Helberg passend die Vermischung des Schutzes
jüdischen Lebens mit der Unterstützung des Staates und der Politik Israels.
Anti-anti-semitisch sein in
Deutschland heißt demnach auch, sich dem internationalen Haftbefehl von
Netanjahu und Gallant zu widersetzen. So plant der künftige Bundeskanzler
Friedrich Merz (CDU) Ersteren nach Deutschland einzuladen. Es gäbe „Mittel und
Wege“, die Festnahme des Premiers zu umschiffen, so Merz. Internationales
Völkerrecht adé!
Und was tut eigentlich Felix
Klein, der Antisemitismusbeauftragte der Bundesregierung, in seinem Amt? In
einem Interview äußerte er sich über die Situation im Gazastreifen und sprach
davon, dass es ein radikales Neudenken brauche. Dabei zog er einen Vergleich,
der in sozialen Medien kontrovers diskutiert wurde: „Während Sie Ihr Haus
renovieren, schlafen Sie schließlich auch nicht darin“. Kritiker:innen werten
diese Aussage als implizite Zustimmung zu einer vorübergehenden Umsiedlung von
Palästinenser:innen – eine Interpretation, die für Empörung sorgte.
„Deutsche Medien greifen die
Perspektive von Palästinenser:innen in Gaza und der Diaspora, wenn überhaupt,
nur beschränkt auf.“
Während in Gaza tagtäglich
dutzende Zivilist:innen durch israelische Bomben und Munition sterben, hören
wir hier in Deutschland nur sporadisch darüber. Auch viele Deutsche und
Menschen mit palästinensischer Migrationsbiografie haben Freund:innen und
Angehörige in Gaza verloren, ihre Stimmen finden in Deutschland jedoch nur
wenig Beachtung. Deutsche Medien greifen die Perspektive von
Palästinenser:innen in Gaza und der Diaspora, wenn überhaupt, nur beschränkt
auf.
Zurück zur Staatsräson: In
einer Pressemitteilung der Bundesregierung wird einmal mehr betont, dass Israel
das Recht hat, sich gegen die barbarischen Angriffe zu verteidigen. Deutschland
steht an der Seite Israels.
Dass sich die IDF nicht
gerade durch moralische Integrität auszeichnet, ja immer wieder Barbarismus an
den Tag legt – wie das Flower Massacre, der Angriff auf die Al-Tabaeen Schule
in Gaza City, in der Geflüchtete Schutz suchten, oder zuletzt das Massaker an
15 humanitären Helfern im März 2025 –, wird in der Pressemitteilung einfach
unter den Teppich gekehrt.
Es scheint schlussendlich
nicht um eine humanere und differenzierte Betrachtungsweise des
Israel-Gaza-Konflikts zu gehen, nicht um die Reduzierung menschlichen Leids, um
die persönliche Perspektive von Menschen im Gazastreifen, nicht um mehr
Menschlichkeit. Es geht darum zu proklamieren, dass Deutschland aus der eigenen
Geschichte gelernt hat.
Ob in Gaza oder Deutschland:
die Frage bleibt offen, um welche Sicherheit es hier geht und wer oder was
eigentlich geschützt wird. Mig 30
Amnesty beklagt globale
Menschenrechtskrise: „Epochaler Bruch“
Die Kriege in der Ukraine und
im Nahen Osten, die Politik der neuen US-Regierung unter Trump: Amnesty
International sieht die Menschenrechte in vielen Teilen der Welt in Gefahr. Es
gebe aber auch positive Entwicklungen.
Die
Menschenrechtsorganisation Amnesty International hält der internationalen
Staatengemeinschaft vor, beim Schutz der Menschenrechte global zu versagen.
„Wir erleben einen epochalen Bruch: Rechtsstaat, Völkerrecht und
Menschenrechtsschutz werden von einer Vielzahl von Staaten missachtet und
angegriffen.“
Das erklärte die
Generalsekretärin von Amnesty International in Deutschland, Julia Duchrow, zur
Veröffentlichung des Jahresberichts der Organisation am Dienstag.
Menschenrechtsverletzungen würden zudem nicht mehr geleugnet oder vertuscht,
sondern ausdrücklich gerechtfertigt.
Globale Menschenrechtskrise
Der Bericht dokumentiere eine
globale Menschenrechtskrise, so Duchrow. Bewaffnete Konflikte eskalierten und
das Völkerrecht werde von seinen einstigen Verfechtern missachtet. Die Rechte
von Geflüchteten und marginalisierten Gruppen würden in vielen Ländern
beschnitten. Politiker mit autoritärer Agenda griffen Rechtsstaatlichkeit und
Menschenrechte offen an. Zugleich gebe es aber auch positive Entwicklungen: So
hätten sich im vergangenen Jahr weltweit viele Menschen gegen Unrecht und
Unterdrückung zur Wehr gesetzt, etwa in Georgien und in Südkorea.
Kritik an
Koalitionsverträgen
Konkret kritisiert Amnesty
etwa den von Union und SPD vorgelegten Koalitionsvertrag. Die darin
angekündigte „Zeitenwende in der inneren Sicherheit“ bediene rassistische
Feindbilder, instrumentalisiere das Aufenthalts- und Migrationsrecht, blähe die
Überwachung auf und greife die Zivilgesellschaft an. Der US-Regierung unter
Präsident Donald Trump warf Duchrow vor, ein Brandbeschleuniger der globalen
Menschenrechtskrise zu sein. Amnesty hat für den Jahresbericht nach eigenen
Angaben die Lage der Menschenrechte in 150 Ländern untersucht. (kna/amnesty 29)
100 Tage Trump: Gravierende Folgen
für Menschenrechte und Afrika
Die neue US-Administration unter Donald Trump ist am 29.
April 100 Tage im Amt. Beim Grenzschutz, Klimapolitik und Entwicklungshilfe
greift die Administration hart durch. Der Überblick zeigt, wie umfassend Trump
das Land verändert – weit über die Landesgrenzen hinaus:
US-Präsident Donald Trump hat die Vereinigten Staaten und
die Beziehungen Washingtons zum Rest der Welt in einem atemberaubenden Tempo
verändert. Seine Mitarbeiter sprechen gerne von Trump-Geschwindigkeit. Trump,
der am Dienstag 100 Tage im Amt ist, schuf mit mehr als hundert Dekreten Fakten
in fast allen Bereichen. Für viele Außenstehende ist dabei kaum zu verstehen,
wie wenig Widerstand sich in den USA regt. Eine Auswahl der wichtigsten
Entwicklungen:
Grenzschutz
Trump hat die Südgrenze befestigt und dort laut dem Sender
CBS News rund 7.000 Streitkräfte stationiert. Der Präsident stellt die
Migration aus Mittelamerika als „Invasion der Illegalen“ und als Bedrohung dar.
Für seine Maßnahmen greift er auf ein „Gesetz gegen ausländische Feinde“ aus
dem Jahr 1798 zurück, um ausländische Staatsbürger auszuweisen. Trump hat mit
dem Präsidenten von El Salvador, Nayib Bukele, vereinbart, Migranten gegen
Bezahlung einzusperren. Laut CNN hat die Regierung zudem mehr als eintausend
ausländischen Studentinnen und Studenten Aufenthaltsgenehmigungen entzogen,
teils wegen politischer Betätigung, teils wurden die Gründe nicht
veröffentlicht.
Abschiebungen
Im Wahlkampf hatte Trump die größte Massenabschiebung in der
Geschichte versprochen. Das ist nicht ganz eingetreten. Die Regierung legt
keine aktuellen Zahlen vor. Nach Angaben der Informationsfreiheitsorganisation
Transaction Records Access Clearinghouse hat Trump vom 26. Januar bis 8. März
jeden Tag im Durchschnitt 661 Menschen abgeschoben. Das sind elf Prozent
weniger als sein Amtsvorgänger Joe Biden in den ersten 100 Tagen seiner
Amtszeit. Geschätzt rund elf Millionen Menschen leben in den USA ohne Papiere,
etwa drei Prozent der Bevölkerung.
Groteske Abschiebung
Um die Zahlen anzukurbeln nimmt die Trump-Administration
bisweilen groteske Wege: US-Staatsbürger abzuschieben oder in Abschiebehaft zu
nehmen, ist laut Gesetz nicht möglich. Ein US-Bundesrichter prüft derzeit
dennoch den Fall einer Zweijährigen, die wohl trotz ihrer US-Staatsbürgerschaft
nach Honduras abgeschoben worden ist. Es gebe den dringenden Verdacht, dass die
Regierung eine US-Bürgerin „ohne aussagekräftiges Verfahren“ abgeschoben habe,
schrieb der Richter eines Bezirksgerichts in Louisiana, Terry A. Doughty, in
einer Entscheidung am Freitag. Dem Gerichtsdokument zufolge wurde das Kind
gemeinsam mit seiner Mutter, die illegal in die USA eingewandert sein soll,
nach Honduras gebracht. „Die Regierung behauptet, dass dies alles in Ordnung
sei, weil die Mutter wünsche, dass das Kind mit ihr abgeschoben werde“,
schreibt Doughty.
Abschiebe-Richterin festgenommen
In einem weiteren aktuellen Fall geht es um die Festnahme
einer Richterin im US-Bundesstaat Wisconsin – ihr wird vorgeworfen, einem
Migranten ohne gültige Papiere geholfen zu haben. Es gebe Beweise dafür, dass
die Richterin die Festnahme eines Migranten habe verhindern wollen, schrieb
FBI-Direktor Kash Patel auf der Plattform X. Nach einer ersten Anhörung vor
Gericht kam die Richterin zunächst wieder auf freien Fuß. Die Festnahme einer
Richterin ist eine weitere Eskalation im Streit der Regierung von Präsident
Donald Trump mit der Justiz über Abschiebungen.
Angriff auf Menschenrechte
Human Rights Watch wirft der Trump-Regierung einen
„unerbittlichen Angriff“ auf die Menschenrechte vor. Trump habe in seinen
ersten hundert Tagen den Menschenrechten „enormen Schaden“ zugefügt, erklärte
Tanya Greene, Direktorin der US-Programme von Human Rights Watch. Die Regierung
habe Migranten nach El Salvador abgeschoben unter Umständen, die einem
„erzwungenen Verschwinden“ gleichkämen, führte Human Rights Watch aus. Zudem
seien Asylsuchende unter Verletzung internationalen Rechts nach Panama und Costa
Rica deportiert worden.
Entwicklungshilfe
Mithilfe von „Effizienzberater“ Elon Musk hat Trump zudem
die Entwicklungsbehörde USAID de facto aufgelöst. Hilfsorganisationen haben von
gravierenden Folgen berichtet. USAID sei von ihrem Auftrag der Stärkung
nationaler Interessen abgewichen, begründete Außenminister Marco Rubio. Ende
April machte Rubio bekannt, er werde sein Ministerium umstrukturieren. Unklar
bleibt, ob und wie die Entwicklungshilfe darin Platz findet.
Kenia
In Kenia werden die Kürzungen unter anderem zu massiven
Jobverlusten beispielsweise im Gesundheitssektor führen, sodass das
Durchschnittseinkommen pro Kopf laut dem afrikanischen Thinktank ISS um 98
US-Dollar sinken wird. Zugleich besteht die Hoffnung, dass die Bevölkerung die
Regierung künftig mehr zur Verantwortung zieht und neue Strukturen entstehen,
die sich am tatsächlichen Bedarf und nicht an den Schwerpunkten der Förderer
ausrichten.
Kongo
Im Kongo herrscht seit Jahren eine der größten humanitären
Krisen. In den vergangenen Monaten hat sich die Lage durch die Gewalt im Land
noch deutlich verschlechtert, 28 Millionen Menschen hungern nach UN-Angaben.
Die USA haben entscheidend zu den UN-Bemühungen im Kampf gegen den Hunger
beigetragen, zuletzt im November mit vier Millionen US-Dollar für Lebensmittel
und die Verteilung von Hilfsgütern in abgelegenen Orten sowie medizinischer
Hilfe und Sondernahrung für mangelernährte Kinder. Nun schlagen die UN Alarm,
weil sich die Krise wegen fehlender Mittel verschärfen wird.
Uganda
66 Prozent der USAID-Förderung für Uganda wurde gestrichen,
das ostafrikanische Land gehört zu den am stärksten von den Einschnitten
betroffenen Staaten. Besonders gefährdet ist die Versorgung von HIV-Positiven.
Noch gibt es nach UN-Angaben genug HIV-Testkits und Medikamente. Doch ein Teil
davon kommt nicht mehr in den lokalen Kliniken an, weil viele mit US-Mitteln
betriebene Einrichtungen reduziert arbeiten oder ganz geschlossen haben. Im
Budget für das kommende Haushaltsjahr hat Uganda den Posten für Gesundheit
erhöht – allerdings bei Weitem nicht auf den vom Gesundheitsministerium
geforderten Betrag. Rund fünf Prozent der Bevölkerung leben mit dem HI-Virus,
vor allem Frauen, etwa 20.000 Menschen sterben jedes Jahr an den Folgen.
Senegal
In Senegal wurde aufgrund des US-Hilfsstopps das größte
Malariaprojekt geschlossen, das Moskitonetze, Medikamente und diagnostische
Tests an Zehntausende Menschen verteilt hat. 2023 zählte die WHO knapp 1,2
Millionen Malaria-Fälle im Senegal, bei einer Bevölkerung von fast 19
Millionen. Die Regierung kündigte an, unabhängiger von internationaler Hilfe
werden zu wollen, konkret wurde sie jedoch bisher nicht.
Burkina Faso
Programme für den Zugang der ländlichen Bevölkerung zu
Trinkwasser und zur Anpassung an den Klimawandel wurden in Burkina Faso
aufgrund der US-Kürzungen unter anderem eingestellt. Die Sahelzone gehört zu
den am stärksten von der Erderwärmung betroffenen Regionen weltweit. Wasser
wird dort zur immer knapperen Ressource, die bestehende Konflikte weiter
verschärft. Laut einem Bericht der Organisation Insecurity Insight hat die
Aussetzung der US-Finanzierung zudem die negative Wahrnehmung internationaler
Hilfe verstärkt, während Russland im Vergleich als zuverlässiger und
respektvoller Partner wahrgenommen wird.
Südafrika
Südafrika gehört laut Weltgesundheitsorganisation (WHO) zu
den Ländern mit hoher Tuberkulose-Prävalenz, mit rund 54.000 Todesfällen 2022.
Doch das Land konnte die Inzidenzen in den vergangenen zehn Jahren um über 50
Prozent senken. Dabei war die Finanzierung von USAID vor allem bei Diagnostik,
Kontaktverfolgung und Versorgung mit Medikamenten entscheidend. Nun rechnen
Experten mit einem deutlichen Anstieg der Ansteckungsrate sowie einer Zunahme
resistenter Tuberkulose wegen Unterbrechungen der Medikamenteneinnahme.
Klima
Trump will amerikanische Energieressourcen „entfesseln“ und
die Kohleindustrie fördern. Regulierende Vorschriften der Bundesstaaten
bedrohten die „Energiedominanz“ der USA. Man erlebe ein „unglaubliches
Zurückdrehen so ziemlich aller Klimavorschriften seit 1970“, sagte Klimaexperte
Bill McKibben vom Verband 350.org im Rundfunksender NPR.
Das dürfte weitreichende und unumkehrbare Folgen für das
Klima haben. Die größten Leidtragenden dürften wieder die ärmsten Länder haben
im globalen Süden haben. Der Klimawandel ist inzwischen eines der größten
Fluchtursachen weltweit. Millionen Menschen müssen ihre Heimat verlassen, weil
zunehmende Naturkatastrophen ein Überleben in ihren Lebensräumen unmöglich
machen. Die meisten Menschen flüchten in Nachbarländer, nicht wenige zieht es
aber reiche Industriestaaten im globalen Norden. Da schließt sich der Kreis der
trumpschen Migrations-, Entwicklungs- und Klimapolitik wieder. (epd/dpa/mig 29)
Angst und Verunsicherung. Steigender
Abschiebedruck, mehr Kirchenasyl
Die Zahl der Kirchenasyl-Fälle hat spürbar zugenommen. Der
Evangelische Kirche zufolge gibt es auch mehr Anfragen – zu viele. Grund sei
der „gestiegene Abschiebedruck“ in Deutschland. Die Unruhe unter
Schutzsuchenden wachse ebenfalls.
Die Nachfrage nach Kirchenasyl hat nach Einschätzung
einzelner Flüchtlingsbeauftragter in den evangelischen Landeskirchen erheblich
zugenommen – vor allem aus wachsender Angst vor Abschiebung. Die Rückmeldung
von Flüchtlingsbeauftragten und den zuständigen Ansprechpersonen für
Kirchenasyl machten deutlich, dass die Zahl der Anfragen stark gestiegen sei,
erklärte die Evangelische Kirche in Deutschland (EKD) auf Anfrage der
Tageszeitungen der Funke Mediengruppe.
Auf dpa-Nachfrage erläuterte eine Sprecherin, die EKD führe
keine zentrale Erfassung von Kirchenasylfällen. Auch über Anfragen in einzelnen
Kirchengemeinden oder Kirchenkreisen lasse sich keine bundesweite Statistik
führen. Die Einschätzungen beruhten auf punktuellen Rückmeldungen aus einzelnen
Landeskirchen – insbesondere von Flüchtlingsbeauftragten und Ansprechpersonen
für Kirchenasyl.
„Nach deren Einschätzung ist die Zahl der Anfragen im Zuge
eines gestiegenen Abschiebedrucks vielerorts deutlich angestiegen, teilweise
haben sich die Anfragen mehr als vervierfacht“, so die Sprecherin. „Zugleich
wird berichtet, dass aufgrund der großen Nachfrage oft kein Kirchenasyl
gefunden werden kann und Betroffene schutzlos bleiben.“
Angst und Verunsicherung
Auch die Vorsitzende der Ökumenischen
Bundesarbeitsgemeinschaft Asyl in der Kirche, Dietlind Jochims, berichtet über
eine wachsende Angst und Verunsicherung bei Menschen mit ungesichertem
Aufenthalt. Diese Angst führe auch zu einer stark steigenden Zahl von Anfragen
nach kirchlichem Schutz, sagte Jochims den Funke-Zeitungen.
Wie die Mediengruppe unter Berufung auf das Bundesamt für
Migration und Flüchtlinge (Bamf) berichtet, meldeten die evangelischen,
katholischen und freien Gemeinden im ersten Quartal 2025 insgesamt 617 Fälle
von Kirchenasyl. Im selben Zeitraum 2024 waren es demnach 604 Fälle. 2024 seien
es insgesamt 2.386 Fälle gewesen. (dpa/mig 29)
Sipri-Bericht. Weltweite
Militärausgaben erneut auf Höchststand
Im zehnten Jahr in Folge sind die weltweiten Militärausgaben
gestiegen – besonders stark in Europa und im Nahen Osten. Deutschland ist als
einziges westeuropäisches Land unter den Top fünf. Von Miriam Arndts
Die weltweiten Militärausgaben sind 2024 zum zehnten Mal in
Folge gestiegen. Rund 2,72 Billionen US-Dollar (etwa 2,38 Billionen Euro)
wandten alle Staaten zusammen für das Militär auf, wie das Stockholmer
Friedensforschungsinstitut Sipri in seinem neuen Bericht mitteilte. Das waren
inflationsbereinigt 9,4 Prozent mehr als 2023 – der größte Anstieg von einem
aufs nächste Jahr seit dem Ende des Kalten Krieges im Jahr 1991.
Besonders stark war der Anstieg dem Institut zufolge in
Europa und im Nahen Osten, was mit den Kriegen in der Ukraine und im
Gazastreifen sowie dem Konflikt zwischen Israels und der Hisbollah im Libanon
begründet werden könne.
Deutschland bleibt knapp hinter Nato-Zielmarke
Deutschland verbrauchte laut Sipri 88,5 Milliarden Dollar
(rund 77,6 Milliarden Euro) für das Militär und lag somit zum ersten Mal seit
der Wiedervereinigung vor allen anderen Ländern Zentral- und Westeuropas.
Weltweit kam die Bundesrepublik auf Platz vier, hinter dem Spitzenreiter USA
sowie China und Russland auf den Plätzen zwei und drei.
Mit einem Anstieg der deutschen Militärausgaben von 28
Prozent im Vergleich zum Vorjahr zeigte das 2022 beschlossene Sondervermögen
für die Bundeswehr seine Wirkung. Trotzdem blieb die Bundesrepublik mit 1,9
Prozent knapp hinter dem Nato-Ziel, 2 Prozent des Bruttoinlandsprodukts (BIP)
in die Verteidigung zu stecken.
Mehr Rüstung, mehr Flucht
Greenpeace kritisierte die steigenden Militärausgaben
Deutschlands. Friedensexperte Thomas Breuer sagte: „Statt dringend in Bildung,
Klimaschutz oder soziale Sicherheit zu investieren, verschulden sich Länder wie
Deutschland weiter, um ihre Rüstungshaushalte mit enormen Summen auszubauen.“
Dies führe zu „einer neuen Rüstungsspirale, die Misstrauen zwischen Staaten
schafft und damit zu wachsender Unsicherheit führt.“
Erhöhte Ausgaben für Waffen und Militär tragen nicht nur zu
neuen Spannungen zwischen Staaten bei – sie sind auch eine der zentralen
Ursachen für Flucht und Vertreibung weltweit. Nach Angaben des
UN-Flüchtlingshilfswerks UNHCR sind gewaltsame Konflikte weiterhin der
Hauptgrund dafür, dass Millionen Menschen ihre Heimat verlassen müssen. 2023
waren weltweit mehr als 114 Millionen Menschen auf der Flucht – so viele wie
nie zuvor.
USA seit Jahren unangefochtene Nummer eins
Der Sipri-Bericht zeigt, dass alle europäischen Staaten –
mit Ausnahme von Malta – ihre Militärausgaben 2024 erhöhten. Russland war mit
149 Milliarden Dollar (knapp 131 Milliarden Euro) das Land in Europa, das mit
Abstand am meisten für sein Militär ausgab. Das entsprach 7,1 Prozent des
russischen BIP.
Die von Russland angegriffene Ukraine verwandte 64,7
Milliarden Dollar (rund 56,7 Mrd. Euro) darauf. Mit 34 Prozent war die Ukraine
weltweit das Land, das den größten Anteil seines BIP für seinen Militärapparat
ausgab.
Die USA, seit Jahren die unangefochtene Nummer eins bei den
Militärausgaben, machten mit 997 Milliarden Dollar (874 Milliarden Euro) 37
Prozent der weltweiten militärischen Aufwendungen aus. Ein erheblicher Anteil
des US-Haushalts war dem Bericht zufolge für die Modernisierung der
militärischen Fähigkeiten und des US-Atomwaffenarsenals vorgesehen.
China steigerte seine Aufwendungen um sieben Prozent und
verzeichnete somit drei Jahrzehnte ununterbrochenen Anstiegs seiner
Militärausgaben. Die schätzungsweise 314 Milliarden Dollar (etwa 275 Milliarden
Euro) gab China dem Bericht zufolge unter anderem für den Ausbau seiner
Fähigkeiten auf dem Gebiet des Cyberkriegs sowie seines Atomwaffenarsenals aus.
Bedrohung durch Russland und möglicher Nato-Rückzug der USA
Während 2023 elf Nato-Mitglieder die Zielmarke des
Militärbündnisses, mindestens 2 Prozent ihres BIP für die Verteidigung
auszugeben, erreichten, waren es 2024 gemäß der Sipri-Methodik 18 der 32
Nato-Mitglieder. Der rasche Anstieg der Ausgaben bei den europäischen
Nato-Mitgliedern lässt sich laut Sipri-Forscherin Jade Guiberteau Ricard mit
der andauernden Bedrohung durch Russland erklären sowie mit dem möglichen
Rückzug der USA aus dem Bündnis.
Sie unterstrich, dass eine Erhöhung der Ausgaben allein
jedoch nicht unbedingt zu einer deutlich größeren militärischen
Leistungsfähigkeit oder Unabhängigkeit von den USA führe. „Das sind weitaus
komplexere Aufgaben“, sagte die Sipri-Expertin.
Israels Militärausgaben-Anstieg der höchste seit 1967
Im Nahen Osten stiegen die Militärausgaben laut Sipri zwar
insgesamt, aber eine markante Erhöhung verzeichneten nur Israel und der
Libanon. Israels Ausgaben stiegen demnach mit 65 Prozent so stark wie seit dem
Sechstagekrieg 1967 nicht mehr, auf 46,5 Milliarden Dollar (knapp 41 Milliarden
Euro) – was mit dem andauernden Krieg im Gazastreifen sowie dem eskalierten
Konflikt Israels mit der Hisbollah im südlichen Libanon zusammenhing.
Israels Erzfeind Iran war eines der Länder, dessen
Militärausgaben 2024 dem Bericht zufolge sanken – und das, obwohl der Iran
mehrere Gruppen in der Region, wie die Hamas und die Hisbollah, unterstützte.
Die dem Land auferlegten Sanktionen führten laut Sipri zu einem Rückgang der
Militärausgaben von 10 Prozent auf 7,9 Milliarden Dollar (knapp 7 Milliarden
Euro).
Der jährlich erscheinende Sipri-Bericht zu den
Militärausgaben in aller Welt gilt als umfassendste Datensammlung dieser Art.
Die Friedensforscher stützen sich dabei auf offizielle Regierungsangaben zum
Verteidigungshaushalt und auf weitere Quellen und Statistiken – deshalb weichen
die Zahlen traditionell von den Angaben der Nato und einzelner Länder ab. Zu
den Ausgaben zählt Sipri auch Aufwände für Personal, Militärhilfen sowie
militärische Forschung und Entwicklung. (dpa/mig 29)
Rassismus-Debatte nach tödlichen
Polizei-Schüssen entflammt
Nach den tödlichen Polizeischüssen in Oldenburg auf einen
21-jährigen Schwarzen sind viele Fragen ungeklärt. Warum gibt es keine
Aufnahmen aus Bodycams? Und warum ermitteln Polizisten gegen ihre eigenen
Kollegen? Der Fall bewegt viele Menschen.
Mehr als eine Woche nach dem gewaltsamen Tod von Lorenz A.,
ein junger Schwarzer Mann, durch Polizeischüsse in der Oldenburger
Fußgängerzone sind noch immer viele Fragen offen – manche Umstände stoßen auf
Unverständnis. Eine Initiative von Menschen mit Migrationshintergrund sieht in
den Schüssen auf den 21-Jährigen den Beleg eines systemimmanenten Rassismus in
der Polizei. Kritik gibt es zudem wegen fehlender Aufnahmen von den Bodycams
der Einsatzkräfte.
In den sozialen Medien fordern Menschen lückenlose
Aufklärung und Gerechtigkeit, die Stimmung ist aufgeheizt. Auch im Stadion des
FC Bayern München bewegte der Fall die Menschen. „Rassistische Mörderbullen
ermitteln gegen rassistische Mörderbullen“ und „Gerechtigkeit für Lorenz“ war
während des Bundesliga-Spiels des deutschen Fußball-Rekordmeisters gegen Mainz
auf Bannern im Stadion zu lesen.
Kritiker: Das Fehlen von Bodycam-Aufnahmen ist ein Skandal
Ein Polizist hatte in der Nacht zu Ostersonntag fünfmal in
Richtung des 21-Jährigen geschossen. Laut Obduktion wurde Lorenz an der Hüfte,
am Oberkörper und am Kopf verletzt. Drei Schüsse trafen ihn von hinten, ein
vierter Schuss soll ihn am Oberschenkel gestreift haben. Der 27 Jahre alte
Schütze wurde vorläufig suspendiert. Die Staatsanwaltschaft Oldenburg führt
gegen den Beamten ein Verfahren wegen Totschlags. Beides ist in solchen Fällen
üblich. Kritisch bewertet wird, dass die benachbarte Polizei-Dienststelle
Delmenhorst die Ermittlungen übernimmt. Das Mobiltelefon des betroffenen
Polizisten wird geprüft, der polizeiliche Funkverkehr aus der Nacht
ausgewertet. Am Sonntag gab es zunächst keine neuen Erkenntnisse der Behörden.
Aufnahmen der Bodycams der Polizisten, die bei dem Einsatz
dabei waren, stehen nicht zur Verfügung, weil die Geräte nicht eingeschaltet
gewesen seien, hieß es von den Ermittlern. „Nach meiner Einschätzung hätte die
Kamera in diesem Fall eingeschaltet sein müssen“, sagte der Anwalt von Lorenz‘
Mutter, Thomas Feltes, der „HAZ“. Eine laufende Kamera hätte dem Juristen
zufolge einen präventiven Effekt haben können.
„Müssen System umfassend in den Blick nehmen“
Dass Polizisten zwar Bodycams trugen, aber nicht
eingeschaltet hatten, bezeichnete Rafael Behr von der Akademie der Polizei
Hamburg bei RTL/ntv als „Skandal“. In der Rückschau seien schon so viele Dinge
passiert, für welche die Bodycam hätte Aufklärung bringen können.
Der Kriminologe Tobias Singelnstein kritisiert einen anderen
Aspekt der polizeilichen Ermittlungen. „Ermittlungen durch die benachbarte
Dienststelle ist das schlechteste Modell, was wir in Deutschland haben“, sagte
Singelnstein der Deutschen Presse-Agentur. „Es gibt Bundesländer, die einen
Schritt weiter sind und spezialisierte Dienststellen geschaffen haben, die beim
Landeskriminalamt angesiedelt sind oder sogar ganz selbstständig sind.“
Kriminologe: unvoreingenommene Ermittlung kann schwierig
sein
Aus Sicht des Kriminologen sind Ermittlungen von Polizisten
in benachbarten Dienststellen eine problematische Konstellation. „Man muss gar
nicht davon ausgehen, dass aktiv versucht wird, die Beschuldigten zu
bevorteilen“, meint der Professor für Kriminologie und Strafrecht von der
Goethe-Universität Frankfurt. „Nur wenn man selbst diese Situation oder sogar
den Beschuldigten kennt, geht man mit einem anderen Verständnis an so ein
Verfahren heran. Es ist dann schwierig, völlig unvoreingenommen zu sein.“
Die tödlichen Schüsse müssten kritisch untersucht werden.
„Man wird sich sehr genau anschauen müssen, warum dieser Einsatz so eskaliert
ist und was dazu beigetragen hat, dass es so eskaliert ist“, sagte
Singelnstein. Die meisten Ermittlungen gegen Polizisten wegen rechtswidriger
Gewalt werden schließlich eingestellt, wie der Forscher berichtet. „Nur etwa
zwei Prozent der Fälle kommen am Ende vor Gericht.“
Nach Angaben der Ermittler hatte der Deutsche zuvor vor
einer Diskothek Reizgas versprüht und mehrere Menschen leicht verletzt. Dann
flüchtete er. Als Streifenpolizisten ihn hätten stellen wollen, sei er
bedrohlich auf die Beamten zugegangen und habe Reizgas in ihre Richtung
gesprüht.
Opfer zu Täter gemacht
„Ich frage mich tatsächlich, wie viele Leute eigentlich noch
sterben müssen, dass man nicht nur von Einzelfällen spricht, sondern dass wir
wirklich mal das System umfassend in den Blick nehmen, um solche Dinge zu
verhindern“, sagte Tahir Della aus dem Vorstand der Initiative Schwarze
Menschen in Deutschland (ISD) der Deutschen Presse-Agentur.
Er halte es für unfassbar, dass nach wie vor eine solche Tat
geschehen könne, sagte Della. Immer noch würden nach solchen tödlichen
Polizeieinsätzen von Medien und der Polizei nach Rechtfertigungen gesucht.
„Dann werden die Opfer von Polizeigewalt zu Tätern stigmatisiert“, kritisierte
Della. Es sei falsch, nur dann von rassistischen Handlungen zu sprechen, wenn
man jemanden eine rassistische Haltung nachweisen könne oder ein Mensch eine
rassistische Motivation offen zugebe.
Grünen-Politiker fordert Aufklärung
Der Tod des 21-jährigen Lorenz mache ihn betroffen, sagte
der Grünen-Vorsitzende, Felix Banaszak. Der Co-Parteichef sagte der Deutschen
Presse-Agentur: „Bei Menschen, die Rassismus, Diskriminierung und Ausgrenzung
ausgesetzt sind, lösen solche Fälle existenzielle Ängste aus, sie sind
verunsichert und erschüttert.“
Denn für sie gelte: „Sie wissen nicht, ob sie sich darauf
verlassen können, dass sie hier sicher sind, dass sie dem Staat und seinen
Institutionen vertrauen können“. Er betonte, die Polizei leiste tagtäglich
wichtige Arbeit für die Gesellschaft. Es sei aber wichtig, dass „jegliche
Zweifel an der Rechtmäßigkeit der Maßnahme restlos ausgeräumt und der Fall
haarklein aufgearbeitet“ werde.
Tausende fordern bei Demo Aufklärung
Zu einer Kundgebung und Demonstration in der Oldenburger
Innenstadt waren am Freitag Tausende gekommen. Es waren Menschen
unterschiedlichen Alters und unterschiedlicher Hautfarbe. Sie fragten sich:
Warum musste dieser junge Mann sterben?
Viele hielten Schilder hoch. „Er wurde ermordet. Kein
Vergeben. Kein Vergessen.“ Andere formulierten mit Fragezeichen: „Tödliche
Gewalt? Oder tödlicher Rassismus?“ Aus Sicht von ISD-Vorstand Della ist es nun
notwendig, dass ein Verhalten wie das des Schützen in Oldenburg für die
Polizeibeamten wirkliche Konsequenzen habe. Es sei nicht damit getan, sie in
den Innendienst zu versetzen oder sie für ein paar Wochen vom Dienst zu
suspendieren. „Es muss wirklich eine handfeste Bestrafung und eine handfeste Verfolgung
von solchen Fällen geben“, sagte Della.
Nach der Demonstration sprach die Polizei von einem
weitgehend störungsfreien Verlauf. Polizeivizepräsident Arne Schmidt sagte:
„Der Tod von Lorenz A. bewegt viele Menschen zutiefst – auch innerhalb der
Polizei.“
„Gerechtigkeit für Lorenz“ in sozialen Medien
In den sozialen Medien wächst derweil der Unmut. Viele
befürchten, dass die Schüsse auf den Schwarzen einen rassistischen Hintergrund
haben könnten. Unter den Hashtags #gerechtigkeitfürlorenz und #justiceforlorenz
mehren sich Stimmen gegen Polizeigewalt und Rassismus. „Das war kein Einzelfall
– das war tödliche Polizeigewalt“, heißt es etwa auf Instagram. Oft zu sehen
ist ein Foto des Toten mit dem Zitat: „Wer vier Schüsse von hinten abgibt, will
nicht stoppen – sondern töten!“
Zahl tödlicher Polizeischüsse 2024 auf Höchststand
Die Innenministerkonferenz der Bundesländer veröffentlicht
jedes Jahr eine neue Statistik zum polizeilichen Schusswaffengebrauch des
Vorjahres. In Deutschland ist die Zahl tödlicher Polizeischüsse im Jahr 2024
auf einen Höchststand gestiegen. Nach einer Auswertung von Polizeiberichten
durch die Deutsche Presse-Agentur starben 2024 bundesweit 22 Menschen bei
Schusswaffengebrauch durch die Polizei.
Die Fachzeitschrift „CILIP – Bürgerrechte & Polizei“
dokumentiert die Todesfälle und Hintergründe ab dem Jahr 1976 und gleicht diese
mit Statistiken der Innenministerkonferenz ab. In den Vorjahren lag die Zahl
deutlich niedriger: 2023 waren es zehn, 2022 elf und 2021 acht Tote. Insgesamt
starben seit 2015 141 Menschen an tödlichen Polizeischüssen. (dpa/mig 28)
Integrationsministerkonferenz. Länder
wollen Einwanderung von Fachkräften stärken
Migration wird nach Einschätzung der zuständigen Minister
oft nur einseitig diskutiert. Weil der Bedarf etwa für den Arbeitsmarkt
offensichtlich sei, sollen Hürden weg. In der Kritik steht aber auch die
Integrationsministerkonferenz selbst.
Die Integration von Geflüchteten in den deutschen
Arbeitsmarkt soll nach dem Willen der Länder weiter erleichtert und
beschleunigt werden. Damit dies gelinge, müssen die Beratungs- und
Unterstützungsstrukturen gestärkt werden, sagte Niedersachsens Sozialminister
Andreas Philippi (SPD) nach einer zweitägigen Konferenz der für Integration
zuständigen Länderminister in Göttingen.
„Mittlerweile hat mehr als jeder vierte Einwohner in der
Bundesrepublik eine Migrationsgeschichte“, sagte Philippi als aktuell
Vorsitzender der 20. Integrationsministerkonferenz. Die Erwerbszuwanderung sei
auch wegen der demografischen Entwicklung notwendig. Der Anteil von
Beschäftigten ohne deutsche Staatsangehörigkeit sei in vielen systemrelevanten
Branchen hoch.
Kritik: Verfahren dauern grundsätzlich zu lang
„Allein in Schleswig-Holstein haben wir fast 10.000
Geduldete, von denen viele wegen hoher bürokratischer Hürden nur verspätet
einen Zugang zum Arbeitsmarkt erhalten“, sagte die Integrationsstaatssekretärin
Silke Schiller-Tobies aus Kiel. Die Verfahren dauern aus ihrer Sicht zu lange
und sind zu aufwendig.
In aktuellen Diskussionen stehen Minister Philippi zufolge
aber die Herausforderungen von Migration im Vordergrund. „Diese einseitig
geführte Perspektive sorgt dafür, dass Ressentiments gegenüber Menschen mit
Migrationsgeschichte zunehmen und ihr Vertrauen in unseren Staat und unsere
Gesellschaft geschwächt wird“, sagte der Sozialminister aus Hannover.
Ungleiche Verteilung in den Ländern
In dem einstimmig verabschiedeten Leitantrag „Zusammen leben
– zusammen arbeiten“ betonten die Minister, dass Deutschland auf Migration
angewiesen sei, wenn der Wohlstand verteidigt werden solle. Aus dem aktuellen
Monitoring zur Integration gehe aber eine unterschiedliche Verteilung in den
Ländern hervor.
Während der Anteil der Bevölkerung mit Migrationsgeschichte
in den Stadtstaaten sowie in Hessen und Baden-Württemberg bei über einem
Drittel liege, sei den ostdeutschen Flächenländern nur rund jede zehnte Person
selbst zugewandert oder habe mindestens ein zugewandertes Elternteil.
„Die Integrationsministerkonferenz bleibt hinter ihren
Möglichkeiten zurück“, kritisierte die Grünen-Bundestagsabgeordnete Filiz
Polat. „Ihre Empfehlungen verhallen ungehört, weil es ihr an Lautstärke,
Klarheit und Gestaltungswillen fehlt“, sagte Polat. Integration sei kein
Randthema – sie gehöre ins Zentrum der politischen Agenda. (dpa/mig 28)
Vatikan: Trump und Selenskyj
vereinbaren Fortführung von Verhandlungen
Ein unerwarteter Haken päpstlicher Diplomatie: Am Rand des
Requiems für Papst Franziskus auf dem Petersplatz fanden US-Präsident Trump und
der ukrainische Präsident Selenskyj kurz die Gelegenheit, miteinander zu
sprechen. Auch der französische Präsident Macron und Englands Premier Starmer
gesellten sich dazu.
Der ukrainische Präsident Wolodymyr Selenskyj und
US-Präsident Donald Trump haben sich kurz vor der Beerdigungsmesse von Papst
Franziskus im Petersdom getroffen. Das Weiße Haus bezeichnete das 15-minütige
Treffen als „sehr produktiv“; Selenskyj nannte es später „sehr symbolisch“ mit
dem „Potenzial, historisch zu werden“, sollte man „gemeinsame Ziele erreichen“.
Die beiden Staatschefs wurden wenige Minuten vor dem Beginn
der Beerdigung von Papst Franziskus inintensivem Austausch voreinander sitzend
fotografiert. Das Treffen war vor der Beerdigung bereits als Möglichkeit
angekündigt worden, war aber wegen der eventuellen Abwesenheit Selenskyjs bis
zuletzt ungewiss.
Am Vortag hatte Trump nach Gesprächen zwischen seinem
Gesandten Steve Witkoff und dem russischen Präsidenten Wladimir Putin am
Freitag in Moskau erklärt, Russland und die Ukraine stünden „sehr kurz vor
einer Einigung“. Es war das erste Mal, dass sich die beiden Staatschefs
gegenübersaßen, seit das in Mondovision übertragene Gespräch zwischen Selenskyj
und Trump im Oval Office des Weißen Hauses Ende Februar mit einem Eklat endete
– diesmal fand der Austausch allerdings ohne indiskrete Zuschauer statt.
Produktiv und möglicherweise historisch
Dem Kommunikationsdirektor des Weißen Hauses, Steve Cheung,
zufolge war der Austausch am Rand des Requiems „sehr produktiv“. Die
ukrainische Präsidentschaft veröffentlichte ein weiteres gemeinsames Foto aus
dem Vatikan, auf dem auch der britische Premierminister Keir Starmer und der
französische Präsident Emmanuel Macron zu sehen waren. Laut dem ukrainischen
Präsidentensprecher Serhii Nikiforov vereinbarten Selenskyj und Trump, die
Verhandlungen fortzusetzen. Selenskyj sprach auf dem Nachrichtendienst X von
einem „guten Treffen“, das „historisch werden könnte, wenn gemeinsame
Ergebnisse erzielt werden“. Der ukrainische Präsident forderte insbesondere
„einen vollständigen und bedingungslosen Waffenstillstand“ und „einen
verlässlichen und dauerhaften Frieden, der den Ausbruch eines neuen Krieges
verhindert“.
Ukrainischer Gegenvorschlag
Laut New York Times wurde in dem Gespräch auch
über das ukrainische Gegengebot zum Vorschlag des Weißen Hauses zur Beendigung
des Krieges gesprochen. Ein Plan, der den Einsatz eines „europäischen
Sicherheitskontingents“ vorsieht, das von den USA unterstützt wird, ohne jedoch
die vollständige Rückgabe der von Russland besetzten Gebiete oder den
Nato-Beitritt Kyivs zu erwähnen – zwei Punkte, die Selenskyj seit Langem als
nicht verhandelbar bezeichnet.
Unterdessen teilte der Kreml-Sprecher Dmitri Peskow aus
Moskau mit, dass der russische Generalstabschef den Präsidenten Putin über den
„Abschluss der Operation“ zur Befreiung der russischen Region Kursk informiert
habe, die seit August 2024 teilweise von den Ukrainern besetzt war.
Gelegenheit für viele Begegnungen
Im Rahmen der Trauerfeier für Franziskus fanden an diesem
Samstag viele weitere bilaterale Kurztreffen statt. Die Präsidentin der
Europäischen Kommission, Ursula von der Leyen, veröffentlichte über ihre
Social-Media-Kanäle ein Foto ihres heutigen Händedrucks mit Trump. Die Chefin
der EU-Kommission und der US-Präsident – so betonte von der Leyens Sprecherin
Paula Pinho – vereinbarten in ihrem kurzen Austausch auf dem Petersplatz ein
weiteres Treffen – was als ermutigende Signale für den Weg des Dialogs wahrgenommen
wird, besonders bedeutsam im aktuellen Kontext von Zöllen und internationalen
Spannungen. (vn/bbc 26)
Steinmeier: Papst lebte „Kirche der
Barmherzigkeit“ vor
Der deutsche Bundespräsident Frank-Walter Steinmeier hat den
verstorbenen Papst als leuchtendes Vorbild der Barmherzigkeit gewürdigt. Der
Argentinier habe immer wieder den Fokus auf Menschen am Rande gelenkt. Ähnlich
äußerte sich EU-Kommissionspräsidentin Ursula von der Leyen, die auch am
Requiem teilnahm. Von Anne Preckel
„Er war ein Papst, der die Menschen berührt hat, der ihre
Herzen geöffnet hat“, formulierte der Politiker gegenüber Journalisten kurz
nach dem Requiem am Samstag. „Und ich denke an seine Bescheidenheit, seine
Spontaneität, seinen Humor, seinen tiefen Glauben, aber auch das Plädoyer für
Barmherzigkeit.“
Kirche der Barmherzigkeit vorgelebt
Dabei habe sich Franziskus vor allem Menschen am Rande und
Ausgegrenzten zugewandt, die „seiner Sorge, ja sogar Liebe sicher sein
durften“, so Steinmeier: „Das hat er eigentlich vom ersten Tag seines Dienstes
im Amt des Bischofs von Rom gezeigt. Mit Besuchen, die auch in der Kirche nicht
unumstritten waren, mit Besuchen in Lampedusa, in Gefängnissen, in
Flüchtlingseinrichtungen, bei Obdachlosen und vielen anderen, die sich
vergessen fühlten, die am Rande der Gesellschaft stehen.“
Dass sich die Kirche um solche Menschen kümmern müsse, habe
Franziskus deutlich gemacht. „Eine Kirche der Barmherzigkeit, das ist es, was
er gefordert hat, was er gelebt hat, was er anderen vorgelebt hat.“
Besonderes Interesse auch für die deutsche Kultur
Steinmeier erinnerte an intensive Gespräche und Begegnungen,
die er in den letzten sieben Jahren mit dem argentinischen Papst gehabt habe
und die ihn sehr bereichert hätten, wie Steinmeier sagte. „Ich zähle mich zu
den Glücklichen, die die Gelegenheit hatten, ihnen mehrere Male zu treffen.“
Dabei habe er auch ein besonderes Interesse dieses Papstes
für Deutschland wahrgenommen. „Ich war beeindruckt von der Neugier und von dem
Interesse, was er auch Deutschland entgegengebracht hat. Und ich habe ihn
kennengelernt als jemanden, der ganz besonders deutsche Dichtung, deutsche
Musik lebte und deshalb auch den Deutschen ganz zugewandt war.“
Franziskus habe Kraft und Hoffnung gespendet und sei ein
Vorbild gewesen, so Steinmeier. „Wir werden ihn in unserer Erinnerung bewahren
und auf immer dankbar sein.“
Trauer, keine Beerdigungsdiplomatie
Die Trauerfeier für Franziskus vom Samstag bezeichnete der
Politiker als „bewegend“. Was der Papst den Menschen wirklich bedeutet haben,
das habe man in den letzten Tagen in Rom sehen können, so Steinmeier mit
Verweis auf den großen Andrang bei den Trauerfeierlichkeiten und die Schlangen
am Petersdom bei Tag und Nacht.
Der Bundespräsident dämpfte Erwartungen, dass es bei den
Ereignissen in Rom, zu denen viele Staatschef angereist sind, zu diplomatischen
Durchbrüchen kommen könne. „Ich glaube, wir sollten nicht vergessen: das hier
ist in erster Linie eine Trauerfeier gewesen, und wir sollten nicht zu viele
Erwartungen in eine sogenannte Beerdigungsdiplomatie setzen. Natürlich -
diejenigen, die sich untereinander kennen, begegnen sich hier, und es ist
Gelegenheit für kurze Gespräche, aber eigentlich möchte ich davon abraten, zu
erwarten, dass hier am Rande dieser Trauerfeierlichkeit große Außenpolitik
betrieben wird.“
Das italienische Fernsehen hatte am Samstag Fotos aus dem
Inneren des Petersdoms gezeigt, auf denen zu sehen war, wie sich im Stehen
Frankreichs Staatschef Emmanuel Macron und der britische Premier Keir Starmer
mit den Präsidenten Trump und Selenskyj unterhalten. Weitere Bilder zeigten ein
offenbar intensives Gespräch, das allein Selenskyj und Trump aus zwei Stühlen
einander gegenüber sitzend miteinander führten. Sowohl Selenskyj als auch Trump
bezeichneten ihren Austausch vom Samstag laut Medienberichten im Anschluss als
positiv.
„Ich hatte nicht den Eindruck, dass jetzt großartige Treffen
am Rande oder nach der Trauerfeier vereinbart waren“, so Steinmeier am Samstag
unmittelbar nach der Trauerfeier vor Journalisten. „Insofern müssen wir darauf
setzen, dass Europas Interessen in Washington gehört werden, nicht nur auf
dieser Trauerfeier, sondern auch jenseits davon.“
Über 150 offizielle Delegationen nahmen an der Trauerfeier
auf dem Petersplatz teil, darunter zahlreiche Staats- und Regierungschefs. Aus
Russland war Kulturministerin Olga Ljubimowa teil; für die russisch-orthodoxe
Kirche war der Leiter ihres Außenamtes, Metropolit Antonij, vor Ort.
Von der Leyen: Vermächtnis der Barmherzigkeit, Gerechtigkeit
und Hoffnung
Wie Steinmeier würdigte auch die EU-Kommissionspräsidentin
Ursula von der Leyen Franziskus‘ Vorbild und sprach von „einem Vermächtnis der
Barmherzigkeit, der Gerechtigkeit und der Hoffnung. Es wird weiterhin den Weg
erleuchten“, so von der Leyen.
Franziskus habe „daran erinnert, dass die Liebe die Ränder
erreichen muss, und er hat die weniger Glücklichen umarmt“, schrieb von der
Leyen am Samstag im Onlinedienst X. Dazu gehörten die Vertriebenen, die
Vergessenen und Menschen ohne Stimme.
Das Vermächtnis des Papstes sei schrieb von der Leyen nach
der Totenmesse auf dem Petersplatz im Vatikan, an der sie teilgenommen hatte.
„Papst Franziskus hat Brücken gebaut. Mögen wir sie beschreiten.“ (vn 26)
Überlebensfrage. An vorderster
Front: Indigene im Klimawandel
Sie gelten als Schlüssel im Kampf gegen Erderwärmung, sind
aber auch die ersten Opfer steigender Meeresspiegel und schmelzender Gletscher:
Für Urvölker ist der Klimawandel eine Überlebensfrage. Von Denis Düttmann,
Kristin Palitza und Carola Frentzen
Indigene auf der ganzen Welt sind so etwas wie das
Frühwarnsystem für den Klimawandel: Da die Urvölker in Afrika, Asien, im
Südpazifik und Lateinamerika häufig eng mit der Natur verbunden leben, spüren
sie die Folgen der Erderwärmung als Erste. Aufgrund ihrer besonderen
Kenntnisse über die Ökosysteme, in denen sie leben, gelten sie nach
Einschätzung von Experten auch als Schlüssel im Kampf gegen den Klimawandel.
Wo indigene Gemeinschaften beispielsweise über verbriefte
Rechte auf ihr Land verfügen, werden laut einer Studie der
Welternährungsorganisation (FAO) deutlich weniger Flächen abgeholzt als in
anderen Gebieten.
„Indigene Völker sind wichtige Akteure, denn obwohl sie nur
fünf Prozent der weltweiten Bevölkerung ausmachen, verwalten sie rund 80
Prozent der weltweiten biologischen Vielfalt und sind die Hüter großer
Waldgebiete und Ökosysteme, die für das Wohlergehen des Planeten entscheidend
sind“, sagt Germán Freire von der Weltbank.
Schwere Dürren und steigende Meeresspiegel, Abholzung und
Zerstörung ihres Lebensraums, Umweltverschmutzung und Wetterextreme – die
Herausforderungen für indigene Gruppen sind vielfältig. Hier einige Beispiele,
welchen Gefahren die Urvölker ausgesetzt sind, und wie sie damit umgehen:
Neue Heimat wegen steigender Meeresspiegel
Wegen der drohenden Überflutung infolge des steigenden
Meeresspiegels wurden die Bewohner einer kleinen Insel in Panama im vergangenen
Jahr auf das Festland umgesiedelt. Rund 1.350 Menschen der indigenen
Volksgruppe der Guna zogen in die neu gebaute Siedlung Nuevo Cartí an Panamas
Nordküste. Der Exodus der Guna gilt als einer der ersten durch den Klimawandel
erzwungenen Umsiedlungen in Lateinamerika.
Die Insel Gardí Sugdub („Krabbeninsel“) liegt rund zwei
Kilometer von der Atlantikküste Panamas entfernt. Experten gehen davon aus,
dass sie bis 2050 wegen des Klimawandels komplett versinken dürfte.
Auch im Südpazifik werden sich die Bewohner von Inselgruppen
wie Tuvalu, Kiribati oder Fidschi bald eine neue Heimat suchen müssen. Speziell
das nordöstlich von Australien liegende Tuvalu wird in den nächsten Jahrzehnten
weitgehend überschwemmt werden. Australien kündigte im vergangenen Jahr an,
betroffene Menschen aus dem Südseestaat aufzunehmen und ihnen ein dauerhaftes
Aufenthaltsrecht zu gewähren.
Klimawandel bedroht traditionelle Nahrungsquellen der
Indigenen
Die Gemeinschaft von Walande auf den Salomonen südöstlich
von Neuguinea musste bereits vor Jahren umziehen. Bis dahin lebten die 800
Indigenen auf einer kleinen Insel vor der Küste. Nach verheerenden Springfluten
im Jahr 2009 siedelten alle Bewohner auf das Festland über. Aber auch dort ist
das Volk nicht sicher, wie die Menschenrechtsorganisation Human Rights Watch
(HRW) zuletzt warnte. „Am neuen Standort bricht Meerwasser durch die
schützenden Deiche“, hieß es in einem Bericht.
Auch die traditionellen Nahrungsquellen sind bedroht: Gärten
und Felder werden einfach weggespült, und es gibt immer weniger Fische.
„Walandes Geschichte ist eine Warnung, dass Gemeinden die Klimakrise nicht
allein bewältigen können“, sagte Erica Bower, Expertin für Klimavertreibung bei
HRW. Die Regierung stehe in der Pflicht, den Betroffenen zu helfen.
Hirtenvölker in Afrika fliehen vor Dürre
In Ostafrika hingegen fehlt es an Wasser: Hirtenvölker wie
die Massai, Turkana, Samburu und Borana müssen aufgrund anhaltender Dürren und
unregelmäßiger Regenfälle ihre traditionellen Weidegebiete verlassen. Nach
Angaben der Weltbank führten klimatische Bedingungen in der Region 2021 und
2022 zum Tod von mehr als zehn Millionen Nutztieren.
Laut der Beobachtungsstelle für Binnenvertreibung (IDMC)
wurden 2022 allein in Somalia, Kenia und Äthiopien rund 2,1 Millionen Menschen
zu Klimaflüchtlingen. Zudem seien zahlreiche Hirtenfamilien gezwungen, ihren
nomadischen Lebensstil aufzugeben und in Städte zu ziehen.
Um die Klimaflucht der Hirtenvölker einzudämmen, zielen
verschiedene Initiativen am Horn von Afrika darauf ab, degradierte Böden durch
nachhaltige Weidetechniken und Aufforstung wiederherzustellen. Um Dürreperioden
zu überbrücken, werden Wasserquellen durch den Bau von
Regenwasserauffangsystemen und Dämmen geschützt. Auch gibt es Projekte zur
Diversifizierung von Einkommensquellen für Hirten, beispielsweise durch den
Anbau dürreresistenter Nutzpflanzen oder die Verarbeitung von Milchprodukten.
Traditionelle Lebensformen in Gefahr
Steigende Temperaturen sowie Dürren in der Kalahari-Wüste in
Südafrika, Namibia und Botsuana bedrohen nach Angaben des
Weltbiodiversitätsrats der Vereinten Nationen (IPBES) die Tier- und
Pflanzenarten, auf die die indigene Volksgruppe der San, die hauptsächlich aus
Jägern und Sammlern besteht, traditionell angewiesen ist.
Der Biodiversitätsverlust wirkt sich nach Angaben des
Übereinkommens über die biologische Vielfalt (CBD) auch auf die spirituellen
und Heilpraktiken der San aus. Beispielsweise ist die dornige Hoodia-Pflanze,
die von den San seit Jahrhunderten für medizinische Zwecke genutzt wird, durch
den Klimawandel, aber auch durch eine übermäßige Ernte durch die
Pharmaindustrie stark bedroht.
Nachhaltige Landwirtschaft und Wiederaufforstung
Namibias Regierung hat der Volksgruppe kommunale
Naturschutzgebiete zugewiesen, wie beispielsweise die Nyae Nyae Conservancy im
Nordosten des Landes. Hier sollen die kulturellen und wirtschaftlichen
Praktiken der San durch Wiederaufforstung, nachhaltige Jagd und Landwirtschaft
sowie ökologische Bildungsmaßnahmen geschützt werden.
Landrechte als Schlüssel im Kampf gegen Klimawandel
Die indigenen Dayak Tomun aus dem Ort Kinipan auf Borneo
kämpfen seit Jahren gegen das Vorrücken von Palmöl-Plantagen und für den Schutz
des Regenwaldes, in dem sie leben. In der Region im indonesischen Kalimantan
sind einige der letzten Orang-Utans und andere bedrohte Wildtiere heimisch.
Regenwälder spielen für das globale ?Klima? eine ganz
entscheidende Rolle: Sie entziehen der Luft Treibhausgase und dienen als
riesige Kohlenstoffspeicher. Aber gerade auf Borneo werden riesige Waldgebiete
wegen des weltweiten Palmöl-Booms abgeholzt.
Schon seit Jahren versuchen die Dayak Tomun, sich die Rechte
an dem Waldgebiet zu sichern. Dafür wurden schon mehrmals alle erforderlichen
Dokumente und Gutachten eingereicht – bisher erfolglos. „In der Realität werden
indigene Gemeinschaften nur nach großen Anstrengungen und äußerst selten
anerkannt, obwohl sie hier lebten, lange bevor es den Staat Indonesien gab“,
schrieb die Organisation „Rettet den Regenwald“. Firmen kämen hingegen leicht
an Konzessionen für Holz, Plantagen und Bergbau, ohne dass die Indigenen
überhaupt gefragt würden. (dpa/mig 25)
Monsun verschärft die Lage nach
Erdbeben in Myanmar
World Vision: Tausende Kinder von Krankheiten bedroht
Kinderhilfsorganisation sorgt für sicheres Trinkwasser
Friedrichsdorf/Mandalay – Einen Monat nach dem verheerenden
Erdbeben in Myanmar sind die Überlebenden jetzt auch noch einem ungewöhnlich
frühen Monsun ausgesetzt. Die teils heftigen Regenfälle bedrohen die Gesundheit
von tausenden Kindern und ihren Familien, die bei dem Beben ihr Zuhause
verloren haben, berichtet die internationale Kinderhilfsorganisation World
Vision. Anhaltende Nachbeben halten zudem viele Menschen davon ab, in
beschädigte Häuser zurückzukehren.
World Vision ist seit dem ersten Tag im Nothilfe-Einsatz und
kümmert sich um die Bedürfnisse der vom Erdbeben betroffenen Menschen.
Einsatzteams verteilen neben Nahrungsmitteln, Wasser und Hygienesets auch
Planen zum Schutz vor Regen. Moskitonetze, die World Vision besonders Familien
mit kleinen Kindern zur Verfügung stellt, halten die Krankheiten verbreitenden
Mücken fern.
Die Organisation bietet auch psychosoziale Unterstützung für
betroffene Kinder an. In Kinderschutzzentren können sie spielen, basteln,
lernen und sich so von den Erlebnissen erholen. World Vision hat sich zum Ziel
gesetzt, in den nächsten sechs Monaten insgesamt 500.000 Menschen mit
lebenswichtiger Hilfe zu erreichen. Bisher haben über 160.000 Menschen
Unterstützung erhalten, hauptsächlich in der Region Mandalay.
Während der Monsunzeit werden Überschwemmungen
voraussichtlich die Lage vieler Menschen in beengten Notunterkünften dramatisch
verschlechtern. An Lösungen müsse trotz erschwerter Zugänge und der Schäden an
der Infrastruktur mit Hochdruck gearbeitet werden, erklärt der Landesdirektor
von World Vision Myanmar, Dr. Kyi Minn: „Tausende Familien haben ihre Häuser
verloren. Ihre Wasserquellen sind verunreinigt und die Ausbreitung von durch
Wasser übertragenen Krankheiten steht unmittelbar bevor. Feuchte und überfüllte
Lager gefährden zudem das Leben der Kinder durch Lungenkrankheiten wie
Lungenentzündung.“
Mit dem Bau von Wassertanks und der Reparatur von Leitungen
verbessert World Vision den Zugang zu sauberem Trinkwasser und hilft so, die
Gefahr von Krankheitsausbrüchen zu verhindern. Familien werden auch mit
Filtersystemen zur Wasserreinigung versorgt.
Trotz des Ausmaßes der Katastrophe, bei der mehr als 3.600
Menschen ums Leben kamen, ist die internationale Finanzierung nur langsam
angelaufen. Der internationale Spendenaufruf für die Erdbebenhilfe in Höhe von
275 Millionen US-Dollar ist nach wie vor stark unterfinanziert, da bisher nur
ein Bruchteil der notwendigen Gelder zugesagt wurden.
Kyi Minn: „Die Kinder in Myanmar sind dringend auf
Unterstützung angewiesen. Wir haben keine Zeit mehr zu verlieren. Die
internationale Gemeinschaft muss ihre Anstrengungen deutlich verstärken.”
World Vision Deutschland ist für die Durchführung seiner
Projekte auf Spenden angewiesen.
World Vision Deutschland e.V.
PAX-Bank eG
IBAN DE72 3706 0193 4010 5000 07
BIC GENODED1PAX
Stichwort: Erdbeben Myanmar
Online: Jetzt für Katastrophenhilfe spenden
World Vision Deutschland ist Mitglied bei “Aktion
Deutschland hilft”
Aktion Deutschland Hilft e.V.
DE62 3702 0500 0000 1020 30
BIC: BFSWDE33XXX
SozialBank
Stichwort: Erdbeben Myanmar
Online: Online Spenden - Spenden Sie hier. Aktion
Deutschland Hilft
Danke für Ihre Unterstützung! WVD 25
In Rom beginnt das Ringen um einen neuen Papst – und um die
Richtung, welche die Kirche künftig einschlagen soll. Von Austen Ivereigh
Mit dem Tod von Papst Franziskus am Montag beginnt für die
katholische Kirche eine ungewisse Ära, auf die er diese während seiner Lebzeit
vorzubereiten versuchte. Schon bald werden die Kardinäle nach Rom einberufen,
um im Konklave seinen Nachfolger zu wählen. Sie stehen nun vor der Frage, ob
Franziskus’ Vision – eine barmherzige Kirche, in der alle willkommen sind –
weiterhin der richtige Weg ist oder ob ein grundsätzlich anderer Ansatz gefragt
ist, womöglich einer, der sich stärker an den Forderungen des christlichen
Glaubens orientiert.
Bevor das Konklave beginnt, verbringen die Kardinäle bis zu
zwei Wochen in Rom, um auszuloten, was für ein Papst nun gebraucht wird – für
die Kirche sowie für die Welt insgesamt. Irgendwann werden sie sich dann die
Frage stellen: „Wer von uns?“ Erst danach ziehen sich die 135 wahlberechtigten
Kardinäle – also jene unter 80 Jahren – in die Sixtinische Kapelle zurück, um
dort in Abgeschiedenheit ihre Entscheidung zu treffen.
Die Kardinäle werden sich des historischen Moments bewusst
sein. In den letzten Monaten des Pontifikats von Franziskus schien der Westen
ebenso zu zerfallen wie die regelbasierte Ordnung, die nach dem Zweiten
Weltkrieg errichtet worden war. Die Welt erscheint heute wie ein Dschungel, in
dem das Recht des Stärkeren gilt und in dem imperiale Zentren – die USA, China,
Russland – immer heftiger um Einfluss ringen und dabei die Souveränität
kleinerer Nationen missachten. Die Kardinäle werden auch die sozialen Zerfallserscheinungen
innerhalb vieler Länder bedenken: den schwindenden gesellschaftlichen Anstand,
die wachsende Wut, die hinter dem Aufstieg nationalistischer Populisten steht,
die zunehmende Gewalt sowie die Aussicht auf weitere Kriege. Sie werden sich
fragen, was all das von der Kirche – und vom Papsttum – verlangt.
Auch wenn viele Kardinäle um die Bedrohung von Demokratie
und Rechtsstaatlichkeit besorgt sind, dürften die wenigsten dem Niedergang der
liberalen Ordnung nachtrauern. Viele sehen darin vielmehr die logische Folge
von Individualismus und der Verherrlichung des Marktes. Viele geben dem
westlichen Liberalismus die Schuld an sozialen Ungleichheiten, moralischen
Verfehlungen, dem Zerfall institutioneller Strukturen und der Vernachlässigung
des Gemeinwohls.
Die meisten Kirchenmänner fühlen sich traditionell der
Arbeiterklasse verbunden. Sie teilen den Zorn einfacher Menschen darüber, dass
das Spiel zugunsten der Gebildeten und Reichen (und zum Nachteil der Armen)
manipuliert scheint. In Afrika, Asien und Lateinamerika, aus denen fast die
Hälfte der wahlberechtigten Kardinäle stammt, richtet sich die Kritik auch
gegen eine marktorientierte Globalisierung. Viele von ihnen sind überzeugt,
dass der Westen seine liberalen Werte dem Rest der Welt aufgezwungen hat, wodurch
Vertrauen, Traditionen, Gemeinschaft und die Familie zerstört wurden.
Gleichzeitig dürften nur wenige Kardinäle von den neuen
„starken Männern“ beeindruckt sein, die sich in die Fahnen von Nation und
Religion hüllen. Viele von ihnen werden Donald Trump, Elon Musk und
ihresgleichen als Nihilisten betrachten – Leute, die zerstören, aber nicht
aufbauen können. Sie sind entsetzt über die Hetze gegen Migranten und über die
ignorante Ablehnung von Umweltschutz, beides Kernanliegen der katholischen
Soziallehre unter Franziskus, der vier Fünftel der wahlberechtigten Kardinäle
ernannt hat. Sie werden in dem neuen Autoritarismus wahrscheinlich ein Zeichen
dafür sehen, dass der Staat nicht mehr – wie von Augustinus gefordert – die
„libido dominandi“, den Drang zur Herrschaft, zügelt und blicken skeptisch auf
die Verehrung von Autokraten.
Die zentrale Frage, vor der die Kardinäle stehen, lautet
daher: Wie kann die Kirche ihren Auftrag in dieser neuen Weltlage schützen und
weiterentwickeln? Denn während der liberale Staat zwar gleichgültig gegenüber
dem Glauben war, der Kirche aber zumindest karitatives Wirken zugestand,
verlangen die neuen Autokraten von ihr, dass sie ihre heidnischen Ideologien
absegnet – aber den Mund hält, wenn es um Schwache und Fremde geht.
Als langjähriger Beobachter des Vatikans und der Kirche
glaube ich, dass die Kardinäle einen Papst wählen werden, der klare Grenzen
zieht – zur Verteidigung der Freiheit der Kirche, ihre Werte zu verkünden, und
gegen jede politische Vereinnahmung ihrer Lehre. Manche werden womöglich
Parallelen zu den Zwanzigern und Dreißigern des letzten Jahrhunderts ziehen,
als ein Papst die Kirche durch eine Epoche abnehmender Demokratien und
aufkommender Autokratien führte. Damals, zur Zeit des Totalitarismus und der
Vorboten des Zweiten Weltkriegs, verteidigte Pius XI. (1922–1939) eine
pluralistische Zivilgesellschaft gegen die erdrückende Macht des Staates. Viele
Kardinäle dürften der Meinung sein, dass der neue Papst Ähnliches leisten muss.
In einem der wichtigsten Lehrdokumente des 20. Jahrhunderts
betonte Pius XI., dass das Gesetz nicht nur die Autonomie der Kirche, sondern
auch aller sogenannten intermediären Institutionen schützen müsse – von Schulen
über Wohlfahrtsverbände und Gewerkschaften bis hin zu zivilgesellschaftlichen
Organisationen. Diese gehörten weder Markt noch Staat, sondern gingen aus dem
Glauben und dem Engagement von Menschen hervor. Einen direkten Nachhall dieser
Lehre sah man in dem Brief, den Franziskus im Februar an die US-Bischöfe
richtete – eine implizite Reaktion auf die Kritik von Vizepräsident J. D.
Vance, der dem Papst über Ostern einen Besuch abstattete. Vance hatte die
Kirche wegen ihrer Unterstützung für Migrantinnen und Migranten kritisiert.
Das Vermächtnis von Franziskus wird bei den Entscheidungen
der Kardinäle eine wichtige Rolle spielen – nicht nur seine Reformen, Lehren
und Prioritäten, sondern auch sein Stil, die Art und Weise, wie er das
Evangelium verkörperte und lebte. Bereits im März 2013, nach dem Rücktritt von
Benedikt XVI. und vor dem Konklave, das Franziskus wählte, machten die
Kardinäle deutlich, dass eine Reform der Strukturen und der Kultur des Vatikans
Priorität habe. Franziskus verstand dies als Auftrag. Heute ist der Vatikan
weitgehend frei von den Skandalen der Benedikt-Ära. Zu seinen größten
Errungenschaften zählt eine neue Verfassung für den Vatikan, das Ergebnis
jahrelanger Beratungen und Überarbeitungen. Viele Kardinäle werden fordern,
dass sein Nachfolger diese Reformen festigt und fortführt.
Manche wünschen sich womöglich auch einen Papst, der Brücken
schlägt – zu jenen Gruppen, die unter Franziskus enttäuscht waren: etwa zu
Traditionalisten und Konservativen in den USA oder zu progressiven Kräften in
Deutschland. Und nach dem ersten lateinamerikanischen Papst der Geschichte, der
den Blick auf die Ränder der Welt richtete, könnten manche eine Rückbesinnung
auf Europa fordern. Möglicherweise sehen sie heute eine stärkere wechselseitige
Abhängigkeit zwischen der Europäischen Union, die in einem Geist katholischen
Humanismus gegründet wurde, und der Kirche.
Was auch immer sonst die Prioritäten der Kardinäle sein
mögen – wahrscheinlich wird Franziskus’ Idee der „Synodalität“ eine zentrale
Rolle spielen. Damit ist eine alte kirchliche Praxis gemeint: das gemeinsame
Zusammenkommen, Zuhören, Abwägen und Entscheiden. Franziskus hat diese Praxis
in radikal inklusiver Weise erneuert, indem er alle Gläubigen zur Beteiligung
einlud. Die Kardinäle könnten zu dem Schluss kommen, dass genau dies derzeit
das stärkste Zeichen der Hoffnung ist, das die Kirche der Welt geben kann.
Diese „Kultur der Begegnung“, wie Franziskus sie nannte, mag
in den Augen der Mächtigen belanglos erscheinen. Doch sie beruht auf einer
Einsicht, die jenen, die nur nach Macht streben, unverständlich bleibt: die
unantastbare Würde jedes Menschen, die Notwendigkeit, allen zuzuhören –
besonders den Marginalisierten – und die Geduld, auf Einvernehmen zu warten.
All das ist zentral für die Heilung eines zerrissenen gesellschaftlichen
Gefüges.
In einer Welt voller Spannungen dürfte für die Kardinäle
eines im Zentrum stehen: Was auch immer man sich sonst von einem neuen Papst
wünschen mag – die drängendste Frage für die Menschheit ist, wie wir
miteinander umgehen. NYT/IPG 24
NRW. Partnerschaft für nachhaltige
Innovationen im Bauwesen
Bauindustrieverband NRW und BLB NRW unterzeichnen
Vereinbarung zur
Förderung von Innovationen und Nachhaltigkeit im Bauwesen
Der Bau- und Liegenschaftsbetrieb des Landes
Nordrhein-Westfalen (BLB
NRW) und der Bauindustrieverband Nordrhein-Westfalen e. V.
haben
heute eine gemeinsame Vereinbarung zur Förderung von
Innovation,
Nachhaltigkeit und Klimaschutz im Bauwesen unterzeichnet.
Ziel ist
es, die Herausforderungen des nachhaltigen Bauens im
öffentlichen
Bereich gemeinsam anzugehen und die Innovationskraft der
Bauindustrie
gezielt in die Projekte des Landes einzubringen.
"Als einer der größten öffentlichen Auftraggeber in
Nordrhein-Westfalen kommt dem BLB NRW eine besondere
Verantwortung
zu. Mit der Vereinbarung setzen wir ein klares Signal: Wir
wollen als
starker Partner gemeinsam mit der Bauindustrie den Wandel
hin zu mehr
Nachhaltigkeit aktiv gestalten", sagt Gabriele Willems,
Geschäftsführerin des BLB NRW.
Die Vereinbarung legt die Grundlagen für eine strategische
Kooperation zwischen dem öffentlichen Auftraggeber und der
nordrhein-westfälischen Bauindustrie. Im Mittelpunkt stehen
dabei
Themen wie die Förderung ressourcenschonender
Baumaterialien, der
Ausbau der Kreislaufwirtschaft, innovative Bauverfahren
sowie die
Optimierung von Bauzeiten, Qualität und Wirtschaftlichkeit.
"Die nordrhein-westfälische Bauindustrie steht bereit,
ihren Beitrag
zu klimafreundlichem, innovativem und wirtschaftlichem Bauen
zu
leisten. Mit dieser Vereinbarung schaffen wir eine Plattform
für den
kontinuierlichen Austausch und für die Entwicklung
zukunftsweisender
Lösungen", erklärt Prof. Beate Wiemann,
Hauptgeschäftsführerin des
Bauindustrieverbandes NRW.
Der BLB NRW bekennt sich in dem Papier ausdrücklich dazu,
die
bestehenden Möglichkeiten - etwa durch funktionale
Leistungsbeschreibungen oder die verstärkte Berücksichtigung
von
Nachhaltigkeitskriterien bei Landesbauprojekten - konsequent
zu
nutzen, um Nachhaltigkeit und Innovation im öffentlichen
Bauen zu
fördern. Darüber hinaus wird der regelmäßige Wissenstransfer
zu
innovativen Baumaterialien und Bauverfahren intensiviert.
Die Vereinbarung ist Teil der gemeinsamen Anstrengungen, das
Bauwesen
in Nordrhein-Westfalen zukunftsfest zu gestalten -
ökologisch,
wirtschaftlich und sozial.
Der Bauindustrieverband Nordrhein-Westfalen verbindet als
Arbeitgeber- und Wirtschafts-verband nordrhein-westfälische
Unternehmen der Bauindustrie und benachbarter Branchen. Als
freiwilliger Zusammenschluss und größtes Kompetenzzentrum
der
Bauindustrie in NRW betreut und repräsentiert der Verband
Bauunternehmen aller Bausparten. Von kleinen
Familienbetrieben über
kleinere und große mittelständische Unternehmen bis hin zu
Niederlassungen international agierender Baukonzerne sind
die
Mitgliedsunternehmen in allen Bereichen des Hoch- und
Tiefbaus tätig.
Diese agieren als Partner sowohl von privaten als auch
vielfach von
öffentlichen Auftraggebern. Der Bauindustrieverband
Nordrhein-Westfalen ist der größte bauindustrielle
Landesverband in
der Bundesrepublik Deutschland.
Über den Bau- und Liegenschaftsbetrieb NRW (BLB NRW)
Der BLB NRW ist Eigentümer und Vermieter fast aller
Immobilien des
Landes Nordrhein-Westfalen. Mit rund 4.000 Gebäuden und
einer
Mietfläche von etwa 10,3 Millionen Quadratmetern
verantwortet der BLB
NRW eines der größten Immobilienportfolios Europas. Seine
Dienstleistungen umfassen unter anderem die Bereiche
Entwicklung und
Planung, Bau und Modernisierung sowie Bewirtschaftung und
Verkauf von
technisch und architektonisch hoch komplexen Immobilien.
Darüber
hinaus plant und realisiert der BLB NRW
im Rahmen des Bundesbaus die zivilen und militärischen
Baumaßnahmen
der Bundesrepublik Deutschland in Nordrhein-Westfalen. Der
BLB NRW
beschäftigt mehr als 3.000 Mitarbeiterinnen und Mitarbeiter
an acht
Standorten. Weitere Informationen unter www.blb.nrw.de.
BLB/dip 24
Trumps Vermittlungsversuch ist gescheitert, der Krieg geht
weiter. Überlässt der Westen die Ukraine nun ihrem Schicksal? Von Nickolay
Kapitonenko
Donald Trump ist gescheitert. Vor dem US-Präsidenten stand
eine Mammutaufgabe: einen Krieg zu beenden, in dem beide Seiten keine
erkennbare Kompromisszone hatten. Beide glauben weiterhin an einen möglichen
Sieg – und für beide ist der politische Preis ernsthafter Zugeständnisse
schlicht zu hoch.
Trumps Optimismus fußte offenbar auf der Annahme, die
Ukraine lasse sich unter Druck setzen, während mit Russland eine Einigung
möglich sei. Zudem hält der US-Präsident – durchaus zurecht – Kriege für ein
äußerst ungeeignetes Mittel zur Lösung politischer Konflikte. Diese
Einschätzung teilten viele schon vor ihm, doch wie die Geschichte zeigt,
brechen Kriege dennoch immer wieder aus – auch wenn sie irrational erscheinen.
Ist ein bewaffneter Konflikt erst einmal entfesselt, verselbständigt sich die
Gewalt und erschwert jede friedliche Lösung erheblich.
Trumps Administration orientierte sich offenkundig unter
anderem an historischen Beispielen erfolgreicher US-Vermittlungen – etwa Camp
David oder Dayton. Diese Fälle zeigen allerdings nicht nur, dass Supermächte in
der Lage sind, selbst in hochkomplexen Konflikten zu vermitteln. Sie zeigen
auch, wie brüchig solche Lösungen oft sind. So waren Waffenruhen im
Nahostkonflikt nie dauerhaft, eine nachhaltige Lösung blieb stets aus. Und das,
obwohl die USA in den 1990er-Jahren über deutlich mehr globale Machtmittel
verfügten als heute. Trumps Einflussmöglichkeiten hingegen sind begrenzt –
nicht nur gegenüber Moskau, sondern zunehmend auch gegenüber Kiew. Viele hatten
schon vor ihm geglaubt, man könne leicht mit Russland verhandeln oder Druck auf
die Ukraine ausüben. Die Entwicklungen im russisch-ukrainischen Krieg vor 2022
haben diese Hoffnungen jedoch weitgehend widerlegt.
Und dennoch: Trump nahm die Vermittlerrolle an. Die USA
schafften es, die Gespräche in Gang zu bringen, Positionen auszuloten und
diplomatische Treffen nach dem Muster der Shuttle-Diplomatie zu initiieren.
Doch als es um konkrete Entscheidungen ging, gerieten die Verhandlungen erneut
in eine Sackgasse – ganz wie einst bei den Minsker Abkommen.
Kiew war mit Trumps Position unzufrieden: zu wenig Druck auf
Moskau, keine Bereitschaft zur Verteidigung einer regelbasierten
internationalen Ordnung, zu viel Verständnis für russische Forderungen. Aber
wie hätte es anders laufen sollen? Jede andere Strategie hätte einer Rückkehr
zur Biden-Linie bedeutet – die Trump mit einigem Grund für gescheitert hält.
Zwischenzeitlich zeichnete sich ein Plan zur
Kriegsbeendigung ab: Einfrieren der Frontlinie, Verhandlungen über das
Atomkraftwerk Saporischschja, die Ukraine außerhalb der NATO – das klang wie
eine realistische Grundlage für Dialog, fernab der Maximalforderungen beider
Seiten. Der Druck aus Washington schränkte Selenskyjs Spielraum ein, woraufhin
die Ukraine sich auf eine Waffenruhe und sogar Gespräche mit Russland einließ –
noch vor wenigen Monaten unvorstellbar. Gefangenenaustausche und eine Waffenruhe
zu Ostern erinnerten an den „Lehrbuch“-Ansatz früherer Jahre, etwa an die große
Austauschrunde und Waffenruhe 2019/20. Doch wie damals blieben auch diesmal
weiterführende Schritte aus – die Grundinteressen der Konfliktparteien sind
schlicht unvereinbar.
Vor diesem Hintergrund waren die Chancen auf ein
weitreichendes Abkommen in London minimal – und sind es auch weiterhin. Moskau
verlangt einen zu hohen Preis für eine Feuerpause, während Kiew das Risiko
einer Fortsetzung des Krieges auch ohne amerikanische Hilfe für vertretbar
hält. Beide Seiten sind weiter bereit, Risiken einzugehen und den Preis für
diesen Krieg zu zahlen.
Russlands Anspruch, besetzte Gebiete zu behalten, ist im
gegenwärtigen Zeitalter des Nationalismus kaum lösbar. Widersprüchliche Signale
aus Moskau zu territorialen Fragen verstärken den Eindruck, dass ein
Waffenstillstand dort gar nicht ernsthaft gewollt ist. Putins langes Festhalten
an Ansprüchen auf vier ukrainische Regionen – Donezk, Luhansk, Saporischschja
und Cherson – machte Verhandlungen de facto unmöglich. Nachrichten über ein
mögliches Einfrieren entlang der Frontlinie blieben unbestätigt und kamen
ohnehin zu einem Zeitpunkt, als das Scheitern der Londoner Gespräche bereits
absehbar war. Ein Waffenstillstand entlang der aktuellen Front wäre ein
denkbarer Schritt – aber nur ein temporärer. Anders als beim Korea-Krieg
blieben zentrale Fragen ungelöst, allen voran die territoriale.
Für die USA nimmt die Lage eine unangenehme, aber keineswegs
dramatische Wendung. Anders als in Afghanistan sind sie militärisch nicht
involviert und an keine Verpflichtungen gebunden. Es steht allein die
Reputation auf dem Spiel – und auch diese könnte Trump leicht der
Vorgängerregierung anlasten, nicht den Vereinigten Staaten selbst.
Trump stehen andere Herausforderungen bevor:
Handelskonflikte etwa sind nur Symptome einer tieferliegenden
Auseinandersetzung um die globale Rolle Amerikas. Trumps Strategie –
einseitiges Handeln, Ressourcenschonung, Lastenteilung in der Sicherheitspolitik
– könnte durch einen Rückzug aus dem Ukraine-Krieg konsequent fortgesetzt
werden. Das müsste nicht zwangsläufig die amerikanischen Bündnisse schwächen,
wohl aber die Stellung derer, die auf Washington angewiesen sind. Ein Ende der
US-Hilfe, Verantwortungsverschiebung nach Europa und punktuelle Gespräche mit
Moskau sind eine reale Option für Washington.
Europa wirkt auf dieses Szenario kaum vorbereitet. Die hohen
Kosten eines Krieges vor der eigenen Haustür sollten eigentlich Anreiz genug
sein, dessen Ende zu suchen. Stattdessen treiben die Signale aus Washington
Berlin und Paris in eine andere Richtung. Für die Ukraine bleibt damit nur,
sich noch enger an Europa zu binden – ob diese Unterstützung dauerhaft und
ausreichend sein wird, ist jedoch ungewiss.
Setzen sich die aktuellen Trends fort, dürfte es im Sommer
und Herbst zu einer neuen Eskalationsrunde kommen. Die Ukraine wird mit den
Folgen gekürzter Hilfen kämpfen müssen, Russland mit den Risiken einer erneuten
Mobilmachung. Beide Seiten könnten mit diesen Herausforderungen umgehen – wenn
auch unter großen Mühen. Eine neue Verhandlungsrunde noch in diesem Jahr
erscheint daher wenig wahrscheinlich. IPG 24
Junge ausländische Fachkräfte
hängen in der Luft
Gesetze, Regeln, Bürokratie: Ausländische Azubis können nach
Abschluss der Lehre nicht ohne weiteres weiter arbeiten. Sie benötigen eine
neue Aufenthaltserlaubnis. Bis das Papier ausgestellt ist, müssen sie warten.
Weil mit dem Ende der Ausbildung bei ausländischen
Lehrlingen auch ihre Aufenthaltserlaubnis endet, fordert die IHK Region
Stuttgart eine Übergangsregelung für die jungen Leute. Eine Weiterbeschäftigung
sei erst möglich, wenn ein neuer Aufenthaltstitel vorliege und könne dauern,
kritisierte Hauptgeschäftsführerin Susanne Herre. Gerade in Zeiten des
Fachkräftemangels könne man es sich nicht leisten, motivierte, gut ausgebildete
Leute zu verlieren, und dies wegen eines bürokratischen Flaschenhalses.
Die IHK Region Stuttgart setzt sich deshalb für die
bundesweite Einführung einer Regelung für den Übergang von Ausbildung in den
Beruf ein, die bereits von mehreren Ausländerbehörden in Deutschland
praktiziert wird. Diese ermögliche es, direkt nach Ausbildungsende ins
Arbeitsverhältnis zu starten – auch wenn der neue Aufenthaltstitel noch in
Bearbeitung sei. Herre forderte Bund und Länder auf, dass
Fachkräfteeinwanderungsgesetz praxisnäher zu gestalten. Wer in Deutschland eine
Ausbildung oder ein Studium erfolgreich abgeschlossen hat, solle direkt ohne
Einschränkungen arbeiten dürfen.
Migrationsministerium sieht Bund in der Pflicht
Ein Sprecher des Migrationsministeriums sagte, bislang könne
ein Aufenthaltstitel zur Beschäftigung als Fachkraft erst erteilt werden, wenn
der erfolgreiche Abschluss der Berufsausbildung nachgewiesen und die
Bundesagentur für Arbeit die Zustimmung zur angestrebten Beschäftigung erteilt
habe. Bis dahin gelte – sofern die Betroffenen rechtzeitig einen Antrag auf
Erteilung der Aufenthaltserlaubnis gestellt haben – der bisherige
Aufenthaltstitel als fortbestehend. Und man könne bis zu 20 Stunden in der Woche
arbeiten.
Um die sich hieraus ergebende Lücke zeitlich zu verkürzen,
hatte das Migrationsministerium schon 2023 die Ausländerbehörden darum gebeten,
das Zustimmungsverfahren bei der Bundesagentur zügig und losgelöst von der
Vorlage des Abschlusszeugnisses einzuleiten, sofern die Betroffenen andere
glaubwürdige Nachweise vorlegen konnten, etwa eine Bestätigung der Schule oder
des Ausbildungsbetriebs über den erfolgreichen Abschluss der Ausbildung, wie
ein Sprecher mitteilte. Eine Regelung für den nahtlosen Übergang von der
Ausbildung in den Beruf könne nur zusammen mit dem Bund getroffen werden.
Ein Sprecher der Unternehmer Baden-Württemberg sagte, das
bisherige Verfahren sei zu kompliziert und dauere zu lange. Bis der Betroffene
einen Termin bei der zuständigen Ausländerbehörde bekomme, vergehe oftmals zu
viel Zeit. Der Verband schlug vor, dass die neue Landesagentur für die
Zuwanderung von Fachkräften (LZF) in Baden-Württemberg künftig für das Thema
zentral zuständig sein sollte. Dann könnte der Prozess sicherlich beschleunigt
werden. (dpa/mig 23)
Rekordwerte in Bayern. Migranten
immer häufiger Opfer von Straftaten
Die Stimmung im Land ist gereizt. Radikale Meinungsmacher
und Parteien hetzen immer krasser gegen Flüchtlinge und andere Minderheiten.
Längst bleibt es nicht nur bei Worten. In Bayern gibt es traurige Rekordwerte:
Zahl antimuslimischer Straftaten hat sich in drei Jahren verdreifacht.
In Bayern gibt es seit Jahren eine deutliche Zunahme bei
rassistischen Straftaten – insbesondere Migrantinnen und Migranten werden dabei
immer häufiger Opfer. Nach Angaben des Innenministeriums wurden 2024 insgesamt
1.829 sogenannte rassistisch, ausländer- bzw. antisemitische motivierte
Straftaten registriert.
Dies geht aus einer Antwort des Ministeriums auf eine
Anfrage der Grünen im Landtag hervor, die der Deutschen Presse-Agentur in
München vorliegt. Damit wurde der traurige Rekord aus dem Jahr 2023 (1.682)
wieder übertroffen. 2022 waren es nur 1.073 Delikte.
230 Straftaten gegen geflüchtete Menschen
Insgesamt 230 dieser Straftaten richteten sich den Angaben
zufolge explizit gegen Menschen, die aus einem anderen Land nach Deutschland
geflüchtet sind und hier eigentlich einen besonderen Schutz bedürften. Darunter
fielen auch 16 Gewalttaten, 5 Fälle von gefährlicher Körperverletzung und ein
versuchter Totschlag. 207 dieser Straftaten (90 Prozent) werden Tätern mit
einer rechtsextremen Gesinnung zugeordnet. Die Zahl der Straftaten gegen
Geflüchtete blieb damit 2024 gegenüber 269 Delikten in 2023 und 129 Delikten in
2022 auf einem bedenklich hohen Niveau.
Grüne fordern besseren Schutz der Menschen gegen Rechtsruck
„Gerade in dieser Zeit, in der wir in Deutschland, Europa
und der Welt einen gefährlichen Rechtsruck erleben, müssen wir die Rechte aller
Menschen in Bayern besser schützen. Die Herkunft, das Aussehen, die Religion
dürfen niemals Grund für Ablehnung sein“, sagte Cemal Bozo?lu, Sprecher der
Fraktion für Strategien gegen Rechtsextremismus. Die neuesten Zahlen müssten
die Staatsregierung alarmieren. „Es reicht nicht, sich beim Döneressen auf
Social Media zu zeigen – es braucht klare Kante gegen rassistische Übergriffe.
Die Stärke unserer Demokratie bemisst sich auch daran, wie der Staat gegen
Benachteiligungen vorgeht.“
Täter überwiegend aus dem rechtsextremen Milieu
1.349 aller in dem Kontext registrierten Straftaten (74
Prozent) wurden Tätern aus dem rechtsextremen Milieu zugeordnet. Seit 2022
(929) zeigte sich damit ein Anstieg um 45 Prozent gestiegen. 2023 waren es
1.246 Delikte gewesen. Reichsbürgern, Querdenkern und Verschwörungsideologen
wurden 2024 199 Straftaten (11 Prozent aller Delikte) zugeordnet. Seit 2022
(114 Fälle) ebenfalls ein massiver Anstieg um 75 Prozent.
579 antisemitische Straftaten – knapp unter Rekordwert
579 Straftaten waren den Angaben zufolge antisemitisch
motiviert. Dieser Wert liegt nur knapp unter dem 2023 registrierten Höchststand
von 589 Delikten. Immerhin konnten hier 426 Täter und Täterinnen ermittelt
werden.
Den Angaben des Ministeriums zufolge wurden 2024 zudem 19
Straftaten gegen Sammelunterkünfte, Ankerzentren oder andere Einrichtungen für
Asylbewerber registriert – darunter auch drei schwere Brandstiftungen in
Unterkünften in Bayreuth, Putzbrunn und Krumbach (Schwaben).
Demirel: Migranten brauchen besseren Schutz
„Unsere vielfältige Gesellschaft, in der alle die gleichen
Rechte haben, ist bedroht. Das zeigt der heftige Anstieg der Taten gegen
Migrantinnen und Migranten ganz klar“, sagte Gülseren Demirel,
Fraktionssprecherin für Integration. „Wir brauchen einen besseren gesetzlichen
Schutz und eine Staatsregierung, die das liefert, statt wegzuschauen. Es ist
höchste Zeit für ein Antidiskriminierungsgesetz und eine staatliche
Beratungsstelle gegen Diskriminierung.“ Das entspreche dem Verfassungsauftrag
an den Staat, die Würde aller Menschen zu schützen – „in Bayern herrscht hier
aktuell Stillstand“.
212 islamfeindliche Straftaten
Zudem wurden 212 islamfeindliche Straftaten festgestellt. Im
Jahr 2023 waren es 171 antimuslimische Taten im Bereich der Hasskriminalität.
Im Jahr 2022 66 einschlägige Hassdelikte. Damit hat sich die Zahl der
antimuslimischen Straftaten in den vergangenen drei Jahren laut Angaben mehr
als verdreifacht. (dpa/mig 22)
Die globale Krise hat tiefere Ursachen. Trump ist ein
Symptom – doch die eigentlichen Probleme bestehen seit Jahrzehnten. Von Aaron
Benanav
Die Welt ist ein Scherbenhaufen. Während US-Präsident Donald
Trump den globalen Handel mit seinem Strafzöllen auf den Kopf stellt und
Amerikas Bündnisse neu ordnet, versuchen Staats- und Regierungschefs
verzweifelt, darauf angemessen zu reagieren. Doch viele sind schlecht auf
solche Erschütterungen vorbereitet: Überall auf der Welt haben Regierungen
angesichts wachsender Unzufriedenheit Wahlen verloren oder sich nur knapp an
der Macht halten können. Von den Vereinigten Staaten bis Uruguay, von Großbritannien
bis Indien erfasste 2024 eine Anti-Establishment-Welle die Demokratien der
Welt. Aber nicht nur diese stecken in der Krise. Auch China kämpft mit sozialen
Unruhen und wirtschaftlicher Instabilität. Konflikte sind heutzutage global.
Es gibt viele Erklärungsansätze für diesen beklagenswerten
Zustand. Einige sehen in raschen sozialen Veränderungen – insbesondere in
Fragen von Migration und Geschlechteridentität – den Auslöser eines kulturellen
Backlashs. Andere argumentieren, dass Eliten bei der Bewältigung der Pandemie
versagt oder sich zu weit von der Bevölkerung entfremdet hätten, was die
Unterstützung für Anti-Establishment-Kräfte und autoritäre Anführer befeuert
habe. Ein weiteres Argument lautet, dass algorithmengesteuerte soziale Medien
die Verbreitung von Falschinformationen und Verschwörungstheorien erleichtern
und so die Gesellschaften polarisieren.
An all diesen Theorien ist sicher etwas dran. Aber hinter
dem heutigen Chaos steckt eine noch größere Einflusskraft: die wirtschaftliche
Stagnation. Die Welt erlebt ein langfristiges Nachlassen der Wachstumsraten,
das in den 1970er-Jahren begann, sich nach der globalen Finanzkrise 2008
verschärfte und bis heute anhält. Mit niedrigem Wachstum, sinkender
Produktivität und einer alternden Erwerbsbevölkerung steckt die Weltwirtschaft
momentan in einer Sackgasse. Diese wirtschaftliche Notlage ist der Hintergrund
für die politischen und sozialen Konflikte auf der ganzen Welt.
Der Zustand der G20-Staaten, jener Zusammenschluss der
größten Volkswirtschaften, sagt viel über die wirtschaftliche Gesundheit der
Welt aus. Die Daten sind ernüchternd: Acht dieser Länder sind seit 2007
inflationsbereinigt um weniger als zehn Prozent gewachsen. Vier weitere liegen
nur knapp darüber. Einige Länder wie Indien, Indonesien und die Türkei konnten
ihre Wachstumsraten zwar halten, aber die meisten G20-Staaten leiden unter
anhaltender wirtschaftlicher Schwäche.
Früher wuchsen die G20-Volkswirtschaften regelmäßig um zwei
bis drei Prozent pro Jahr, was zu einer Verdopplung der Einkommen innerhalb von
25 bis 35 Jahren führte. Heute liegen die Wachstumsraten vielerorts nur noch
bei 0,5 bis ein Prozent, was bedeutet, dass es 70 bis 100 Jahre dauert, bis
sich die Einkommen verdoppeln – zu langsam, als dass die Menschen in ihrem
Leben einen Fortschritt spüren könnten. Die Bedeutung dieses Wandels kann kaum
überschätzt werden: Stagnation muss nicht flächendeckend spürbar sein, um
Erwartungen zum Einsturz zu bringen. Wenn die Menschen nicht mehr daran
glauben, dass ihre Lebensverhältnisse oder die ihrer Kinder sich verbessern,
erodiert das Vertrauen in Institutionen und die Unzufriedenheit wächst.
Warum also ist das Wachstum so drastisch eingebrochen? Ein
Grund ist der weltweite Wandel von der Industrie- zur
Dienstleistungswirtschaft. Damit geriet der wichtigste Motor des
Wirtschaftswachstums ins Stocken: die Produktivitätssteigerung. Produktivität –
die Leistung pro Arbeitsstunde – kann im verarbeitenden Gewerbe rasch steigen.
Eine Autofabrik, die robotergesteuerte Fertigungsstraßen einführt, kann
beispielsweise ihre Produktion verdoppeln, ohne mehr Mitarbeiter einzustellen,
vielleicht sogar einige entlassen. In der Dienstleistungswirtschaft hingegen
lässt sich Effizienz nur schwer steigern. Ein gut besuchtes Restaurant braucht
mehr Bedienungen. Ein Krankenhaus, das mehr Patienten versorgt, benötigt
zusätzliche Ärzte und Pflegekräfte. In dienstleistungsbasierten
Volkswirtschaften steigen Produktivitätsraten daher nur sehr langsam.
Dieser tiefgreifende Wandel, der seit Jahrzehnten im Gange
ist, trägt einen Namen: Deindustrialisierung. In Amerika und Europa kennen wir
die Folgen: den Verlust von Industriearbeitsplätzen und eine sinkende Nachfrage
nach industriellen Erzeugnissen. Doch die Deindustrialisierung ist kein
Phänomen der reichen Länder allein. Sie erfasst die gesamte G20 und drückt
nahezu überall auf die Wachstumsraten. Heute sind rund 50 Prozent der
weltweiten Arbeitskräfte im Dienstleistungssektor beschäftigt.
Es gibt noch einen weiteren Grund für die globale
Stagnation: das verlangsamte Bevölkerungswachstum. Nach dem Zweiten Weltkrieg
kam es zu einem Geburtenboom, der die Nachfrage nach Wohnraum und Infrastruktur
anheizte und den wirtschaftlichen Aufschwung beförderte. Demografen gingen
lange davon aus, dass sich die Geburtenrate auf dem Niveau der
Reproduktionsrate stabilisieren würde, also bei etwa zwei Kindern pro Familie.
Doch tatsächlich fiel sie vielerorts darunter – erst, weil Familien
weniger Kinder bekamen, und inzwischen, weil überhaupt weniger Menschen
Familien gründen. Diese Entwicklung betrifft mittlerweile Länder wie Malaysia,
Brasilien, die Türkei und sogar Indien.
Für die Wirtschaft ist das ein großes Problem. Schrumpfende
Erwerbsbevölkerungen bedeuten kleinere zukünftige Märkte, was Unternehmen davon
abhält, zu expandieren – gerade in Dienstleistungsökonomien, wo neben
begrenztem Produktivitätswachstum die Kosten tendenziell steigen. Investitionen
bleiben aus. Gleichzeitig belastet der wachsende Anteil älterer Menschen
gegenüber Erwerbstätigen die sozialen Sicherungssysteme und zwingt Staaten,
entweder Steuern zu erhöhen, Schulden aufzunehmen oder Leistungen zu kürzen.
In diesem stagnierenden Umfeld haben Unternehmen ihre
Strategien geändert. Statt Gewinne in Expansion, Neueinstellungen und
Innovation zu investieren, setzen viele auf Aktienrückkäufe und Dividenden und
geben damit finanziellen Ausschüttungen Vorrang, die den Aktienkurs und die
Managergehälter in die Höhe treiben. Das Ergebnis ist ein Teufelskreis aus
wachsender Ungleichheit, schwacher Nachfrage und niedrigem Wachstum. Dieses
Muster zeigt sich weltweit. Kein Wunder, dass der Internationale Währungsfonds
bereits von einem „lauen Jahrzehnt“ warnt – und das noch vor Trumps neuem
Handelskrieg.
Was ist zu tun? Für einige ist künstliche Intelligenz der
Weg aus der Stagnationsfalle. Sollte KI die Effizienz in arbeitsintensiven
Bereichen wie dem Gesundheitswesen und Bildung verbessern können, könnte dies
das Wachstum ankurbeln. Doch bislang sind die Produktivitätsgewinne durch
generative KI, bei allem Hype, begrenzt geblieben – und es zeichnet sich eher
eine Verlangsamung der Fortschritte ab als eine Beschleunigung. Roboter werden
die globale Wirtschaft nicht retten.
Andere setzen auf Reindustrialisierung durch strikten
Protektionismus. Das zumindest scheint der Plan der Trump-Regierung zu sein.
Doch auch hier sind Zweifel angebracht. Der Rückgang der Industriearbeitsplätze
lag nicht nur am internationalen Handel. Selbst Exportgiganten wie Deutschland
und Südkorea verzeichnen einen Rückgang industrieller Beschäftigung. Zudem
bieten die neuen Industriesektoren – etwa Halbleiter, E-Mobilität und
erneuerbare Energien – nur wenige Arbeitsplätze. Die Ära, in der die Industrie
massenhaft Jobs schuf, ist vorbei.
Wenn sich das Produktivitätswachstum nicht wesentlich
steigern lässt, könnte eine stärkere Bevölkerungsentwicklung helfen. Das ist
der Gedanke hinter den Geburtenförderungsmaßnahmen, die die Menschen dazu
auffordern, mehr Kinder zu bekommen. Doch selbst Länder mit großzügiger
Familienpolitik, wie Schweden oder Frankreich, erleben sinkende Geburtenraten.
Die andere Option ist eine hohe Einwanderung, die nach wie vor das wirksamste
Mittel ist, um das Wirtschaftswachstum in alternden Gesellschaften aufrechtzuerhalten.
So wuchsen die USA in den letzten Jahrzehnten stärker als Japan oder
Deutschland, auch dank höherer Immigration. Aber angesichts der aktuellen
migrationsfeindlichen Stimmung und eines Präsidenten Trump wirkt diese Lösung
derzeit fast utopisch.
Es gibt jedoch zwei plausible Möglichkeiten, auf die
Stagnation zu reagieren: Die erste besteht darin, dass die Länder mehr ausgeben
und Defizite in Kauf nehmen. Viel wird über die relative Stärke der
US-Wirtschaft im Vergleich zu Europa gesprochen. Der zentrale, oft
unterschätzte Grund dafür ist einfach: Die USA verzeichnen seit 2009 hohe
Haushaltsdefizite – durchschnittlich über sechs Prozent des BIP –, während
Europa hauptsächlich auf Haushaltsdisziplin gesetzt hat.
Defizitfinanzierte Investitionen – etwa in die grüne
Transformation – könnten das Wachstum ankurbeln. Selbst in Europa, wo
haushaltspolitische Zurückhaltung Tradition hat, bereiten Regierungen derzeit
ein Ausgabenprogramm nach amerikanischem Vorbild vor – allerdings konzentrieren
sich diese Ausgaben größtenteils auf die nationale Sicherheit und den Ausbau
des Militärs und weniger auf die wirtschaftliche Erneuerung.
Der zweite Ansatz ist die Umverteilung. Jahrzehntelang galt
die Devise, dass die Anhäufung von Wohlstand an der Spitze Wachstum von oben
nach unten befördere – ein Versprechen, das sich als falsch erwiesen hat.
Stattdessen könnten Staaten höhere Steuern für Reiche einführen und Einkommen
an breitere Bevölkerungsschichten umverteilen. Das wäre zwar politisch schwer
durchzusetzen, aber es würde große Vorteile mit sich bringen, indem es die
Verbrauchernachfrage ankurbeln und die Märkte im In- und Ausland stärken würde.
Das Ziel sollte nicht nur darin bestehen, das
Einkommensniveau anzuheben, das Studien zufolge zunehmend von Glück unabhängig
ist, sondern auch stabilere und gerechtere Gesellschaften in einer Welt mit
langsamerem Wachstum aufzubauen. Dazu gehören Investitionen in bessere
Lebensverhältnisse: in die Wiederherstellung von Ökosystemen, den Ausbau von
Infrastruktur und die Schaffung von Wohnraum. Dies könnte auch
Entwicklungsländern ermöglichen, faire und verlässliche Bedingungen für
exportgetriebenes Wachstum zu nutzen.
Natürlich wäre auch dann keine weltweite Stabilität
garantiert. Neue politische Konflikte würden entstehen. Aber angesichts der
aktuellen Lage scheint es einen Versuch wert zu sein. IPG 22
„Bist du Ausländer?“ Mann schießt
auf offener Straße auf Ausländer
Ein Mann spricht einen Passanten auf offener Straße an und
fragt ihn nach seiner Herkunft. Der gibt sich als Ausländer zu erkennen. Dann
fallen Schüsse. Die Generalstaatsanwaltschaft ermittelt, der Tatverdächtige
sitzt in Haft.
Ein Mann soll in Tuttlingen im Süden Baden-Württembergs mit
einer Gasdruckwaffe auf offener Straße mehrmals auf einen zufällig
vorbeikommenden Passanten geschossen haben, weil dieser sich auf Nachfrage als
Ausländer zu erkennen gab. Das Staatsschutzzentrum bei der
Generalstaatsanwaltschaft Stuttgart hat nun die Ermittlungen übernommen, wie
ein Sprecher sagte. Der 43-jährige deutsche Tatverdächtige befindet sich in
Haft.
Er habe sein Opfer im Februar nach der Frage zu dessen
Herkunft unvermittelt und zielgerichtet mit der Waffe beschossen. Dabei erlitt
der 39-jährige Syrer Verletzungen im Gesicht und am Oberkörper. Der Geschädigte
habe die Tat erst einige Wochen später zur Anzeige gebracht und sich ärztlich
behandeln lassen.
Waffe samt Munition sichergestellt
Bei einer Durchsuchung der Wohnung des Beschuldigten konnten
eine Gasdruckwaffe samt Munition sowie mehrere Magazine sichergestellt werden.
Seit dem 11. April befinde sich der Verdächtige in einer Justizvollzugsanstalt.
Begründet wurde die Übernahme durch die
Generalstaatsanwaltschaft laut Sprecher mit der Außergewöhnlichkeit des Falles
– mit den extremistisch motivierten Schüssen auf offener Straße – und dem damit
verbundenen öffentlichen Interesse. (dpa/mig 22)
Earth Day 2025: Deutsche verlieren
Interesse am Klimaschutz
Hamburg – Jetzt selbst handeln, um den Klimawandel im
Interesse künftiger Generationen zu bekämpfen: Nur noch jeder zweite Deutsche
(53 %) sieht sich hier in der Verantwortung. Zum Vergleich: Im Jahr 2021 waren
es noch mehr als zwei Drittel der Bevölkerung (69 %). Das zeigt eine Studie des
Markt- und Meinungsforschungsinstituts Ipsos, die jedes Jahr zum Tag der Erde
(22. April) durchgeführt wird. Sie untersucht die Einstellungen der Menschen
zum Klima- und Energiewandel in 32 Nationen und liefert auch aktuelle Erkenntnisse
für Deutschland.
Klimabewusstsein nimmt weltweit ab, stark betroffene Länder
besorgter
Generell ist die Zustimmung zum Klimaschutz in allen
Ländern, die bereits 2021 befragt wurden, in diesem Jahr deutlich
zurückgegangen – am stärksten in einigen der fortschrittlichsten
Volkswirtschaften der Welt wie Deutschland. So sind aktuell nur noch zwei von
fünf Bundesbürgern (41 %) der Ansicht, dass Deutschland mehr gegen den
Klimawandel tun sollte. Damit liegt die Bundesrepublik im weltweiten Vergleich
auf dem letzten Platz aller 32 befragten Länder (globaler Durchschnitt: 62 %).
Vor zwei Jahren zeigten sich die Deutschen mit 55 Prozent Zustimmung noch
deutlich engagierter.
Auffällig ist, dass sich nur 62 Prozent der Deutschen um die
Auswirkungen des Klimawandels im eigenen Land sorgen, während sich mit 78
Prozent deutlich mehr Bundesbürger um andere Länder sorgen. In den meisten
anderen Ländern der Welt ist diese Tendenz entweder weniger stark ausgeprägt
oder sogar umgekehrt.
Die Studie zeigt auch: Dort, wo die Auswirkungen des
Klimawandels am deutlichsten spürbar sind, sind auch die Sorgen größer – und
die Überzeugung, dass die jeweilige Landesregierung mehr dagegen tun sollte.
Wenig Faktenwissen zum Klima- und Energiewandel
Drei von fünf Deutschen (59 %) glauben, dass der Umstieg auf
erneuerbare Energien zu höheren Energiepreisen führen wird – so viele wie in
keinem anderen Land. Jeder zweite Bundesbürger (50 %) ist zudem der Meinung,
dass Elektroautos genauso schlecht für die Umwelt sind wie konventionelle
Autos. Auch hier ist der Anteil der Skeptiker in Deutschland so hoch wie in
kaum einem anderen Land – mit Ausnahme von Frankreich (58 %) und Polen (55 %).
Immerhin glaubt fast jeder zweite Bundesbürger (45 %), dass
der Klimawandel die größte Gesundheitsbedrohung für die Menschheit darstellt.
Allerdings ist auch mehr als jeder Vierte (27 %) davon überzeugt, dass es unter
Klimawissenschaftlern bis heute keinen Konsens über die Auswirkungen des
Klimawandels gibt. Weltweit wird diese These im Durchschnitt sogar noch
häufiger vertreten (29 %), am häufigsten in Ungarn (40 %) und Frankreich (39
%).
Energiewende: Positive Effekte, aber auch Zweifel
Weltweit werden die positiven Auswirkungen der Energiewende
– weg von fossilen hin zu erneuerbaren Energieträgern – durchweg stärker
wahrgenommen als die Nachteile. Mit Blick auf die konkreten Vorteile sieht zwar
eine knappe Mehrheit (52 %) der Deutschen positive Folgen für die Luftqualität,
aber nur jeder Vierte für das Gesundheitswesen (26 %). Dass sich die
Energiewende positiv auf die Zahl der Arbeitsplätze auswirkt, glaubt sogar nur
jeder fünfte Bundesbürger (19 %). Deutlich mehr, nämlich 42 Prozent, bezweifeln
dies. Und nur 15 Prozent der Deutschen haben die Hoffnung, dass erneuerbare
Energien Armut und Ungleichheit in der Welt verringern.
Geringes Vertrauen in Politik und Wirtschaft
Nur noch 18 Prozent der Deutschen glauben, dass die
scheidende Bundesregierung am Ende ihrer Amtszeit einen klaren Plan für die
Zusammenarbeit von Politik, Wirtschaft und Zivilgesellschaft im Kampf gegen den
Klimawandel verfolgt. Im vergangenen Jahr hatten noch drei von zehn Deutschen
(30 %) diesen Eindruck. Gleichzeitig gibt fast die Hälfte der Bevölkerung (45
%) an, sich von der Regierung im Stich gelassen zu fühlen, wenn sie beim
Klimaschutz jetzt nicht handelt. 2022 waren noch 60 Prozent der Bundesbürger
dieser Überzeugung. Ein ganz ähnliches Bild zeigt sich beim Blick auf die
Wirtschaft: 43 Prozent der Deutschen glauben, dass Unternehmen ihre Mitarbeiter
und Kunden im Stich lassen, wenn sie nichts gegen den Klimawandel tun – das
sind 19 Prozentpunkte weniger als noch vor drei Jahren (62 %). Ipsos 22
Trump, Putin und Co. verändern die Welt. Europa muss lernen,
im neuen Zeitalter der Unsicherheit zu bestehen. Von Mark Leonard
Überall in Europa wird US-Präsident Donald Trump als Chaot
betrachtet, der das Gegenteil eines goldenen Händchens besitzt: Alles, was er
anfasst, wird schlechter. Doch trotz seiner anachronistischen Ansichten zu den
meisten Themen verkörpert er unsere Zeit perfekt.
In meinem 2021 veröffentlichten Buch The Age of Unpeace
argumentierte ich, dass wir beginnen müssen, die Regeln der internationalen
Beziehungen für ein Zeitalter der Hyperkonnektivität neu zu denken. Alle
Institutionen und Vereinbarungen, die uns eigentlich zusammenbringen sollten,
sind zu Waffen geworden. Die heutige Weltpolitik ähnelt einer gescheiterten
Ehe. In dieser kann einer der entfremdeten Partner gemeinsame Dinge wie das
Ferienhaus, den Hund oder die Kinder nutzen, um dem anderen zu schaden. In ähnlicher
Weise werden Handel, das Internet, Energiequellen, Lieferketten,
Migrationsströme, wichtige Rohstoffe und Spitzentechnologien eingesetzt, um
geopolitischen Einfluss auszuüben und anderen wehzutun.
In dieser neuen Welt verschwimmen die Grenzen zwischen Krieg
und Frieden. Wir haben uns leider geirrt, als wir angenahmen, dass wir mit dem
Ende des Kalten Krieges ein goldenes Zeitalter des Friedens erreicht hätten. In
Wirklichkeit gab es überall Gewalt, aber in Gestalt von Sanktionen,
Exportkontrollen, Energieblockaden, Wahleinmischung und der Nutzung von
Migration als Waffe – alles Maßnahmen, die unterhalb der Schwelle eines
formalen Krieges liegen.
Seit Putins großangelegter russischer Invasion in der
Ukraine richtet sich die weltweite Aufmerksamkeit weitgehend auf die
traditionellen Elemente des Krieges und die Notwendigkeit, sich gegen russische
Panzer, Flugzeuge und Raketen zu verteidigen. Experten und politische
Entscheidungsträger griffen in ihrer Analyse auf die Lehren der Vergangenheit
zurück, statt ihren Fokus auf die völlig neue Situation zu richten. Doch der
Krieg in der Ukraine war immer einzigartig – eine seltsame Mischung aus 19. und
21. Jahrhundert, mit Soldaten und Schützengräben, aber auch mit Sanktionen,
Drohnen, künstlicher Intelligenz und einem Kampf um Einfluss in den sozialen
Medien.
US-Präsident Joe Biden, der französische Präsident Emmanuel
Macron und Bundeskanzler Olaf Scholz reagierten auf die russische Aggression
mit dem Versuch, die alte Ordnung wiederherzustellen. Doch insbesondere seit
Trumps Wiederwahl ist klar, dass wir eine neue Sicht auf die Welt brauchen. Die
Trump-Regierung hat alle alten Gewissheiten in einen Mixer geworfen und zu
einem Brei verarbeitet. Es gibt keine klare Unterscheidung mehr zwischen Krieg
und Frieden, Verbündeten und Feinden, nationalen und privaten Interessen oder
links und rechts. Angesichts von Trumps Handelskrieg gegen den Rest der Welt,
seines Versuchs, die Ukraine um Mineralien zu erpressen, sowie seiner Bedrohung
der territorialen Integrität Grönlands und Panamas gelten die alten Regeln der
internationalen Ordnung nicht mehr.
Leider geht es hierbei nicht nur um „Unordnung“, denn dies
würde ja voraussetzen, dass es eine grundlegende Einigung darüber gibt, wie
„Ordnung“ aussehen sollte. Das aber ist nicht der Fall. Die Betrachtung der
internationalen Ordnung ist von den Ereignissen völlig überholt worden.
Jahrelang haben sich die Regierungen durch Krisen gewurschtelt, die ihre
Wurzeln in der Hyperkonnektivität und Interdependenz haben – vom Börsencrash
des Jahres 2008 über die syrische Flüchtlingskrise bis hin zur Pandemie. Dabei ging
das Vertrauen der Bürger in die Politik verloren. Die Politik stützte sich
vielfach auf Notmaßnahmen und Ausnahmezustände, doch inzwischen gibt es so
viele Ausnahmen, dass das internationale Regelwerk eher einem Schweizer Käse
gleicht. Aus einer regelbasierten Ordnung ist eine Ordnung geworden, die auf
Ausnahmen beruht.
Trump hat dies verstanden. Er hat die Frustration der
Bevölkerung über die Eliten genutzt, die vorgaben, auf alles eine Antwort zu
haben, aber ihre Versprechungen nicht erfüllen konnten. Wie bereits viele
andere Nationen auf der Welt halten die Amerikaner die liberale internationale
Ordnung zunehmend für einen Schwindel – für so etwas wie das Heilige Römische
Reich, das weder heilig noch römisch noch ein Reich war. Die liberale
internationale Ordnung kann nach den Gräueltaten in Abu Ghraib oder Guantánamo
Bay nicht mehr als liberal bezeichnet werden. Sie ist auch kaum international,
da viele Regionen der Welt weiterhin in Bürgerkriegen versinken. Und sie kann
angesichts dieser Missstände auch nicht mehr als Ordnung bezeichnet werden.
Während die Europäer aufrüsten, um der russischen Aggression
zu begegnen, müssen sie zugleich herausfinden, wie sie im Zeitalter des
„Nichtfriedens“ überleben können, welches Trump, Putin, Xi Jinping und andere
„starke Männer“ derzeit einläuten. Eine der größten Herausforderungen wird
darin bestehen, gegenseitige Abhängigkeit wieder mit einem Gefühl der
Sicherheit zu verknüpfen. Die Ukraine zu unterstützen und zur Bewältigung von
Handelskriegen unsere Wirtschaftsmodelle zu überdenken, ist zwar notwendig, aber
nicht hinreichend. Wir müssen auch intensiv über die Migrations-, Sozial- und
Gesundheitspolitik nachdenken und darüber, wie Politiker mit ihren Wählern
kommunizieren. Mit anderen Worten: Die Europäer brauchen eine neue Art, Politik
zu machen – eine, die den Menschen ein Gefühl der Kontrolle zurückgibt. PS/IPG
17
Hamburg. Zwar sind Schottergärten in immer mehr
Bundesländern und Kommunen verboten, noch aber belasten viele künstliche
Steinwüsten das Klima in Wohnquartieren. Das bundesweite Netzwerk Nachbarschaft
ruft jetzt mit der Aktion „Jede Wiese zählt!“ zum Rückbau von Schottergärten
auf.
Ihre „Blütezeit“ erlebten Schottergärten vor rund 20 Jahren.
Sie galten als modern, puristisch und irrigerweise auch als pflegeleicht.
Seitdem hat sich das Blatt gewandelt: In immer mehr Bundesländern und Kommunen
sind sie verboten. Allein im Emsland (Niedersachsen) wurden jüngst die Besitzer
von 253 Schottergärten dazu verdonnert, ihre umweltschädlichen Schottergärten
umzugestalten. Laut Informationen des NaBu geben heute alle Landesbauordnungen
vor, dass nicht bebaute Flächen zu begrünen und wasserdurchlässig zu gestalten
sind. „Versiegelte Flächen belasten das Mikroklima. Im Gegensatz zu
Grünflächen, die Feuchtigkeit verdunsten und die Umgebung kühlen, heizt sich
der Boden von Schottergärten im Sommer extrem auf. Weder Pflanzen noch Tiere
finden dort Lebensraum“, sagt Erdtrud Mühlens vom bundesweiten Netzwerk
Nachbarschaft. Schottergärten verschlechterten zudem die Luft durch den
fehlenden Feinstaubfilter der Pflanzen, Wasser könne nicht versickern.
Rückbau jetzt!
Die Annahme, Kieselflächen seien pflegeleicht, hat sich
nicht bewahrheitet. Vielmehr belastet die Vernichtung von sogenanntem Unkraut
mit Spezialmitteln, Hochdruckreiniger oder Abflammgeräten die Umwelt
zusätzlich. Der Rückbau von Schottergärten ist daher ein Gebot der Stunde. Doch
wohin mit dem alten Schotter? Eine fachgerechte Entsorgung ist die beste
Lösung. Vielerorts wird die Renaturalisierung von Kieselflächen durch die
Bepflanzung mit Sträuchern, Wiesenblumen und Bäumen sogar von der Kommune gefördert.
Die Umwelt gewinnt: Selbst auf kleinen Flächen reinigen Pflanzen die Luft und
kühlen sie an heißen Sommertagen. Die neuen Grünoasen bieten ein breites
Nahrungsangebot für Vögel und Insekten und schlucken zudem Schall und
Verkehrslärm.
Bunt statt grau wird belohnt!
Netzwerk Nachbarschaft ruft Anwohnergemeinschaften dazu auf,
ihren Schottergärten jetzt wieder grünes Leben einhauchen. Im Rahmen der Aktion
„Jede Wiese zählt!“ prämiert die bundesweite Aktionsgemeinschaft die schönsten
Begrünungsprojekte 2025 mit insgesamt 2.500 Euro und einer Plakette von
Janosch.
Mehr Infos unter: www.netzwerk-nachbarschaft.net/wettbewerbe/jede-wiese-zaehlt
N.N. 17
Migrationsziel Chile. Der
lateinamerikanische Traum
In Südamerika gilt Chile als besonders stabil und
wirtschaftlich erfolgreich. Für manche Migranten ist es daher eine Alternative
zum schweren Weg in die USA. Aber auch in Chile sind sie nicht unbedingt
wohlgelitten. Von Malte Seiwerth
Ein kleiner Graben trennt Chile von Peru, rundherum nur
Sand. Ein paar Militärs stehen etwas hilflos an der Straße, während Hunderte
Menschen einen der größten Grenzposten Chiles überqueren. Seit den 90er Jahren
ist Chile dank seiner vergleichsweise starken Währung und stabilen Wirtschaft
zu einem Migrationsziel geworden – die chilenische Wirtschaft profitiert davon,
doch die Gesellschaft reagiert mit Misstrauen und Hass.
Nur ein paar Kilometer entfernt in der nördlichen Grenzstadt
Arica leitet Dayana Mares eine der wenigen Anlaufstellen für Migrantinnen und
Migranten. Die vom katholischen Bund der Jesuiten getragene Einrichtung berät
monatlich zwischen 350 und 450 Personen. „Teilweise kommen die Menschen durstig
an und bitten einfach nur um Wasser“, erzählt Mares. Die Beratungsstelle
begleitet sie dann in den ersten rechtlichen Schritten, vergibt Lebensmittel
und Kleidung und hilft bei der Suche nach Wohnraum. Doch die Ressourcen sind
knapp. „Wir müssen häufig jene priorisieren, die unter den Bedürftigen, am
bedürftigsten sind.“
Leben im Untergrund
„Es ist schwieriger geworden, die Grenze irregulär zu
überqueren“, sagt Mares. Viele Menschen versuchten daher, übers Meer nach Chile
zu gelangen. Seit 2022 muss zudem das erste Arbeitsvisum im Ausland beantragt
werden. Vielen Migrantinnen und Migranten bleibt daher nur ein Leben im
Untergrund. „Es bleibt die Hoffnung, sich mit einer Person mit chilenischem
Pass zu verheiraten.“
In dem südamerikanischen Land lebten im Jahr 2023 von den
rund 19 Millionen Einwohnern schätzungsweise knapp zwei Millionen ohne
chilenischen Pass. Das waren fast 1,7 Millionen mehr als 2010. Ein Großteil von
ihnen stammt aus Venezuela, Peru, Kolumbien und Haiti. Bei den Betreibern von
Landwirtschaftsbetrieben sind die Geflüchteten als billige Arbeitskräfte
beliebt, teilweise beuten sie die Menschen unter sklavenähnlichen Bedingungen
aus. Zugleich sorgt die hohe Einwanderungszahl im vergangenen Jahrzehnt auch
für scharfe Auseinandersetzungen. In mehreren Städten wurden die Migrantinnen
und Migranten angegriffen, die aus Mangel an Unterkünften in Zeltstädten
hausen. „Viele Chilenen machen die Migranten für das überlaufene öffentliche
Gesundheits- und Bildungssystem verantwortlich, dabei existieren die Probleme
schon deutlich länger als die Menschen hier sind“, sagt Helferin Mares.
Grenzausbau und -kontrollen
In der nördlichsten Region Chiles ist Camila Rivera die
lokale Vertreterin der Zentralregierung in Santiago. „Präsident Gabriel Boric
hat wichtige Investitionen getätigt, um die Grenze auszubauen, die Kontrolle zu
stärken, aber auch um den regulären Übertritt zu vereinfachen“, sagt sie. Seit
Mai 2024 sei daher der Grenzposten im Norden Aricas 24 Stunden am Tag offen.
Man arbeite gemeinsam mit den verschiedenen Sicherheitsbehörden, um irreguläre
Grenzübergänge und auch Menschenhandel zu bekämpfen.
Offizielle Anlaufstellen für Migrantinnen und Migranten gibt
es so gut wie keine. Deshalb gehen viele Einwanderer zu Organisationen wie dem
Hilfsdienst der Jesuiten.
Der Venezolaner Mijael Castellano ist erst seit ein paar
Tagen in Chile. Seine Schwester lebt bereits mehrere Jahre in Arica und kam
über die Landgrenze aus Peru. Castellano und seine Familie reisten mit dem
Flieger und einem Touristenvisum ein. Nun sucht er in der Beratungsstelle der
Jesuiten Hilfe, um seine Kinder zu legalisieren. Denn im Gegensatz zu
Erwachsenen erhalten Minderjährige unabhängig von ihren Eltern automatisch ein
Visum und haben Zugang zu Bildung und Gesundheit.
Weniger Rassismus als in Kolumbien
Sie verließen Venezuela wegen der schlechten
wirtschaftlichen Lage und lebten zuerst in Kolumbien. An Chile schätzen sie die
hohe Lebensqualität und den funktionierenden Staat. Rassismus hätten sie
deutlich weniger erlebt als zuvor in Kolumbien, sagt Castellano. Chile sei der
„lateinamerikanische Traum“, ergänzt seine Schwester Sherezade Castellano. Zwar
nicht so reich wie die USA, aber trotzdem mit der Perspektive, ein besseres
Leben führen zu können.
Derweil blickt Mares skeptisch in die Zukunft. Sie erwartet,
dass durch die harte Migrationspolitik des neuen US-Präsidenten Donald Trump
mehr Menschen nach Chile wollen. Aber die chilenische Regierung sei darauf
nicht vorbereitet, sagt die Helferin. (dpa/mig 17)
Es ist ein bitterer Jahrestag: Vor zwei Jahren, am 15. April
2023, brach im Sudan ein brutaler Konflikt aus. Opponenten sind die
sudanesischen Streitkräfte (SAF) und die paramilitärischen „Rapid Support
Forces“ (RSF). Stefano Leszczynski
Der Krieg hat die schlimmste humanitäre Krise der Welt
ausgelöst – und ist dennoch ein vergessener, ein verdrängter Konflikt,
überschattet von den Meldungen aus der Ukraine und dem Gazastreifen. Dabei
droht die Katastrophe am Nil noch weiter zu eskalieren: Vertreibungen, Hunger,
Seuchen, eine zusammengebrochene Gesundheitsversorgung. Große Teile Ostafrikas
drohen in Mitleidenschaft zu geraten, das Leben von Millionen von Menschen ist
gefährdet.
Vom Krieg ausgelaugt
„Was im Sudan geschieht, ist eines der treffendsten
Beispiele für das, was Papst Franziskus ‚den dritten Weltkrieg in Stücken‘
nennt.“ Das sagt Claudio Ceravolo, Präsident von „Coopi/International
Cooperation“, einer NGO, die seit über zwanzig Jahren im Sudan tätig ist. „Vor
dem Krieg waren wir im Land mit Projekten in den Bereichen landwirtschaftliche
Entwicklung, Umweltsicherheit und Frauenförderung tätig, aber all diese
Projekte wurden durch den Krieg zunichte gemacht. Seit Mitte April 2023 leisten
wir nur noch dringliche, erste Hilfe für die vom Krieg ausgezehrte
Bevölkerung.“
Eine humanitäre Katastrophe
Nach übereinstimmenden Angaben mehrerer UNO-Organisationen
wurden seit Ausbruch des Krieges vor zwei Jahren mehr als zwölf Millionen
Menschen im Sudan vertrieben. Von ihnen haben fast vier Millionen jenseits der
Grenzen Zuflucht gesucht, in Ländern wie Ägypten, Tschad und Südsudan –
Ländern, die ebenfalls schon unter großem humanitärem Druck stehen. Fast ein
Drittel der sudanesischen Bevölkerung ist auf der Flucht, und die Hälfte davon
sind Kinder.
„Seit Beginn des Konflikts gab es mehr als 29.000
Todesopfer, darunter 7.500 Zivilisten.“ Das sagt Chiara Zaccone, die
Coopi-Programmkoordinatorin für den Sudan, die nach Ausbruch des Krieges das
Land bereist hat. „Aber die wirkliche Zahl der Toten ist noch viel höher, wenn
wir auch die Menschen berücksichtigen, die an Ursachen gestorben sind, die
indirekt mit dem Krieg zusammenhängen. Der Sudan ist bis heute ein Land, in dem
mehrfach an unterschiedlichen Orten eine ernste Ernährungsunsicherheit und Hungersnot
ausgerufen wurde.“
Zwei Jahre Krieg im Sudan und humanitäres Desaster - Radio
Vatikan
Von der Ernährungskrise sind 24 Millionen Menschen
betroffen, mindestens 270.000 Personen haben keinen Zugang zu Trinkwasser.
Selbst die Grundversorgung ist beeinträchtigt: In den am stärksten vom Konflikt
betroffenen Gebieten sind nur noch 25 Prozent der Gesundheitseinrichtungen
funktionsfähig. Wassermangel und die prekären hygienischen Bedingungen
begünstigen derweil die Ausbreitung von Krankheiten wie Cholera, Denguefieber
und Malaria.
Hilfsgelder? Fehlanzeige
„Trotz dieser enormen Bedürfnisse scheint die internationale
Gemeinschaft wenig daran interessiert, dieser Krise mit finanziellen Hilfen zu
begegnen.“ Das sagt Filippo Ungaro, ein Sprecher des UNO-Flüchtlingswers UNHCR.
„Unser Regionalplan für den Sudan ist nur zu neun Prozent finanziert; das führt
zu großen Sorgen um das Überleben der Flüchtlinge und Vertriebenen.“ Der Exodus
der Zivilbevölkerung, die vor dem Konflikt im Sudan flieht, betrifft alle
Nachbarstaaten und hat destabilisierende Folgen für die ohnehin schon fragilen
Gesellschaften. Der Tschad hat an die 800.000 Sudanesen aufgenommen und hält
seine Türen weiterhin offen. Ägypten nahm anderthalb Millionen auf, Libyen mehr
als 250.000 und Uganda mehr als 700.000.
„Es liegt auf der Hand, dass die Unfähigkeit der
internationalen Gemeinschaft, internationale Konflikte mit friedlichen Mitteln
zu lösen, und die Knappheit der Mittel, die für Nothilfemaßnahmen
bereitgestellt werden, diesen Strom von Menschen auf der Flucht in andere
Staaten nur noch weiter verstärken werden. Wenn diese Menschen nicht in ihre
Heimat zurückkehren können, werden sie auf jede erdenkliche Weise versuchen,
sich anderswo ein neues Leben aufzubauen, selbst um den Preis der Überfahrt
über das Meer.“ Das ist ein Wink mit dem Zaunpfahl an Europa.
Die Interessen hinter dem Krieg
Mehr finanzielle Hilfen allein würden allerdings nicht
ausreichen, um das Leid der Sudanesen zu lindern. Darauf macht Claudio Ceravolo
von „Coopi“ aufmerksam. „Selbst wenn die Wirtschaftshilfe morgen um das
Hundertfache aufgestockt würde, so wäre ohne ein ernsthaftes politisches
Engagement zur Beendigung des Krieges kaum etwas gelöst. Wie lässt sich eine
solche politische Trägheit auf internationaler Ebene rechtfertigen? Eine
Untätigkeit, die in fast allen Konfliktsituationen weltweit zu beobachten ist.
Offenbar sind wirtschaftliche Interessen heute so allgegenwärtig, dass der
Krieg heute als Wirtschaftspolitik mit anderen Mitteln betrachtet wird.“
Auf einer internationalen Konferenz in London haben die
Vertreter von Staaten am Dienstag finanzielle Hilfen mobilisiert und nach
Auswegen aus dem Krieg gesucht. Die EU und ihre Mitgliedstaaten sagten
zusammengenommen über 550 Millionen Euro an Finanzhilfen zu. Besorgt zeigten
sich die Teilnehmer der Konferenz über die jüngste Eskalation im Sudan. Bei
einem Angriff der RSF auf das Flüchtlingslager Zamzam in Darfur sollen ungefähr
hundert Menschen ums Leben gekommen sein; Zehntausende sind auf der Flucht aus
dem Lager.
(vn 16)
Zwei Jahre Krieg im Sudan: Not,
Erschießungen, sexuelle Gewalt
Zwei Jahre Bürgerkrieg haben aus dem Sudan ein zerstörtes
Land gemacht. Die Vereinten Nationen sprechen von der weltweit schlimmsten
humanitären Krise – doch dringend benötigte Hilfe fehlt. Von Eva Krafczyk und
Mudathir Hameed
Die Hauptstadt liegt in Trümmern, ein Viertel der
Bevölkerung ist auf der Flucht, die Hälfte von akutem Hunger bedroht – das ist
nur ein Teil der verheerenden Bilanz nach zwei Jahren Bürgerkrieg im Sudan. Die
Kämpfe zwischen den Regierungstruppen und der paramilitärischen Miliz RSF um
die Vorherrschaft in dem nordostafrikanischen Land haben laut Helfern zur
weltweit größten humanitären Krise geführt.
Menschenrechtsgruppen werfen beiden Konfliktparteien
Kriegsverbrechen vor – den Regierungstruppen etwa willkürliche Bombardierungen
und der RSF schwere sexuelle Gewalt, Erschießungen und ethnische Vertreibungen.
Ein Ausweg aus dem Blutvergießen ist nicht in Sicht. In London will man heute
bei einer Konferenz über eine Lösung des Konflikts und eine Verbesserung der
humanitären Hilfe beraten. Die geschäftsführende Außenministerin Annalena
Baerbock warnte zur Eröffnung eindringlich davor, die Folgen des Bürgerkriegs
im Sudan zu ignorieren. Deutschland stelle zusätzliche 125 Millionen Euro an
Unterstützung für den Sudan und benachbarte Länder bereit, so die
Grünen-Politikerin. Doch keine Summe an Hilfe werde ausreichend sein, wenn der
Konflikt weitergehe. „Dieser Krieg muss aufhören“, forderte Baerbock. An der
Konferenz nehmen Vertreter von rund 20 Staaten teil, darunter auch
Vertreter der Afrikanischen Union und der Europäischen Union.
Die wichtigsten Fragen und Antworten zu der Krise:
Welche Konfliktparteien stehen sich gegenüber?
Der Sudan war nach dem Sturz von Langzeitmachthaber Omar
al-Baschir im April 2019 vom Militär unter der Führung von General Abdel-Fattah
al-Burhan regiert worden. Die Junta stand unter wachsendem Druck, die Macht an
eine zivile Regierung abzugeben. Im Zuge dessen sollte die paramilitärische
Miliz RSF unter al-Burhans Stellvertreter Mohamed Hamdan Daglo im Frühjahr 2023
in die Streitkräfte integriert werden. Die Spannungen zwischen den beiden
Militärführern rund um den Übergang zu einer zivilen Regierung nahmen zu. Am
15. April 2023 brachen in der Hauptstadt Khartum Kämpfe zwischen der Armee
unter al-Burhan und der RSF-Miliz unter Daglo aus.
Während des größten Teils des Konflikts schien die RSF die
Oberhand zu haben. Sie belagerte laut Denkfabrik International Crisis Group
(ICG) erst von der Armee kontrollierte Gebiete im Raum Khartum und eroberte
anschließend den Großteil Darfurs, mit Ausnahme Nord-Darfurs, sowie einen
Großteil der Region Kordofan im Süden. Die Erfolge der RSF erreichten laut ICG
jedoch Mitte 2024 ihren Höhepunkt, als die Armee im September eine
Gegenoffensive an mehreren Fronten startete.
Anfang 2025 erzielten demnach die Regierungstruppen im
Großraum Khartum Fortschritte, die in einer Reihe verheerender Niederlagen für
die RSF gipfelten. Ende März eroberte die Armee in einem wichtigen Sieg den
Präsidentenpalast in der Hauptstadt zurück.
Droht eine weitere Eskalation?
Die Denkfabrik ICG hält das für wahrscheinlich. Statt den
Fortschritt bei der Kontrolle der Hauptstadt „für den Frieden zu nutzen,
scheint die Armee auf einen totalen Sieg zu drängen, während die RSF den Krieg
auf neue Gebiete ausweiten will“, heißt es im jüngsten ICG-Bericht. „Beide
Seiten erhalten weiterhin reichlich Unterstützung von außen, um ihre Kämpfe
fortzusetzen.“
Während die Armee politische Unterstützung und
Waffenlieferungen arabischer Staaten – insbesondere Ägyptens – erhalte, habe
die RSF vor allem in den Vereinten Arabischen Emiraten Rückhalt, heißt es. Eine
weitere Eskalation könnte zum Zerfall des Landes führen.
Welche Auswirkungen hat der Konflikt für die Menschen im
Sudan?
Zwei Jahre nach Beginn des Konflikts ist nicht klar, wie
viele Tote es bisher gibt. Die UN gehen von mehr als 20.000 aus. Es gebe aber
auch Schätzungen von bis zu 150.000 Toten, so die Hilfsorganisation
International Rescue Comittee.
„Nach allen Maßstäben ist dies die größte humanitäre Krise
der Welt“, sagt Shaun Hughes, beim UN-Welternährungsprogramm WFP zuständig für
den Sudan. Fast 13 Millionen Menschen seien auf der Flucht und 25 Millionen
Menschen von akutem Hunger bedroht, warnt Hughes vor dem, was im dritten Jahr
des Konflikts noch kommen könnte: „Das Ausmaß von dem, was im Sudan geschieht,
droht vieles von dem, was wir in den vergangenen Jahrzehnten erlebt haben, in
den Schatten zu stellen.“
Hilfsorganisationen beklagen, dass die Aufmerksamkeit für
den Sudan weit hinter der für die Kriege im Nahen Osten und in der Ukraine
liegt. Das macht sich auch bei der Finanzierung von Hilfsmaßnahmen bemerkbar:
Bisher sind nur neun Prozent der Gelder für den internationalen Hilfsplan für
den Sudan vorhanden. Benötigt werden laut UN mindestens 1,8 Milliarden
US-Dollar. Der Sudan hat gut 50 Millionen Einwohner, mehr als 30 Millionen sind
auf Hilfe angewiesen. Auch deshalb sind die Erwartungen an die Konferenz in
London hoch. Mehrere diplomatische Anläufe, um eine Waffenruhe und
Friedensverhandlungen zu erreichen, waren erfolglos geblieben.
Wie leben die Menschen derzeit in Khartum?
Trotz vieler grausamer Bilder und dramatischer Statistiken:
Es gab zuletzt auch Anzeichen für neues Leben in der Hauptstadt. Das Zentrum
ähnelt vielerorts weiter einer Geisterstadt, in manche Viertel wagen sich erste
Einwohner aber zurück, beobachtete ein dpa-Reporter: An den Kreuzungen warten
Teeverkäufer auf Kunden, Kinder spielen auf der Straße Fußball. Lebensmittel
aber sind dreimal so teuer wie vor dem Bürgerkrieg.
Wie ist die Lage in Darfur?
In einer zunehmend verzweifelten Lage sind die mindestens
500.000 Menschen im Flüchtlingslager Samsam unweit von El Fascher in
Nord-Darfur. Das Lager wurde mehrfach von der RSF angegriffen, mittlerweile ist
die Miliz Berichten zufolge in das Lager eingedrungen, nachdem bei einem
Angriff vergangene Woche mehr als 100 Menschen getötet wurden. Unter ihnen
waren auch rund 20 Kinder und neun Mitarbeiter einer Hilfsorganisation.
Zivilgesellschaftliche Organisationen warnen vor der Gefahr eines weiteren
Völkermords in Darfur, das schon vor 20 Jahren Schauplatz von Massakern durch
arabische Milizen an der einheimischen Bevölkerung war.
Wie wirkt sich der Bürgerkrieg auf die Nachbarstaaten aus?
Beobachtern zufolge besteht die Gefahr einer
Destabilisierung der Nachbarländer des Sudan, insbesondere des Tschad und des
Südsudan. Die beiden Nachbarn, zwei der ärmsten und wirtschaftlich schwächsten
Staaten der Welt, gehören zu den wichtigsten Aufnahmeländern sudanesischer
Flüchtlinge. „Der Sudan-Konflikt droht eine ohnehin verletzliche Region zu
destabilisieren und hat weitreichende Auswirkungen auf Sicherheit, Wirtschaft
und soziale Spannungen“, heißt es in einem Bericht des Internationalen Komitee
vom Roten Kreuz (IKRK) zum zweiten Jahrestag des Konflikts. (dpa/mig 16)