Webgiornale 16 dicembre 2024 – 15 gennaio 2025
Buone
Feste Natalizie e Buon Anno nuovo
Le democrazie scricchiolano. Tempo di domandarsi perché
Avanzano nel mondo
sistemi politici autoritari, mentre in quasi tutti i Paesi europei si
rafforzano i partiti sovranisti e anti Ue. Nel vecchio continente, dove Putin
affascina molti leader e milioni di cittadini, ci sono casi eclatanti, per
quanto differenti tra loro: i più recenti sono quelli di Romania, Germania,
Francia... Ci si può rassegnare al tramonto dei valori democratici? di Gianni
Borsa
Scricchiola la
democrazia nel mondo. E l’Europa non fa eccezione. Mentre l’instabilità
geopolitica avanza – e la Siria è solo l’ultimo tragico esempio –, i
nazionalismi e le forme autoritarie del potere si rafforzano un po’ ovunque nel
mondo. Si diffondono, anche artatamente, incertezza per il futuro e minacce
(vere o presunte) alla sicurezza. L’economia non gira, sacche di povertà
toccano una parte significativa dell’umanità, anche nei Paesi “ricchi”. Si
vanno affermando individualismi e chiusure entro ristretti confini identitari.
Sempre più spesso i risultati elettorali sono segnati da questi elementi.
L’ultimo caso, eclatante, quello degli Stati Uniti. Ci sono poi Paesi, e sono
tanti, in cui vigono esercizi del potere che non hanno i connotati delle democrazie.
Giusto per fare un paio di esempi si potrebbero citare Cina e Corea del Nord;
per quanto anche la Corea del Sud attraversi una pericolosa fase involutiva.
Ma, appunto,
l’Europa non è diversa. Il caso-Ungheria è emblematico. Situazioni non dissimili
– pur specifiche per ogni realtà nazionale – si sono registrate negli ultimi
anni in Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria, Paesi Bassi e Belgio,
Paesi scandinavi, Spagna, Austria. E Italia. Scorrendo la carta geografica del
continente si trovano ovunque elementi destabilizzanti. In occasione della
Giornata internazionale contro la corruzione del 9 dicembre è giunto un
messaggio allarmato dal Consiglio d’Europa proprio in relazione alla tenuta dei
sistemi democratici europei.
Gli ultimi casi
parlano oltremodo chiaro. In Romania la Corte costituzionale ha annullato i
risultati del primo turno, in cui si era imposto C?lin Georgescu (nella
foto), delle elezioni presidenziali, falsate – questo il grave sospetto,
fondato su prove acquisite – da una pesante interferenza russa mediante i
social.
Di tutt’altro
problema si parla in Germania e in Francia, dove i rispettivi elettorati hanno
punito i governanti in carica (cancelliere Scholz e presidente Macron),
premiando al contempo forze estreme. In particolare in Francia la destra della
Le Pen e la sinistra di Mélenchon hanno unito le forze per far cadere
l’esecutivo guidato dal centrista Barnier, lasciando il Paese senza una reale
via d’uscita politica stabile.
Si tratta, è il
caso di ripeterlo, di realtà assolutamente differenti. Ma non può sfuggire come
sempre più spesso forze politiche sovraniste, anti Ue e di frequente
filoputiniane, facciano breccia fra i cittadini. L’elettorato è, sia chiaro,
libero di scegliere: rimane, e forse si rafforza, il dubbio su quali siano gli
strumenti e le modalità di informazione sulla politica, quale la formazione
diffusa e la consapevolezza sui temi della pubblica amministrazione, sulla vita
dei partiti e dei loro leader, sulle regole democratiche, sui valori che
attraversano una società tanto da segnarne la partecipazione alla polis, sul
ruolo dei media e più ancora su quello dei social network…
In un tempo di
rapidissime e profonde trasformazioni la politica, assieme alla coscienza
civica dei cittadini, sta tenendo il passo del “cambiamento d’epoca”? Forse la
domanda non è fuori luogo. Sir 14
UE. Una nuova Commissione, debole e vulnerabile
A circa sei mesi
dalle elezioni europee di giugno scorso, dopo vari passaggi parlamentari, un
dibattito divisivo sulla composizione della maggioranza che avrebbe dovuto
sostenere il nuovo esecutivo europeo, le audizioni in Parlamento dei nuovi
commissari (che, eccezionalmente, non hanno riservato bocciature o sorprese) e
un po’ di “suspense” sulla distribuzione di due vicepresidenze, la nuova
Commissione europea ha finalmente ottenuto l’approvazione del Parlamento
europeo.
Una maggioranza
piuttosto esigua
Dal primo dicembre
la Commissione è ufficialmente in carica come da programma. Tuttavia, l’esito
del voto del 27 novembre (con solo 370 voti a favore, 282 contrari e 36
astensioni) ha fatto registrare la maggioranza più esigua dal 1995. Una
maggioranza addirittura più risicata di quella che a luglio aveva consentito a
Ursula Von der Leyen di superare (con 401 voti a favore) il primo esame in
Parlamento. Soprattutto, il voto del 27 novembre ha fatto emergere clamorose
divisioni all’interno di vari gruppi parlamentari: si sono divisi i popolari, i
socialisti e democratici, e i liberali (che insieme hanno ottenuto 308 voti,
ben lontani dal totale dei 360 voti che corrispondono alla somma dei membri dei
tre gruppi), ma anche i verdi e i conservatori e riformisti, confermando
l’immagine di un Parlamento nel quale la disciplina dei gruppi è apparsa
subordinata a logiche di politica interna.
Questo voto è in
parte una conseguenza dell’esito del voto popolare del giugno scorso, che aveva
fatto registrare una generale avanzata dei partiti di destra e un
ridimensionamento dei partiti tradizionalmente europeisti. È anche il risultato
della scelta della Presidente per tentare di allargare la maggioranza a suo
sostegno oltre i tre partiti europeisti tradizionali fino a includervi almeno
il gruppo dei conservatori e riformisti. Una scelta motivata dalla necessità di
poter contare su un sostegno in Parlamento numericamente più solido (anche se
politicamente meno omogeneo) – giacché popolari, socialisti e liberali da soli
rischiavano di non essere sufficienti –, ma anche dall’esigenza di prepararsi a
un confronto con un Consiglio in cui i governi di destra o centro-destra sono
aumentati di numero. E dal desiderio di coinvolgere nella nuova e inedita
maggioranza il partito della Presidente del Consiglio italiana, cui Von der
Leyen aveva concesso una significativa apertura con l’attribuzione al Commissario
italiano, Raffaele Fitto, di un ruolo di vicepresidente esecutivo, con una
decisione priva in concreto di conseguenze pratiche sul funzionamento del
collegio, ma che nei fatti si è rivelata controversa e divisiva, come
testimoniato dall’esito del voto.
Sulla carta,
questa Commissione nasce più debole e più vulnerabile, proprio perché priva di
una maggioranza stabile in Parlamento. Ma questo giudizio, sicuramente corretto
sul piano formale, va in parte ridimensionato. L’architettura istituzionale
dell’Ue non è, infatti, assimilabile a quella delle democrazie parlamentari
degli Stati nazionali, dove gli esecutivi devono poter fare affidamento su una
maggioranza stabile nei rispettivi Parlamenti per la durata della legislatura,
pena la crisi di governo. Nell’Ue, come ci ha insegnato la prassi, è necessaria
una maggioranza per l’approvazione della Commissione all’inizio della
legislatura. Ma è del tutto fisiologico che si possano formare maggioranze
variabili in funzione dei singoli provvedimenti all’esame del Parlamento senza
che questo costringa la Commissione a rassegnare le dimissioni.
Le priorità nel
programma della Commissione
Quanto al
programma della Commissione, l’intervento, volutamente ecumenico, della
Presidente nell’emiciclo di Strasburgo non ha riservato particolari sorprese.
Ha anticipato una strategia di rilancio della competitività che riprende in
larga misura le proposte del rapporto Draghi. Il programma si dovrà articolare
attorno a tre pilastri dell’innovazione, digitalizzazione e applicazioni
dell’intelligenza artificiale, di una de-carbonizzazione compatibile con una
politica industriale mirata al rafforzamento della competitività, e di maggiore
sicurezza sia economica che politico-militare, con riduzioni delle dipendenze
strategiche, e investimenti più consistenti nella difesa.
Date le
circostanze e il desiderio della Presidente di essere quanto più inclusiva
possibile in quest’occasione, è apparsa ovvia l’assenza di dettagli sulle
singole misure o di riferimenti alle questioni più divisive. I prossimi mesi
saranno quindi decisivi per verificare i margini di manovra della nuova
Commissione e la capacità dei governi nazionali di decidere insieme
nell’interesse comune. In sintesi, la buona notizia è che l’Ue ha finalmente
una Commissione in carica. La notizia meno buona è che questa Commissione dovrà
navigare a vista e cercare volta per volta il sostegno dei governi e del
Parlamento sulle proprie proposte. Ferdinando Nelli Feroci, AffInt 9
Von der Leyen bis: la nuova Commissione alla prova del nove
Il Parlamento
europeo ha assegnato al Collegio dei commissari una fiducia risicata.
L'esecutivo appena entrato in funzione è subito chiamato a rispondere a sfide
urgenti e vitali per il futuro della "casa comune" – di Gianni Borsa
Ottenuto il via
libera dell’Europarlamento, la Commissione Ue, presieduta per un secondo
quinquennio dalla popolare tedesca Ursula von der Leyen, è entrata in carica
ufficialmente il 1° dicembre. In parallelo hanno cominciato il loro mandato
Antonio Costa, socialista portoghese, come presidente del Consiglio europeo (è
la riunione periodica dei 27 capi di Stato e di governo, massimo organismo
politico dell’Ue), e Kaja Kallas, liberale estone, nuova Alto rappresentante Ue
per la politica estera e di sicurezza comune nonché vicepresidente della
Commissione.
La votazione con
la quale il Parlamento europeo ha dato fiducia al bis della Von der leyen è
stata “di misura”: 370 sì, appena 9 in più della maggioranza (l’emiciclo è
composto di 720 deputati). Eppure a luglio la stessa Von der Leyen aveva
ottenuto per la propria nomina 401 voti.
Nel frattempo
alcune sue scelte hanno rimescolato le carte della maggioranza.
I Verdi si sono defilati,
alcuni Popolari e Socialdemocratici non hanno confermato la fiducia al Collegio
(spesso per ragioni opposte), anche tra i Liberali ci sono state defezioni.
Mentre una parte del sostegno alla nuova Commissione è giunta dai Conservatori
(eurotiepidi, che a luglio avevano bocciato la stessa Von der Leyen), i quali
hanno invece rilevato nel programma della Von der Leyen e nella composizione
della sua squadra motivi sufficienti per votare a favore.
Tra gli elementi
che hanno maggiormente influito – pro o contro – sul voto di fiducia è stato
proprio l’allargamento a destra della maggioranza, fortemente voluto da Von der
Leyen, tanto da affidare una vicepresidenza del Collegio all’italiano Raffaele
Fitto, esponente dei Conservatori che tradizionalmente hanno una visione della
costruzione europea ben diversa dai Popolari e soprattutto da
Socialdemocratici, Liberali e Verdi.
Insomma, le carte
in tavola sono cambiate. Diversi commentatori sostengono che Von der Leyen sarà
più debole che nei cinque anni passati e maggiormente asservita al volere dei
governi; altri, per converso, ritengono la presidente della Commissione più libera
di agire, tenendo in pugno i suoi commissari e avendo maggiore autonomia
rispetto all’Europarlamento.
Una cosa è certa:
secondo i Trattati le istituzioni principali, che detengono il potere
legislativo e di bilancio dell’Ue, sono Consiglio e Parlamento, mentre la
Commissione ha altri ruoli (iniziativa legislativa, “custode dei Trattati”,
motore quotidiano dell’Unione) che non possono prescindere dalle prime due
istituzioni.
Von der Leyen se
ne deve ricordare perché i nodi arriveranno presto al pettine: bilancio
comunitario pluriennale (Qfp), risposta alla guerra in Ucraina e forniture
militari e finanziarie a Kiev (quando una vera iniziativa di pace targata Ue?),
iniziative per la competitività economica e il rafforzamento del mercato unico
(rapporti Draghi e Letta), rapporto con la nuova amministrazione Usa guidata da
Trump, risposta al cambiamento climatico e Green Deal, gestione delle
migrazioni, tutela della democrazia e dello stato di diritto in Europa…
Quando
un’amministrazione entra in carica ci si domanda quali decisioni e proposte
lancerà nei primi 100 giorni. Il numero è solo simbolico: resta da capire quali
strade percorrerà la Commissione rispetto alle grandi questioni citate e se la
sua azione sarà convintamente europeista (rafforzare la sovranità e la
solidarietà europea in un contesto geopolitico carico di sfide) o meno. Qui si
gioca il futuro stesso di una Unione coesa e aperta al mondo, dei suoi 27 Paesi
membri e quello di 450 milioni di cittadini europei. Sir 4
Medio Oriente, polveriera senza fine
Ancora una volta
quanto sta accadendo in Medio Oriente, eterna polveriera pronta ad esplodere in
qualsiasi momento, pone tutti di fronte al dilemma se sia lecito o no fare il
male per vincere il male, se sia giusto o no rispondere alla violenza con la violenza
e, non da ultimo, se si possa ritenere quanto detto il modo migliore di operare
di un Paese democratico che ritenga a buon diritto di essere tale, come appunto
Israele, per difendersi dal nemico.
Siamo figli di una
storia che ha visto trionfare la democrazia dopo guerre sanguinosissime, come
la seconda Guerra Mondiale, dove il maggior numero di morti non fu tra i
soldati al fronte ma tra i civili, come oggi a Gaza e nel Libano.
Gli alleati
vinsero la Germania nazista bombardando tutto quello che potevano bombardare,
le bombe al fosforo su Dresda e in Italia su Cassino: bombardarono scuole ed
ospedali, senza preoccuparsi minimamente di chi c’era dentro, come oggi accade
nella striscia di Gaza, dove è praticamente impossibile portare qualsiasi tipo
di soccorso a donne, vecchi e bambini.
La democrazia dei
paesi occidentali, quella di cui siamo così fieri per le sue ottime
Costituzioni che difendono i diritti basilari dell’umano convivere, se vogliamo
stare ai fatti, è nata dalla vittoria dei buoni contro i cattivi, è nata da una
guerra vinta con perdite umane impressionanti, campi di concentramento, pulizia
etnica e quanto di peggio si possa immaginare.
Sono passati
ottant’anni dalla fine della seconda Guerra Mondiale ma, in tutti questi anni,
mai nessun intellettuale, nessun partito politico, nessun personaggio di spicco
del mondo religioso si è posto la domanda terribile se sia lecito o no fare il
male per vincere e, abbia cercato di dare una risposta convincente al quesito.
La verità è che in
tutti questi anni il nostro giudizio sui conflitti che hanno coinvolto e
coinvolgono popoli e Stati, non è più storico-politico ma sempre più
etico-giuridico, come dimostra il ricorso, sempre più frequente, ai tribunali
internazionali per poter stabilire cosa è giusto e cosa non lo è, come
dimostrato ultimamente dalla condanna emessa dal tribunale internazionale
dell’Aia, a carico del premier israeliano Netanyahu per crimini di guerra.
L’etica, però, non
può ridursi al diritto puro e semplice o alle sue enunciazioni, perché i
conflitti, lo scontro di valori, tutto ciò che è vita e sentimento di uomini e
popoli, tutto quello che muove la politica e di cui, al tempo stesso, la
violenza si alimenta, non si possono ridurre a pure, astratte, definizioni
giuridiche.
Deve esserci uno
spazio dove a decidere sia il nostro personale convincimento, circa quello che
è più opportuno fare in circostanze particolarmente difficili come è una
guerra. E questo spetta alla politica, che ha la responsabilità di decidere
nella consapevolezza della tragicità morale di certe scelte, come quella di
ricorrere, extrema ratio, alla violenza, lasciando che il giudizio finale non
sia di un tribunale ma della storia. Angela Casilli, de.it.press 5
La missione Italcon in Libano (1982-1984): un bilancio critico
Per comprendere le
ragioni del rinnovato attivismo italiano nel cosiddetto Mediterraneo allargato
a partire dagli anni ’80, è necessario guardare alla politica estera di Roma
nel lungo periodo. All’indomani del secondo conflitto mondiale l’Italia inaugurò
una strategia di politica estera prudente, fondata sull’adesione all’Alleanza
Atlantica. I governi italiani cercarono di massimizzare la “rendita di
posizione” geografica riconosciuta dall’alleato statunitense nella logica della
contrapposizione tra i due blocchi USA-URSS, inserendosi al contempo nel
neonato sistema multilaterale e portando avanti in parallelo il processo di
integrazione europea.
Questo approccio,
complessivamente stabile nel tempo, permise in ogni caso dei momenti di relativa
fluidità. Dal punto di vista diplomatico, Roma inaugurò con la fine degli anni
’70 il proprio impegno nel sistema di missioni internazionali multilaterali.
L’assunto era che questa adesione – che continuerà con costanza anche dopo la
fine della guerra fredda – potesse rinforzarne la posizione nello scenario
internazionale, sfruttando soprattutto i maggiori gradi di libertà di cui
l’Italia godeva già allora nel contesto mediterraneo.
Il caso Italcon
In questa fase di
intraprendenza politica, in cui Roma talvolta riuscì anche a muoversi oltre
l’ambito strettamente multilaterale, vennero inaugurati alcuni dei più
interessanti strumenti di cooperazione internazionale. Tra questi spicca la
missione Italcon condotta in Libano dal 1982 al 1984 nell’ambito della più
ampia Multinational Force in Lebanon: la prima operazione priva dell’ombrello
protettivo dell’ONU a cui partecipò l’Italia nel secondo dopoguerra.
Il contesto
operativo delle missioni era indubbiamente molto complesso, perché oltre alle
comunità locali agivano attori esterni come Israele, i fedayn palestinesi e la
Siria, per giunta sotto le pressioni delle due superpotenze nucleari.
Per ovviare a
queste difficoltà, l’Italia affiancò la funzione umanitaria allo strumento
militare, in modo da mettersi nella condizione di essere il più apprezzato tra
gli attori “esterni” attivi in Libano, riconosciuto tanto dai governi libanese
e siriano, quanto dalle rispettive società. Iniziative come la realizzazione
dell’ospedale da campo consegnato poi alle comunità civili in Libano al termine
della missione, ma anche le capacità logistiche e tecniche dimostrate dal
contingente Italcon, contribuivano ad accrescere questa percezione, favorendo
l’obiettivo di lungo termine di instaurare una rete diplomatica efficiente per
giungere ad una soluzione che riappacificasse le parti in causa.
Le policy dei
governi italiani
Analizzando le
policy adottate da Roma, è interessante notare un mutamento dell’atteggiamento
dell’esecutivo italiano nei confronti degli attori internazionali e dei
principali alleati, indicativo della nuova postura internazionale che si
intendeva perseguire.
Sotto i governi
Spadolini (1981-1982), l’Italia assecondò come da tradizione le istanze
dell’alleato americano, quali la richiesta di dispiegamento di forze militari,
sollevando un intenso dibattito politico nel paese. Con la nascita del nuovo
governo guidato da Bettino Craxi (1983-1986), il presidente del Consiglio e il
ministro degli esteri Giulio Andreotti si indirizzarono invece su una linea
incentrata sullo sviluppare relazioni amichevoli in ambito politico ed
economico con i paesi del Medio Oriente, cercando così di adottare una politica
maggiormente autonoma.
Questo nuovo corso
politico e la conseguente postura internazionale portarono ad un maggiore
impegno italiano, che mirava a caratterizzarsi principalmente attraverso la
partecipazione a missioni di pace e umanitarie, anche a costo di contraddire le
pressioni degli alleati tradizionali, con esiti talora anche drammatici, come
nel caso della crisi di Sigonella nell’ottobre 1985.
I limiti
dell’intraprendenza italiana
Quest’intraprendenza
non si tradusse tuttavia in un indirizzo strategico duraturo: un’assertività
poco continua da parte dell’Italia, sommata a numerose debolezze della Forza
Multinazionale e ad uno Stato libanese quasi del tutto disintegrato, portarono al
fallimento della parte finale dell’operazione.
La missione
Italcon ebbe comunque degli esiti importanti per l’Italia, sia in politica
interna che estera, e per la sua immagine nel mondo. Da un lato il paese
acquisì un ‘tesoretto’ di credibilità internazionale, dall’altro non venne del
tutto superata l’impressione di una non perfetta affidabilità italiana tra gli
interlocutori internazionali. L’Italia stentò insomma a scrollarsi di dosso la
fama di alleato sostanzialmente solidale, ma dall’atteggiamento ondivago,
propenso al compromesso al ribasso, se non opportunista. Un pregiudizio in
parte spiegabile con il limitato interesse alle istituzioni sovranazionali da
parte di larghi settori della politica nazionale, frutto di una campagna
elettorale permanente che guarda costantemente al consenso interno sul
brevissimo periodo piuttosto che alla programmazione e alla pianificazione.
Chiara Sturniolo è
una studentessa iscritta al primo anno del corso di laurea magistrale di
Scienze internazionali indirizzo studi europei presso l’Università di Torino.
Questo articolo è un estratto, rivisto e aggiornato, della tesi di laurea
dell’autrice, “L’Italia e il Mediterraneo allargato. L’evoluzione della
politica estera: dalle missioni in Libano ai nuovi scenari di crisi” (Corso di
laurea triennale in Scienze internazionali, dello sviluppo e della
cooperazione, relatore prof. Valter Maria Coralluzzo), vincitrice della seconda
edizione (2023-2024) del premio di laurea “L’Italia e le relazioni
internazionali: storia, politiche, prospettive” nella categoria tesi triennali.
Il premio di laurea è promosso dallo IAI con il supporto della Fondazione Compagnia
di Sanpaolo e con il patrocinio del Dipartimento di Culture, Politica e Società
dell’Università di Torino.
Chiara Sturniolo
AffInt. 29.11.
Diritto d’asilo. Migrantes: “In Italia 414mila rifugiati, lo 0,7% della popolazione”
A fine anno
saranno oltre 130 milioni le persone in fuga da guerre, violenze e persecuzioni
nel mondo, una cifra in continuo aumento. In Europa più di 1,5 milioni di
richieste d’asilo sono state presentate durante il 2023 e i primi nove mesi del
2024 (+20%). Sembra esserci però una inversione di tendenza nei primi dati del
2024, con 449.000 richieste e un calo del 5%. In Italia nei primi otto mesi del
2024 hanno chiesto una qualche forma di protezione internazionale 109.000
persone, una cifra in aumento (+32%). È quanto emerge dall'ottavo Report sul
diritto d'asilo presentato oggi a Roma dalla Fondazione Migrantes – di Patrizia
Caiffa
A metà del 2024 il
numero di persone in fuga da guerre, violenze e persecuzioni nel mondo era di
122,6 milioni di persone e a fine anno saranno oltre 130 milioni. Di queste,
più di 68 milioni rimangono all’interno del proprio Paese, mentre il 69% si
sposta in Paesi confinanti, tre su quattro in Paesi a basso e medio reddito.
Solo una piccola frazione inizia un lungo e pericoloso viaggio verso l’Europa:
sono stati infatti poco più di 520 mila gli ingressi irregolari in Europa tra
il 2023 e i primi nove mesi del 2024 mentre più di 1,5 milioni sono state le
richieste d’asilo presentate nello stesso periodo (+20%). Sembra esserci però
una inversione di tendenza nei primi dati del 2024, con 449.000 richieste e un
calo del 5%. Da anni sono la Siria e l’Afghanistan i principali Paesi di
origine di chi ricerca rifugio nell’Ue. Per quanto riguarda l’Italia al 1°
gennaio 2024 vivono qui meno di 414 mila cittadini non comunitari con permesso
di soggiorno per motivi di protezione e asilo, lo 0,7% di tutta la popolazione.
Nel sistema di accoglienza ce ne sono 138.000, tra richiedenti asilo, rifugiati
e migranti. Nei primi otto mesi del 2024 hanno chiesto una qualche forma di
protezione internazionale 109.000 persone, una cifra in aumento (+32%) rispetto
all’anno precedente. Ma nel 2024 è però crollato il numero di rifugiati e
migranti che hanno raggiunto il Paese dal Mediterraneo: 54mila sbarcati, il 61%
in meno rispetto al 2023. Sono alcuni dei dati contenuti nell’ottava edizione
del Report della Fondazione Migrantes su “Il diritto d’asilo” (Editrice Tau
2024, pp. 424), a cura di Mariacristina Molfetta e Chiara Marchetti.
Diritto d’asilo
“sempre più a rischio”. Il volume denuncia: nell’Unione europea e in Italia “il
diritto d’asilo è sempre più a rischio”, nonostante i conflitti in Medio
Oriente, in Ucraina e il cambiamento climatico. “Non sono invece altrettanto
celeri le nostre risposte alle cause profonde di queste migrazioni forzate, e
troppo poche le autorità di governo e le istituzioni che, con serietà ed
autorevolezza, intendono perseguire obiettivi di pace e giustizia, mentre
prosegue una folle corsa agli armamenti”, si legge nel report, che giudica
anche il “nuovo” Patto europeo sulla migrazione e l’asilo “un compromesso al
ribasso”.
Nell’Ue allargata
-39% flussi irregolari nel 2024, in aumento verso Canarie e altre frontiere.
L’Unione europea “allargata” vede nei primi otto mesi del 2024 in netta
diminuzione i flussi “irregolari” in entrata di rifugiati e migranti ai suoi
confini esterni: -39% rispetto allo stesso periodo del 2023. Risultano però in
forte aumento i flussi sulle rotte dell’Africa occidentale verso le isole
Canarie (+123%), del Mediterraneo orientale (+39%) e, sia pure su una scala
assoluta molto più ridotta, della frontiera di terra orientale (+193%).
Gli arrivi in
Italia: 54.000 sbarcati nel 2024 (-61%). Nel 2024, dopo quattro anni di
crescita è crollato il numero di rifugiati e migranti che hanno raggiunto il
Paese dal Mediterraneo: fra gennaio e la metà di ottobre si contano 54 mila
sbarcati, il 61% in meno rispetto allo stesso periodo del 2023. Quest’anno
prevalgono arrivi dal Bangladesh (quasi 10.800) e dalla Siria (10mila circa);
in terza posizione la Tunisia. La Libia è tornata ad essere il primo Paese di
partenza: alla fine di luglio 2024 erano quasi 20mila gli arrivi, contro i
12mila dalla Tunisia.
Più respingimenti
verso la Libia. Cresce il numero di migranti e rifugiati intercettati dalla
cosiddetta “Guardia costiera” libica e deportati in un sistema organizzato di
miseria, vessazioni, taglieggiamenti e violenze: nel periodo gennaio-agosto
2024 ne sono stati fermati in mare 16.220, contro i 17.190 di tutto il 2023.
Vittime del mare: 1.342
da inizio anno, 1 caso ogni 40. Alla fine di agosto 2024 la stima (minima) dei
rifugiati e migranti morti o dispersi nel Mediterraneo ha raggiunto le 1.342
unità, di cui 1.053 nel Mediterraneo centrale. Oggi il rischio di perdere la
vita sulla rotta è pari a 1 caso ogni 40 arrivi (era stato di 1 ogni 63 nel
2023). Dal 2014 al settembre 2024 hanno perso la vita o sono rimasti dispersi
in un percorso migratorio internazionale più di 68 mila migranti e rifugiati.
Le Ong hanno salvato quest’anno 6.200 vite, un quinto degli sbarcati in Italia.
Rimpatri
dall’Italia: solo il 44% degli ingressi nei Cpr nel 2023. Nel 2023 in Italia
l’incidenza dei rimpatri effettivi sul totale degli ingressi nei Cpr, i Centri
di permanenza per il rimpatrio, è pari a uno stentato 44% (2.987 rimpatriati su
6.714 ingressi), al termine di un trend decennale in flessione. Fra il 1°
gennaio e il 27 ottobre 2024 sono stati 4.514 i migranti rimpatriati
dall’Italia, con un aumento del 15% rispetto al 2023 e del 34% rispetto al
2022.
Dinieghi: il 62%
delle domande, in crescita. Nel primo semestre 2024 le Commissioni territoriali
per l’asilo hanno esaminato circa 37.400 richiedenti, riconoscendo circa 3.000
status di rifugiato, 5.000 protezioni sussidiarie e 6.000 status di “protezione
complementare” (protezione speciale e permessi per cure mediche), ma anche
pronunciando 23.400 dinieghi, pari al 62% di tutte le domande esaminate in
Italia. Un dato cresciuto negli ultimi anni.
Minori soli in
calo: 20.039 in Italia (-11%). Sono 20.039 minori stranieri non accompagnati
(Msna) “presenti” in Italia alla fine di agosto 2024. Si tratta di 17.608
ragazzi e bambini (88%) e 2.431 ragazze e bambine (12%). Un anno prima, alla
fine d’agosto 2023, si contavano in totale 22.599 minori: in un anno la
diminuzione è stata dell’11%. 3.525 di loro si sono allontanati
dall’accoglienza nel primo semestre 2024: sono soprattutto tunisini, guineani
ed egiziani, quasi tutti maschi e per tre quarti con più di 16 anni.
Vittime di tratta:
nel 2024 l’Italia ha assistito 1.737 vittime di tratta (fino a settembre), il
60% donne, oltre a un 6% di persone transessuali. Nel 2023 erano state 1.899.
Dal 1° gennaio al 31 luglio il Ministero dell’Interno conta 6.284 permessi di soggiorno
per cure mediche e protezione delle vittime di tratta, di violenza domestica,
di grave sfruttamento lavorativo o di calamità naturali.
Corridoi
umanitari: in dieci anni 7.831 persone, di cui 6.807 in Italia. Nel 2024, fino
al mese di luglio, sono state accolte in maniera protetta 1.525 persone, di cui
600 nei corridoi umanitari e 863 con iniziative di evacuazione umanitaria. Dal
febbraio 2016 al settembre 2024, grazie all’impegno di diverse realtà
associative e religiose e a protocolli sottoscritti in vari Stati, l’esperienza
dei “corridoi umanitari” ha permesso di raggiungere l’Europa in sicurezza a
7.831 persone, di cui 6.807 solo in Italia. Sir 11
Report Fondazione Migrantes 2024: “In Italia e in Europa il diritto d’asilo è a rischio”
Presentata a Roma
l’ottava edizione del Report “Diritto d’Asilo 2024” della Fondazione Migrantes.
Nel mondo, a metà
del 2024, c’erano 122,6 milioni di persone colpite da “sradicamento forzato
globale” (rifugiati, richiedenti asilo, sfollati interni). E la previsione è
che saranno 130 milioni entro la fine dell’anno. Al 1° gennaio 2024 vivevano,
invece, in Italia poco meno di 414 mila cittadini non comunitari con permesso
di soggiorno per motivi di protezione e asilo, lo 0,7% di tutta la popolazione.
Sono questi solo alcuni dei dati presenti nell’ottava edizione del Report sul
Diritto d’Asilo della Fondazione Migrantes (con Tau Editrice), curato da
Cristina Molfetta e Chiara Marchetti, che quest’anno porta il titolo “Popoli in
cammino… senza diritto d’asilo”.
Il Report, che è
stato presentato oggi a Roma, presso l’Aula Magna della Pontificia Università
Gregoriana, come ogni anno legge e interpreta dati, norme, politiche e ma
raccoglie anche storie, che raccontano come nell’Unione europea e nel nostro
Paese a essere sempre più a rischio sia il diritto d’asilo stesso. Mentre
guerre e conflitti si allargano e anche situazioni estreme legate al
cambiamento climatico contribuiscono a far crescere il numero delle persone
costrette ad abbandonare la propria terra, non sono invece altrettanto celeri
le risposte alle cause profonde di queste migrazioni forzate.
Proprio in questi
giorni, ad esempio, è purtroppo tornata di attualità la situazione siriana. Il
Report ci ricorda che già da anni la Siria (circa 183 mila richiedenti nel
2023) il principale Paese d’origine delle persone che cercano rifugio
nell’Unione europea. In Italia, sono la seconda nazionalità di provenienza di
chi arriva, in particolare, dalla rotta Mediterranea.
Nel mentre è stato
approvato il “nuovo” Patto europeo sulla migrazione e l’asilo: un compromesso
al ribasso che prelude a un ulteriore impoverimento dei diritti di richiedenti
asilo e rifugiati. Per quanto riguarda l’Italia, il Report – che ha analizzato
i decreti approvati nel 2023 – definisce come “frammentato, grossolano e
iniquo” l’attuale sistema di accoglienza.
Di fronte alle
criticità, il Report della Fondazione Migrantes fa proposte in vari ambiti – da
quello legale a quello più sociale ed etico – mettendo l’accento anche su
esperienze e questioni significative, ma meno note: dalle “suore di frontiera”
– che in Italia lavorano con i rifugiati, i minori, le donne vittime di tratta
e le persone rinchiuse nei Cpr – alla questione dei tutori volontari dei minori
non accompagnati, fino a un approfondimento teologico, che partendo dal
Mediterraneo, propone di costruire una “teologia dell’asilo”.
L’Introduzione al
Report è aperta da una frase di papa Francesco, pronunciata durante l’Udienza
generale del 28 agosto 2024, che ha “animato” tutto il lavoro: «Bisogna dirlo
con chiarezza: c’è chi opera sistematicamente e con ogni mezzo per respingere i
migranti. E questo quando è fatto con coscienza e responsabilità, è un peccato
grave».
Nel suo saluto di
apertura della presentazione, mons. Pierpaolo Felicolo, direttore generale
della Fondazione Migrantes, si è augurato che «questo lavoro possa aiutare a
rendersi conto di chi sono le persone verso cui si stanno attuando veri crimini
di “lesa umanità”», come ha definito all’inizio di questo mese il Papa tutte le
forme di schiavitù moderna, in particolare la tratta di esseri umani. «Sono
crimini – ha aggiunto mons. Felicolo – che non possiamo più solo “registrare”.
E sono persone alle quali abbiamo il dovere di restituire giustizia e umanità».
Migr.on. 11
Decreto flussi: ennesima occasione persa
Il testo approvato
è un caleidoscopio di misure che vanno dall’affidamento alle Corti d’appello
della competenza sui procedimenti di convalida o proroga del trattenimento dei
richiedenti asilo, oggi in capo alle sezioni specializzate in immigrazione dei tribunali
civili, alla previsione sui ricongiungimenti familiari, per cui sarà necessario
soggiornare in Italia almeno due anni prima di chiamare i propri cari - di
Oliviero Forti, servizio Advocacy di Caritas Italiana
L’approvazione in
via definitiva al Senato del cosiddetto “decreto flussi” rappresenta
un’ennesima occasione persa da parte dell’Italia che, in questo modo, si
dimostra ancora una volta inadeguata sul fronte delle politiche migratorie,
incapace di rispondere alle istanze di migliaia di lavoratori stranieri
presenti nel paese. Persone che pagano sulla loro pelle il prezzo di un sistema
che favorisce un complesso di raggiri da parte di datori di lavoro senza
scrupoli. Il decreto, infatti, non interviene sulla questione più urgente,
quella dell’irregolarità, frutto del meccanismo disfunzionale della chiamata
nominativa. Oggi si fa entrare dall’estero un lavoratore con la promessa di un
contratto che però non arriverà mai, con l’inevitabile conseguenza che il lavoratore
diventerà irregolare. Proprio per questo motivo, in occasione del recente
incontro con il Governo, Caritas Italiana ha nuovamente richiamato l’attenzione
sulla necessità di superare la Bossi Fini e di prevedere una regolarizzazione
ad hoc per chi è già entrato, non limitandosi, invece, ad intervenire su
singoli aspetti del problema che, in quanto tali, non produrranno l’effetto
auspicato.
Ad ogni modo, a
destare maggiore preoccupazione non sono tanto e solo le norme relative ai lavoratori
stranieri, che comunque hanno visto un ampliamento delle quote, introducendo
alcune novità procedurali, quanto le altre numerose previsioni contenute
all’interno del decreto che nulla hanno a che fare con la programmazione degli
ingressi per lavoro.
Incredibilmente,
il testo approvato ieri è un caleidoscopio di misure che vanno dall’affidamento
alle Corti d’appello della competenza sui procedimenti di convalida o proroga
del trattenimento dei richiedenti asilo, oggi in capo alle sezioni specializzate
in immigrazione dei tribunali civili, alla previsione sui ricongiungimenti
familiari, per cui sarà necessario soggiornare in Italia almeno due anni prima
di chiamare i propri cari. Inoltre, il decreto dispone il controllo degli
smartphone di chi arriva in Italia se non coopera all’identificazione e non
fornisce i propri documenti e introduce ulteriori sanzioni e fermi
amministrativi per le Ong che fanno salvataggi in mare.
Il legittimo
sospetto è che questo decreto flussi sia un riflesso delle dispute che in
questi ultimi mesi hanno visto l’esecutivo contrapporsi alla magistratura e
l’ennesima mossa contro le Ong, costante e “incomprensibile” priorità per
questo Governo, piuttosto che un auspicabile articolato normativo capace di
riformare definitivamente il sistema di ingresso dei lavoratori stranieri. Sir
5
Monaco di Baviera. Intervista a Tajani. I rapporti italo-tedeschi e gli italiani all’estero
Diplomazia,
economia e identità culturale in primo piano
Il Vice Presidente
del Consiglio e Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione
Internazionale, On. Antonio Tajani, ha visitato venerdì 15 novembre 2024
l’Osservatorio Europeo Australe a Garching, nei pressi di Monaco di Baviera.
Durante la visita, il Ministro ha incontrato gli scienziati italiani che
operano presso l’organizzazione e una rappresentanza della comunità italiana
locale.
Nel corso di
un’intervista rilasciata al Corriere d’Italia, Tajani ha ribadito l’importanza
strategica delle relazioni tra Italia e Germania, evidenziando la necessità di
una stretta cooperazione per affrontare le sfide economiche e politiche
europee. Il Ministro ha sottolineato il ruolo fondamentale degli italiani
all’estero come ambasciatori del Made in Italy e ha messo in risalto la forza
del legame economico e dell’innovazione tra i due Paesi. Inoltre, Tajani ha
parlato anche del rafforzamento della rete consolare e della promozione della
lingua italiana all’estero, ritenuti aspetti centrali in un contesto europeo in
trasformazione.
Come valuta per
gli interessi italiani la crisi del Governo tedesco e le imminenti nuove
elezioni politiche?
Italia e Germania
sono le due più grandi manifatture d’Europa. Il nostro interscambio vale oltre
164 miliardi. È il Paese verso il quale esportiamo di più, oltre 74 miliardi.
La nostra è una cooperazione “naturale” e deve essere uno dei principali motori
del rilancio della competitività europea. La Germania è un Paese amico con cui
siamo legati da molti interessi in Europa. Coordinamento e gioco di squadra
sono cruciali anche con il Governo che uscirà dalle prossime elezioni.
Quali sono i
riflessi per l’Italia della stagnante crescita in Germania che, a detta degli
esperti e con una crescita del PIL ferma quota zero, è ormai a un passo dalla
recessione economica?
Siamo all’inizio
di un nuovo ciclo europeo e di un nuovo ciclo tedesco. Il dialogo con Berlino
sarà centrale nel quadro del Piano d’Azione approvato lo scorso anno per
indirizzare le politiche europee, in primo luogo, verso la competitività. Nel
momento in cui i dati industriali tedeschi iniziano a essere in chiaroscuro
mostrando segnali positivi di ripresa degli ordini in particolare per il nostro
indotto dell’automotive, è ancora più necessario lavorare insieme per sostenere
il nostro export e la crescita dei nostri territori.
In Germania vive
ormai quasi un milione di italiani. Un milione di persone che si rivolgono ai
consolati italiani ormai sopraffatti da una richiesta di servizi aumentata in
dismisura. Esiste un piano di rafforzamento della rete consolare e di una
facilitazione dei servizi?
Già lo scorso anno
mi ero impegnato con il CGIE a valutare attentamente il rafforzamento della
rete consolare. Vogliamo essere sempre più vicini e più efficienti per i nostri
connazionali all’estero e le nostre imprese. In Germania ho inviato dei diplomatici
come vicari nei Consolati Generali di Monaco e Francoforte. Durante gli Europei
di calcio, per non gravare sugli uffici, abbiamo inviato un “Consolato mobile”
per assistere i tifosi. È per tutti gli italiani all’estero abbiamo aperto i
Consolati Generali a Bruxelles e Madrid e rafforzato diverse Sedi nel mondo Nel
corso di questi due anni abbiamo assunto molto personale amministrativo e
rafforzato molti Consolati. Abbiamo investito sulla digitalizzazione dei
servizi.
Il Consiglio
Generale degli Italiani all’Estero da Lei presieduto, lancia continui allarmi
sulla precaria situazione dell’insegnamento dell’Italiano ai figli degli
emigrati di seconda e terza generazione. Alcuni Enti gestori in Germania
parlano di annunciato fallimento per mancanza di fondi. È ormai ora di finire
con questo tipo di insegnamento di quella che era considerata la “lingua
madre”?
La promozione
della lingua italiana è una priorità. L’italiano è una lingua di innovazione e
di crescita. Un forte collante con le nostre comunità all’estero. Ad ottobre ho
visitato una scuola italiana in Argentina. Il prossimo anno voglio organizzare
un Vertice dell’italofonia. Sosteniamo in maniera concreta l’insegnamento
dell’Italiano in Germania, dove contribuiamo al lavoro di 12 enti gestori. In
12 città tedesche ci sono scuole con sezioni italo-tedesche. Sosteniamo anche
molte scuole e Università dove si insegna l’italiano, per raggiungere sempre
più anche il pubblico tedesco.
L’integrazione
degli italiani in Germania è citata come esempio straordinario di integrazione
europea. Quali sono le parole del nostro Ministro a una collettività che per
coraggio e fantasia è stata unica nel tenere alto il nome dell’Italia nel cuore
dell’Europa?
A loro dico: sono
stato anche io italiano all’estero! Ho vissuto da piccolo a Parigi, sono stato
tanti anni a Bruxelles. Capisco le vostre esigenze! Oggi a Monaco ho incontrato
tanti ricercatori. Ho incontrato tanti imprenditori che fanno la ricchezza della
Germania e dell’Italia. Ho partecipato ad una riunione di sistema, con
l’obiettivo di fornire sempre migliori servizi ai cittadini e alle imprese. La
diplomazia non la fanno solo i diplomatici: I nostri connazionali all’estero
sono i migliori Ambasciatori dell’Italia nel mondo. Licia Linardi, Pasquale
Marino e Salvatore Bufanio, CdI dic.
Germania e Riviera romagnola sempre più vicine: da aprile i nuovi treni RailJet da Monaco di Baviera
Dal 17 aprile 2025
sarà operativo il collegamento giornaliero ferroviario fra Monaco di Baviera e
la Riviera Romagnola di ferrovie tedesche DB ed austriache ÖBB, con due
importanti novità che renderanno la Germania e la Romagna sempre più vicine e
collegate in maniera sostenibile.
La prima novità è che
nel 2025 i treni proseguiranno fino a Riccione e a Cattolica, mantenendo le
tappe di Bologna, Cesena e Rimini. Questo permetterà agli ospiti tedeschi di
raggiungere la Costa Romagnola evitando inutili code in autostrada. Il
collegamento proseguirà fino al 6 ottobre, coprendo anche le vacanze autunnali
dei bavaresi.
“La stagione 2025
del Monaco-Rimini porta tante importanti novità in termini di servizio -
sottolinea l’Assessore al Turismo della Regione Emilia-Romagna, Andrea Corsini-
che speriamo si tradurranno in ancora più passeggeri dalla Germania verso la
Romagna. Tanti turisti oggi scelgono la modalità slow del treno per le proprie
vacanze. I dati turistici dei primi 8 mesi del 2024 per quanto riguarda il
mercato tedesco in Romagna, hanno segnato un +9,5% di arrivi e un +10,4% di
pernottamenti, sullo stesso periodo dell’anno precedente”.
In Germania
commenta le novità sul collegamento Germania-Romagna anche Marco Kampp,
Director international long-distance passenger transport e Amministratore
Delegato-CEO Deutsche Bahn Italia Srl: “un piacere e una nuova sfida il
prolungamento della linea ferroviaria del Brennero per l’anno 2025. Da un treno
al giorno a/r solo nei fine settimana, siamo passati a uno tutti i giorni per i
3 mesi estivi e ora avremo quasi 6 mesi di servizio di collegamento dalla
Germania e Austria fino a raggiungere la costa Adriatica. Segnale che l’Italia
e la costa rimangono sempre una destinazione gradita ed apprezzata oltre il
confine, a nord del Brennero”.
“Portiamo avanti
la programmazione con le ferrovie tedesche dal 2016 –dichiara soddisfatto
Emanuele Burioni, Direttore di Apt Servizi Emilia-Romagna - e la collaborazione
si sta rafforzando di anno in anno. Questo ci permette di aumentare
notevolmente i flussi dai mercati di Austria e Germania”.
Per il Sindaco di
Rimini e presidente di Visit Romagna, Jamil Sadegholvaad, è “evidente come il
potenziale attrattivo della Romagna, della sua riviera e del suo entroterra,
rivolga sempre più il suo sguardo verso il mercato turistico estero, a
cominciare da quello tedesco e austriaco. Sono proprio la storia e i numeri di
questa unione a dare sostanza nel 2025 all'evoluzione e all'estensione di un
servizio ormai strategico, capace in poche ore e in tutta comodità di aprire le
braccia della nostra ospitalità ai tanti ospiti che per noi prima di tutto sono
amici”. (aise/dip 30.11.)
Volkswagen, maxi-sciopero contro i tagli
Proteste al via
domani. L’azienda: “Con il dialogo troveremo una soluzione”
Esplode il
conflitto tra Volkswagen e il potente sindacato dei metalmeccanici tedeschi Ig
Metall. Tutti i dipendenti del principale produttore automobilistico europeo
sono stati chiamati a sospendere il lavoro ad oltranza a partire da domani per
opporsi alle migliaia di tagli di posti previsti dal gruppo. Un primo passo di
un movimento che potrebbe assumere proporzioni senza precedenti se i vertici
dell'azienda e i rappresentanti del personale non riuscissero a raggiungere un
accordo sulle misure di riduzione dei costi per ristrutturare il gruppo in
crisi.
Almeno così ha
lasciato intendere Ig Metall, che ha minacciato la lotta "più dura che
Volkswagen abbia mai visto". Il tutto nel bel mezzo della campagna per le
elezioni anticipate in Germania. "Gli scioperi di avvertimento inizieranno
lunedì in tutte le fabbriche", ha reso noto in un comunicato stampa
Thorsten Gröger, negoziatore del sindacato metalmeccanico. Il periodo di
dialogo sociale che la Germania ritiene obbligatorio si è infatti chiuso per
120.000 dipendenti del marchio alla mezzanotte di venerdì con un muro contro
muro che ha portato alla mossa quasi inevitabile annunciata dal sindacato.
"Se necessario, questa sarà la battaglia contrattuale collettiva più dura
che Volkswagen abbia mai conosciuto", ha avvertito Gröger, ritenendo il
management "responsabile, al tavolo delle trattative, per la durata e
l'intensità del confronto". Volkswagen ha immediatamente replicato
cercando di riallacciare i rapporti.
Il gruppo di
Wolfsburg ha affermato di "rispettare i diritti dei dipendenti" e di
credere nel "dialogo costruttivo", secondo il principio della
cogestione, per "raggiungere una soluzione sostenibile e sostenuta
collettivamente". Parole che al momento però non hanno fatto breccia tra i
lavoratori. L'intero gruppo Volkswagen conta in Germania dieci stabilimenti di
produzione di automobili e circa 300.000 dipendenti, di cui 120.000 del marchio
VW, il più colpito dal piano di risparmio. Un progetto di fronte al quale IG
Metall si è detta pronta "per un conflitto sociale come non si verifica da
decenni nella Repubblica Federale". Il principale produttore europeo ha
lanciato a settembre una caccia ai costi senza precedenti, puntando a
risparmiare diversi miliardi di euro per migliorare la propria competitività.
Si sono svolte tre trattative tra direzione e sindacato e "la differenza
tra le posizioni - secondo Ig Metall - è ancora enorme". Il divario si è
ulteriormente ampliato con il rifiuto da parte della direzione, venerdì, di una
controproposta sindacale volta a ridurre i costi senza dover chiudere le
fabbriche in Germania. Il rischio più grande è infatti quello della chiusura di
ben tre stabilimenti del Paese, per la prima volta nella storia dell'azienda.
LS 1
Francoforte. Chiude il mensile “Corriere d’Italia”. La testata rimane solo online
Dopo 73 anni di
storia, il Corriere d’Italia chiude la sua edizione cartacea per proseguire
esclusivamente in formato digitale. È una decisione che ci addolora
profondamente, ma che si è resa inevitabile a causa dei costi insostenibili
legati alla carta e alla spedizione, nonostante il supporto della Conferenza
Episcopale Tedesca e dello Stato Italiano non sia mai venuto meno.
Nato nel 1951, il
Corriere d’Italia è stato un pilastro per la comunità italiana in Germania,
fungendo da cronista, ponte culturale e voce delle storie di migliaia di
emigranti. Fondato in un periodo di ricostruzione post-bellica, ha accompagnato
le famiglie italiane nel loro percorso di integrazione e crescita, raccontando
sacrifici, successi e sfide.
Nel corso dei
decenni, il giornale è stato testimone delle trasformazioni sociali e
politiche: dalle difficoltà dell’emigrazione negli anni ‘50, alla lotta per i
diritti scolastici e lavorativi negli anni ‘70, fino all’integrazione
interculturale del nuovo millennio. Sempre con un obiettivo chiaro: preservare
l’identità italiana e promuovere il senso di appartenenza in una terra lontana.
Oggi il Corriere
d’Italia è molto più di una pubblicazione: è la memoria storica di una
comunità. Ha raccolto le voci degli italiani in Germania, custodendo le loro
esperienze e rendendo visibile il loro contributo alla società tedesca. Ma
mantenere questa tradizione in formato cartaceo è diventato insostenibile.
L’addio alla carta
non è un addio ai valori e alla missione del Corriere. Continueremo online,
adattandoci ai tempi ma con la stessa dedizione nel raccontare storie e
connessioni. È un impegno che rinnoviamo verso i nostri lettori, che
ringraziamo per il loro sostegno in tutti questi anni.
Ci fa male
chiudere un capitolo così importante, ma siamo certi che, anche in digitale, il
Corriere d’Italia saprà mantenere vivo il suo legame con gli italiani in
Germania e in Europa.
Con profonda
gratitudine, ringraziamo tutti i nostri lettori, sostenitori e collaboratori
che hanno camminato al nostro fianco per decenni, credendo nella missione del
Corriere d’Italia.
Mentre ci
congediamo dall’edizione cartacea, ci impegniamo a continuare questo cammino
online, preservando il nostro spirito di vicinanza e servizio verso gli
italiani in Germania e nel mondo.
Grazie per aver
reso il Corriere d’Italia una testimonianza viva della storia italiana oltre i
confini e grazie per essere stati parte di questa storia. Il viaggio continua.
Licia Linardi, CdI dic
Riunito a Stoccarda il Consiglio Nazionale delle ACLI-Germania
Stoccarda. Il 23
Novembre scorso, nei locali del Bischof-Leiprecht-Zentrum, sito nella Jahnstr.
30 di Stoccarda, ha avuto luogo una Riunione del Consiglio Nazionale delle
ACLI Germania, eletto in occasione del XIII Congresso, celebrato ad Augsburg il
26 Novembre 2022.
Particolarmente
importanti i punti all''ordine del giorno trattati nel corso dell'incontro,
svoltasi dalle 10:00 alle 17:00 circa. Presenti Consiglieri Nazionali
provenienti dal Baden-Württemberg, dalla Baviera e dal Nordreno-Westfalia, tra
cui: Giuseppe Tabbì (Presidente), Duilio Zanibellato, Norbert Kreuzkamp,
Carmine Macaluso (Vicepresidente), Fernando A. Grasso, Patrizia Mariotti,
Pasquale Bibbò, Gisella Brasseler, Calogero Mazzarisi (Vicepresidente),
Giuseppe Sortino, Rosetta Barone, Giovanni Cossu e Anna Maria Izzo. Intervenuti
inoltre: Maria Galitelli, Paolo Olivaldese , Elisabeth Siefried, Elio
Pulerà, e Franco Santoro.
I lavori della
giornata sono iniziati con un momento spirituale e un saluto di
benvenuto da parte del Presidente Nazionale Tabbì, che, qualche minuto
prima, aveva accolto i partecipanti, insieme con Duilio Zanibellato,
Segretario per le Risorse e l'Organizzazione, al quale il Presidente, dopo aver
fatto rilevare la regolarità della seduta e letto le giustificazioni giunte, ha
passato la parola per un momento di spiritualità.
Subito dopo questo
primo punto, previsto nell'ordine del giorno, concordato in occasione delle
ultime videoconferenze di Presidenza, e già inviato telematicamente con
altri documenti a tutti i Consiglieri, e qui di seguito riportato, i
lavori sono proseguiti con alcune comunicazioni importanti da parte di Tabbì,
che, ribadendo alcuni punti toccati da Zanibellato, ha insistito su un
diffuso senso d'assenza e di fratellanza piuttosto esteso nella nostra odierna
società, non mancando di ribadire —parlando della nostra grande famiglia ACLI—
il dato di fatto che tra i vari circoli e le regioni mancano comunicazione,
coordinamento e condivisione di notizie, che —magari— compaiono su
facebook, o siti regionali, come quello delle ACLI Baviera, magari ripresi da
varie agenzia stampa, come sottolineato da Grasso, ma che non vengono condivisi
tra di noi.
È venuto quindi il
momento della relazione sulla situazione delle sedi del Patronato ACLI;
mancando, però la Responsabile del Patronato ACLI Germania, Daniela Bertoldi,
per motivi inderogabili, Tabbì ha comunicato le date di prossimi incontri con
Bertoldi, in occasione dei quali dovranno venir assolutamente discussi alcuni
problemi sorti negli ultimi tempi.
Interessanti a
questo punto gli interventi di: Maria Galitelli, Rosetta Barone, Calogero
Mazzarisi, Paolo Olivaldese, Giuseppe Sortino e Elio Pulerà, su tempi e
modalità di accoglienza dei connazionali che si rivolgono ai nostri servizi
anche per questioni che esulano dai principali compiti del Patronato.
Connazionali, che, però, pur servendosi ampiamente delle nostre strutture,
spesso, al posto di aderire al nostro Movimento, chiedendo la tessera,
preferiscono lasciare un'offerta, magari al Patronato.
Anche Norbert
Kreuzkamp ha parlato delle sue esperienze per ciò che concerne il
supporto, non solo ai nostri connazionali e, rispondendo alle considerazioni
degli interventi precedenti, ha invitato a vedere, soprattutto le cose belle e
non le cose brutte.
Macaluso, parlando
di possibili interventi, allo scopo di ravvivare alcune realtà dormienti, e
ricordando uno dei fiori all'occhiello del suo Circolo, Il Folk-ACLI che si
sarebbe dovuto esibire il giorno dopo nei locali in cui ha sede la Missione
Cattolica Italiana di Kempten e che è stato rimandato a causa di un decesso, ma
di altre attività, come gruppi sportivi del passato, ma anche della grande
Manifestazione di dieci anni fa a Kaufbeuren per celebrare i 60 Anni dei Patti
Bilaterali italo-tedeschi, ha comunicato l'intenzione di riproporre una
celebrazione ancora più importante per i 70 Anni.
Pur condividendo e
lodando il programma esposto da Macaluso, Tabbì ha dichiarato che sarebbe molto
importante che Anniversari di questo tipo venissero celebrati a livello
regionale, statale. Di questa opinione si sono espressi anche altri presenti;
alcuni, addirittura, proponevano anche celebrazioni multilaterali. Sul tema
celebrazione Pulerà ha ricordato le recenti celebrazioni dei 50 del suo
Circolo.
Si è parlato pure
degli scarsi contatti con i vari Comites, che, pur essendo stati eletti da
un'esigua minoranza di connazionali, in ogni caso rappresentano noi italiani
nei rapporti con i vari Consolati. E a questo proposito Macaluso ha
incoraggiato i presenti ad attivarsi in attesa delle prossime elezioni di
questi organismi, coinvolgendo maggiormente forze più giovani e vigorose.
Un altro punto
importante all'ordine del giorno "Legge sull'Autonomia
differenziata", referendum previsto; ricorsi di alcune Regioni per
presunta incostituzionalità, Comitati sorti in Germania in preparazione del
referendum e su una relazione, per i quali Tabbì ha cominciato a spiegare
prima della pausa pranzo diversi punti.
Subito dopo c'è
stato un corroborante piatto di lasagne, accompagnato da speck e formaggi di
vario tipo e brezel di diverse fatture. Non è mancato anche un bicchiere di
vino. Acqua, caffè e brezel, peraltro, erano già a disposizione degli
intervenuti dal mattino.
Dopo questa
pausaTabbì, presentando i documenti, precedentemente inviati ai consiglieri ha
continuato quindi il tema interrotto e qui ci sono stati diversi
interventi con domande, seguiti da risposte esaurienti. Il tutto rimane al
momento provvisorio, dato che si dovrà attendere il giudizio sul ricorso che
—qualora— venisse accolto, cancellerebbe il referendum e il necessario supporto
delle ACLI in occasione delle votazioni.
In ogni caso tutti
i presenti hanno concordato sulla necessità di avere più comunicazione tra i
vari Circoli e Regioni e di utilizzare tutti i media per essere, non solo
attivi e di aiuto alla società, ma —in ogni caso— di renderci più visibili.
Grasso ha proposto a tutti coloro che possiedono un sito o un account Facebook
di comunicarglielo in modo che egli possa inserire i link nel sito ACLI da lui
amministrato.
Si è parlato anche
di un possibile incontro dibattito delle ACLI con varie autorità: civili e
religiose, e con il KAB, per discutere sulle difficoltà maggiori alle quali
vanno incontro in nostri connazionali; incontro da realizzare,
possibilmente, in una delle regioni dove maggiore è la presenza italiana.
È stato trattato e
approvato quindi il punto Tesseramento 2024 per il quale sono stati resi
noti il numero dei tesserati dei vari circoli.
Come penultimo
punto è stata infine presentata l'attuale situazione finanziaria, non troppo
rosea, purtroppo; e a questo proposito sono state fatte diverse considerazioni
su possibili modi e luoghi in cui svolgere i futuri consigli allo scopo di
limitare i costi degli spostamenti.
Tra le varie e
eventuali si è parlato infine dell'elaborazione e di alcune difficoltà legate
alla loro stampa, per la quale sussistono tuttora alcuni problemi legati al
programma. Grasso —a questo proposito— ha comunicato di aver partecipato
recentemente a un webinar moderato da Maria Rita Zannino, seminario in cui sono
stati spiegati i punti principali del programma "Tesseramento ACLI" e
ha comunicato inoltre che presto sarà pubblicato un Tutorial
professionale ad hoc, Tutorial già realizzato —in modo artigianale— da
Grasso, qualche tempo fa e da lui pubblicato nel sito delle ACLI Baviera.
Alle 17:00 circa
—come anticipato sopra— c'è stato il momento del commiato, dato che diversi
consiglieri avevano qualche centinaio di chilometri da smaltire prima di
raggiungere le proprie abitazioni. Mentre i Consiglieri si sono dati
appuntamento al prossimo Consiglio, la Presidenza si è data appuntamento a una
prossima teleconferenza fra qualche settimana. Fernando Grasso, dip 4
Stoccarda. Intervista al Console Laura Lamia. Bilancio dei primi 100 giorni
È la prima donna a
capo della più grande circoscrizione consolare nell’area comunitaria. Ha 46
anni, nativa di Salerno, brillante laurea in Scienze Politiche, laurea
Magistrale per futuri diplomatici e dal 2008 in forza al Ministero degli Affari
Esteri e della Cooperazione internazionale (MAECI).
Dopo vari
incarichi in seno ad alcune Direzioni Generali, nel 2011 si trasferisce presso
la nostra Ambasciata di Giacarta, in Indonesia.
Tre anni dopo è a
Vienna a ricoprire il ruolo di Capo della Cancelleria consolare. Rientrata a
Roma nel 2019 assume l’incarico di Capo Segreteria della Direzione Generale per
l’Amministrazione, l’Informatica e le Comunicazioni.
Da ottobre del
2022 al 4 agosto di quest’anno è Vice Capo Missione presso la nostra Ambasciata
d’Italia in Belgio. Il 5 agosto ha assunto servizio a Stoccarda come Console
Generale.
Ama dipingere,
scrivere poesie e godersi la natura con tante camminate. È senza dubbio un
contrappeso alle questioni da dirimere quotidianamente nel maggiore consolato.
Questo è il quadro
che si è fatta della nostra collettività nei suoi primi 100 giorni di mandato.
La comunità
italiana, che risiede nel Baden-Württemberg, con i suoi quasi 200 mila
connazionali rappresenta un po’ meno di un quarto del totale della comunità
italiana registrata nell’intera Germania ed è la prima circoscrizione consolare
nell’UE dopo l’uscita della Gran Bretagna. Se la prima ondata di emigrazione
dall’Italia nella metà degli anni Cinquanta era costituita principalmente dai
cosìddetti Gastarbeiter, la seconda e la terza generazione hanno visto una
emigrazione più eterogenea, impiegata tanto nel settore della ristorazione che
nell’industria automobilistica a vari livelli. Ad essi si affiancano
ricercatori, scienziati, professionisti, musicisti, artisti ovvero la cd. nuova
mobilità, costituita da numerosi giovani qualificati attivi nei diversi settori
economici e particolarmente rappresentati nel settore universitario e
scientifico. Registro una comunità in costante crescita, sia per gli arrivi
dall’Italia di giovani e famiglie, sia per l’alto numero di nascite.
In ambito
diplomatico la sede di Stoccarda è ritenuta una delle più difficili per la
molteplicità di questioni e problemi da affrontare quotidianamente. È riuscita
a trovare qualche soluzione soprattutto all’erogazione dei passaporti e delle
Carte d’Identità elettroniche, i cui tempi di attesa sono causa di forte
malcontento?
La situazione
rispetto ad anni precedenti è oramai cambiata e i numeri lo dimostrano. A
fronte di una crescita costante della collettività (sono 199.947 i cittadini
residenti iscritti all’AIRE al 18 novembre 2024), i servizi sono aumentati e
migliorati. Nel 2019 venivano emessi 6.746 passaporti e 917 Carte di Identità
per un totale di 10.721 documenti emessi, mentre a settembre 2024 i dati
registrano un incremento con 8.491 passaporti emessi (di questi ben 450 sono
pratiche presentate al Consolato Onorario di Mannheim) e 8.615 Carte di
Identità Elettroniche per un totale di 17.144 documenti lavorati. Quindi prima
della fine dell’anno è già stato superato il totale annuale del 2023. Per
quanto riguarda i tempi di attesa, occorrono sole 2 settimane per un passaporto
e 5 settimane per una Carta di Identità.
Che rapporto è
riuscita ad instaurare con la nostra collettività organizzata: Comites,
Missioni cattoliche, Patronati ed associazioni sportive, ricreative e
culturali?
Nel breve tempo
dal mio arrivo in Sede, nell’agosto di quest’anno, ho avuto modo di constatare
di persona il forte legame con l’Italia della comunità che vive nel
Baden-Württemberg. Credo che l’apporto di Com.It.Es. e le varie associazioni e
patronati presenti sul territorio, alcuni dei quali ho già avuto modo di
conoscere, ma anche del C.G.I.E., sia fondamentale per mantenere saldo questo
legame nell’ottica di quella “cittadinanza attiva” che è una componente
preziosa della nostra identità culturale.
In ottobre si è
tenuta nel mondo la 24esima Edizione della Settimana della Lingua Italiana. È
una manifestazione del nostro Ministero degli Esteri che ogni anno tiene in
paesi in cui operano i nostri Istituti di Cultura. Il tema di quest’anno era
dedicato al connubio: “L’italiano e il libro: il mondo fra le righe”.Non a caso
quest’anno l’Italia è stato Paese Ospite alla prestigiosa Fiera del libro di
Francoforte. Che impatto si è registrato nella Sua circoscrizione consolare?
A Stoccarda è
presente l’Istituto Italiano di Cultura, che opera attivamente e magistralmente
su tutto il territorio del Baden-Württemberg. Per la 24ma Edizione della
Settimana della Lingua Italiana, si sono svolte diverse iniziative culturali,
sia a Stoccarda che in altre città: Tubinga, Heidelberg, Mannheim, Treviri,
Friburgo, Saarbrücken, Mainz, Karlsruhe, in collaborazione tanto con le
Università locali che con il Comitato della Dante Alighieri, per un totale di
ben 14 iniziative. La Fiera del Libro di Francoforte è stata un successo, quale
importante vetrina per l’industria del libro italiana, dimostrato dalle vendite
record dei diritti di traduzione e dall’ampia partecipazione del pubblico nei
cinque giorni di Fiera. Anche Stoccarda ha contribuito al progetto
#DestinazioneFrancoforte che ha visto la partecipazione dell’Italia alla
Buchmesse con un efficace gioco di squadra di tutte le articolazioni del
Sistema Italia, dalla rete diplomatico-consolare alla rete degli Istituti
Italiani di Cultura che ha curato la partecipazione a 12 festival letterari e
quasi 40 appuntamenti editoriali, all’Ufficio ICE e ENIT, con la cerimonia per
il “Premio ENIT” tenutasi quest’anno nella magnifica cornice del Padiglione
Italiano per sottolineare in modo ancora più chiaro lo stretto legame tra
turismo e cultura.
Sul piano
dell’apprendimento della lingua e cultura italiana in Germania da anni si
assiste ad un inarrestabile calo d’interesse sia nell’ambito delle istituzioni
pubbliche (Università, Volkshochschulen, scuole di lingua, scuole dell’obbligo
e licei/Gymnasien) che private tedesche. Ci sono strategie allo studio per
un’inversione di tendenza?
No, non vi è un
trend che registra un calo d’interesse. Anzi la domanda di lingua e cultura
italiane continua a crescere! Rispetto al 2020, la domanda di lingua e cultura
italiana è cresciuta del 36%. 18 Atenei tedeschi sono finanziati tramite il
Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione internazionale, sia per
quanto riguarda corsi di italiano per studenti che corsi di formazione per
docenti.
L’Italia e la
Germania sono legate non solo da indissolubili legami storici, sociali e
culturali ma anche economici. Infatti in Italia operano oltre 1.700 aziende
tedesche mentre in Germania di italo-tedesche se ne contano circa 47.000, di
cui 10.000 nel Baden-Württemberg (BW) i cui scambi commerciali superano i 32
miliardi di euro. Quale attenzione intende riservare alle imprese nel corso del
Suo mandato?
La collaborazione
economica bilaterale, pur avendo indubbiamente risentito della crisi pandemica
globale e della congiuntura economica tedesca, si conferma strategica. Le
economie fra Italia e Baden-Württemberg (BW) sono profondamente integrate e
molto spesso la componentistica italiana rappresenta una parte significativa
del “made in Germany”. Lo scambio commerciale fra BW e il nostro Paese è molto
buono: nel 2023 le esportazioni da questo Land hanno raggiunto quasi 15
miliardi di euro e le importazioni circa 18 miliardi, principalmente nei
settori farmaceutico, dei macchinari, dell’industria metallurgica e alimentare.
È mia intenzione stare al fianco delle imprese italiane, anche grazie
all’operato della Camera di Commercio italo-tedesca, di cui ospitiamo un
ufficio nell’edificio ove ha sede anche l’Istituto Italiano di Cultura e
altresì in un’ottica di promozione integrata, in linea con quanto portato
avanti finora dalla nostra Ambasciata a Berlino e dalla rete consolare.
Come detto, nella
Sua circoscrizione si registrano attualmente oltre 200mila connazionali. In
loro rappresentanza, nel dicembre del 2023 sono stati eletti 18 membri Comites.
Che rapporto è riuscita finora ad instaurare?
Finora molto
buono. Il Com.It.Es. di Stoccarda gode della mia massima fiducia. Mi auguro di
lavorare in piena sinergia con il Presidente e i Consiglieri del Com.It.Es
nonché con il CGIE, proseguendo l’ottima collaborazione già in essere con i
miei predecessori. Sono sicura dell’apporto propositivo e costruttivo che verrà
da parte loro.
Come sa, gentile
Console Generale, con questo ultimo numero di dicembre il Corriere d’Italia,
dopo 73 anni cesserà la pubblicazione cartacea per difficoltà
economico-finanziarie. Questo inevitabile passaggio farà perdere certamente
molti lettori della nostra prima generazione per scarsa dimestichezza con
l’online. Ora in vista delle Festività Natalizie e del Nuovo Anno 2025, a Lei
l’opportunità per un messaggio alla nostra collettività.
Con molto piacere
approfitto di questa occasione per salutare i connazionali e per confermare il
mio forte impegno e quello di tutto il personale del Consolato Generale a
garantire servizi consolari efficienti e trasparenti. Desidero invitarli a
consultare regolarmente il sito
(https://consstoccarda.esteri.it/consolato_stoccarda/it/) per avere
informazioni complete e affidabili circa le modalità per ottenere i servizi
richiesti. Con molto piacere approfitto di questo spazio del Corriere d’Italia
per far giungere a tutti i connazionali e loro famiglie i miei più sinceri e
senti Auguri di un Sereno Natale e di un 2025 di Prosperità e Pace di cui c’è
tantissimo bisogno!
Tony Màzzaro, CdI
dic.
Apertura della 12º
edizione del “Dialogo italo-tedesco sui servizi finanziari”
L’Ambasciatore
d’Italia a Berlino Armando Varricchio ha ospitato l’evento di apertura del
“Dialogo italo-tedesco sui servizi finanziari” che ha visto la partecipazione
degli illustri membri delle Delegazioni italiana e tedesca, rispettivamente
guidate dal Presidente di Unicredit Pietro Carlo Padoan e dalla Direttrice
generale della Federazione tedesca delle Casse di risparmio DSGV Karolin
Schriever. Joachim Wuermeling, docente e consulente presso la European School
of Management and Technology (ESMT) in materia di finanza digitale è
intervenuto in qualità di relatore ospite della serata. Il Dialogo
italo-tedesco sui servizi finanziari, iniziativa coordinata per parte tedesca
dal German Banking Industry Committee (DK – Deutsche Kreditwirtschaft) e per
parte italiana dalla dalla FeBAF – Federazione Banche Assicurazioni e Finanza,
ha come scopo il confronto sulle principali sfide poste dallo stato del sistema
finanziario europeo. Molteplici gli argomenti al centro della dodicesima
edizione del 29 novembre, tra i quali i rapporti Draghi e Letta le prospettive
per la competitività europea, la strategia europea degli investimenti al
dettaglio per le imprese finanziarie e di assicurazioni e gli sviluppi della
digitalizzazione. “Questi incontri dimostrano quanto sia profondo e proficuo lo
scambio di idee in materia finanziaria e politica tra Italia e Germania, ha
detto l’Ambasciatore Varricchio, che ha sottolineato inoltre come questo
dialogo assuma oggi “una rilevanza ancora maggiore, in quanto si inserisce nel
quadro del Piano d’azione italo-tedesco, firmato a Berlino quasi esattamente un
anno fa dal Presidente del Consiglio Giorgia Meloni e dal Cancelliere federale
tedesco Olaf Scholz.”
Memorandum
d’Intesa tra l’Università Luiss e ESMT
Il 9 dicembre
scorso il rettore dell’Università Luiss Guido Carli di Roma, Paolo Boccardelli,
e il direttore della European School of Technology and Management di Berlino,
Jörg Rocholl, hanno siglato il Memorandum d’Intesa tra le loro Università che
pone le basi per l’avvio dei “Dialoghi italo-tedeschi per l’Europa”.
La firma è
avvenuta in Ambasciata a Berlino alla presenza dell’ambasciatore Armando
Varricchio, dell’ambasciatrice Catalina Cullas, direttrice per le relazioni con
i Paesi dell’Unione Europea presso il Ministero Federale degli Affari Esteri, e
il ministro plenipotenziario Alessandro Gaudiano, vice direttore generale e
direttore centrale per i Paesi europei presso il Ministero degli Affari Esteri
e la Cooperazione Internazionale.
L’iniziativa,
sostenuta dall’Ambasciata, dall’Ambasciata tedesca a Roma, da Confindustria e
dal Bundesverband der Deutschen Industrie, si propone di favorire il dialogo
tra Italia e Germania, coinvolgendo il mondo universitario, dell’economia,
della cultura e della società civile, con un’attenzione particolare rivolta
alle giovani generazioni e alla loro proiezione nel contesto europeo.
La collaborazione
tra le due Università è prevista articolarsi in varie forme di incontri e di
scambi universitari e culminare con l’avvio dei “Dialoghi italo-tedeschi per
l’Europa” che si svolgeranno ad anni alterni a Roma e a Berlino, riunendo alti
rappresentanti delle istituzioni e dell’economia nella prospettiva di
fortificare i legami italo-tedeschi.
Alla firma è
seguito il panel dedicato al tema “Italy, Germany and the E.U. facing the
challenges ahead” con gli interventi di Paola Severino, presidente della School
of Law della Luiss, Lars-Hendrik Röller, fondatore e direttore dei Berlin
Global Dialogues di ESMT, Stefan Pan, vice presidente per l’UE di
Confindustria, e Tanja Gönner, direttrice generale di BDI, con la moderazione
del giornalista Gordon Repinski di Politico.
Aprendo il panel,
l’ambasciatore Varricchio ha sottolineato come l’iniziativa si inserisca nel
quadro delle attività previste dal Piano di Azione italo-tedesco firmato dalla
presidente del Consiglio Giorgia Meloni e dal cancelliere Olaf Scholz, la cui
attuazione, a un anno dalla firma, ha già contribuito in modo significativo
all’ulteriore rafforzamento dei rapporti politici, economici, di cooperazione
scientifica e culturali tra i due Paesi.
“È certamente di
cruciale importanza riflettere insieme sulle relazioni tra i nostri due Paesi”,
ha proseguito Varricchio, “nell’attuale fase segnata da importanti sviluppi
tanto nei rapporti bilaterali, riaffermati quest’anno al più alto livello in
occasione della Visita di Stato del presidente della Repubblica Sergio
Mattarella, quanto in ambito europeo ed internazionale”.
“Con la firma del
Memorandum d’Intesa insieme a un’istituzione accademica d’eccellenza come ESMT
Berlin e l’avvio dei Dialoghi italo-tedeschi per l’Europa, l’Università Luiss
rafforza il proprio impegno nel promuovere la cooperazione tra i Paesi fondatori
dell’UE, chiamati a guidare una fase di profonda trasformazione geopolitica,
socio-economica e tecnologica”, ha dichiarato il rettore Boccardelli.
“Nel solco di un
percorso già da tempo avviato dal nostro Ateneo”, ha aggiunto Severino, “questa
iniziativa pone l’educazione e la cultura al centro di un progetto comune per
costruire un futuro europeo condiviso e coeso. Un progetto che guarda con particolare
attenzione ai giovani, che saranno i protagonisti di questo cambiamento”.
Attraverso la
partnership con la Luiss, Rocholl intende “posizionare l’istruzione, la ricerca
e lo scambio culturale come pilastri fondamentali per plasmare un futuro
europeo unito e lungimirante. Questa collaborazione riflette il nostro impegno
comune a mettere le nuove generazioni in condizione di guidare con creatività,
innovazione e un profondo senso di responsabilità nei confronti della società e
del mondo”.
Per Stefan Pan,
infine, “dopo quelli già ottimi tra i nostri Paesi e le nostre industrie,
l’intesa tra Luiss e ESMT non può che contribuire a migliorare ancora di più i
rapporti tra Italia e Germania. Promuovere uno spirito e soprattutto una
visione veramente europei passa per iniziative come questa, che consentono ai
giovani di cogliere fin da subito le opportunità offerte dal mercato unico e
costruire un bagaglio di conoscenze all’altezza delle sfide globali”. (aise)
Germania, firmato
all’Ambasciata italiana a Berlino Memorandum d’Intesa tra Università Luiss e
ESMT Berlin che pone la base per i “Dialoghi italo-tedeschi per l’Europa”
Panel e show
cooking in occasione della IV Giornata nazionale dello Spazio
Nei giorni scorsi
è stata celebrata all’Ambasciata d’Italia a Berlino la “Giornata nazionale
dello Spazio” che ricorre il 15 dicembre, data del lancio nel 1964 del
satellite “S. Marco 1”, grazie al quale l’Italia e? diventata il terzo Paese,
dopo Stati Uniti ed Unione Sovietica, a mettere in orbita un satellite
artificiale interamente realizzato a livello nazionale. L’evento di quest’anno,
intitolato “Frontiers of human nutrition in orbit: a journey to space and
back”, svoltosi sotto forma di panel, seguito da uno show cooking, ha voluto
unire scienza e gastronomia in modo da illustrare i processi di preparazione e
conservazione dei cibi spaziali, ispirati alla tradizione enogastronomica
italiana, realizzati con tecniche come la liofilizzazione e la termostabilizzazione
per garantirne la durata e il valore nutrizionale in condizioni estreme. Al
panel hanno partecipato l’Ingegnere Cesare Capararo, Capo dei Programmi, ALTEC
S.p.A e lo chef creatore di ricette per il cibo spaziale Stefano Polato,
Responsabile dello Sviluppo Alimentare di Freedom GmbH, moderati dalla Dott.ssa
Sara Rocci Denis, Fondatrice e Ceo di EAT Freedom GmbH e il Colonello Luca
Parmitano, Astronauta Capo, JSC/EAC Liaison Officer dell’Agenzia Spaziale
Europea in collegamento live dal JSC Houston. Con i loro contributi hanno
esaminato le sfide alimentari legate alla permanenza prolungata dell’uomo nello
spazio concentrandosi sullo sviluppo di tecnologie per il cibo spaziale
sostenibili per l’ambiente, mirate a ridurre al minimo gli sprechi e a preservare
la qualità, il gusto e la sicurezza degli alimenti durante missioni prolungate.
L’iniziativa promossa dal Ministero degli Affari Esteri per la Giornata
Nazionale dello Spazio 2024 è nella sua IV edizione e ha l’obiettivo di far
conoscere le ricette italiane create per le missioni spaziali, in
collaborazione con la fondatrice di EAT Freedom, la Dott.ssa Sara Rocci, e lo
Chef Stefano Polato. L’Ambasciatore Armando Varricchio, nel salutare gli
invitati, ha voluto sottolineare come “la crescita economica, il benessere
pubblico, lo sviluppo sostenibile, la protezione dell’ambiente, la sicurezza
nazionale e il prestigio internazionale possono trarre vantaggio dal settore
spaziale, che si basa completamente su tecnologie e servizi all’avanguardia”.
L’Ambasciatore ha poi proseguito: “Sono tempi entusiasmanti per il settore
spaziale. Le agenzie spaziali nazionali e gli attori privati stanno
abbracciando una nuova visione strategica che si discosta dal concetto
tradizionale di accesso allo spazio. L’Italia è estremamente attiva in questo
senso, essendo il terzo contributore dell’Agenzia Spaziale Europea. Italia e
Germania hanno concordato, nell’ambito del loro Piano d’azione comune, di
dedicare una notevole attenzione a diversi aspetti dell’economia spaziale, tra
cui la ricerca e lo sviluppo, le attività a monte, i servizi a valle e le
applicazioni, la legislazione e la regolamentazione spaziale.”
(Inform/dip/varie)
Donatella Di
Pietrantonio e gli studenti del liceo bilingue italo-tedesco Einstein
Donatella Di
Pietrantonio, autrice del libro “L’età fragile”, vincitrice del Premio Strega 2024,
ha incontrato il 29 novembre scorso due classi del Liceo Albert Einstein di
Berlino al termine suo ciclo di presentazioni in Germania.
Ne dà notizia
l’Ambasciata italiana, riportando che, in questa occasione, gli studenti hanno
potuto dialogare con lei in un clima intimo e familiare. Molti gli interessanti
interventi che hanno consentito all’autrice di esprimersi in modo diretto e
talvolta anche personale su temi emersi dalla lettura del libro, quali il
patriarcato, il femminicidio, la vita in una piccola comunità, il rapporto tra
le generazioni. La scrittrice è stata piacevolmente accolta da molteplici
domande, ricche di riflessioni profonde e personali.
“Scegliete quello
che vi brucia dentro” è il consiglio della scrittrice a chi, come gli studenti,
si interroga sul futuro che lo attende. “La lettura è la miglior scuola di
scrittura” per tutti coloro che desiderano intraprendere la carriera di
scrittore. L’autrice suggerisce di scrivere di sé, di temi che “ci riguardano
direttamente, di nodi irrisolti e fragilità” per ottenere il coinvolgimento
totale del lettore.
L’atmosfera di
dialogo ha permesso di entrare tra le righe del romanzo nel corso di una
splendida occasione per i ragazzi del Liceo bilingue, grazie all’iniziativa
dell’Ambasciata d’Italia a Berlino in collaborazione con l’IIC di Berlino.
L’incontro si
inserisce anche in una progettualità di più ampio respiro che ha portato i
giovani a lavorare sul testo in occasione della giornata internazionale per
l’eliminazione della violenza contro le donne.
Recital del
pianista Giovanni Bellucci all’IIC il 16 dicembre
Il 16 dicembre
all’Istituto Italiano di Cultura di Berlino concerto del pianista Giovanni
Bellucci dedicato a “Busoni: concertista, trascrittore, compositore” (ore
19 , ingresso gratuito, iscrizione via Eventbrite). Definito dal musicologo
Sergio Sablich “sommo pianista, trascrittore geniale, straordinario didatta,
pensatore acutissimo, compositore versatile e fecondo”, Ferruccio Busoni, che
in vita ottenne un riconoscimento soltanto parziale, ebbe un grandissimo peso
nella musica e nella cultura del suo tempo. Il programma di questo intenso e
virtuosistico recital mette a confronto alcune tra le più importanti
composizioni originali e le più imponenti trascrizioni pianistiche di Busoni
con opere di altri celebri autori facenti parte del repertorio concertistico
del grande virtuoso empolese, da J. S. Bach a Chopin a Liszt. Il pianista
Giovanni Bellucci, più volte premio Editor’s Choice di Gramophone, per la
rivista britannica “è un artista destinato a continuare la grande tradizione
italiana, storicamente rappresentata da Busoni, Zecchi, Michelangeli, Ciani,
Pollini”. Evento organizzato in collaborazione con Associazione Eraple, Regione
Autonoma Friuli Venezia Giulia, Associazione Clape nel Mondo. (Inform/aise/dip)
Le ultime puntate di Cosmo italiano, ex-Radio-Colonia
06.12.24. Merkel
“Freiheit”: ricordi, giudizi e analisi
Da alcuni giorni
nelle librerie tedesche e di mezzo mondo, è in vendita il libro di memorie
dell'ex cancelliera Angela Merkel, presentato negli Usa con l'ex presidente,
Barack Obama. Agnese Franceschini si sofferma sui contenuti del libro dal
titolo Freiheit, Libertà, ma anche sulle reazioni di media e mondo politico.
Infine con l'editorialista ed esperto di politica tedesca del Corriere della
Sera, Paolo Valentino, tracciamo un bilancio su Merkel e la sua politica.
05.12.2024. Volontari
uniti per una società migliore
Il volontariato è
una colonna portante della nostra società secondo il presidente tedesco
Steinmeier. Ma chi si impegna in Germania nel tempo libero e in quali settori?
Ce ne parla Agnese Franceschini. E ci raccontano la loro esperienza due
italiane in Germania: Manuela Rossi ha iniziato proprio da volontaria a
lavorare per il Friedensdorf di Oberhausen, che cura bambini provenienti da
Paesi in guerra o in crisi. Ora è diventato il suo lavoro; Elena Orsini,
invece, si impegna a Magdeburgo nel Sassonia-Anhalt per la cultura e
l'integrazione degli italiani di ogni età. https://www1.wdr.de/radio/cosmo/programm/sendungen/radio-colonia/il-tema/volontariato-italiani-germania-friedensdorf-oberhausen-magdeburgo-100.html
04.12.2024. Il
fascino del true crime tra Italia e Germania. Storie raccontate di crimini
accaduti realmente, il true crime è un genere letterario, televisivo e digitale
di grandissimo successo, ce ne parla Enzo Savignano. Lo scrittore ed ex
magistrato Giancarlo De Cataldo ci spiega perché il true crime piace così tanto
e cosa ha a che fare con la natura umana. Abbiamo raggiunto Anna Herbst,
regista della serie true crime dell'ARD "Warum verbrannte Oury
Jalloh?".
03.12.2024.
Speciale: Petra Reski, una giornalista tra Germania e Italia
Petra
Reski vive e lavora in Italia da oltre trent’anni come giornalista
investigativa e corrispondente per diverse testate tedesche. A partire dai
primi anni '90 Reski ha condotto inchieste e reportage sulla mafia in Italia e
sulla sua crescente diffusione in Germania. Nel suo nuovo libro
"All'italiana! Wie ich versuchte, Italienerin zu werden" descrive il
suo rapporto con l’Italia e con Venezia, sua città d'adozione. Cristina
Giordano l'ha intervistata per COSMO italiano.
02.12.2024. Ondata
di licenziamenti nelle grandi aziende tedesche
VW, Ford,
Tyssenkrupp, i colossi del settore automobilistico, chimico e tecnologico tedesco
sono in crisi e si preparano a licenziare migliaia di lavoratori, ce ne parla
Agnese Franceschini. Abbiamo raggiunto Nicola Catapano, sindacalista e operaio
della Volkswagen dove oggi i lavoratori hanno incrociato le braccia. Francesco
Nicodemo ci parla invece della crisi alla Ford dove lavora come operaio
specializzato.
29.11.2024.
Germania, le ultime sfide della legislatura
Il voto di fiducia
su Scholz si avvicina, ma il Bundestag continua il suo lavoro: quali leggi o
riforme avviate dalla coalizione semaforo possono andare in porto con
l'opposizione o con gli ex-alleati liberali? Ce ne parla Cristina Giordano.
Intanto è bufera sull'FDP di Lindner per un documento dai termini inaccettabili
che pianificava nei dettagli l'uscita dal governo semaforo. Parliamo di questo,
ma non solo, con Ubaldo Villani Lubelli, esperto di politica tedesca.
28.11.2024. Più
forti le tendenze autoritarie in Germania e Italia
Più xenofobia e
antisemitismo in Germania, insoddisfazione per la democrazia e desiderio di una
guida forte nel Paese, rivela uno studio. E chi ha posizioni razziste ora vota
soprattutto AfD e BSW. Ma l'AfD va vietata in quanto antidemocratica? Lo sostengono
i 113 deputati che hanno presentato una mozione al Bundestag, ci aggiorna
Cristina Giordano. Intanto il governo italiano punta col ddl sicurezza a punire
anche il dissenso pacifico e non solo: ce ne parla la giurista Vitalba
Azzollini.
27.11.2024.
Black Friday o Kauf- nix-Tag? Le nostre
abitudini di consumo
Le offerte legate
al Black Friday e alle Black Weeks sono innumerevoli in questi giorni, sia nei
negozi che online: con il sociologo Massimo Cerulo parliamo dell'origine di
questo fenomeno nato negli USA e del perché si è così diffuso anche in Europa.
Per contrastare le conseguenze anche ambientali del Black Friday è nato il
"Kauf-nix-Tag" ("Buy nothing day"), ce ne parla Thilo Maack
di Greenpeace.
26.11.2024. Cosa
ci rende felici, in Italia e in Germania? Dove si vive meglio in Germania? E
quanto siamo soddisfatti in generale? Lo rivela l'Atlante della felicità
pubblicato ogni anno, il "Glücksatlas". E quanto contano le
condizioni di lavoro, che occupa gran parte della nostra vita? Ne parliamo con
lo psicologo del lavoro di Lipsia Hannes Zacher. Diamo poi uno sguardo
all'Italia: sono gli stessi fattori a renderci felici nel Belpaese? Ce lo
spiega Francesca Petrella dell'istituto di ricerca IPSOS, che ha studiato la
felicità in decine di Paesi.
25.11.2024.
Affitti pagabili in Germania? Una missione (quasi) impossibile
Il governo
semaforo, e in particolare la SPD, avevano iniziato la legislatura garantendo
una svolta sugli affitti e sulla politica edilizia. Ben poco, però, è stato
realizzato: dei 400.000 nuovi alloggi all'anno ne sono stati costruiti meno di
due terzi, mentre gli affitti, nonostante la “Mietpreisbremse”, continuano a
essere altissimi. Cristina Giordano riassume i numeri di questo fallimento,
mentre Wibke Werner del Berliner Mieterverein e.V. spiega cosa fare per trovare
casa a prezzi accettabili. https://www1.wdr.de/radio/cosmo/programm/sendungen/radio-colonia/il-tema/affitti-casa-germania-governo-scholz-100.html
22.11.2024. Il
canone televisivo in Germania e la riforma di ARD/ZDF
Sarà la Corte
Costituzionale federale a mettere la parola fine sul contrasto tra ARD/ZDF e
Länder tedeschi sull'importo del canone radiotelevisivo. Ma come funziona
questa tassa in Germania e chi la deve pagare? Ce lo spiega Giulio Galoppo. È
un dibattito acceso anche in Italia, dove fanno discutere alcuni casi
eccellenti di presunta ingerenza politica nel servizio pubblico, ne abbiamo
parlato con il giornalista Carlo Canepa.
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Rientro in Italia. Il trasferimento della pensione dalla Germania
Rubrica di
informazione a cura dei patronati Acli Germania, Inca Cgil e Italuil. Questo
mese a cura di Lara Galli di Inca CGIL
I processi
decisionali che portano molti connazionali a scegliere di tornare a vivere in
Italia alla fine della loro carriera lavorativa, svoltasi prevalentemente in
Germania, sono di varia natura. Per la maggior parte dei casi, la scelta
scaturisce da motivazioni personali più che da considerazioni di natura
prettamente economica.
In questo articolo
tratteremo il tema del rientro in Italia, focalizzandoci sulle procedure da
seguire nella fase precedente al trasferimento, onde evitare di incorrere in
svantaggi di tipo economico.
In particolare,
tratteremo il caso di trasferimento di residenza, dalla Germania in Italia, di
una persona che percepisce una pensione, indipendentemente dal fatto che questa
sia di vecchiaia, di invalidità o di reversibilità.
Cominciamo con una
precisazione di carattere generale ma importante: in caso di trasferimento
dalla Germania in Italia, gli aventi diritto continueranno a percepire l’intero
ammontare lordo della pensione, come se vivessero in Germania. Ciò significa
che, indipendentemente dal luogo di residenza, e anche successivamente ad un
eventuale trasferimento di quest’ultima, l’importo lordo della pensione
percepita, non subisce alcuna variazione.
Quali sono i punti
principali su cui porre l’attenzione e quali i documenti necessari in vista di
un trasferimento della pensione?
1- La copertura
sanitaria
2- Il regime
fiscale.
3- L’accredito
della pensione mediante versamento sul nuovo conto corrente.
Copertura
sanitaria
Se si è titolari
unicamente di pensione tedesca, prima di trasferirsi in Italia è necessario
farsi rilasciare dalla cassa malattia tedesca (Krankenkasse) il modello S1 (ex
modulo E121). Questo documento sancisce il diritto alla copertura sanitaria nel
paese di residenza e deve essere presentato alla ASL di competenza del Comune
di nuova residenza in Italia. In questo caso l’importo netto della pensione
tedesca non subirà variazioni, in quanto, nonostante il cambio di residenza,
sull’importo lordo della pensione tedesca continuerà ad essere trattenuta la
quota per la “Krankenkasse” e la “Pflegeversicherung”.
– Se oltre alla
pensione tedesca, si percepisce una pensione italiana o, nel caso in cui si
percepisca solo una pensione italiana, il regime di assicurazione sanitaria di
copertura non sarà più quello tedesco, bensì quello italiano. Dunque in questo
caso, appena arrivati in Italia, sarà sufficiente rivolgersi alla ASL
territoriale competente per essere automaticamente assicurati con il servizio
sanitario italiano. Una volta in possesso della tessera sanitaria italiana si
potrà richiedere l’esonero dal versamento della quota di cassa malattia tedesca
sulla pensione tedesca, se percepita. Ciò significa che sull’importo lordo
della pensione tedesca non verrà più applicata la detrazione relativa a
“Krankenkasse” e “Pflegeversicherung”.
Imposte sulla
pensione
Nel momento in cui
si trasferisce definitivamente in Italia, si diventa soggetti fiscali italiani,
pertanto si è tenuti a dichiarare all’ufficio delle imposte italiano tutti i
redditi percepiti, anche se prodotti all’estero. Una di queste tipologie di fonte
di reddito è la pensione tedesca. In Germania però vige un sistema fiscale
differente. In Germania l’importo della pensione percepita non concorre
pienamente alla base imponibile, bensì solo una percentuale di esso. Pertanto
anche in Italia devono essere tassate le stesse somme che sarebbero tassate in
Germania. Di conseguenza, solo una parte della pensione tedesca deve essere
soggetta a tassazione in Italia.
Per richiedere la
detassazione della pensione tedesca è necessario presentare domanda all’ufficio
delle imposte di Brandeburgo. Si può procedere con una semplice mail (al
seguente indirizzo: ria@finanzamt-neubrandenburg.de) descrivendo, con una breve
nota, quanto richiesto. L’ufficio sopracitato invierà alla persona interessata
un certificato attestante la quota esente da imposte.
Versamento della
pensione tedesca nel nuovo Paese di residenza.
Per poter versare
la pensione, l’ente previdenziale tedesco, Deutsche Rentenversicherung,
necessita delle coordinate bancarie internazionali (BIC e IBAN). Al riguardo
sono previste dichiarazioni di pagamento con le quali anche l’istituto di
credito, sul quale ci si intende appoggiare per l’accredito della pensione,
conferma i dati del conto corrente.
Il modello “dichiarazione
di pagamento” deve essere firmato e timbrato dalla banca italiana ed inviato
all’ente previdenziale tedesco, in originale. La variazione dei dati avviene
generalmente nell’arco di quattro settimane. Si consiglia, onde evitare che
quote di pensione non vengano pagate per la chiusura troppo anticipata del
conto in Germania, di chiudere il conto corrente tedesco con data posticipata,
incaricando la banca a chiusura del conto di mandare il saldo sul nuovo conto
in Italia. Lara Galli, CdI dic.
Brevi di cronaca e di politica tedesca
Merz visita
Kiev
Friedrich Merz
visita l’Ucraina per la seconda volta da quando è stato eletto leader della
CDU. I suoi colloqui con il Presidente Volodymyr Zelensky e il governo si sono
concentrati sui temi della sicurezza, delle infrastrutture critiche e della
cooperazione bilaterale ed europea. “Sono andato a Kiev per rassicurare il
governo e il popolo ucraino che la CDU e la CSU sono saldamente al loro
fianco”, ha spiegato Merz. “Vogliamo che questa terribile guerra finisca prima
possibile e che si ristabilisca la pace in Europa. Per questo, l’Ucraina deve
essere messa in condizione di esercitare il diritto di autodifesa. Solo se
l’Ucraina sarà forte, Putin sarà pronto a impegnarsi in negoziati. Se il nostro
sostegno all’Ucraina si indebolisce, questa guerra durerà più a lungo. Se
mostreremo coerenza nel nostro sostegno all’Ucraina, questa guerra terminerà
più velocemente. Desideriamo che i nostri amici in Ucraina possano vivere in
pace e libertà“.
Il leader della
CDU Merz ha prospettato la creazione di un gruppo di contatto europeo. L’Europa
ha bisogno di una strategia comune, e la questione è anche “cosa accadrebbe se
la politica americana in materia di Ucraina cambiasse sotto il futuro Presidente
Donald Trump”, ha dichiarato. Nel contesto di un gruppo di contatto, è quindi
possibile sviluppare una strategia comune “su come dobbiamo affrontare questa
guerra”.
Contrariamente
alla posizione del Cancelliere Olaf Scholz, in caso di vittoria alle elezioni,
intende consegnare all’Ucraina missili tedeschi Taurus, rimuovendo anche la
limitazione della gittata delle armi finora fornite dalla Germania. La
richiesta è fornire all’Ucraina maggiori possibilità nell’impiego delle armi
tedesche: “Al momento stiamo lasciando l’Ucraina combattere ‘con le mani
legate’ ”, ha dichiarato il candidato alla Cancelleria. La Germania deve quindi
concedere all’Ucraina la possibilità di “combattere obiettivi militari poco
oltre il confine ucraino-russo che attaccano gli obiettivi civili in Ucraina”.
Questione di
fiducia: primo passo verso nuove elezioni
Dopo circa quattro
settimane dalla rottura della coalizione semaforo, il Cancelliere Scholz (SPD)
ha presentato alla Presidente del Parlamento Bärbel Bas (SPD) la richiesta di
porre la questione di fiducia al Bundestag. La lettera contiene solo due frasi:
“Egregia Signora Presidente del Bundestag, ai sensi dell’articolo 68 della
Grundgesetz – la Legge fondamentale dello Stato –chiedo che venga posto il voto
di fiducia nei miei confronti. Intendo rilasciare una dichiarazione al riguardo
prima della votazione di lunedì 16 dicembre 2024. Con la presente vorrei aprire
la strada a nuove elezioni anticipate per il Bundestag“.
A differenza
dell’Italia, la questione di fiducia nel parlamento tedesco è cosa molto rara.
Anziché forzare la propria maggioranza nella direzione auspicata, di regola
nella prassi parlamentare tedesca si sa già prima se il Cancelliere non ha più
una maggioranza per sé stesso e se ci sarà un cambio di governo o si indiranno
nuove elezioni. L’ultima volta l’allora Cancelliere Gerhard Schröder, capo di
governo di una coalizione dei suoi Socialdemocratici con i Verdi, pose la
questione della fiducia in Parlamento, perdendola. Si giunse allo scioglimento
del parlamento e a nuove elezioni: la leader dell’opposizione Angela Merkel
(CDU) divenne Cancelliera, governando poi la Germania per ben 16 anni.
Caduta di Assad:
la Germania esprime cautela
La caduta del
regime di Assad ha suscitato scalpore anche in Germania. Il Cancelliere Scholz
e il Presidente francese Macron hanno discusso della situazione in Siria
durante una conversazione telefonica. “Entrambi hanno convenuto di essere
pronti a collaborare con i nuovi governanti, ponendo come base i diritti umani
fondamentali e la protezione delle minoranze etniche e religiose”, questa la
nota del governo, in cui si legge anche che i due governanti “hanno
sottolineato l’importanza di mantenere l’integrità territoriale e la sovranità
della Siria, desiderando collaborare per rafforzare l’impegno dell’Unione
europea in Siria, compreso il sostegno a un processo politico inclusivo in
Siria”. Decisivo sarà quindi uno stretto coordinamento con i partner in Medio
Oriente sull’ulteriore procedura.
Il ministero degli
Esteri tedesco vede la situazione nei confronti degli insorti siriani con
sentimenti contrastanti. Dopo tutto, l’UE e le Nazioni Unite classificano
l’HTS, forte della vittoria, come organizzazione terroristica, anche se “il
gruppo si impegna a prendere le distanze dalla sua matrice estremistica”. A
seguito della fine della dittatura di Assad, il ministro degli Esteri Annalena
Baerbock mette in guardia da conclusioni troppo affrettate sulla situazione
della politica di sicurezza nel Paese. “Nessuno può prevedere cosa accadrà in
Siria nei prossimi giorni e cosa significherà in termini di politica di
sicurezza”, non essendo chiaro “se altre persone potranno fuggire dalla regione
o tornare in Siria”. Dopo questo iniziale sospiro di sollievo per la
popolazione siriana, il ministro Baerbock ha chiesto che venga fatto tutto il
possibile per garantire la protezione della popolazione sul posto e che si
facciano progressi nel processo di pace.
Il leader
dell’opposizione Friedrich Merz ha dichiarato che è troppo presto per tracciare
un quadro definitivo della situazione. Tuttavia, non c’è dubbio che “la Russia
esce gravemente indebolita dalla sconfitta del regime locale”. La cosa più
importante ora è mantenere i contatti con la Turchia e analizzare insieme la
situazione. “Solo allora potremo trarre conclusioni comuni, compresa la
questione dei profughi, che tocca la Turchia almeno quanto noi”.
Rifugiati siriani:
le autorità sospendono le domande d’asilo
Come in Italia e
Francia, anche le autorità tedesche hanno rinviato le decisioni sulle domande
di asilo dei rifugiati siriani. Lo ha reso noto il ministero degli Interni
tedesco. La situazione, in Siria, resta sotto osservazione, e dopo la caduta
del regime di Assad è difficile da valutare. “A ogni modo”, dichiara il
ministero, “sulla base delle condizioni attuali e degli sviluppi non
prevedibili, al momento non è possibile prendere una decisione definitiva
sull’esito di una procedura di asilo.
Se dovesse
delinearsi una situazione più stabile, il governo esaminerà la sua prassi e
prenderà nuove decisioni in merito alle richieste di persone provenienti dalla
Siria”. Ciò riguarda più di 47.000 richieste di asilo da parte di siriani che
non sono ancora pervenute a un esito.
Elezioni:
dibattito sulla coalizione con i Verdi
Il Primo ministro
bavarese e Presidente della CSU Markus Söder pensa alla futura alleanza di
governo dopo le elezioni: “C’è bisogno di un’inversione di rotta fondamentale,
non solo di un cambio di governo”. Tuttavia, considerando i Verdi come
eventuali partner di coalizione, ciò non è possibile nel loro stato attuale,
per questo il Primo ministro bavarese ribadisce che “a un tale scenario
politico porrebbe il suo veto”.
L’appoggio di
questa posizione proviene dal partito alleato CDU, il cui Segretario generale
Carsten Linnemann ha ora respinto una possibile coalizione del suo partito con
i Verdi, mettendo in guardia dal fatto che tale alleanza potrebbe rafforzare le
frange politiche. Con i Verdi, il cambiamento di politica auspicato dalla CDU
non sarebbe possibile, “perché rappresentano un ‘si continui così’ su temi
centrali quali politica migratoria, economia e Stato sociale”.
Elezioni
regionali: pronte le prime coalizioni
È pronta la prima coalizione
tra CDU, SPD e il partito populista di sinistra BSW in Germania. Dopo la CDU e
la Bündnis Sahra Wagenknecht (Alleanza Sahra Wagenknecht, dal nome della sua
fondatrice, acronimo BSW), ora anche l’SPD ha spianato la strada. In un
sondaggio tra i membri, la maggioranza dei Socialdemocratici ha votato a favore
dell’accordo di coalizione. In Turingia, il leader della CDU Mario Voigt è
stato eletto nuovo governatore. Dopo dieci anni di opposizione in Turingia, la
CDU sarebbe di nuovo alla guida di un governo regionale.
La controversa
coalizione ottiene 44 seggi nel Landtag, non sufficiente per la maggioranza, in
quanto dipendente da una collaborazione con il partito della Sinistra. L’AfD
aveva vinto le elezioni regionali di settembre con il 32,8% dei voti, ma tutti
gli altri partiti avevano tassativamente escluso un’alleanza con il partito. La
CDU era arrivata al secondo posto con il 23,6% delle preferenze, davanti a BSW
con il 15,8% e all’SPD con il 6,1%. La Sinistra (die Linke), che finora con
Bodo Ramelow come Primo ministro aveva governato la Turingia, ha ottenuto solo
il 13,1% dei voti. FDP e Verdi non hanno superato la soglia di sbarramento del
5%.
La nuova alleanza
di governo è stata stabilita anche nel Land del Brandeburgo: tuttavia, una
coalizione a due tra l’SPD precedentemente al governo e il partito BSW, appena
entrato nel parlamento del Land, basta solo a garantire una maggioranza
risicata. Nel Land Sassonia, invece, si profila un governo di minoranza tra la
CDU, che ha vinto le elezioni, e l’SPD, che comunque dovrà trovare le proprie
maggioranze per i progetti di legge.
Immigrazione: i
tedeschi rimangono cosmopoliti
L’atteggiamento
dei tedeschi, nonostante i successi elettorali dell’estrema destra dell’AfD,
rimane prevalentemente positivo. È quanto emerge dal cosiddetto “Barometro
dell’integrazione 2024”, del Consiglio di Stato degli esperti in materia di
integrazione e migrazione. La disponibilità a concedere protezione alle persone
vittime di persecuzione politica o di guerre continua a essere elevata,
scrivono gli autori. Secondo l’indagine, circa due terzi delle persone in
Germania ritengono che la presenza di rifugiati accolti abbia un effetto
positivo a lungo termine sulla vita economica e culturale. Nel settore del
lavoro e delle relazioni sociali, secondo il barometro, le persone guardano
positivamente all’integrazione.
I tedeschi,
invece, sono più scettici rispetto a due anni fa in materia di vicinato e nei
riguardi dell’istruzione. Uno dei motivi potrebbe essere un aumento dello
scetticismo sulla capacità di integrazione offerta dal sistema educativo,
spiegano gli esperti nel loro rapporto, mettendo in guardia in questo contesto
dalla segregazione scolastica e dalle “classi di stranieri”.
Luoghi in
Germania: Wuppertal
Wuppertal, nel
Land della Renania Settentrionale-Vestfalia, 350.000 abitanti, è conosciuta
per un capolavoro di ingegneria: la Schwebebahn, ferrovia sospesa, che
attraversa il centro della città per gran parte proprio sopra il corso del
fiume Wupper, che dà il nome alla città collinare.
Ora Wuppertal fa
parlare di sé per lo spettacolare tentativo di ricattare la famiglia dell’ex
campione del mondo di Formula 1 Michael Schumacher, oggetto di discussione in
tribunale da martedì scorso. L’imputato principale avrebbe chiesto 15 milioni
di euro alla famiglia Schumacher, in caso contrario avrebbe messo sul darkweb
le foto e i video privati della famiglia. A seguito di un grave trauma cranico
occorso in un incidente sugli sci alla fine del 2013, la famiglia protegge
costantemente Michael Schumacher: in giro non si trovano praticamente foto
private o video della famiglia Schumacher, tantomeno del pluricampione del
mondo. Nel frattempo, gli imputati hanno confessato e si sono scusati con la
famiglia.
Visita del
Cancelliere a Kiev: Scholz in campagna elettorale
A distanza di due
anni e mezzo, il Cancelliere Scholz ritorna in visita a Kiev e promette
all’Ucraina una fornitura continua di armi contro la Russia. Entro la fine
dell’anno saranno messi a disposizione ulteriori armamenti per un valore di 650
milioni di euro da fondi già impegnati, tra cui carri armati, missili, droni e
sistemi antiaerei. A metà novembre il Cancelliere Scholz era stato criticato a
Kiev e nell’UE per la sua telefonata, dopo quasi due anni, con Vladimir Putin.
Dopo gli Stati
Uniti, la Germania è considerata il principale fornitore di armi dell’Ucraina
nella lotta difensiva contro la Russia. Secondo i dati del governo tedesco,
dall’invasione russa del 24 febbraio 2022 all’Ucraina sono state consegnate o
promesse armi e attrezzature militari tedesche per un valore di circa 28
miliardi di euro, in cui vanno aggiunti i 650 milioni di euro per le forniture
previste entro la fine dell’anno. A una prima considerazione sembrano numeri
impressionanti, ma molti di questi, come sottolineano gli esperti militari,
sono solo “promesse” o “vecchie promesse”.
Il Presidente
Volodymyr Zelenskyj, durante la visita del Cancelliere, ha a sua volta
sollecitato la fornitura di ulteriori sistemi di difesa aerea. “Stiamo cercando
protezione per dozzine di oggetti speciali. La protezione finora disponibile
non è sufficiente a causa dei massicci attacchi missilistici russi”, ha
dichiarato durante la conferenza stampa congiunta. Ma il Cancelliere Scholz
continua a non voler fornire i missili Taurus di produzione tedesca richiesti
dall’Ucraina, considerati particolarmente efficienti.
Forniture di armi:
il governo inganna l’opinione pubblica?
Il Cancelliere sta
ingannando i cittadini tedeschi sulla fornitura di armi? Questa è la domanda
dei Verdi, che dal crollo della coalizione semaforo hanno formato un governo di
minoranza con l’SPD. Da loro sono arrivate critiche pesanti alle cifre citate dal
Cancelliere Scholz, che prevedevano ulteriori forniture di armamenti per un
valore di 650 milioni di euro. “Questo pacchetto è la parziale attuazione del
sostegno promesso dal Cancelliere a Zelenskyj in occasione della sua visita a
Berlino dell’ottobre scorso. Il Cancelliere ne esce quindi a mani vuote”, ha
spiegato il leader dei Verdi nella commissione per il bilancio del Parlamento,
Sebastian Schäfer, accusando il Cancelliere di “menzogna” mirata. Il
Vicecancelliere Robert Habeck dei Verdi ha rincarato la dose: per lui è giusto
avere sì prudenza, “ma non ci si può gettare ai piedi di Putin”.
L’esperto di
politica estera della CDU Roderich Kiesewetter ha criticato il viaggio del
Cancelliere in Ucraina. “Il Cancelliere Scholz fa campagna elettorale sulle
spalle del popolo ucraino e allo stesso tempo si mette al servizio delle
narrazioni che suscitano paura di matrice russa”. Con il suo viaggio all’ultimo
minuto in Ucraina, il Cancelliere Scholz ha cercato di “contrastare le
crescenti critiche in Germania alla sua irresponsabile campagna elettorale”.
Kiesewetter ha ricordato che “l’Ucraina continua a spingere per un ingresso
immediato nella Nato, per armi a lungo raggio e l’approvazione per compiere
attacchi contro obiettivi militari in Russia”.
Elezioni: CDU e
Verdi si avvicinano
Il candidato alla
Cancelleria e leader dell’opposizione Friedrich Merz (CDU) ha accusato l’SPD di
giocare con le paure della popolazione in campagna elettorale. “Ogni volta che
le cose si mettono male per l’SPD, si materializza lo spettro della guerra”, ha
scritto il leader della CDU nella sua newsletter. Nelle campagne elettorali,
l’SPD “non ha mai mostrato scrupoli a giocare con le paure radicate nel
profondo della popolazione tedesca”. Il Cancelliere Olaf Scholz si atteggerebbe
ad assennato “Cancelliere della pace” dalla moralità di ferro, tacciando tutti
gli altri di non averne, questa l’accusa mossa da Merz al suo concorrente,
convinto che con questa retorica “i Socialdemocratici vogliono distrarre dagli
altri problemi del Paese”. Il Cancelliere Scholz aveva precedentemente accusato
Merz di aver scelto una linea rischiosa nella politica ucraina. In una
conferenza di partito, il candidato di punta dell’SPD ha messo in guardia dal
dare alla Russia un ultimatum in vista di possibili consegne di missili cruise
Taurus: “Posso solo suggerire prudenza: con la sicurezza della Germania non si
gioca alla roulette russa”. Per le questioni di guerra e pace serve
mantenere una mente fredda, lui stesso rimane “fermo e lucido”, su questo “i
cittadini possono fare affidamento”.
Nel dibattito la
nuova leader del partito dei Verdi Franziska Brantner ha risposto di
considerare il leader della CDU Merz un partner migliore del Cancelliere Scholz
per la politica ucraina. “Pace, libertà in Europa e chiaro sostegno al fianco
degli ucraini”, con Friedrich Merz funziona ancora meglio. “A dirla tutta”,
prosegue la leader dei Verdi, “anche il Cancelliere Scholz era al fianco
dell’Ucraina. Tuttavia, a causa di una discussione interna al partito sulla
giusta linea da seguire, la posizione in merito del partito su questa questione
rimane ancora incerta”, questa la riflessione di Brantner. Il leader dei
democristiani, Merz si è espresso in modo simile: “Nella politica estera e di
sicurezza ci sono sicuramente più somiglianze con i Verdi che con l’SPD. Per
quanto riguarda la politica economica dei Verdi, tuttavia, qui le divergenze
sono nette, quindi abbiamo bisogno di un cambiamento di rotta fondamentale “.
Anche la CDU non farà una campagna elettorale incentrata sulle coalizioni.
I liberali lottano
per la sopravvivenza politica
Da quando hanno
lasciato la coalizione semaforo, i Liberali dell’FDP sono sottoposti a forti
tensioni. Ora che il Segretario generale si è dimesso, l’ex ministro della
Giustizia Marco Buschmann assumerà il delicato compito di responsabile della
campagna elettorale, con l’obiettivo di riportare l’FDP all’offensiva: “Il
partito liberale deve ora dimostrare di avere le migliori risposte per
rimettere in moto l’economia e proteggere la libertà di ogni singola persona
dalla burocrazia e dalla prevaricazione statale. Questo è il nostro compito
ora”.
L’ex Segretario
generale dell’FDP Bijan Djir-Sarai si è dimesso pochi giorni fa come
conseguenza della divulgazione di un controverso piano segreto dei Liberali per
l’uscita dalla coalizione semaforo. Il cosiddetto documento “D-Day” dell’FDP
conteneva un piano dettagliato per l’uscita dell’FDP dalla coalizione di
governo semaforo con SPD e Verdi, descrivendo il possibile abbandono dell’FDP
della coalizione con termini militari come “D-Day” e “battaglia a campo
aperto”.
Il leader del
partito Christian Lindner ha quindi difeso il documento di lavoro della
centrale di partito, assicurando che questo non era mai stato discusso all’interno
degli organi politici e di non esserne personalmente a conoscenza. Ciò che
desta scalpore nel testo è il fatto che i vertici del partito avevano
assicurato ai media e all’opinione pubblica fino all’ultimo di voler mantenere
la posizione nella coalizione, mentre internamente pianificavano da tempo la
loro uscita. L’ex ministro delle Finanze Lindner ha visto quindi crollare la
sua credibilità. Al momento, l’FDP è fermo al 3-4% nei sondaggi – e quindi non
poco lontano dalla soglia di sbarramento critica del 5% per l’ingresso nel
Bundestag, e lontanissimo dall’11,5% conseguito alle elezioni federali del
2021.
Vendite di Natale:
ottimismo per il commercio al dettaglio
All’inizio del
periodo natalizio l’umore dei rivenditori al dettaglio tedeschi è migliorato
come emerge dal rinomato Istituto di ricerca economica di Monaco di Baviera
(IFO). Gli esperti affermano che, sebbene le aspettative delle attività
economiche rimangano su livelli bassi anche per i prossimi mesi, emerge un
trend positivo. “Le condizioni quadro sono comunque difficili”, scrivono nel
loro rapporto. L’associazione tedesca dei commercianti (HDE) prevede un
fatturato di 121,4 miliardi di euro per novembre e dicembre.
Si tratta di un
aumento dell’1,3% rispetto agli stessi mesi dell’anno precedente. Tuttavia,
dopo le battaglie a colpi di sconti per il nuovo anno, i consumatori devono
prepararsi a un ulteriore aumento dei costi, in quanto nei prossimi mesi i
commercianti prevedono aumenti dei prezzi: “Soprattutto nel settore alimentare
e dell’arredamento, i consumatori pagheranno di più alla cassa per lo stesso
prodotto”, secondo l’Istituto IFO.
Luoghi in
Germania: isola di Borkum
Sull’isola di
Borkum (Isole Frisoni orientali, appartenenti alla Bassa Sassonia), un rifugio
estivo nel Mare del Nord, circa 200 donne hanno manifestato per il mantenimento
della controversa usanza di Natale “Klaasohm”. Il casus belli è stato un
servizio televisivo sulla tradizione che ha suscitato indignazione in tutta la
Germania. Il team televisivo ha filmato come le donne prese dai “cacciatori”
durante la festa in strada, sono state percosse sui glutei con un corno di
mucca – rispettando la tradizione.
In seguito alle
pesanti critiche, gli organizzatori hanno annunciato di voler abolire l’usanza.
“Come comunità, abbiamo chiaramente deciso di lasciarci alle spalle questo
aspetto della tradizione e di continuare a concentrarci su ciò che caratterizza
davvero la festa: la coesione degli isolani”, ha dichiarato l’associazione
“Borkumer Jungens”. A quanto pare non avevano fatto i conti con le isolane, che
vogliono continuare a mantenere la tradizione e non vogliono riconoscervi
alcuno scandalo. Kas 5 e 12
Il 2024 della Camera di Commercio Italiana in Germania
Francoforte. Il
2024 di ITKAM si chiude con grande successo, arricchito da un calendario di
iniziative dedicate al nostro network italo-tedesco, che hanno rafforzato i
rapporti tra Italia e Germania, creando nuove opportunità di business per le
aziende dei due paesi.
La sostenibilità è
stata il tema cardine del nostro 2024. Abbiamo infatti organizzato due
German-Italian Energy Forum (GIEF) e un German-Italian Innovation Talk
dedicati al tema dell’idrogeno verde. I due appuntamenti del GIEF2024 hanno
registrato complessivamente una partecipazione di circa 250 ospiti e 30
speaker, mentre al German-Italian Innovation Talk, realizzato in collaborazione
con Deutsche Messe AG presso Hannover Messe, hanno partecipato circa 120
ospiti e 7 relatori per un totale di 5 interventi. Le tre iniziative hanno
creato il contesto ideale per avviare discussioni e partnership strategiche
nell’industria energetica tra Italia e Germania.
Dopo due anni
siamo stati felici di tornare ad organizzare la nostra Assemblea Generale dei
Soci in presenza. L’evento ha accolto 150 ospiti nella splendida cornice della
terrazza Skyline Studios di Radio Frankfurt e una keynote d’eccellenza
dell’economista italiano Carlo Cottarelli.
ITKAM è stata
attiva anche su tanti altri settori organizzando nel corso dell’anno 10
workshop tematici, 5 viaggi di delegazione, 3 fam trip del turismo e 7
fiere di settore, che hanno coinvolto complessivamente 800 partecipanti e 50
espositori.
Motivati da questi
successi, non vediamo l’ora di ripartire! In attesa di rivederci a partire da
gennaio auguriamo a tutti i nostri lettori Buon Natale e un Felice Anno Nuovo!
Itkam 12
Gli italiani in Germania e la doppia cittadinanza
Doppia cittadinanza
per gli italiani in Germania. Lo studio di Edith Pichler nel RIM (Rapporto
Italiani nel Mondo)
Quanti italiani
hanno la doppia cittadinanza? Hanno interesse ad averla? E come è cambiata
l’idea di cittadinanza tedesca nel tempo? Ne parliamo con la sociologa delle
migrazioni, Edith Pichler.
Nel Rapporto
Italiani nel Mondo (vedi sotto) la terza parte è dedicata al tema della
cittadinanza, quindi all’acquisizione della doppia cittadinanza e della
cittadinanza italiana da parte di discendenti di emigrati italiani, per esempio
in America Latina. Di come è la situazione in Germania ce ne parla Edith
Pichler, (Centre for Citizenship, Social Pluralismo and Religious Diversity –
Universität Potsdam) che per il RIM 2024 ha scritto il saggio Concetto
“etno-nazionalistico” di cittadinanza plurale per un Paese di immigrazione.
Edith Pichler,
facciamo una premessa. Dall’idea “romantica di nazione”, come scrive nel tuo
saggio, (che poi ha avuto la sua aberrante degenerazione nel
nazionalsocialismo), in base alla quale tedeschi non si può diventare, che
sviluppo c’è stato nella legislazione tedesca?
Tedesco è
“chiunque abbia la cittadinanza tedesca”. Questa può essere acquisita sia per
nascita che per naturalizzazione. È quanto dice l’articolo 1 della Legge sulla
cittadinanza tedesca (StAG) entrata in vigore nel 2024. Lo sviluppo del diritto
tedesco in materia di naturalizzazione e cittadinanza nella storia recente può
essere analizzato in tre fasi: il periodo dal 1913 al 1999, il periodo seguente
fino alla nuova legge del 2024.
Quanti sono gli
italiani che hanno acquisito la cittadinanza tedesca e quanti la richiedono
ogni anno?
Secondo i dati
dell’Ufficio di Statistica Tedesco nel 2023 i cittadini italiani con doppia
cittadinanza erano 180.000. Di questi fanno parte i nati in Germania che
ricevono automaticamente la cittadinanza tedesca se uno dei genitori vive da
almeno otto anni con permesso di soggiorno (con la nuova legge ne bastano
cinque) nel Paese. Sempre nel 2023 il 98,8% degli italiani che hanno
ottenuto la cittadinanza tedesca ha mantenuto quella di origine. Questi dati
sulla naturalizzazione in Germania dimostrano però che, nonostante sia
possibile dal 2002 acquisire la doppia cittadinanza, il numero di cittadini
italiani che ne fanno richiesta non è molto elevato. E questo, nonostante i
Comites, Intercomites ed altre istituzioni del mondo associativo italiano,
abbiano promosso negli ultimi decenni attraverso diverse campagne di
sensibilizzazione, la naturalizzazione e la possibilità di ottenere la doppia
cittadinanza.
Il numero degli
italiani resta esiguo anche in relazione ad altri gruppi di cittadini
naturalizzati, per esempio i turchi?
In questo contesto
è interessante osservare le diverse pratiche di naturalizzazione fra gli
immigrati discendenti dalla generazione dei cosiddetti “Gastarbeiter”. Alcuni
di loro godono, come gli italiani, di privilegi dati da una certa forma di
“cittadinanza europea”, ovvero dall’essere cittadini di uno Stato membro
dell’Unione Europea. Gli immigrati di origine turca che, nel 2023 con quasi tre
milioni di cittadini oriundi, sono in Germania la comunità straniera più
numerosa, ebbene, fra loro, circa un milione e seicentomila ha la cittadinanza
tedesca.
Come si spiega
questo? La doppia cittadinanza è forse poco attraente per gli italiani?
A differenza dei
turchi gli italiani nel contesto europeo godono di privilegi e di una
condizione che non incentiva la naturalizzazione.
E il diritto al
voto politico che peso ha? La cittadinanza dà diritto di voto e fra pochi mesi
ci saranno le elezioni politiche anticipate in Germania. C’è poco interesse a
votare, fra i connazionali in Germania?
Dipende se si ha
una coscienza civile politica, portata anche dall’Italia e se si è partecipi e
consapevoli dei propri diritti di cittadini per contribuire e dare voce a chi
sta qui, indipendentemente dall’essere emigrati prima o seconda o terza
generazione, che siano i cosiddetti “Gastarbeiter” o siano, secondo la legenda
quotidiana i “cervelli in fuga” ed Expat. Tutti in fondo si rivolgono ai
diversi patronati italiani presenti sul territorio tedesco per via della loro
situazione lavorativa. Per fortuna abbiamo queste rappresentanze.
Ci sono differenze
fra italiani di prima generazione, seconda… e i nuovi italiani in Germania in
rapporto alla richiesta di doppia cittadinanza?
E sì perché la
richiesta di naturalizzazione viene fatta dopo quasi più di 20 anni di
permanenza in Germania, dopo 28 anni dagli italiani e dopo 23 dai turchi.
Infatti questa generazione di “Gastarbeiter” era orientata al rientro a un
ritorno a “casa”, ma le famiglie rimangono in Germania. Dopo anni di permanenza
si decide di “stare qui”.
Si può pensare
alla doppia cittadinanza per noi italiani in Germania come a un passaggio che
vorrebbe compiersi in una cittadinanza europea?
Nel passato
migrare era inteso, secondo il “modello del container”, come passaggio da un
container-nazionale in un altro. Le nuove forme di mobilità e di soggiorno,
così come i migranti con un habitus transnazionale, fanno sì che le pareti dei
container-nazionali diventino sempre più porose e ci siano forme di
deternazionalizzazione dei confini e di identità, cioè una sovrapposizione in
contesto europeo di idee culture, usi e costumi, diventata quotidianità. E
questa sovrapposizione dovrebbe dare senso e identità, legati al passato; essa
ha costruito l’oggi e quello che siamo: i giovani che si muovono ora. La
mobilità in Europa si dovrebbe trasformare da una migrazione in seguito ad
accordi bilaterali sul reclutamento di forza lavoro e a spostamenti in seguito
ai ricongiungimenti familiari, a nuove forme di movimento promosse dai processi
di integrazione europea. La nostra generazione ha pensato a fare pace, forse
anche attraverso la “guerra fredda”, pensiamo a De Gasperi, Schuman, Adenauer
etc. erano uomini, e anche donne come Simone Veil, che hanno costruito l’Europa
e contribuito alla nostra identità Europea. Speriamo che le generazioni future
portino avanti il disegno europeo di pace e prosperità. Paola Colombo, CdI dic
Berlino –
“Costruire l’inclusione scolastica: difficoltà, vantaggi e azioni concrete”: è
il titolo del seminario organizzato da Comites di Berlino e Artemisia e.V.
in collaborazione con la Herman-Nohl-Schule. L’incontro, aperto a tutti e
rivolto in particolare a genitori, insegnanti ed educatori, si terrà
alla Herman-Nohl-Schule di Berlino il prossimo 24 gennaio dalle ore 14
alle ore 16.30. “Costruire un sistema inclusivo è – si legge sul sito del
Comites – una sfida sempre più complessa, in cui i valori personali e le
difficoltà di implementazione si intrecciano dando spazio a posizioni più
scettiche. A questa sfida, però, le scuole non possono più sottrarsi e sono
chiamate a rispondervi. Infatti, le molteplici differenze in classe e
l’eterogeneità degli alunni e delle alunne, richiedono un sistema inclusivo a
tutto tondo, non solo nei confronti delle persone con disabilità. Il seminario
affronterà l’inclusione scolastica su tre piani, sempre supportati da evidenze
scientifiche: il primo, analizzerà le difficoltà di implementazione; il
secondo, metterà in risalto i vantaggi di un sistema inclusivo; il terzo,
offrirà spunti pratici e operativi per come realizzare concretamente una scuola
inclusiva”. Relatori saranno Dario Ianes e Benedetta Zagni. Introdurrà Amelia
Massetti, Vicepresidente Comites Berlino e Presidente Artemisia. Porterà il
saluto Federico Quadrelli, Presidente Comites Berlino. Modererà Alice
Marchetto, Vicepresidente Artemisia e.V. L’incontro si svolgerà in italiano e
in tedesco Dario Ianes, già docente ordinario di pedagogia e
didattica dell’inclusione presso la Libera Università di Bolzano, Corso di
Laurea in Scienze della formazione primaria. È co-fondatore e anima culturale
del Centro Studi Erickson, per il quale cura numerose collane. Autore di vari
articoli e libri e direttore della rivista Dida. Benedetta Zagni, psicologa
dello sviluppo e dell’educazione. Formatrice e dottoranda in Psychological
Sciences (Università di Padova | Centro Studi Erickson). Autrice di articoli
scientifici e libri per la scuola. Si occupa di benessere emotivo a scuola, di
apprendimento cooperativo, di riconoscimento e valorizzazione delle differenze
in classe. (Inform/dip 8)
ROMA – La
Commissione europea ha pubblicato l’invito a presentare proposte del Corpo
europeo di solidarietà per il 2025, che sostiene la partecipazione dei giovani
alle attività di volontariato nelle comunità di tutta l’UE e oltre. Il bilancio
di 166 milioni di euro stanziato per il 2025 rappresenta un aumento
significativo rispetto agli anni precedenti, a causa del recupero di fondi
dagli anni della COVID-19, quando molte attività di volontariato non hanno
potuto svolgersi. L’invito del 2025 sosterrà nuovamente progetti e attività di
volontariato che promuovono la sostenibilità ambientale, le competenze e
l’alfabetizzazione digitali, l’inclusione e la diversità, la cittadinanza
attiva e molto altro ancora. Azioni mirate continueranno a sostenere le persone
in fuga dalla guerra di aggressione della Russia nei confronti dell’Ucraina. I
partecipanti possono inoltre prendere parte a un’ampia gamma di attività di
solidarietà stimolanti incentrate su ambiti prioritari quali l’inclusione
sociale, la transizione verde e digitale, la partecipazione democratica e le
questioni relative alla salute. Parallelamente a questo invito, la Commissione
ha pubblicato la relazione sul corpo europeo di solidarietà 2021-2023, che
presenta i risultati che il programma ha ottenuto in questi anni e il modo in
cui ha contribuito a promuovere la solidarietà in tutto il mondo. Nel periodo
2021-2023 il programma ha offerto a oltre 66.000 giovani la possibilità di far
fronte a sfide sociali e umanitarie. La relazione racconta storie potenti e
stimolanti provenienti da tutta Europa su come i giovani e le organizzazioni
hanno risposto a disastri climatici e naturali e hanno sostenuto gli ucraini in
fuga dalla guerra di aggressione della Russia. La relazione funge anche da
invito ad agire affinché un maggior numero di giovani partecipi agli sforzi di
solidarietà. Il Corpo è aperto ai giovani di età compresa tra i 18 e i 30 anni,
esteso a quelli tra i 18 e i 35 anni per attività di aiuto umanitario al di
fuori dell’UE. I giovani interessati devono registrarsi sul portale del Corpo
europeo di solidarietà, dove possono trovare le organizzazioni partecipanti.
Anche i gruppi di giovani registrati sul portale possono presentare domanda di
finanziamento per i loro progetti di solidarietà. (Inform/dip 2)
Il “Decreto flussi” è legge. Mons. Perego: “Un passo indietro della nostra democrazia”
Il cosiddetto
“decreto flussi” è stato approvato oggi dal Senato e, dopo aver già passato
l’esame della Camera lo scorso 27 novembre, diventa così definitivo.
Come riporta
l’agenzia Ansa, tra le novità del testo – che, ricordiamo, nasce per
regolamentare solo le modalità di ingresso in Italia per motivi di lavoro – c’è
un nuovo elenco dei Paesi considerati “sicuri” come Bangladesh, Egitto e
Marocco; la secretazione dei contratti pubblici relativi a fornitura di mezzi e
materiali per il controllo delle frontiere e delle attività di soccorso in
mare; la competenza delle Corti d’Appello e non più dei Tribunali
specializzati, per quanto riguarda la convalida del trattenimento dei
richiedenti asilo.
Sulla questione
dei cosiddetti “Paesi sicuri” – in particolare tale status è dubbio per
Bangladesh ed Egitto, alla luce della normativa europea -, la Corte di
Cassazione ha proprio oggi chiesto di sospendere il giudizio in merito ai
ricorsi presentati del governo contro le prime mancate convalide del
trattenimento di migranti emesse dalla sezione immigrazione del tribunale di
Roma il 18 ottobre scorso, in attesa che si pronunci la Corte di Giustizia
dell’Unione europea.
A proposito del
trasferimento di competenza sui provvedimenti di convalida del trattenimento
dei richiedenti asilo, introdotto con un emendamento ad hoc nel decreto per
ovviare alle criticità emerse con i Cpr in Albania, va registrato il parere
negativo espresso dal plenum del Consiglio superiore della magistratura. Il Csm
è preoccupato infatti per l’allungamento dei tempi nelle corti d’Appello – e
dunque il mancato raggiungimento degli obiettivi fissati dal Pnrr -, e per il
rischio che a giudicare siano magistrati privi delle competenze necessarie. Il
parere andrà al ministro della Giustizia Carlo Nordio, ma non è vincolante.
Sulle norme del
decreto che riguardano i salvataggi in mare, è arrivato un commento molto
preoccupato da parte delle organizzazioni civili impegnate in attività di
ricerca e soccorso (SAR) nel Mediterraneo centrale, che esamina nel dettaglio
le implicazioni delle nuove norme: “Il vero obiettivo del provvedimento non è
la gestione dei soccorsi in mare, ma limitare e ostacolare la presenza delle
navi umanitarie e arrivare a un piano di definitivo abbandono del Mediterraneo
e di criminalizzazione del soccorso in mare”.
Ricordiamo anche
che la Fondazione Migrantes era stata ascoltata lo scorso 24 ottobre dalla
Commissione Affari Costituzionali della Camera proprio in merito al cosiddetto
“decreto flussi”, offrendo una serie di rilievi e proposte. La constatazione di
fondo, al di là dell’estensione delle quote, è che il decreto flussi come unica
modalità di ingresso legale dei lavoratori stranieri in Italia non soddisfa la
domanda di manodopera di industriali, agricoltori, artigiani, operatori del
turismo e famiglie. E neppure l’urgenza di regolarizzare decine di migliaia di
lavoratori già presenti sul territorio italiano (se ne stimano oltre 500.000) e
di non crearne altri.
Continua la prassi
di inserire nel decreto flussi norme che riguardano altri temi. ”Una legge – ha
commentato S.E. mons. Perego, arcivescovo di Ferrara-Comacchio e presidente
della Fondazione Migrantes e del CEMI – che segnala la volontà di non tutelare,
ma di respingere i richiedenti asilo: un grave passo indietro della nostra
democrazia”. Migr.on. 5
Gli emendamenti del PD alla legge di bilancio 2025 per gli italiani all’estero
ROMA – Sono stati
presentati alla Camera dei Deputati gli emendamenti del Pd alla legge bilancio
2025 in favore degli italiani residenti all’estero: la capogruppo del Pd alla
Camera Chiara Braga ha tenuto una conferenza stampa con i deputati del Partito democratico,
eletti nella Circoscrizione Estero: Nicola Carè, Cristian Di Sanzo, Fabio Porta
e Toni Ricciardi. Per impegni in Senato non hanno potuto prendere parte
all’incontro i senatori del Pd eletti nella circoscrizione Estero. Ha
presenziato all’incontro anche Luciano Vecchi, responsabile del Dipartimento
italiani nel mondo del Pd. Nel suo intervento Chiara Braga ha spiegato che per
il Pd “gli italiani che vivono stabilmente all’estero e mantengono le loro
radici sono una parte fondamentale della comunità italiana” e che quindi “serve
un salto di qualità nelle politiche che li riguardano per garantire loro
servizi e opportunità, considerandoli protagonisti della proiezione del nostro
Paese nel mondo. Questo sostegno – ha aggiunto Braga – deve esplicarsi in tutti
i settori da quello economico a quello sociale passando per il riconoscimento
dei diritti fino a quello culturale”. Per la deputata si tratta di appoggiare
la comunità italiana all’estero che , per numeri, è considerabile come un’altra
grande regione italiana fuori dall’Italia. Per quanto riguarda la manovra la
deputata, dopo aver criticato la scelta del governo di negare l’indicizzazione
delle pensioni all’estero – un aspetto su cui è stato prestato un emendamento
–, ha parlato della presentazione di misure di modifica in manovra volte a
sostenere le strutture che si occupano degli italiani all’estero come le
Ambasciate, la rete consolare, le Camere di Commercio e gli organismi che
forniscono servizi e garantisco l’esercizio dei diritti agli italiani
all’estero. Ha poi preso la parola Luciano Vecchi che ha sottolineato come il
Pd sia sempre coerente negli impegni realistici e concreti anche verso le
comunità italiane all’estero. “La nostra attenzione verso i milioni di italiani
che vivono all’estero è dovuta a una convinzione: nessun cittadino può essere
privato dei diritti di cittadinanza e dell’avere un ruolo di protagonista per
il Paese”, ha spiegato Vecchi ricordando che il Pd è ben radicato nelle diverse
ripartizioni della Circoscrizione Estero. Vecchi ha poi rilevato come, a fronte
di un aumento costante degli italiani che si recano all’estero, non via sia un
accrescimento delle risorse a loro destinate. Vecchi ha anche sottolineato
l’importanza per chi emigra del fatto di poter avere un adeguato accesso alla
pubblica amministrazione e ai documenti che possono servire soprattutto nei
primi tempi di vita all’estero. “Vediamo negativamente il fatto che non si
considerino milioni di italiani che rappresentano la ventunesima regione
italiana come attori potenziali dello sviluppo dell’Italia stessa. Abbiamo nel
mondo risorse umane straordinarie a cui non viene data risposta”, ha aggiunto
Vecchi. Dal canto suo il deputato del Pd Toni Ricciardi (Ripartizione Europa)
ha in primo luogo criticato il blocco, presente in manovra, della rivalutazione
delle pensioni degli italiani all’estero, che inciderà sui prossimi anni, per
un totale di 8 milioni di euro. Una questione che verrà discussa in Commissione
Bilancio sulla base dell’emendamento presentato dal Pd. Ricciardi ha poi
segnalato fra gli emendamenti, anche quello volto ad applicare in Italia una
norma, già esistente in Spagna, che prevede, dal compimento del 70° anno di età
del cittadino in Italia e all’estero, che il passaporto si rinnovi una tantum: questo,
secondo Ricciardi, produrrebbe uno smaltimento di circa il 35% della pressione
sulle sedi consolari e sulle questure. Una misura che per il deputato potrebbe
generare anche un considerevole introito. “In Spagna funziona benissimo e credo
che ci siano le condizioni per farlo anche qui”, ha aggiunto Ricciardi. Fra gli
emendamenti segnalati dal deputato anche quelli sull’accesso alla
disoccupazione per i rimpatriati e sull’ampliamento dello smart working per i
frontalieri. “Abbiamo una delle pochissime costituzioni al mondo che sancisce
la libertà di poter emigrare. Abbiamo una costituzione che sottolinea
l’importanza delle comunità all’estero”, ha concluso Ricciardi ricordando che
ci sono consolati in Europa che arrivano ad avere fino a 500 unità al mese di
nuovi iscritti Aire, fra cui con tanti nuovi nati. Anche il deputato del Pd
Fabio Porta (Ripartizione America Meridionale) si è soffermato, parlando di
manovra “deludente”, sugli aspetti della legge di bilancio riguardanti gli
italiani all’estero, come ad esempio il già citato lo stop alla perequazione
delle pensioni e alle indennità di disoccupazione, tolte a chi è residente
all’estero. Il deputato è poi passato alla questione dei servizi consolari.
“Questi servizi di prossimità all’estero – ha rilevato Porta- che sono poi
quelli che in Italia rappresentano i servizi comunali, con questa manovra di
bilancio vengono tagliati nei prossimi tre anni di oltre 20 milioni”. In
proposito il deputato ha anche ricordato come grazie alla legge, a prima
firma Ricciardi, sia stato istituito un primo fondo di quattro milioni per il
miglioramento dei servizi consolari. Porta ha concluso la sua riflessione
sottolineando come il Partito Democratico stia lavorando concretamente per
colmare le lacune delle politiche per gli italiani all’estero. Ha poi preso
Nicola Carè (Pd- Ripartizione Africa, Asia, Oceania e Antartide) che, dopo aver
evidenziato l’importante contributo economico dato dagli italiani all’estero e
dagli 80 milioni di oriundi all’export italiano, ha rilevato l’impegno del
Partito Democratico in favore degli italiani all’estero, nonché della
promozione della lingua e cultura italiana all’estero, dei Comites e del Cgie.
“Il problema vero – ha continuato il deputato – è che l’Italia stessa e
gli italiani non riconoscono il fatto che i connazionali all’estero
rappresentino effettivamente una grandissima risorsa per l’Italia”. Per quanto
concerne la manovra Carè ha poi sottolineato la necessità di investire sulla
promozione della lingua e della cultura italiana nel mondo e sul sostegno alle
Camere di Commercio italiane all’estero anche per favorire la crescita del
nostro Paese attraverso la proiezione internazionale. Rilevata inoltre dal
deputato l’esigenza di investire per migliorare, evitando le attese, i servizi
consolari per gli italiani all’estero. “In Manovra – ha concluso Carè – noi
stiamo portando avanti dei temi specifici, non soltanto in quanto
rappresentanti degli italiani all’estero, ma perché crediamo nell’Italia, e per
questo motivo dobbiamo assolutamente essere coerenti con quello che si
aspettano all’estero, cioè fare una battaglia per far sì che gli italiani nel
mondo si sentano cittadini di serie A”. E’ infine intervenuto Cristian Di
Sanzo (Pd – America Settentrionale e Centrale) che, dopo aver evidenziato
l’impegno del Partito Democratico per gli italiani all’estero in tutti
continenti, ha ricordato i risultati raggiunti nella legge di bilancio 2022 in
primo luogo con l’emendamento Carè sulle risorse per Camere di Commercio.
Il deputato ha anche richiamato l’obiettivo raggiunto con l’approvazione
della legge a prima firma Ricciardi che istituisce un nuovo fondo di
quattro milioni di euro per i servizi consolari. Una priorità,
l’efficientamento dei servizi consolari, che viene riproposta negli emendamenti
all’attuale legge di bilancio, come ad esempio la proposta che permetterebbe,
dopo i settant’anni, di non rinnovare più il passaporto e che andrebbe a
diminuire il carico di lavoro da parte dei consolati. Per Di Sanzo rimane poi
centrale la promozione della lingua e della cultura italiana all’estero,
attraverso la semplificazione burocratica delle procedure per gli enti gestori.
Segnalato inoltre dal deputato l’emendamento alla manovra volto a
ripristinare le risorse , al livello di due anni fa, per il Cgie ed i Comites,
al fine di poter consentire a questi organismi di continuare a funzionale nella
pienezza del loro mandato. “Le battaglie che stiamo portando avanti come
Partito Democratico- ha infine ricordato Di Sanzo – si basano in primo luogo sull’ascolto
delle esigenze delle nostre comunità nei territori”. (Inform/dip 4)
La caduta di Assad e il vuoto di potere in Siria
La rovinosa e repentina
caduta del presidente Bashar al-Assad ad opera dei ribelli siriani capitanati
dal gruppo Hayat Tahrir al-Sham (HTS) è un evento di portata storica per il
Medioriente, destinato ad avere effetti ad ampio raggio sugli equilibri di
potere della regione. Equilibri che erano già stati profondamente scossi dalla
guerra tra Israele e Hezbollah, gli scontri armati tra Israele e Iran e i
ripetuti interventi dello Stato ebraico in Siria.
Indebolitosi
pesantemente l’asse sciita che, insieme al sostegno di Mosca, aveva garantito
la sopravvivenza del regime di Assad, i ribelli islamisti, che da tempo si
stavano riorganizzando, hanno trovato la via libera per la loro marcia
trionfale verso Damasco. Riusciranno ora a consolidare il loro potere? La
caduta della famiglia Assad dopo decenni di dominio autocratico, fondato su uno
spietato apparato repressivo, e una feroce guerra civile protrattasi per oltre
13 anni, lascia comunque un vuoto, ed è forte il dubbio che i nuovi padroni di
Damasco siano in grado di colmarlo. Creare nuove strutture di potere sarà molto
complicato. Paesi come il Qatar e soprattutto la Turchia, che hanno sostenuto
sin dall’inizio la rivolta, ma anche altri paesi arabi, che temono un effetto
contagio, sono ora interessati alla stabilizzazione del paese.
Ma il fronte
dell’insurrezione è molto frammentato: oltre a HTS, comprende una miriade di
altri gruppi, alcuni con radici solo locali, fra cui potrebbe aprirsi una
sanguinosa competizione per il potere. Una nuova guerra civile fra i vincitori
non si può escludere. Nell’intento di minimizzare le resistenze alla sua presa
del potere, il capo di HTS, Abu Mohammad al-Golani, che è rapidamente emerso
come il leader della rivolta, ha cercato di essere il più possibile
rassicurante: ha ripetuto che il suo gruppo ha da tempo rotto con i terroristi
di al Qaeda, ha promesso che rispetterà tutte le minoranze – fra cui è molto
diffuso il timore di nuove pulizie etniche, come quelle subite da Al Qaeda e
dall’Isis – e ha detto di non avere alcun interesse ad estendere la sua azione
al di là del confine siriano e di voler anzi cooperare con tutti i paesi della
regione. Dopo la conquista di Damasco vari voci del fronte anti-Assad hanno
anche prospettato un governo transitorio che apra la strada a elezioni o a un
referendum e a un nuovo assetto istituzionale.
Tutte queste
promesse e rassicurazioni verranno messe alla prova già nelle prossime
settimane. Il timore che vari gruppi terroristici possano sfruttare la
situazione per rialzare la testa è molto diffuso. Larghe parti della Siria
rimangono peraltro sotto il controllo di paesi o gruppi stranieri; ciascuno si
è ritagliato una fetta di territorio funzionale ai suoi interessi geopolitici e
non sembra intenzionato a cederla. Anzi, c’è il rischio che mirino ad
espanderla, come in parte sta accadendo, anche solo per fronteggiare i rischi
emergenti.
Nuove dinamiche
conflittuali potrebbero aggiungersi a quelle che hanno devastato il paese negli
ultimi anni. Una ricomposizione territoriale appare, al momento, uno scenario
assai remoto. Turchia e paesi arabi potrebbero adoperarsi, come si è detto, per
un processo di riconciliazione nazionale, ma prima deve emergere una leadership
credibile a Damasco. La Russia, che ha subito un duro colpo, presumibilmente
farà di tutto per mantenere le sue basi navali sulla costa mediterranea del
paese, anche se ora potrebbe piuttosto puntare, secondo alcuni osservatori, a
costruirne una nuova in Cirenaica, grazie ai buoni uffici del generale Haftar.
I paesi
occidentali hanno salutato con soddisfazione la caduta di Assad. La priorità,
hanno dichiarato all’unisono i leader europei è di garantire la sicurezza. Ma
resta da vedere se la diplomazia europea riuscirà a svolgere, a differenza che
in passato, un ruolo apprezzabile. Gli Usa hanno reso noto che manterranno la
loro presenza nella Siria orientale per contrastare l’Isis con l’aiuto delle
milizie curde. Ma che cosa poi farà Donald Trump, una volta alla Casa Bianca, è
incerto, né aiutano granchè a svelarlo i suoi commenti sugli sviluppi in Siria.
Vorrebbe disimpegnarsi il più possibile dal Medioriente – un sogno coltivato
anche dai suoi predecessori – ma tutto lascia pensare invece, anche alla luce
di quanto accaduto negli ultimi giorni, che il calcolo degli interessi in gioco
indurrà gli Usa ad avere un ruolo di rilievo anche in questa nuova crisi.
Ettore Greco, AffInt.9
Dal 1979 esiste un
Parlamento UE, eletto suffragio universale, che rappresenta oltre ottocento
milioni di cittadini dei Paesi che hanno aderito all’Unione. Esiste, inoltre,
una Corte i Giustizia e una Banca Europea (BCE). Insomma, l’UE rappresenta
un’imprescindibile realtà socio/politica non solo nel Vecchio Continente. Il
nostro Paese è stato uno dei primi a credere in una Federazione Europea. Da
Roma sono nate tutte quelle premesse che hanno portato all’attuale realtà. Che
l’idea sia stata buona è anche confermato dal fatto che altri Paesi d’Europa
intenderebbero farne parte.
L’Italia, però, ha
ancora da affrontare suoi problemi interni e internazionali. Certo è che ci
sono, tuttora, delle mete interiori da conquistare. Tuttavia essere europei è
importante. Sotto ogni profilo. Del resto, oltre tre milioni di cittadini
italiani vivono in altri Paesi UE e la loro integrazione si è realizzata in
termini ormai più che fisiologici. Quindi, italiani sì, ma anche cittadini
d’Europa. Senza preconcetti di sorta.
La nostra Comunità nel Vecchio Continente è,
ora, più numerosa di quella in essere nelle Americhe. Mostrarsi europei,
quindi, significa anche condividere una realtà ben più articolata di quella
vissuta sul territorio nazionale e nel resto del mondo. Mentre riteniamo che in
questo nuovo Millennio la società europea sarà ampiamente multi etnica,
potrebbe essere varata anche una Costituzione Europea e, dati i tempi, un
esercito comunitario. Il tutto “rafforzato” da una Costituzione Europea.
Pur se ci vorrà
ancora tempo per superare alcuni comportamenti tipicamente “nazionalisti”, non
verrà meno l’impegno per andare oltre. Superati i compromessi, il futuro che ci
attende favorirà anche il rilancio dello sviluppo socio/economico tra gli Stati
membri. L’Italia ne ha estremo bisogno. Perché essere “parte” di un “, tutto”
resta una garanzia che, oggi, non ci può trascurare. Insomma, essere cittadini
d’Europa è una garanzia imprescindibile.
Giorgio Brignola,
de.it.press
Alina Frolova: “A volte i Paesi occidentali sopravvalutano la forza della Russia”
Intervista con Alina
Frolova, Deputy Chair del Centre for Defence Strategies e ex Vice Ministro
della Difesa ucraino, realizzata durante l’evento Ukraine Resisting: How to
Achieve a Durable Peace? organizzato lo scorso 25 novembre dall’Istituto Affari
Internazionali. conversazione trasmessa da Radio Radicale, nella trasmissione
“Spazio Transnazionale”.
I russi hanno
reclutato militari coreani del nord e yemeniti, hanno aumentato decisamente i
bombardamenti sulla popolazione dell’Ucraina e hanno utilizzato un nuovo
missile Oreshnik. Che fase è questa della guerra russa contro l’Ucraina?
Tutto questo ci
dice che la Russia sta esaurendo le sue risorse. Non ha abbastanza soldati ed è
costretta a coinvolgere la Corea del Nord e altre nazioni. L’uso di questo
Oreshnik non ha alcun senso militare. È stata più che altro una dichiarazione
politica visto che in realtà avevano usato già più volte dei vettori nucleari
verso l’Ucraina come l’Iskandero qualcosa di simile. Credo che a volte i Paesi
occidentali sopravvalutino la forza della Russia. Ciò che dobbiamo cercare di
fare è di individuare le loro lacune per diminuire al massimo la loro capacità
di combattere.
Il Presidente
ucraino Zelensky continua a dirsi fiducioso che la guerra con la Russia possa
finire nel 2025, dichiarando che a gennaio avremo un piano e che vedrà anche
con interesse le proposte di Trump per raggiungere la pace. Qual è la sua idea
in merito?
Abbiamo la
possibilità di finirla nel 2025? Sì, ce l’abbiamo. Tutto dipende da come
vogliamo che finisca questa guerra. Naturalmente, gli ucraini sono desiderosi
di vincere. Per vincere questa guerra abbiamo bisogno di risorse, di maggiori
risorse da parte dei nostri partner, di maggiori investimenti nell’industria
della difesa ucraina e di una pianificazione congiunta delle nostre capacità
militari.
Congelare il
conflitto non porterà a circostanze positive, lo abbiamo già fatto nel 2014 e
questo ha portato a un’escalation molto più grande in pochi anni.. È dunque
possibile congelare il conflitto? Certo che sì, ma non vedo la disponibilità
dei russi a farlo. Questo significa che avremo solo qualche anno di tempo prima
della prossima invasione in Europa.
Se Trump proporrà
all’Ucraina di perdere questa guerra e di seguire completamente le dinamiche
della Russia, l’Ucraina lo rifiuterà, quindi non c’è questa opzione sul tavolo.
Tutto dipende
dalla strategia ucraina e da quella dei nostri partner. Ma direi che dobbiamo
vincere questa guerra e ciò significherà una pace sostenibile, non solo un
congelamento.
“L’Ucraina
non può permettersi di perdere decine di migliaia di vite per reclamare la
Crimea, ma la penisola potrebbe essere restituita attraverso la diplomazia”.
Sono parole del presidente ucraino Zelensky in un’intervista a Fox News. Come
giudica queste parole del Presidente?
A volte si sente
dire che la guerra territoriale si conclude con i negoziati, il che non è vero.
I negoziati di solito sono solo una fissazione della posizione in prima linea.
Se isoliamo la Crimea, isolando il ponte e a quel punto la logistica russa verso
la Crimea, i russi saranno pronti a negoziare perché non avranno altre
possibilità di sostenere le loro forze in Crimea. Dovranno trovare una
soluzione. Si tratta quindi di una via diplomatica? Sì, ma prima della via
diplomatica, abbiamo bisogno di raggiungere un posizionamento molto forte in
prima linea. Non ci resta che comprendere il prossimo anno la visione della
nuova amministrazione Trump. Ma non solo. Ci sarà il nuovo governo tedesco e
altri nuovi partner europei. Dovremo accordarci con loro per ottenere alcuni
obblighi e capire come raggiungere questa via diplomatica. Francesco De Leo,
AffInt. 2
Migranti. Il decreto flussi è legge: stretta sui ricongiungimenti e sui cellulari
Approvato in via
definitiva dal Senato. 110mila stagionali nel 2025 in turismo e agricoltura.
Raddoppiato il tempo per far arrivare i familiari, controlli sugli smartphone
all'arrivo – di Vincenzo R. Spagnolo
Dopo il primo via
libera della Camera a fine novembre, oggi è arrivato quello del Senato. Com’era
prevedibile, il governo ha superato agevolmente lo scoglio del voto di fiducia,
con 99 sì, 65 no e una astensione. E dunque il decreto sui flussi migratori,
dopo la promulgazione e la pubblicazione in Gazzetta ufficiale, diventerà
legge.
Il testo - in cui
è confluito anche il nuovo elenco dei cosiddetti «Paesi sicuri» (come l’Egitto
e il Bangladesh) verso cui secondo il governo i migranti potranno essere
respinti -, contiene la programmazione degli ingressi per lavoro (110mila
stagionali per agricoltura e turismo) nel prossimo anno e introduce diverse
norme oggetto di perplessità di giuristi, enti umanitari e sindacati.
La maggioranza ne
saluta l’approvazione con soddisfazione: «Dietro il business dell’accoglienza
ci sono cooperative, associazioni e sindacati, perciò la sinistra vuole
sabotare i nostri decreti», argomenta il senatore di Fratelli d’Italia Alberto
Balboni. E la sottosegretaria all’Interno Wanda Ferro ritiene «irricevibili le
accuse di razzismo e crudeltà» mosse al governo. Dal canto loro, le opposizioni
bollano le misure come «disumane» e giudicano, per dirla col leader di Iv
Matteo Renzi, i centri in Albania «grandi buffonate, costate un miliardo di
euro».
Nel testo c’è
l’assegnazione - soprannominata “emendamento Musk” perché introdotta dopo le
polemiche seguite a una sortita social anti toghe del magnate americano - alle
Corti d’appello di competenze sui procedimenti di convalida o proroga del
trattenimento dei richiedenti asilo, anziché alle sezioni specializzate in
immigrazione dei tribunali civili.
Una previsione su
cui il Csm ha espresso un parere negativo (che verrà trasmesso al Guardasigilli
Carlo Nordio, ma che non è vincolante), motivandolo col rischio di un
allungamento dei tempi di giudizio nelle corti d’Appello (con conseguente
pericolo di mancare il raggiungimento degli obiettivi fissati dal Pnrr) e col
fatto che a giudicare saranno magistrati privi delle competenze necessarie. E
sempre oggi, la sezione civile della Cassazione ha deciso di prendere tempo (la
pronuncia arriverà nelle prossime settimane) per valutare i ricorsi del
ministero dell’Interno contro le decisioni delle suddette sezioni Immigrazione,
che nei mesi scorsi hanno bocciato le convalide di trattenimento dei migranti
portati in Albania, chiedendo alla Corte di giustizia europea una pronuncia sul
tema dei “Paesi sicuri”.
Tornando al
decreto convertito in legge, un’altra stretta riguarda i migranti che arrivano
in Italia, che potranno vedersi ispezionati gli smartphone (gli agenti potranno
visionare foto, video e rubriche, ma non messaggi personali e chat), se non
sono in grado di fornire documenti d’identità. Ancora, per i ricongiungimenti
familiari bisognerà soggiornare in Italia due anni (finora era uno), norma che
secondo il vicepremier Matteo Salvini (che ritiene il varo del testo, su cui la
Lega ha spinto, «un’ottima notizia») consentirebbe «un risparmio di 500
milioni».
Infine, il testo
introduce sanzioni e fermi amministrativi per le Ong che fanno salvataggi in
mare: il passaggio delle loro navi in acque italiane potrà essere vietato dal
ministero dell’Interno per ragioni di ordine pubblico, ma non durante i
soccorsi in mare; e gli aerei degli stessi enti, che sorvolano il Mediterraneo
in cerca di barconi in difficoltà, dovranno avvisare le autorità in caso di
avvistamento (segnalazioni che comunque già avvengono). Misure che le ong ( da
Mediterranea Saving Humans a Medici Senza Frontiere fino a Open Arms, Sea Watch
e altre) in una nota definiscono «punitive», col «vero obiettivo» di arrivare
«a un piano di definitivo abbandono del Mediterraneo e di criminalizzazione del
soccorso in mare». Avvenire 4
Geo Barents lascia il Mediterraneo centrale: "Leggi assurde"
Msf annuncia la
fine delle operazioni "per colpa di leggi assurde e insensate, dal decreto
Piantedosi del gennaio 2023 al suo inasprimento del dicembre 2024. Torneremo in
mare il prima possibile"
La Geo Barents,
nave di ricerca e soccorso di Medici Senza Frontiere (MSF), conclude le sue
operazioni nel Mediterraneo centrale. Nonostante le oltre 12.675 persone
soccorse e le 190 operazioni di salvataggio effettuate da giugno 2021, Msf
annuncia la fine delle operazioni "per colpa di leggi assurde e insensate,
dal decreto Piantedosi del gennaio 2023 al suo inasprimento del dicembre 2024.
Msf tornerà in mare il prima possibile per salvare vite nel Mediterraneo
centrale, dove oltre 31.000 persone sono morte o disperse dal 2014, e conferma
il suo impegno per assistere le persone in movimento in una delle rotte
migratorie più letali al mondo. Torneremo anche per testimoniare e denunciare
le violazioni commesse contro le persone migranti dall’Italia, gli stati membri
dell’Unione europea a altri attori”, afferma Juan Matias Gil, capomissione di
MSF per la ricerca e il soccorso in mare.
"Negli ultimi
2 anni la Geo Barents ha subito 4 sanzioni da parte delle autorità italiane,
per un totale di 160 giorni in cui è stata sottoposta a fermo amministrativo,
per aver semplicemente adempiuto al dovere umanitario e legale di salvare vite
in mare. La prassi delle autorità italiane di assegnare porti lontani, spesso
al nord, per lo sbarco delle persone soccorse in mare, ha ulteriormente minato
la capacità della Geo Barents di soccorrere vite in mare e di essere presente
dove è più necessario - spiega Msf - Dall’entrata in vigore del decreto
Piantedosi, la Geo Barents ha trascorso metà dell'anno navigando da e verso
porti lontani invece di assistere le persone in difficoltà. Nel giugno 2023, ad
esempio, le autorità italiane hanno ordinato alla Geo Barents, che può ospitare
fino a 600 persone a bordo, di dirigersi a La Spezia - a più di 1.000 km di
distanza - per sbarcare 13 sopravvissuti, nonostante la disponibilità di porti
molto più vicini".
“Invece di
utilizzare la capacità di soccorso delle navi umanitarie, le autorità italiane
ne hanno minato l’operatività. Le leggi e le politiche italiane esprimono un
vero e proprio disprezzo per le vite delle persone che attraversano il
Mediterraneo”, afferma Margot Bernard, coordinatrice del progetto di Msf. “Le
storie di decine di migliaia di sopravvissuti riecheggiano ovunque sulla nostra
nave, i bambini hanno mosso i primi passi su questi ponti, le persone hanno
pianto i loro cari. Quando le politiche europee di deterrenza causano così
tanta sofferenza e costano così tante vite, abbiamo il dovere di insistere a
favore dell'umanità”. Adnkronos 13
Intervista con
Orysia Lutsevych, Head of the Ukraine Forum di Chatham House, realizzata
durante l’evento Ukraine Resisting: How to Achieve a Durable Peace? organizzato
lo scorso 25 novembre dall’Istituto Affari Internazionali. Conversazione
trasmessa da Radio Radicale, nella trasmissione “Spazio Transnazionale”.
Trump si dice
convinto di poter riportare la pace in Ucraina e Zelensky si è detto pronto ad
ascoltare le sue proposte. Qual è la sua idea?
Trump ha detto che
finirà la guerra in 24 ore, ma non ha detto come lo farà. È un grande
interrogativo sul tipo di approccio che la sua nuova Amministrazione e il suo
team di politica estera, difesa e sicurezza applicheranno. In questo momento,
mentre conversiamo, non c’è alcuna chiarezza. Il Presidente Zelensky ha
proposto la pace attraverso la forza, ovvero l’esercitare la massima pressione
sulla Russia sul campo di battaglia e attraverso l’aumento delle sanzioni, al
fine di aumentare i costi per la Russia di questa invasione illegale e non
provocata. In questo momento, l’Ucraina è in svantaggio sul campo di battaglia
e la guerra di logoramento russa sta ottenendo qualche successo tattico,
conquistando lentamente altro territorio ucraino. E Kyiv capisce che non può
negoziare con la Russia da una posizione di debolezza. Quindi, a due mesi
dall’insediamento di Trump, potremmo vedere alcune misure drastiche adottate
sia dalla Casa Bianca di Biden per mettere l’Ucraina in una posizione migliore
per difendersi, sia dagli europei per progettare una strategia su come
sostenere l’Ucraina anche se l’America diminuisce la sua assistenza. Quindi è
tutto in divenire, ma l’Ucraina si sta preparando per i tempi duri che
verranno.
L’autorizzazione
da parte di Stati Uniti e Regno Unito all’utilizzo di missili a lunga gittata
in territorio russo, potrebbe essere una svolta da un punto di vista bellico, o
è una mossa utile per futuri negoziati?
È un punto molto
significativo della guerra, perché all’Ucraina sinora è stato permesso di
combattere con una mano dietro la schiena non potendo colpire le infrastrutture
militari e i punti di comando all’interno della Russia. Questo manda un segnale
molto forte a Putin: gli Stati Uniti, in particolare, ma anche il Regno Unito e
la Francia, non hanno paura di un’escalation e forniranno all’Ucraina le
capacità per sconfiggere i contingenti russi sul proprio territorio e su quello
russo al confine, perché gli ucraini non stanno usando missili a lunga gittata
in profondità nel territorio russo, ma stanno attaccando le regioni di confine.
Ma la svolta può portare a maggiori risultati se ci fosse una scorta di questi
missili, perché averne un numero esiguo non cambierà molto. Anche l’avere una
difesa aerea che permetta all’Ucraina di proteggere le proprie città e
infrastrutture in vista dell’inverno, può funzionare solo come uno sforzo
combinato.
Ci aiuta a capire
le ultime dichiarazioni di Zelensky: “Non è giusto morire per la Crimea”,
“Guarderemo le proposte di Trump”? Sembra quasi avvicinarsi un negoziato. Cosa
vuol dire il Presidente?
Ad essere onesti,
è molto difficile dare un giudizio…Perché negoziare quando abbiamo già una
guerra? Di solito i negoziati concludono una campagna militare. Non è detto che
questi negoziati risolveranno la guerra, ma in questo momento la preoccupazione
principale è che non credo che Putin sia davvero pronto a negoziare, anche se
l’Ucraina e Trump lo volessero. Putin non ha raggiunto alcun obiettivo di
guerra. Non ha preso il Donbas, non ha indebolito Kyiv. Non ha distrutto
l’esercito ucraino. Perché dovrebbe venire a negoziare ora? Quindi, l’Ucraina e
Zelensky stanno mandando un segnale? Sì, non ho paura di negoziare. L’Ucraina
vuole la pace. Questo è un segnale: nessuno vuole la pace più dell’Ucraina. E
vuole dimostrare a Trump che lavorerà con lui sulla sua proposta di pace. Ma in
Ucraina la gente non vuole un esito di questa guerra per cui i loro figli e
nipoti dovranno portarla a termine. Non vogliono che una generazione dopo
l’altra sia ferita, distrutta da questo trauma. Pensano: non vogliamo che la
guerra finisca in un modo o nell’altro, deve concludersi bene, cioè in modo che
l’Ucraina possa prosperare come Stato sovrano. Francesco De Leo, AffInt. 2
Quando, nel lontano
1961, abbiamo iniziato a occuparci dell’informazione per i Connazionali
all’estero, non avremmo mai immaginato che, in oltre 60 anni di militanza,
l’Italia potesse assumere l’assetto socio/politico nel quale, ora, si trova. I
“mali” del Paese sono stati individuati, ma non corretti in modo conveniente.
Ora, con ‘On. Meloni, l’opportunità si ripresenta. Lasciamola lavorare.
Questo Parlamento
ha ancora parecchi nodi da sciogliere. I mezzi per farlo, se ci sono, non li
abbiamo ancora compresi e non saranno le polemiche a dissipare le nostre
incertezze. Basta con i sacrifici a fondo perduto. Meno privilegi e fuori dalla
politica attiva chi non intende accettare regole comportamentali più rigorose.
Da questo Esecutivo ci attendiamo delle “garanzie”. Di stonature questa nostra
Italia ne ha subite anche troppe.
Messi da parte gli
indugi, facciamo nostro lo spirito dei Padri Fondatori della Repubblica. Questo
Potere Legislativo potrebbe dare l’esempio. Ovviamente, col tempo. Oltre le
polemiche, c’è l’Italia. Un Paese che non ha malinconia del passato, ma che non
lo dimentica. Il rischio, ora, è ipotecare il suo futuro. E’ necessario tornare
alla politica della quotidianità. Una posizione che avevamo condiviso, quando
nel Paese i pregiudizi erano anomalie di pochi. Sono passati 60 anni sul nostro
“fronte” dell’informazione, ma riteniamo d’aver conservato la nostra originaria
imparzialità. Almeno due generazioni hanno ceduto il posto all’attuale. Il
posto ma, forse, non gli ideali.
Giorgio Brignola,
de.it.press
Made in Italy: la cucina che mette tutti a dieta… di invidia!
Diciamocelo chiaro
e tondo: quando si parla di cibo, l’Italia gioca in un campionato tutto suo.
Dalla carbonara all’ossobuco, i nostri piatti fanno tremare le tavole di New
York e Tokyo, lasciando tutti a bocca aperta (e subito dopo, a bocca piena). Il
segreto? Un mix imbattibile di tradizione, ingredienti di qualità e quella
passione che rende ogni forchettata poesia pura.
Per noi italiani,
il cibo non è solo nutrimento: è rito, arte, festa. Da Nord a Sud, si mangia
come se fosse sempre l’ultima cena, e sì, c’è chi ancora si fa il segno della
croce prima di assaggiare. Ogni piatto racconta storie, coccola l’anima, tiene
viva la memoria. Ma attenzione: guai a fare errori. Amatriciana con la panna?
Squalifica immediata. Pizza con l’ananas? Esorcismo garantito.
E poi c’è quel
nostro fiuto da detective della qualità. Siamo i Sherlock Holmes del
supermercato, capaci di analizzare ogni etichetta e interrogare il
fruttivendolo sulle origini delle melanzane. Perché per noi il cibo non è solo
cibo: è una questione di principio.
Ma il vero
ingrediente segreto non si trova in una dispensa. È la compagnia. Mangiare da
soli, in Italia, è quasi un peccato. Ce lo dicono anche gli scienziati:
condividere un pasto rende felici. Insomma, il miglior risotto allo zafferano
non vale nulla se non hai qualcuno accanto a cui dire: “Eh sì, l’ho fatto io!”.
E il mondo lo sa
bene. Dal 2014 al 2023, le esportazioni del nostro agroalimentare sono
cresciute dell’87%, superando i 64 miliardi di euro. Altro che cibo: il Made in
Italy è arte, confezionata sottovuoto e amata ovunque.
Le contraddizioni
della cucina italiana
Certo, non siamo
perfetti. L’Italia è un mix di ordine e caos, tradizione e innovazione. Ed è
proprio questa danza tra opposti che rende la nostra cucina unica. Non
cuciniamo solo per nutrirci, ma per stupire, emozionare, vivere.
E con il Natale
alle porte, la cucina italiana si trasforma in un luna park di dolcezze.
Panettoni, torroni, cantucci: l’indice glicemico scrive Cronache di un abuso
natalizio. Ma come dicevano i latini, semel in anno licet insanire: una follia
all’anno è concessa. Attenti però, perché a gennaio potrebbe arrivare la resa
dei conti… e dei pantaloni troppo stretti!
Il lato nascosto
del Made in Italy
Fin qui, tutto
bello. Ma non possiamo ignorare che, mentre celebriamo il nostro cibo, ci sono
italiani per cui anche una pasta al pomodoro è un lusso. Un italiano su otto
vive sotto la soglia di povertà. E mentre esportiamo eccellenza, ci sono tavole
vuote.
Eppoi, la vera
grandezza della cucina italiana non è solo nei suoi piatti stellati, ma nella
capacità di rendere straordinario ciò che è semplice: un pezzo di pane, un filo
d'olio e un peperoncino possono essere un capolavoro, ma devono essere alla
portata di chiunque perché la cucina italiana è un patrimonio di tutti.
Come garantire che
lo sia davvero? Non servono gesti eroici, ma iniziative concrete:
* Combattere lo
spreco alimentare. Ogni anno buttiamo tonnellate di cibo. Le food bank e altre
iniziative possono fare molto, ma serve la volontà di tutti.
* Educazione
alimentare. Anche con pochi soldi si può mangiare sano, ma bisogna sapere come
fare.
* Sostenere i piccoli
produttori locali. Comprare a chilometro zero aiuta chi lotta contro le grandi
multinazionali e fa bene al pianeta.
E a Natale, mentre
ci godiamo il nostro torroncino, pensiamo a chi ha meno. Una donazione, un
pasto condiviso, anche solo un pensiero possono fare la differenza.
Perché il vero
miracolo della cucina italiana non è solo il suo sapore, ma la sua capacità di
unire le persone.
Buone feste e buon
appetito… per tutti!
Giuseppe Arnò, La
Gazzetta Italo-Brasiliana, dic
La luce interiore: un faro di resilienza e autostima
Dentro di te c’è
una luce che nessuna tempesta può offuscare, un fuoco che nessuna mano può
rubare. Questa qualità particolare è presente in tutti noi: una luce
indistruttibile e un fuoco spontaneo che nessuna forza umana può spegnere.
Questa luce interiore rappresenta speranza, energia e autostima. Allo stesso
modo, il fuoco simboleggia passione e resilienza, elementi fondamentali della
nostra natura. Questi non possono essere toccati dalle circostanze esterne né
dagli sforzi di chiunque di controllarli o indebolirli. La verità di questa
luce e di questo fuoco dentro di noi è una delle doti più potenti che una
persona possa avere, poiché significa che, qualunque cosa la vita ci riservi,
la nostra forza interiore rimane indistruttibile.
La luce interiore:
un faro di resilienza e autostima
La luce interior
ci ricorda che il nostro valore è intrinseco, non collegato a successi,
riconoscimenti esterni o opinioni altrui. Quando il mondo ci dice continuamente
che dobbiamo dimostrare di essere sufficienti, questa luce interiore ci
conferma la nostra forza intrinseca. È una fonte di resilienza nei momenti di
oscurità, quando ci sentiamo vulnerabili o incerti, illuminando il nostro
cammino verso il future, nonostante i venti contrari di dubbi o delusioni.
Questa luce non
solo fa parte di noi, ma è anche la nostra capacità di compassione, empatia e
bontà. Ci permette di connetterci con gli altri, di vedere il bene negli esseri
umani e di dare significato alle relazioni e alle esperienze della vita. È ciò
che ci consente di perdonare e di andare avanti anche nei momenti più
difficili, rendendoci paradossalmente ancora più forti e resilienti.
Il fuoco
indomabile: una fonte di passione e di scopo
Se la luce
rappresenta la nostra verità, allora il fuoco rappresenta la nostra passione e
le nostre ambizioni. Questo fuoco non può essere rubato o spento, perché arde
dal profondo, nella maniera più autentica e genuina. È quella voce interiore
che ci spinge a inseguire i nostri sogni, a coltivare i nostri talenti e a
esprimerci con coraggio. È ciò che ci fa andare avanti anche quando tutto
sembra troppo difficile, perché dentro di noi c’è qualcosa che va più in
profondità delle difficoltà momentanee.
Questo fuoco
rappresenta la possibilità di crescere, di cercare nuove opportunità e di
muoverci verso obiettivi che risuonano con chi siamo realmente. Ci spinge a
perseguire la realizzazione piuttosto che la semplice sopravvivenza. Questo
fuoco si nutre delle battute d’arresto e dei fallimenti, trasformandoli in
carburante per ardere ancora più intensamente. È ciò che trasforma il nostro
dolore in scopo, le nostre lotte in forza e i nostri sogni in realtà.
La luce e il fuoco
immuni alle tempeste esterne
Le tempeste della
vita – come la perdita, il rifiuto, il tradimento o le avversità – possono
scuoterci, ma non possono toccare la nostra luce e il nostro fuoco interiore.
Le circostanze esterne possono cambiare, ma il nostro nucleo rimane intatto e
oltre il controllo altrui. Le persone possono cercare di imporci le loro
limitazioni o di influenzarci con energie negative, ma questi tentativi
funzionano solo se glielo permettiamo. Finché rimaniamo radicati nella nostra
luce e nel nostro fuoco, rimaniamo ancorati a qualcosa che appartiene solo a
noi.
Il viaggio verso
la luce e il fuoco interiori
Riconoscere e
onorare la nostra luce e il nostro fuoco è uno degli atti più potenti che
possiamo fare per noi stessi. Questa consapevolezza ci aiuta a costruire una
relazione profonda con noi stessi, rafforzando la nostra capacità di affrontare
le sfide della vita. Questa connessione ci libera dalla necessità di cercare
approvazione esterna, permettendoci di inseguire i nostri sogni senza paura del
giudizio o del fallimento. Ci insegna a lasciar andare ciò che non ci serve più
e a concentrarci su ciò che è veramente importante per la nostra crescita
personale.
Condividere la
luce e il fuoco con il mondo
Anche se questa luce
e questo fuoco sono profondamente personali, hanno il potenziale di illuminare
anche le vite degli altri. Vivendo autenticamente, possiamo ispirare gli altri
a scoprire la loro forza interiore. Come una candela che ne accende un’altra
senza perdere la propria fiamma, il nostro fuoco può accendere speranza e
resilienza nelle vite altrui.
Un percorso di
vita illuminato dalla luce e dal fuoco
Questa luce e
questo fuoco evolvono con noi, adattandosi ai nostri sogni e alle nostre
esperienze in continua trasformazione. Ma al centro di tutto rimane una
costante: la nostra essenza, una fonte inalterabile di guida e forza.
Attraverso questa forza interiore, non solo creiamo una vita piena e
soddisfacente per noi stessi, ma anche per chi ci circonda. Dentro ognuno di
noi c’è una luce che nessuna tempesta può spegnere e un fuoco che nessuna mano
può rubare. È l’essenza della nostra anima, il nucleo indomabile del nostro
essere, capace di cambiare le nostre vite e ispirare il mondo intorno a noi.
Krishan Chand
Sethi, dip 2
Il decreto “milleproroghe” è stato approvato dal Cdm
Nel testo varato
dal Consiglio dei ministri, uno zibaldone in cui c’è di tutto, compaiono
elementi di notevole e non provvisoria rilevanza. Per esempio viene stabilito
un condono definitivo per le multe comminate a chi non ha rispettato gli
obblighi di legge relativi alla vaccinazione anti-Covid - di Stefano De Martis
Puntuale come ogni
anno a dicembre – e in barba ai forti dubbi di costituzionalità che
regolarmente lo circondano – arriva il decreto cosiddetto “milleproroghe” che,
come dice il soprannome giornalistico, serve soprattutto per rinnovare i
provvedimenti in scadenza a fine anno. È proprio questa finalità unitaria che
rimedia in qualche modo all’estrema eterogeneità dei contenuti, vizio
potenzialmente letale per un decreto-legge. Ma nel testo varato dal Consiglio
dei ministri, uno zibaldone in cui c’è di tutto, compaiono elementi di notevole
e non provvisoria rilevanza. Per esempio viene stabilito un condono definitivo
per le multe comminate a chi non ha rispettato gli obblighi di legge relativi
alla vaccinazione anti-Covid. Non è previsto il rimborso per chi ha pagato,
così come invece si diceva alla vigilia della riunione del governo. In questo
caso hanno pesato le ragioni di cassa perché con la legge di bilancio in
dirittura d’arrivo un esborso extra avrebbe creato non pochi problemi. Un altro
condono meno eclatante, ma di chirurgica precisione, è quello che riguarda i
lavori della commissione Cassese sulla determinazione dei Lep, i Livelli
essenziali delle prestazioni. Dopo che la Corte costituzionale nella nota
sentenza sull’autonomia differenziata ha chiarito che si tratta di materia che
richiede norme di rango primario e non solo amministrative, il governo avvalora
nel decreto-legge il lavoro istruttorio e ricognitivo compiuto finora dalla
commissione. E riporta l’operazione sotto l’ombrello del dipartimento guidato
dal ministro Calderoli.
Di tutt’altro
segno la proroga al primo gennaio 2026 del regime di esenzione Iva per gli enti
associativi e l’estensione di un altro anno – quindi fino al 31 dicembre 2025 –
dell’accesso al 5 per mille delle Onlus. Slitta al 31 marzo prossimo l’obbligo
per le imprese di assicurarsi contro le catastrofi naturali e viene prorogato a
tutto il 2025 lo scudo penale per i medici in situazione di gravi carenze di
personale, fatta eccezione di per i casi di dolo e colpa grave.
È invece contenuta
in un decreto legislativo – che è ora è legge al termine del percorso di
attuazione della delega al governo in materia di giustizia – la controversa
norma che vieta la pubblicazione delle ordinanze che applicano tutte le “misure
cautelari personali” (quindi non solo il carcere o i domiciliari come nel testo
originario, ma anche l’obbligo di firma e altre meno gravi) fino alla
conclusione delle indagini preliminari o al termine dell’udienza preliminare. I
giornalisti, in pratica, dovranno sunteggiare le ordinanze e non riportarne i
brani tra virgolette. I sostenitori della norma si rifanno alla tutela del
principio della presunzione d’innocenza, mentre la Fnsi, il sindacato dei
giornalisti, parla di “un bavaglio più ampio” per “impedire che i cittadini
siano correttamente informati”. Sir 10
Un problema: “gap di competenze” e minaccia il nostro futuro
L’indagine Ocse ha
raccolto i risultati su comprensione del testo, capacità di calcolo e problem
solving adattivo. Su 31 Paesi, l’Italia occupa sempre le ultime posizioni
Gli italiani hanno
un problema di competenze basilari. Su 31 Paesi, il nostro occupa le ultime
posizioni in tutte e tre le competenze analizzate dall’Organizzazione per la
Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse): capacità di comprensione del
testo, capacità di calcolo, problem solving adattivo. La stessa organizzazione
scrive così sull’Italia: “La performance è costantemente inferiore rispetto
alla media”.
Con la Survey of
adult skills, l’Ocse ha analizzato le competenze di base delle persone tra i 16
e i 65 anni raccogliendo le risposte tra il 2022 e il 2023. I risultati
mostrano una situazione preoccupante per gli adulti italiani, evidenziando
mediamente abilità inferiori rispetto agli altri 30 Paesi analizzati. L’ultima
indagine del genere, l’Ocse l’aveva condotta nel 2013. Da allora, i risultati
medi degli italiani non sono cambiati, ma è aumentato il divario tra chi ha più
competenze e chi ne ha meno. Chi aveva più competenze ne ha sempre di più, chi
ne aveva meno ne ha sempre di meno.
In questo, il
Paese si distingue rispetto agli altri, mentre aumenta anche il divario tra chi
è più ricco e chi è più povero.
Il gap rilevato
dall’Ocse pesa anche sui salari dei dipendenti e sulle aziende, sempre più in difficoltà
nel trovare le competenze giuste tra i candidati. Ricchezza e competenze sono
legate a doppio filo: chi è più povero ha mediamente meno competenze, chi ha
meno competenze ha mediamente salari più bassi e meno opportunità di carriera.
Le competenze
(poche) degli italiani
L’indagine ha
coinvolto complessivamente 160mila adulti dei 31 Paesi appartenenti all’Ocse e
restituisce un’approssimazione di tendenze più generali.
Prima di
approfondire i risultati, ecco i punteggi medi ottenuti dagli italiani rispetto
agli adulti degli altri Paesi, su un massimo di 500 punti:
* 245 punti in
comprensione del testo contro una media Ocse di 260;
* 244 punti in
abilità di calcolo contro una media Ocse di 263;
* 231 punti nella
capacità di risolvere i problemi contro una media Ocse di 250.
Ai primi posti
della classifica mondiale ci sono Finlandia, Giappone, Paesi Bassi, Norvegia e
Svezia. L’Italia è sestultima per capacità di lettura e comprensione del testo,
quartultima per abilità di calcolo e terzultima per analisi dei problemi.
Ciascuna risposta è stata valutata con un punteggio da 1 a 4.
I risultati
Si parta dal
livello 1, quello più preoccupante: chi rientra in questo livello riesce a
comprendere solo testi brevi ed elenchi organizzati a patto che le informazioni
siano indicate molto chiaramente. Chi non raggiunge il livello 1 sa comprendere
solo le frasi brevi e semplici.
Nella comprensione
del testo, più di un italiano su tre ha ottenuto un punteggio pari o inferiore
a 1: il 35% contro una media Ocse del 27%. Complessivamente, il 70% degli
intervistati italiani si è classificato entro il livello 2 contro la media Ocse
del 57%, influenzata positivamente dai punteggi più alti. Solo il 5% degli
italiani ha superato il livello 4, meno della metà della media Ocse, pari al
12%.
I risultati sono
simili per quanto riguarda la capacità di calcolo, seconda abilità base
indagata dall’Ocse. Tra gli italiani, più di due su tre sanno soltanto fare
calcoli semplici che rientrano nella quotidianità. Per questo parametro, i
punteggi sono peggiorati rispetto all’indagine del 2013.
Il divario con gli
altri Paesi sviluppati diventa ancora più ampio per quanto riguarda il problem
solving adattivo, ovvero la capacità di risolvere problemi adattandosi alle
situazioni. Quasi un italiano su due non supera il livello 1: il 46% degli
intervistati contro una media Ocse del 29%. Solo l’1% dei rispondenti italiani
supera il livello 4, che identifica la capacità di adattarsi a cambiamenti
improvvisi.
Quanto incide la
condizione socio-economica
La questione delle
competenze si intreccia con quella demografica e sociale lungo tre filoni:
* Reddito;
* Cittadinanza;
* Generazione.
Come spiega
l’Ocse, l’esclusione sociale degli stranieri genera a cascata la povertà
educativa. Questo è uno dei principali motivi per cui l’Italia non riesce a
compensare il gap di competenze con l’immigrazione.
La Survey of adult
skills evidenzia che le persone nate da genitori italiani hanno una
comprensione del testo maggiore rispetto a rispondenti stranieri nati da
genitori stranieri.
L’Ocse spiega che
questa forbice dipende solo in parte dalla nazionalità: anche tra gli italiani,
le persone nate da genitori più istruite ottengono risultati migliori,
specialmente nella comprensione del testo e nelle abilità di calcolo.
Normalizzati i risultati in base alle condizioni socio-economiche, il gap si
riduce da 30 a 13 punti. Il contesto fa la differenza anche per chi ha
nazionalità italiana: chi è figlio di persone più istruite mostra risultati
migliori, soprattutto per comprensione del testo e abilità di calcolo.
Insomma, a fare la
differenza è soprattutto la condizione socio-economica di partenza, perché in
Italia l’ascensore sociale dell’istruzione si è rotto da tempo. Basti pensare
che il figlio di un padre laureato ha oltre il doppio di possibilità di laurearsi
rispetto al figlio di un diplomato e oltre il triplo delle possibilità rispetto
al figlio di chi ha conseguito la terza media (dati Inapp, Rapporto Plus 2022).
Quanto pesa la
povertà educativa
Nel 2010, l’Italia
è diventata il Paese europeo che spende meno in istruzione nel confronto con
Francia e Germania. Da allora, il trend non è mai cambiato. La spesa pubblica
in istruzione dell’Italia rispetto al Pil è del 4,1% contro la media Ue del
4,7% (dati 2022). Dieci stati, tra cui l’Italia, si attestano al di sotto di
tale soglia. Con circa il 4% del Pil investito in istruzione, il Belpaese
supera solo Bulgaria (3,9%), Grecia (3,8%), Romania (3,2%) e Irlanda (2,7%).
A risentirne sono
le competenze (e, quindi, le aziende e l’economia italiana). Seppure la spesa è
un indicatore quantitativo, e non qualitativo, generalmente è un parametro
affidabile. Infatti, il Paese europeo con il punteggio più alto nei test
Ocse-Pisa 2022 è l’Estonia (510 punti), che è terza in Ue per spesa in
educazione su Pil (5,8%). Anche gli altri Paesi che registrano ottimi risultati
(Paesi Bassi, Irlanda, Belgio, Danimarca e Polonia) dedicano oltre il 5% del
Pil all’istruzione, con l’eccezione di Polonia (4,6%) e Irlanda (2,7%).
Spesso, le
famiglie meno istruite non considerano la laurea come un elemento chiave per
l’affermazione lavorativa, idea rafforzata dai dati Ocse che classificano
l’istruzione italiana tra quelle con il più basso rendimento. Preoccupa
soprattutto la tendenza negativa caratterizzata da una costante
diminuzione della spesa in istruzione negli ultimi vent’anni.
Differenze di
istruzione
Effetto domino, si
diceva. In effetti, chi ha un livello più alto di istruzione ha ottenuto i
punteggi più alti. Gli italiani tra i 25 e i 65 anni laureati hanno ottenuto
mediamente 19 punti in più nella comprensione del testo rispetto ai diplomati,
che a loro volta hanno ottenuto 35 punti in più di chi ha smesso di studiare
senza conseguire il diploma.
Dall’indagine Ocse
emerge un confronto particolarmente preoccupato a livello internazionale: nella
comprensione del testo i rispondenti italiani con una laurea hanno ottenuto
risultati peggiori rispetto ai finlandesi diplomati. Questo dato può essere letto
in due modi, dove uno non esclude l’altro. Il primo è che il livello della
formazione italiana sia basso o quanto meno inefficace, il secondo è che
l’Italia non ha una cultura di formazione aziendale. Mentre in altri Paesi
avanzati è normale continuare ad imparare e a migliorarsi sui luoghi di lavoro,
in Italia la crescita delle competenze viene solitamente riservata ai banchi di
scuola e agli scranni universitari.
In quest’ottica i risultati
diventano ancora più negativi se si considera che nel Belpaese solo il 20%
delle persone di 25-65 anni possiede un livello di istruzione pari o superiore
alla laurea mentre circa il 38% ha un titolo di studio inferiore al
diploma.
Differenze
generazionali, di genere e di luogo
L’Ocse ha rilevato
anche una differenza generazionale. Come è lecito aspettarsi, i più giovani
hanno ottenuto risultati migliori in tutte e tre le competenze, il che può
dipendere sia dall’invecchiamento che dalle differenze di istruzione e
formazione ricevuta. La tendenza si rileva in ogni Paese, anche se in Italia il
gap è più contenuto. Il bicchiere, però, è mezzo vuoto: nel Paese le differenze
tra giovani e anziani sono meno marcate più per gli scarsi risultati dei primi
che per gli ottimi risultati dei secondi.
Per quanto
riguarda le differenze di genere, gli uomini continuano ad avere migliori
risultati delle donne in numeracy, mentre non vi sono differenze in literacy e
problem solving adattivo. Nel nostro Paese il gap si annulla solo tra gli
adulti con un titolo di studio terziario in discipline Stem. La ridotta quota
di donne con titoli Stem, figlia soprattutto di retaggi culturali, ostacola la
parità di genere nelle competenze di numeracy, e la crescita complessiva del
Paese.
L’indagine Ocse
conferma anche le differenze tra Nord e Sud Italia, che Natale Forlani,
presidente Inapp, ha commentato così: “È evidente la stretta relazione tra
competenze cognitive e sviluppo del Paese. I valori più bassi di competenze si
concentrano nelle aree meno attrattive del Paese. Occorre investire per il
recupero dei territori del Mezzogiorno”.
Capacità di
calcolo e guadagno
Un ultimo dato
interessante riguarda la relazione tra salari e capacità di calcolo. La Survey
of adult skills evidenzia che chi ha migliori capacità di calcolo ha il 7% di
probabilità in più di avere un lavoro, e un rischio di disoccupazione inferiore
del 3% rispetto alla media.
Tra gli
intervistati che lavorano, chi ha maggiori confidenza con la numeracy ha in
media uno stipendio più alto del 5%.
L’ulteriore
conferma che istruzione, competenze ed economia vanno di pari passo. Adnkronos
12
La coppia in lutto dopo un aborto: cosa accade se i partner soffrono diversamente
Il lutto
perinatale: un lutto silenzioso che colpisce profondamente la coppia
L’aborto
spontaneo in fasi precoci o più avanzate
della gravidanza rappresenta un evento doloroso all’interno
della coppia.
La coppia si
trova quindi nel caso dell’aborto spontaneo ad affrontare il lutto, in
alcune situazioni inatteso e imprevedibile. Nella fase di gestazione,
generalmente una gran parte di energie fisiche, emotive e relazionali sono
focalizzate sul generare una nuova vita; l’interruzione della gravidanza,
quindi, richiede l’elaborazione di un lutto, in cui la perdita è profondamente
vissuta nell’intimo e può risultare poco comprensibile all’esterno perché si
piange un bambino “sconosciuto” al mondo (Kirkley-Best & Kellner,
1982).
Di fronte alla
perdita del nascituro, vi sono modi diversi di sentire ed esprimere il dolore,
modi che impattano anche sul funzionamento della coppia che può
trovarsi ad affrontare anche un momento di crisi e di reciproca
incomprensione.
Inizialmente la
sofferenza può essere accompagnata da shock e incredulità; potrebbero poi
emergere vissuti di tristezza e impotenza, senso
di colpa, vergogna, rabbia, angoscia e senso di vuoto, senso di
solitudine e ansia per il futuro. Vissuti e reazioni emotive e comportamentali
che assumono caratteristiche simili ad altri tipi di lutto causati da perdite
significative (Brier, 2008).
Il lutto
incongruente nella coppia
All’interno
della coppia i due partner possono presentare una sofferenza
multiforme e diversificata nelle sue sfaccettature emotive, una sofferenza che
si focalizza su tematiche che possono essere peculiari e non reciprocamente
“sentite” in egual misura dai due partner.
Ad esempio, la
perdita del nascituro si può tradurre in un senso di fallimento della propria
capacità di generare: la madre sente di aver fallito per la sua incapacità nel
procreare. Oppure potrebbero emergere senso di colpa commissivo o omissivo
verso di sé stessa per non avere evitato o per avere in qualche modo reso più
probabile l’evento nefasto. Il senso di perdita e di vuoto può accompagnarsi
all’angoscia di solitudine, paure abbandoniche e timore che la relazione con il
partner possa interrompersi sulla scia del fallimento del progetto
generativo.
E’ probabile che
tra i partner vi sia una quota di discrepanza e sfumature nelle modalità di
vivere e affrontare il lutto perinatale. Quando tale discrepanza è
piuttosto elevata all’interno della coppia, in letteratura prende il nome di
“lutto incongruente” (in inglese, incongruent grief) – termine utilizzato
proprio per definire diverse modalità di esperire il lutto tra i due membri
della coppia durante la gravidanza o in generale in epoca perinatale
(Callister, 2006; Cholette, 2012).
Lutto perinatale e
ruolo paterno
Una recente review
di Obst e colleghi (2020) ha preso in considerazione diversi studi sul
tema della perdita perinatale. Attenendosi ai dati emersi, sembrerebbe
essere presente una tendenza nei partner maschi verso uno stile di lutto
esternalizzante, ovvero più proteso alla soppressione e all’evitamento
delle emozioni e all’uso di strategie di coping attivo (o
problem-focused): si rivolge l’attenzione verso l’esterno, con strategie di
distrazione, impegnandosi in attività svariate, risoluzione di problemi pratici,
supporto materiale ed emotivo alla compagna. Da ulteriori studi è stato
evidenziato che i partner tendono, se piangono, a farlo da soli e in modo
indipendente, nascondendolo e non condividendolo con la compagna. La review
evidenzia che i partner debbono affrontare ulteriori sfide, tra cui anche
l’aspettativa che siano di supporto alle donne che hanno “fisicamente ed
emotivamente” subito la perdita e in qualche misura vi sia un minor
riconoscimento sociale del loro dolore e dei relativi bisogni emotivi.
Gli autori
riconoscono la possibilità che gli stereotipi di genere possano influenzare
anche il modo in cui viviamo il lutto in gravidanza e in generale il lutto
perinatale; la figura maschile e paterna, stoica, in tal senso, più o meno
consapevolmente, sente il dovere di mantenersi salda al di sopra delle
emozioni, sopprimendole allo scopo di proteggere la compagna. Inoltre, altri
aspetti legati all’attaccamento prenatale nei confronti del feto possono
influenzare il processo di elaborazione del lutto del bambino mai nato.
L’attaccamento prenatale è stato definito come “la misura in cui ogni madre si
impegna a mettere in atto comportamenti interattivi finalizzati alla creazione
di un legame con il suo bambino non ancora nato” (Cranley, 1981); allargando
il costrutto alla diade genitoriale, è inteso come quell’insieme di
rappresentazioni cognitive, vissuti emotivi e comportamenti dei futuri genitori
nei confronti del feto nella fase di gestazione. Anche l’attaccamento prenatale
può differire tra i partner e presentare livelli di discrepanza, influenzando
quindi il processo di elaborazione della perdita.
Il rischio di
incomprensioni e distacco nella coppia
Incongruenze tra i
partner nelle modalità di vivere e affrontare il lutto durante la gestazione,
quindi, possono essere un fattore di rischio per la relazione di coppia.
Se uno dei partner percepisce l’altro più proteso al fare e evitante, e interpreta
tale evitamento come insensibilità e distacco emotivo dall’esperienza della
perdita, può ingenerarsi la sensazione di sentirsi incompresi, negativamente
giudicati e diversi nel proprio dolore, di non condividere in egual misura la
sofferenza. Possono insorgere ulteriori vissuti negativi, tra cui rabbia,
giudizio dell’altro, senso di solitudine e la tendenza a chiudersi in entrambi
i membri della coppia, che rischiano quindi un allontanamento sul piano
emotivo-affettivo e comunicativo: il supporto reciproco viene meno.
Essere consapevoli
che esistono diverse modalità di vivere e affrontare il lutto di un bambino mai
nato è il primo passo per costruire modalità supportive, seppure differenti, di
elaborare e accettare il dolore della perdita in gravidanza, tentando di essere
autenticamente ed empaticamente presenti nell’ascolto dell’altro e
nell’espressione dei propri vissuti. D’altro canto, va ricordato che
i colloqui di coppia a supporto di esperienze di perdita in
gravidanza possono essere un aiuto importante per l’elaborazione del
lutto. Claudia Bassanelli, CdI dic.
Il tempo è
galantuomo. Gli eventi, nazionali e internazionali, l’hanno sempre dimostrato
e, nei nostri oltre sessant’anni d’attività pubblicistica, ci abbiamo fatto
conto.
L’attuale situazione nel Vecchio Continente ha
evidenziato ciò che temevamo. L’Europa è un continente geografico unito, ma
politicamente ha delle differenze comportamentali che l’UE aveva tentato di
disciplinare ma che, invece, sono tutte emerse in modo palese.
Le differenze, che prima erano secondarie, ora
si sono fatte decisive e l’Italia, che è uno degli anelli debole dell’Europa
Stellata, ne risente, maggiormente, le conseguenze. Circa la politica
nazionale, dovremo essere pronti a fare delle proposte alternative favorendo un
programma nato con l’emergenza sanitaria, ma valido anche a pandemia risolta.
L’Italia riprenderà la sua coscienza non più
influenzata dalle posizioni politiche di chi ha gestito gli ultimi anni
politici di questo Paese. Essere propositivo sarà la nuova meta che gli
italiani saranno in grado di gestire. Meglio dimenticare i “campanilismi”
politici e rivedere il panorama nazionale con un’ottica non più inquinata da
alleanze fittizie che hanno dimostrato, proprio quando ci sarebbe voluta
maggiore coesione, la loro inefficacia. Questo Governo dovrebbe presentare il
mutamento.
Una nuova presa di coscienza e una più
coerente gestione del potere saranno le “terapie” migliori per uscire anche dal
marasma politico di quest’ultimo quinquennio. Lo avremmo dovuto capire da
qualche tempo. Ora sembra che la lezione sia servita. Giorgio Brignola,
de.it.press
52 i conflitti nel mondo, 4 ad altissima intensità. Record di vittime
Presentato oggi a
Roma l'ottavo Rapporto sui conflitti dimenticati di Caritas italiana “Il
ritorno delle armi. Guerre del nostro tempo”. Sono 52 gli Stati del mondo che
vivono situazioni di conflitto armato (erano 55 nel 2022). Aumenta il numero di
guerre ad altissima (da 3 a 4) e alta intensità (da 17 a 20) e il numero dei
morti: 170.700, il più alto dal 2019. Tragico è il dato record sul numero di
bambini uccisi e menomati: 11.649 nel 2023, con un aumento del 35% rispetto
all’anno precedente. Tocca il picco massimo anche il numero di bambini rapiti:
4.356 nel 2023, in maggioranza maschi. Quasi 300 milioni di persone nel mondo
dipendono dagli aiuti umanitari, mentre il numero di rifugiati nel mondo è più
che raddoppiato – di Patrizia Caiffa
Sono 52 gli Stati
del mondo che vivono situazioni di conflitto armato (erano 55 nel 2022). Si
tratta di guerre sempre più gravi e cruente. Aumenta infatti il numero di
guerre ad altissima (da 3 a 4) e alta intensità (da 17 a 20) e il numero dei
morti: 170.700, il più alto dal 2019. Tragico è il dato record sul numero di
bambini uccisi e menomati: 11.649 nel 2023, con un aumento del 35% rispetto
all’anno precedente. È record anche il numero di bambini rapiti: 4.356 nel
2023, in maggioranza maschi. È perciò al massimo storico anche la spesa
militare mondiale: 2.443 miliardi di dollari, per la prima volta in crescita in
tutti i continenti (+6,8%). Sono i principali dati contenuti nell’ottavo
Rapporto sui conflitti dimenticati di Caritas italiana, a cura di Paolo
Beccegato e Walter Nanni, intitolato “Il ritorno delle armi. Guerre del nostro
tempo”, in collaborazione con CSVnet, la rete nazionale dei centri per il
volontariato. Il volume (la prima edizione è stata nel 2002) è stato presentato
oggi a Roma. Il focus è sul peso mediatico delle guerre nell’agenda
informativa, con particolare attenzione agli aspetti umanitari e al legame tra
guerra, ambiente e transizione ecologica.
Guerre con più
vittime e più cruente. Secondo i dati del Sipri nel mondo sono 4 le guerre ad
altissima intensità, con più di 10mila morti (erano 3 nel 2022): il conflitto
tra Israele e Hamas e tra Russia e Ucraina, le guerre civili in Myanmar e in
Sudan. Sono invece 20 le guerre ad alta intensità, ossia con un numero di morti
che oscilla tra 1.000-9.999. Erano 17 nel 2022. Tutti i conflitti nel mondo
hanno causato 170.700 morti (erano stati 153.100 nel 2022), il numero più alto
dal 2019.
Meno operazioni e
operatori di pace. Sono state 63 le operazioni multilaterali di pace (64 nel
2022), un terzo coordinate dall’Onu, con 100.568 operatori civili e militari
impegnati in operazioni di pace (dicembre 2023). Erano 114.984 nel 2022.
La spesa militare
mondiale è salita al massimo storico di 2.443 miliardi di dollari. Per la prima
volta dal 2009 si registra un aumento delle spese militari in tutti i
continenti: +6,8%, ossia il 2,3% del Pil globale, 306 dollari a persona. Negli
Stati Uniti è stata di 820 miliardi di dollari (+2,3%), in Cina di 296 miliardi
di dollari (+6%), in Russia di 109 miliardi di dollari.
11.649 bambini
uccisi o mutilati nel 2023. Secondo i dati diffusi nell’ultimo Rapporto dal Segretario
generale Onu per i bambini e i conflitti armati nel mondo sono state registrate
32.990 gravi violazioni contro i bambini in 25 conflitti nazionali e nel
conflitto regionale del bacino del Lago Ciad, cifra record dal 2005.
Si tratta di
uccisioni e menomazioni (il numero più alto mai registrato, 11.649 nel 2023,
con un aumento del 35%); reclutamento e utilizzo dei minori in gruppi e forze
armate; violenza sessuale; rapimenti; attacchi a scuole e ospedali; diniego
dell’accesso umanitario. È aumentato anche il numero di bambini rapiti nei
conflitti armati, raggiungendo per il terzo anno consecutivo un massimo
storico: 4.356 bambini rapiti nel 2023, la maggior parte maschi.
La situazione in
Ucraina: nel febbraio 2022 sono stati riportati 1.682 attacchi alla salute dei
minorenni, a danno di operatori sanitari, forniture, strutture, magazzini e
ambulanze e oltre 3.000 attacchi a strutture educative, che hanno lasciato
circa 5,3 milioni di bambini ucraini senza un accesso sicuro all’educazione.
Quasi 300 milioni
di persone nel mondo dipendono dagli aiuti umanitari, secondo i dati
dell’agenzia Onu per gli affari umanitari Ocha. Tra questi 74,1 milioni si
trovano in Africa orientale e meridionale. La guerra in Sudan ha generato nel
2023 bisogni umanitari per 15,8 milioni di persone, stimate a 30 milioni di
persone per il 2024. Ben 3,5 milioni di loro sono bambini. Il Sudan è il Paese
con il più alto numero di bambini sfollati in tutto il mondo.
L’80% degli
italiani considera le guerre “evitabili”. Il rapporto indaga, tramite un
sondaggio di Demopolis, anche la percezione degli italiani rispetto alle
guerre. L’80% le considera “avvenimenti evitabili” (75% nel 2021). Il 71% è in
grado di citare almeno una guerra degli ultimi cinque anni (53%). Il 65% si
interessa di cronaca locale, non di grandi eventi internazionali (82%). Il 72%
vorrebbe potenziare il ruolo dell’Onu (74%). Il 74% non vuole interventi armati
ma il ricorso alla mediazione politica (62%).
Conflitti ancora
più dimenticati dai Tg italiani. L’Osservatorio di Pavia monitora invece quanto
e come si parla di conflitti sui Tg italiani. Nel 2022, le notizie sulle guerre
sono state 4.695, pari all’11,7% di tutte le notizie (42.271). Il 96,5% delle
notizie di guerra parlano dell’Ucraina, il 3,5% parla di Afghanistan e Siria.
Nel 2023, le notizie sulle guerre sono state 3.808, pari all’8,9% di tutte le
notizie (42.976). Il 50,1% è concentrato sul conflitto israelo-palestinese, il
46,5% sulla guerra in Ucraina, il restante 3,4% è distribuito su 15 Paesi in
guerra. In un anno 6 Paesi in guerra (Bangladesh, Etiopia, Guatemala, Honduras,
Iraq e Kenya) non hanno avuto nessuna copertura mediatica.
8 per mille Cei,
il 58,2% dei finanziamenti va a Paesi in guerra. A fronte di questa situazione
il Servizio Cei per gli interventi caritativi per lo sviluppo dei popoli ha
finanziato 1.351 progetti in 28 Paesi interessati da conflitti a estrema o alta
gravità dal novembre 2018 al 31 ottobre 2024. Sul totale dei 2.321 progetti
complessivi finanziati dalla Cei tra il 2018 e il 2014, oltre la metà (58,2%)
ha riguardato Paesi in guerra (57,6% dei fondi erogati).
Beccegato:
“Situazione internazionale molto grave”. “Tutti i dati raccolti da altre
ricerche e da agenzie ufficiali delineano un quadro gravissimo, sia per il
crescere delle guerre ad alta e altissima intensità, sia per la crescita del
numero dei morti e delle persone che dipendono dagli aiuti umanitari, sia del
numero di rifugiati nel mondo, più che raddoppiati”, commenta al Sir Paolo
Beccegato, curatore del volume insieme a Walter Nanni. Un altro aspetto
preoccupante è che oggi i conflitti “in Ucraina, a Gaza e in parte del Medio
Oriente sono tra Stati e tra blocchi e rispettivi alleati”. “Questi indicatori
dimostrano che la situazione geopolitica internazionale è molto grave”,
sottolinea. Da qui un triplice appello per “per una pace basata sulla tutela dei
diritti e non sulla logica del più forte”: rilanciare “il dialogo”, entrando
“in logiche win-win in cui tutti possono vincere”. Inoltre, prosegue, “in
questi 25 anni di ricerche abbiamo individuato che la povertà, il degrado
ambientale, la speculazione finanziaria e il mercato delle armi sono fattori
interconnessi con l’insorgere della violenza armata organizzata. Lottare contro
questi fattori è minare il terreno fertile dove attecchiscono le guerre”.
Infine bisogna “ragionare sulle strutture, sui valori, sull’educazione e la
cultura su cui costruire un ordine internazionale in cui la pace non è solo
assenza di guerra ma armonia tra società”. Sir 9
Siccità, in Sicilia l’emergenza idrica è diventata una “guerra tra poveri”
Centinaia di
manifestanti e cinque sindaci hanno occupato la diga dell'Ancipa tentando di
impedire l'erogazione dell'acqua verso Caltanissetta e San Cataldo
La siccità si è
trasformata in uno scontro tra cittadini in Sicilia, dove l’emergenza idrica
sta contrapponendo le province di Enna e Caltanisetta, le due province più
colpite dall’assenza di precipitazioni. Al centro della contesa, l’acqua
potabile che in Sicilia è ormai diventata “il prezioso liquido”, come scrivono
i giornali locali.
Proteste a Enna e
Caltanissetta: lo scontro sull’invaso dell’Ancipa
La situazione è
degenerata sabato scorso, quando i sindaci di cinque comuni dell’ennese
(Troina, Nicosia, Sperlinga, Gagliano Castelferrato e Cerami) hanno occupato la
diga dell’Ancipa e hanno tentato di bloccare la condotta per impedire
l’erogazione dell’acqua verso Caltanissetta e San Cataldo. La protesta, con
centinaia di manifestanti al seguito, si è scatenata dopo la decisione della
cabina di regia regionale di ripristinare l’approvvigionamento idrico verso i
due comuni, che era stato precedentemente (15 novembre) interrotto per la
drastica riduzione della capacità dell’invaso, quasi completamente a secco.
A guidare la
protesta Fabio Venezia, deputato regionale ed ex sindaco di Troina:
“Avevamo avvisato la cabina di regia che se non avesse staccato il collegamento
verso i paesi del nisseno lo avremmo fatto noi” spiega Venezia annunciando di
avere bloccato la condotta diretta a Caltanissetta. L’ente gestore smentisce
che il blocco della condotta abbia interrotto il flusso idrico, ma Venezia
ribadisce: “Siciliacque sarà anche in grado di fornire acqua visto che ne ha
pompata per due giorni e avrà riempito i serbatoi, ma posso assicurare che per
Caltanissetta e San Cataldo dall’Ancipa non ne esce una goccia“.
Di tutt’altro
tenore le parole del sindaco di Caltanisetta Walter Tesauro: “I pozzi
sono già operativi, tuttavia l’acqua prelevata non sta ancora raggiungendo le
case dei cittadini a causa di una rottura della conduttura. L’amministrazione
ha chiesto che si accelerino i lavori di riparazione, operando senza sosta,
anche nelle ore notturne”. Intanto, ogni giorno che passa senza pioggia,
la Sicilia sprofonda sempre più giù tra le pieghe aride del terreno siccitoso.
Dati aggiornati
sulla crisi idrica in Sicilia
Secondo il report
2024 dell’Osservatorio delle Risorse Idriche dell’ISPRA, la Sicilia è la
regione italiana con il più alto deficit idrico, con precipitazioni in calo del
35% negli ultimi due anni rispetto alla media storica. Il livello degli invasi
principali, tra cui l’Ancipa e il Lago di Pozzillo, è sceso a meno del 20%
della capacità totale. A ottobre 2024, l’Ancipa conteneva solo 7 milioni di
metri cubi di acqua, contro una media storica di 18 milioni.
L’Associazione
Nazionale Bonifiche e Irrigazioni (Anbi) ha inoltre segnalato che circa il 70%
dei comuni siciliani è sottoposto a turnazioni idriche, con interruzioni che in
alcune aree superano i sette giorni consecutivi.
Sono tante le
regioni italiane che restano alla finestra, dodici quelle a rischio siccità
secondo le stime Ambrosetti.
Le proposte della
Regione: dissalatori e nuovi pozzi
Il governatore
Renato Schifani ha annunciato l’acquisto di dissalatori mobili e
l’individuazione di nuovi pozzi per fronteggiare la crisi: “Ce la stiamo
mettendo tutta e faremo in modo che per la prossima estate i dissalatori mobili
possano essere in funzione, in aggiunta ai nuovi pozzi che stiamo individuando,
per evitare che la crisi possa essere sempre più drammatica. Cercheremo di
garantire tutti con il massimo della responsabilità”, dice Schifani.
Nel frattempo, le
accuse di cattiva gestione si moltiplicano. Davide Faraone, leader di Italia
Viva, ha denunciato “l’incapacità della Regione di pianificare infrastrutture
adeguate per prevenire la crisi”.
Impatti sul
territorio e sulla popolazione
La crisi idrica colpisce
i cittadini su più fronti, inclusi settori chiave come l’agricoltura e
l’allevamento, che rappresenta il 20% del Pil regionale. Le associazioni di
categoria stimano perdite per oltre 500 milioni di euro nel 2024 a causa della
scarsità d’acqua per l’irrigazione.
Per i cittadini,
il razionamento idrico si traduce in costi maggiori: il prezzo delle cisterne
private è aumentato del 30% rispetto al 2023, rendendo l’acqua sempre più
inaccessibile per le famiglie a basso reddito.
La siccità in
Sicilia è un chiaro esempio di come la insostenibilità ambientale diventi
rapidamente insostenibilità sociale. Lo stesso governatore Schifani non ha
usato mezzi termini per descrivere la battaglia tra le province di Enna e
Caltanisetta: siamo di fronte a una “guerra tra poveri”. Adnkronos 2
Cgie, Il Comitato di Presidenza programma l’agenda del 2025
In primo piano
messa in sicurezza del voto all’estero, riforma della legge istitutiva,
cittadinanza, incentivi al rientro, diffusione della lingua e della cultura, e
V Assemblea plenaria della Conferenza permanente Stato-Regioni-PA-Cgie
ROMA – Il Comitato
di Presidenza del Consiglio Generale degli Italiani all’Estero, riunito alla
Farnesina dal 25 al 28 novembre, ha fissato i temi di lavoro di quella che sarà
l’agenda del 2025. Durante le giornate romane – informa la nota del Cgie – si è
svolto in primo luogo il tradizionale confronto con l’Esecutivo, nella persona
del sottosegretario Silli, che ha condiviso la Relazione di Governo sulle
politiche a favore degli italiani all’estero, nonché con il direttore generale
della DGIT del MAECI Luigi Maria Vignali sulla situazione dei servizi
consolari, dei Com.It.Es. e del progetto Turismo delle radici. Con Silli e
Vignali sono state inoltre esaminate le questioni legate alla legge di
Bilancio, oggetto anche delle audizioni davanti al Comitato permanente per gli
italiani nel mondo della Camera e alla Commissione Affari esteri e Difesa del
Senato, dove sono state esposte le preoccupazioni relative a una misura
introdotta nella manovra, ritenuta lesiva della pari dignità fra i cittadini,
relativa alla non rivalutazione per il prossimo anno delle pensioni superiori
alle minime per i residenti fuori dai confini nazionali. È stata inoltre
rappresentata la necessità di garantire al Cgie la possibilità di svolgere le
attività che gli assegna la legge istitutiva, ripristinando il finanziamento
pre-covid di 1,1 milioni di euro. L’attuale stanziamento, infatti, che con il
taglio lineare del 5% rispetto allo scorso anno è ridotto a 548 mila euro,
rende possibile soltanto l’organizzazione di un’Assemblea plenaria e di una
riunione del Comitato di Presidenza in presenza, ma non consente di tenere sui
territori le riunioni con le comunità, con i Com.It.Es., con le Consulte
regionali dell’emigrazione e con gli esperti, la cui consultazione nei primi
sei mesi dell’anno conferirà maggior peso alla rappresentanza di base sulle
decisioni assunte dall’Assemblea plenaria e sarà fondamentale per la
predisposizione da parte del Cgie delle proposte di messa in sicurezza del voto
all’estero e di riforma della legge istitutiva del Consiglio Generale. Il clima
unitario registrato in Parlamento, tuttavia, autorizza un cauto ottimismo
riguardo alla possibilità di un’integrazione sul capitolo di bilancio relativo
all’organismo. Con riferimento ai progetti di legge oggetto del dibattito
politico, il Comitato di Presidenza ha evidenziato come il voto dei
connazionali nel mondo sia un diritto acquisito che non deve in alcun modo
essere messo a rischio, ma vanno semmai adottate soluzioni per incrementare la
partecipazione, per riformarlo ed evitare brogli. Si provvederà pertanto a
predisporre un documento da sottoporre all’approvazione dell’Assemblea plenaria
2025 che esprimerà la proposta del Cgie al Legislatore. La riforma della legge
istitutiva del Cgie, dopo quella dei Comites, la cui proposta è già stata
trasmessa al Parlamento, è resa opportuna dalla necessità di adattare la
rappresentanza all’attuale realtà della nostra diaspora, molto più complessa
rispetto a quella storica. Al riguardo, si è sottolineata l’esigenza di mettere
a punto incentivi al rientro per garantire circolarità alla nuova emigrazione
mediante l’introduzione di politiche di lavoro e industriali, che favorirebbero
la ripresa economica e il ritorno di competenze scientifiche del Paese. I
connazionali oltre confine sono infatti una risorsa fondamentale per arginare
il fenomeno dell’inverno demografico in atto in Italia. Allo scopo, occorre
compiere un’approfondita valutazione delle ragioni che spingono a partire e
comprendere cosa fare per convincerli a tornare. Allo stesso modo, deve essere
avviata un’attenta analisi sul delicatissimo tema relativo alla cittadinanza,
in merito al quale il Cgie intende farsi parte attiva elaborando una proposta
da sottoporre al Parlamento; si tratta di adattare la legge alla realtà odierna
partendo dall’assunto che chi nasce da genitori italiani è italiano. Sul tema,
il Consiglio Generale trova una sua convergenza sul valore dell’identità
italiana e sulla necessità di conoscere la lingua, la cultura e i fondamenti
della Carta costituzionale. La cittadinanza deve essere quindi un istituto il
più possibile consapevole. In questa ottica si rende assolutamente necessario
rivalutare il sostegno, anche finanziario, ai corsi di italiano all’estero,
fondamentali ai fini del mantenimento dell’italianità degli oriundi, tenendo
conto delle specificità dei vari territori. Il Comitato di Presidenza richiama
nuovamente l’attenzione della Pubblica amministrazione sulla situazione in cui
versano molti enti gestori dei corsi di lingua e cultura italiana nel mondo a
causa dei problemi economici derivanti dagli inadeguati finanziamenti dello
Stato. Con gli interlocutori istituzionali il CdP ha infine rimarcato
l’importanza di procedere alla convocazione della V Assemblea plenaria della
Conferenza permanente Stato-Regioni-PA-CGIE, che per legge dovrebbe tenersi
ogni tre anni e ha il compito di indicare le linee programmatiche per la
realizzazione delle politiche del Governo, del Parlamento e delle Regioni per
le comunità italiane all’estero; linee programmatiche che costituiranno
l’indirizzo politico e amministrativo delle attività del CGIE nel prossimo
triennio. (Inform/dip 2)
Scrivere dei
Connazionali all’estero continua a non fare notizia. I milioni d’italiani nel
mondo hanno sempre meno contatti concreti col Bel Paese. Quasi che gli italiani
in Patria si siano scordati, nel concreto, di quelli che vivono oltre
frontiera.
Se, poi, si tiene
conto che la maggioranza di connazionali all’estero si trova nel Vecchio
Continente, allora la nostra percezione si fa amarezza. Vale a dire che, pur se
tanto geograficamente ”vicini”, molti italiani restano, nel concreto,
“lontani”.
Insomma, per i
Connazionali che vivono”altrove”, sono più i doveri che la Patria richiede
rispetto ai diritti. Ogni iniziativa resta ovattata tra le tante che non
trovano giusto assetto tra quelle da dibattere in Parlamento.
Eppure, non
abbiamo mai scritto di “privilegi”. Ci siamo sempre impegnati nel fare
presente, a chi spetta, lo status degli italiani all’estero. E’ rimasto,
comunque, lo scarso apprezzamento per chi ha dovuto cercare altrove pane e
lavoro. Insomma, per riavere una meritata dignità.
Perciò, prima d’evidenziare i doveri, sarebbe
opportuno supportare anche quei diritti di chi ha avuto la sorte di vivere e
lavorare lontano dal suo Paese. Intendiamo, quindi, promuovere l’italianità nel
mondo. Le”proroghe” non convincono nessuno. Tanto meno noi che siamo sul fronte
dell’informazione da tanti anni. Giorgio Brignola, de.it.press
M5S, Grillo: "Movimento è morto, Conte lo ha distrutto"
In un
videomessaggio su Facebook: "Smarriti tutti i valori. Tutti i miei progetti
che arrivavano al Mago di Oz non arrivavano perché lui non si faceva mai
trovare"
Il Movimento 5
Stelle "è morto" e Giuseppe Conte è "il mago di Oz" che ha
affossato i progetti. Beppe Grillo, come annunciato, invia il suo messaggio
alle 11.03 del 3 dicembre. Il fondatore e garante del Movimento, nel pieno
dello scontro con Conte, parla dal volante di un carro funebre per formalizzare
il decesso del M5S.
"Ha ragione
quella eletta in Sardegna", la governatrice Alessandra Todde, "che ha
detto 'me ne frego di Grillo'. Benissimo, facciamo un altro simbolo, andiamo
avanti. Bene, coraggio, fatevi un altro simbolo, andate avanti e fate le vostre
cose. Il Movimento è morto, stramorto, però è compostabile, l'humus che c'è
dentro non è morto", dice Grillo in un video di circa 9 minuti diffuso su
Facebook.
"L'humus
della transizione energetica, digitale, di portare avanti una sequenza della
narrazione del futuro, perché oggi non c'è più il futuro perché non si capisce
il presente, infatti tutti i partiti sono andati indietro di vent'anni, parlano
di fascismo, antifascismo, rivoluzioni, antirivoluzioni, parlano del passato
perché non capiscono più nulla", dice ancora.
Il siluro a Conte:
"Mago di Oz che non si faceva trovare"
La votazione che
ha sancito la cancellazione della figura del garante e della regola dei 2
mandati andrà ripetuta, proprio dopo il ricorso di Grillo. "Be', sono
ottimista per le votazioni del 5 di dicembre. Devo parlarvi come attuale e
confermato dallo Statuto garante, quindi come custode dei valori, i grandi
valori del Movimento 5 stelle. Valori che sono scomparsi in questi tre anni.
Non so quale narrazione vi è stata fatta, io come garante non intervenivo in
nulla, tutti i miei progetti che arrivavano al Mago di Oz non arrivavano perché
lui non si faceva mai trovare, e i progetti sono stati tantissimi", dice
con una stoccata a Conte, che non viene nominato.
"Vorrei
mettervi a conoscenza di questo, cosa gli ho ribadito l'ultima volta che ci
siamo visti a Roma - aggiunge -. Gli ho detto 'fammi dare una mano, prendi i
progetti che ti ho mandato, sono una cinquantina di cose meravigliose, fatti
dare una mano'. Mi ha detto: 'Sì, ci vediamo una volta al mese', poi non si è
fatto più trovare. La sua dinamica era quella di non farsi mai trovare da me.
Quindi i miei progetti, da quelli istituzionali fatti con dei professionisti,
dalla sfiducia costruttiva con lo sbarramento al 5%, la legge anti zombie cioè
il cambio di casacca, c'è stata poi la legge sui condomini per le assemblee per
non farle all'unanimità ma a maggioranza in modo da delimitare il turismo degli
affitti a due o tre giorni".
"Gli ho dato
qualsiasi cosa, gli ho mandato il due ventiventi che era portare il consumo di
elettricità a 2kwatt anziché 6, 20 tonnellate di materia prima invece di 40,
diminuire le ore di lavoro a 20 anziché 40, e aumentare l'efficienza. Tutti
questi progetti, le stelle polari, la legge che abbiamo fatto con due ingegneri
sulla tutela dei gatti dei cittadini, e così una sequenza di cose che non hanno
mai avuto risposta", prosegue sottolineando: "Io da tutore dei valori
sacri, questi valori sono stati traditi in questi tre anni".
Conte "ha
disintegrato il Movimento"
"Siete
diventati un partito che segue un Oz, di gente che non riconosco più. Infatti
quando venivo giù, in quel famoso ufficio che mi era stato concesso non c'era
nessuno, non veniva nessuno. Avevo già perso, lo capivo, io ho già perso, però
i valori li abbiamo fatti con Casaleggio, che ci ha messo l'intelligenza, io ci
ho messo il coraggio e milioni di italiani ci hanno messo il cuore. Sono queste
tre cose che hanno fatto sì che il Movimento avesse un'identità", prosegue
addossando a Giuseppe Conte la responsabilità di aver "disintegrato il
Movimento" con silenzi e non risposte usate come "una carta" per
far fuori il garante.
"I due
mandati, io scompaio proprio in funzione dei due mandati. Questa votazione
aveva 20 domande per coprire le tre, che sono quella di mandare via me, di fare
due mandati, tre o quattro, e poi la situazione del presidente. Quindi, per
coprire quelle tre domande ne sono state fatte venti, tipo cosa è la giustizia,
cosa ne pensi della sanità. E poi hanno votato meno della metà degli iscritti,
quindi io vi pongo un dubbio", dice ancora Grillo nel suo videomessaggio.
"Io ho già
perso, lo so, ma sono ottimista perché questo movimento aveva un'identità
straordinaria - aggiunge -. L'identità dei due mandati, eravamo d'accordo con
il Mago di Oz per fare una legge dello Stato, e in più io aggiungevo che
bisognava fare il primo mandato nei comuni, perché è nei comuni che passa la
strategia economica del futuro, perché la globalizzazione sarà decentrata sui
comuni. I comuni finalmente conteranno e faranno la politica di serie A che è
l'unica politica che conta". Adnkronos 3
Bruxelles -
L’Intercomites del Belgio, lette le misure proposte nella legge di bilancio
attualmente in discussione in Parlamento e riguardanti le misure relative agli
italiani all’estero, hanno diramato in queste ore una nota di protesta rispetto
a questo aspetto definito “punitivo e discriminatorio”. In particolare su due
questioni che premono le comunità italiane in Belgio: i diritti dei pensionati
all’estero e lo stanziamento dei fondi per Comites e CGIE.
Riguardo i diritti
dei pensionati residenti all’estero, maturati con gli anni di lavoro, i
presidenti dei Comites belgi hanno spiegato: “devono essere trattati nello
stesso modo indipendentemente dal paese di residenza. L’esclusione dalla
perequazione automatica delle pensioni superiori al trattamento minimo dei
residenti all’estero introduce una ingiustificata disparità di trattamento
rispetto ai residenti in Italia, che oltre ad essere ingiusta ci pone anche dei
seri dubbi sulla costituzionalità stessa della proposta”.
Per questo,
l’Intercomites ha spiegato di sostenere l’emendamento presentato dai
parlamentari del Pd che richiede la soppressione del blocco della rivalutazione
dell'indicizzazione per i pensionati che vivono all'estero. Infatti, “stiamo
parlando di 8 milioni di euro, uno scippo vero e proprio, che si spalmerà fino
al 2034. Un italiano all'estero che prende mille euro al mese, dal 2026 perderà
ogni mese 50 euro, oltre all'eccedenza dell'anno”.
Senza mezzi
termini, l’Intercomites ha definito questo atto “gravissimo” e “un danno
significativo arrecato ai pensionati italiani all’estero”.
Riguardo, invece,
lo stanziamento predisposto per il CGIE e per il buon funzionamento dei
Comitati degli italiani all’estero, secondo l’Intercomites Belgio “risultano
totalmente inadeguate alle esigenze di protezione delle comunità italiane nel
mondo”. A tal ragione, “sosteniamo pienamente le richieste già effettuate dalla
Direzione Generale degli Italiani all’Estero del MAECI, correttamente
quantificate, e l’emendamento presentato dai parlamentari del Pd per un
maggiore supporto di queste strutture attraverso uno stanziamento di 500.000
euro sia nel 2025 che nel 2026 per il contributo alle spese di funzionamento
del CGIE e dei COMITES, due organismi rappresentativi della collettività
italiana all'estero”.
A firmare questa
nota sono stati: Mario Castelli - Presidente Com.It.Es Charleroi e Presidente
dell’Intercomites Belgio, Alessandra Buffa - Presidente Com.It.Es Bruxelles,
Mario Guarino - Presidente Com.It.Es Limburgo, Giuseppe Maniglia - Presidente
Com.It.Es Liegi, e Luigi Ferretti - Presidente Com.It.Es Mons.
(aise/dip
13)
In Italia nascerà la rete dei musei sull’emigrazione
La grande iniziativa
è stata lanciata a Genova nell’ambito di Italea,
il programma di
promozione del turismo delle radici lanciato dal Ministero
degli Affari
Esteri all’interno del progetto PNRR e finanziato da NextGenerationEU
Genova – Una rete
dei Musei dell’Emigrazione italiana per valorizzare il patrimonio di conoscenze
che custodiscono. È la grande iniziativa presentata oggi al Congresso
internazionale "Diaspore Italiane - Rappresentazione e Questioni di
Identità" di Genova, nell’ambito del Progetto Italea, il programma di
promozione del turismo delle radici lanciato dal Ministero degli Affari Esteri.
«Il patrimonio custodito dai nostri Musei dell'Emigrazione deve essere
condiviso e messo a disposizione dei viaggiatori delle radici che vengono a
visitare i luoghi da cui sono partiti i loro antenati - ha detto Giovanni Maria
De Vita, Responsabile del Progetto Italea per il Ministero degli Affari Esteri
- ma anche dell'opinione pubblica italiana affinché conosca e apprezzi la storia
dell'emigrazione e si renda conto del potenziale che offre questa eccezionale
risorsa rappresentata dagli 80 milioni di italiani all'estero, che hanno
raggiunto tutti i vertici delle società in cui vivono». «Siamo a Genova - ha
aggiunto inoltre Luigi Maria Vignali, direttore generale per gli italiani
all'estero della Farnesina - per rafforzare il senso e l'importanza dei musei
dell'Emigrazione in Italia. Sono un patrimonio che va valorizzato per conoscere
meglio la storia della nostra emigrazione, ancora troppo poco conosciuta».
I NUMERI DEL
PROGETTO - A Genova sono stati presentati i numeri del Progetto Italea, che
mira proprio ad attrarre italiani all’estero e italo-discendenti intenzionati a
scoprire i luoghi e le tradizioni delle proprie origini. Italea ha costruito
una rete sul territorio capillare e dinamica con 20 gruppi regionali e 16
coordinatori. Il sito web italea.com è già stato visitato da oltre un milione e
100 mila persone; sono quasi 5.000 le richieste di viaggi o ricerche
genealogiche, 368.000 visualizzazioni del sito Italea Card (la card che offre
vantaggi, sconti e agevolazioni per chi viene in Italia a scoprire le sue
origini) e 11.252 iscritti al programma. E ancora: 833 Comuni coinvolti e 742
eventi già organizzati. Oltre 60 eventi di sensibilizzazione in Italia
organizzati dalle Italee regionali per favorire le occasioni di collaborazione
e confronto; 19 missioni all’estero in 13 Paesi con una partecipazione stimata
di oltre 1,5 milioni di persone.
COS’È ITALEA - In
coincidenza con l’Anno delle Radici Italiane nel Mondo è stato avviato Italea,
il programma di promozione del turismo delle radici lanciato dal Ministero
degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale all’interno del
progetto PNRR e finanziato da NextGenerationEU, che invita gli
italo-discendenti nel mondo a venire a visitare il Paese di origine della
propria famiglia. Il Turismo delle radici nasce con l’intento di far scoprire
cultura, riti e tradizioni e valorizzare i luoghi che non sono meta del turismo
di massa. Il progetto coinvolge oltre 800 piccoli Comuni italiani, vincitori
del bando per la realizzazione di attività culturali in favore degli
italo-discendenti. Italea si riferisce al nostro Paese e alla
"talea", una pratica con cui si consente ad una pianta di propagarsi.
Recidendone una parte e ripiantandola, le si può dare nuova vita, facendo
crescere nuove radici: proprio come accade con le migrazioni. Questo programma
rappresenta un invito alla riscoperta della “pianta madre”.
IL DIBATTITO A
GENOVA – A Genova nei giorni 5, 6 e 7 dicembre presso il MEI-Museo Nazionale
dell'Emigrazione Italiana e il Galata Museo del Mare, si tiene la quinta
edizione del congresso internazionale "Diaspore Italiane -
Rappresentazione e Questioni di Identità", evento di approfondimento e
discussione sul fenomeno dell'emigrazione italiana e le realtà dei musei delle
migrazioni. Tre giorni di dibattitto sul tema dell’emigrazione italiana: oltre
80 esperti provenienti da vari paesi per analizzare lo stato dell’arte
dell’emigrazione italiana e sulle realtà museali dedicate.
Di seguito la
lista dei Musei che hanno finora aderito alla Rete:
* Abruzzo -
Fondazione Genti d’Abruzzo Onlus, ente gestore del Museo delle Genti d’Abruzzo
– Pescara
* Basilicata -
Museo Emigrazione Lucana – Centro Lucani nel Mondo “Nico Calice” - Lagopesole
(PZ)
* Campania - Museo
del Cognome - Padula (SA)
* Calabria - La
Nave della Sila - Spezzano della Sila (CS)
Museo del Mare,
dell’Agricoltura e delle Migrazioni - Cariati (CS)
* Emilia-Romagna -
Centro di documentazione dell’emigrazione parmense Bedonia – Parma
* Liguria - Museo
Internazionale dell’Emigrazione Italiana – Genova
MuSel – Museo
Archeologico e della Città di Sestri Levante - Sestri Levante
* Marche - MEMA –
Museo dell’Emigrazione Marchigiana – Recanati
* San Marino - Museo
dell’Emigrante – Centro di ricerca sull’emigrazione
* Molise - Museo
Comunale delle Migrazioni - Vinchiaturo (CB)
* Piemonte -
Centro Studi Silvio Pellico ETS, Comitato di gestione del Museo Regionale
dell’emigrazione dei Piemontesi – Frossasco (TO)
Museo Regionale
dell’emigrazione vigezzina nel mondo – Museo Spazzacamino - Santa Maria
Maggiore
* Sardegna - MEA –
Museo dell’emigrazione sarda – Asuni
* Sicilia - Museo
Eoliano dell’emigrazione - Salina (ME)
Museo Ibleo
dell’Emigrazione - Giarratana (SR)
Museo Etnologico
Caropepe Valguarnera - Caropepe (EN)
Ecomuseo Petra
d’Asgotto Nicosia (EN)
Museo
dell’Emigrazione dell’Area Trapanese di Santa Ninfa - Santa Ninfa (TP)
Museo Tempo
Canicattini Bagni (SR)
* Toscana -
Archivio Diaristico nazionale - Pieve Santo Stefano
* Veneto - MiM
Museo interattivo delle migrazioni – Belluno.
Italea/de.it.press
5
Presentata al congresso “Diaspore Italiane” la rete dei Musei dell’Emigrazione italiana
Genova – Una rete
dei Musei dell’Emigrazione italiana per valorizzare il patrimonio di conoscenze
che custodiscono. È l’iniziativa presentata al congresso internazionale
“Diaspore Italiane – Rappresentazione e Questioni di Identità” di Genova,
nell’ambito del Progetto Italea, il programma di promozione del turismo delle
radici lanciato dal Ministero degli Affari Esteri. L’evento si è tenuto presso
il MEI – Museo Nazionale dell’Emigrazione Italiana e il Galata Museo del Mare.
Giovanni De Vita (Responsabile del Progetto Italea – MAECI) nel suo intervento
ha parlato di questo progetto come di una parte caratterizzante del turismo
delle radici proposto da Italea. “Abbiamo voluto assicurare dei contenuti
culturali a questa iniziativa, creando una comunità di musei dell’emigrazione
italiana”, ha spiegato De Vita sottolineando la mole di patrimonio migratorio
custodito in queste sedi museali. Per De Vita il turista delle radici appare
interessato a riscoprire anche la parte storica relativa agli albori dei flussi
migratori italiani. “Il patrimonio custodito dai nostri musei dell’emigrazione
deve essere condiviso e messo a disposizione dei viaggiatori delle radici che
vengono a visitare i luoghi da cui sono partiti i loro antenati”, ha aggiunto
De Vita che segnala anche un altro obiettivo: proprio attraverso questa rete
museale, l’idea è quella di portare nelle scuole la conoscenza della storia
dell’emigrazione italiana. De Vita ha inoltre rilevato che il progetto è aperto
anche ad altre entità che possono essere diverse dal museo inteso in senso
tradizionale, magari centri di ricerca che hanno materiale interessante
sull’emigrazione. A seguire De Vita ha letto la lista dei Musei che hanno
finora aderito alla Rete: Abruzzo – Fondazione Genti d’Abruzzo Onlus, ente gestore
del Museo delle Genti d’Abruzzo – Pescara; Basilicata – Museo Emigrazione
Lucana – Centro Lucani nel Mondo “Nico Calice” – Lagopesole (PZ); Campania –
Museo del Cognome – Padula (SA); Calabria – La Nave della Sila – Spezzano della
Sila (CS) Museo del Mare, dell’Agricoltura e delle Migrazioni – Cariati (CS);
Emilia-Romagna – Centro di documentazione dell’emigrazione parmense Bedonia –
Parma; Liguria – Museo Internazionale dell’Emigrazione Italiana – Genova, MUSEL
– Museo Archeologico e della Città di Sestri Levante – Sestri Levante; Marche –
MEMA – Museo dell’Emigrazione Marchigiana – Recanati; San Marino – Museo
dell’Emigrante – Centro di ricerca sull’emigrazione; Molise – Museo Comunale
delle Migrazioni – Vinchiaturo (CB); Piemonte – Centro Studi Silvio Pellico
ETS, Comitato di gestione del Museo Regionale dell’emigrazione dei Piemontesi –
Frossasco (TO), Museo Regionale dell’emigrazione vigezzina nel mondo – Museo
Spazzacamino – Santa Maria Maggiore; Sardegna – MEA – Museo dell’emigrazione
sarda – Asuni; Sicilia – Museo Eoliano dell’emigrazione – Salina (ME),
Museo Ibleo dell’Emigrazione – Giarratana (SR), Museo Etnologico Caropepe
Valguarnera – Caropepe (EN), Ecomuseo Petra d’Asgotto Nicosia (EN), Museo
dell’Emigrazione dell’Area Trapanese di Santa Ninfa – Santa Ninfa (TP), Museo
Tempo Canicattini Bagni (SR); Toscana – Archivio Diaristico nazionale – Pieve
Santo Stefano; Veneto – MIM Museo interattivo delle migrazioni – Belluno.
De Vita, oltre a sottolineare la piena apertura del progetto ai musei nel
mondo che mantengono viva la memoria della nostra emigrazione, ha rilevato come
sul portale Italea i musei dell’emigrazione che hanno aderito all’iniziativa
avranno uno spazio dedicato e potranno aggiornare i loro dati. Ha poi
preso la parola Luigi Maria Vignali (Direttore generale per gli italiani
all’estero – Maeci) che ha definito i musei come luoghi in grado di dare
ispirazione nei quali soffermarsi per riflettere. “Genova è bellissima, è una
città portuale e vitale”, ha aggiunto Vignali invitando allo stesso tempo a
visitare Musei come quello dell’Emigrazione o del Mare per avere una conoscenza
profonda della storia della città. “Lo stesso vale per il turista delle
radici”, ha rilevato Vignali per dire che non si può avere la giusta conoscenza
di un tema senza visitarne il museo dedicato. Il Direttore Generale ha anche
ricordato l’importanza dell’archivio diaristico di Pieve Santo Stefano, il
luogo e il momento significativo che ha dato il via a tutto questo movimento
creatosi attorno al concetto di viaggio delle radici. “Queste storie andrebbero
raccontate ai discendenti di coloro che le hanno vissute”, questa è l’idea che
per Vignali ha fatto scattare la scintilla: il racconto quale leva per il
ritorno nei luoghi d’origine. “La memoria si basa sui racconti che mantengono
il desiderio di tornare”, ha evidenziato Vignali menzionando il progetto
intitolato “I diari raccontano”. Il Direttore Generale, riferendosi al nome del
progetto “Italea”, ha paragonato l’emigrazione italiana a una pianta che
viene trapiantata altrove e mette le radici in un altro luogo potendo però un
giorno tornare per incontrare nuovamente la pianta madre. Il nome del progetto
Italea – ha spiegato – deriva proprio dal termine talea che indica la capacità
di un ramo di una pianta trapiantato altrove di rigenerarsi. “Italea è una
piattaforma e offre una serie di contenuti e possibilità”, ha aggiunto Vignali
pensando ad esempio alle nuove generazioni nate all’estero che non hanno mai
conosciuto di persona l’Italia e ne hanno un sentimento di affetto forte senza
però averne ancora un’immagine concreta e tangibile. “Vogliamo raggiungere i
giovani nelle scuole attraverso forme di comunicazione a loro dedicate”, ha poi
spiegato Vignali ricordando la creazione di un fumetto sui viaggi delle radici
dal titolo “Sotto lo stesso cielo”. L’idea è quella di poter raccontare certe
tematiche anche attraverso le immagini che possono arrivare in maniera più
diretta, soprattutto ai giovani. Il Direttore Generale ha poi ricordato il
viaggio delle radici, come appendice di un viaggio istituzionale, compiuto dal
politico canadese Anthony Rota, di origini calabresi: il nonno partì
dall’Italia nel 1903 per andare in Ontario. Vignali si è poi soffermato
sull’impatto emotivo che offre un viaggio delle radici, al quale bisogna però
dare anche dei contenuti culturali e di approfondimento. “Parliamo della
conoscenza della storia dell’emigrazione italiana, che è poi il motore
dell’insegnamento nelle scuole”, ha precisato Vignali auspicando il
raggiungimento di questo obiettivi. (Inform/dip 8)
Sanatoria su vuoti contributivi Inps. Avviata l’equiparazione tra il personale del Maeci
E´ stato approvato
in queste ore al Senato il ddl lavoro che, all´articolo 24, reca “disposizioni
in materia previdenziale concernenti il personale a contratto degli uffici
all'estero del Ministero degli affari esteri e della cooperazione
internazionale”. L’emendamento all’articolo menzionato era stato approvato
durante la lettura del provvedimento presso la Camera dei Deputati, su
segnalazione della CONFSAL UNSA.
L´articolo 24 pone
fine alla sperequazione insostenibile ed incomprensibile sussistente tra
personale della PA e il personale a contratto dinanzi alla sussistenza di vuoti
contribuiti prescritti, che hanno condotto i nostri colleghi ormai in
quiescenza a non poter accedere alla spettanza pensionistica in ragione
dell’assenza nel prospetto contributivo di alcuni versamenti presso l´INPS
antecedenti al 2004 e dunque andati in prescrizione.
Uno scenario
drammatico su cui CONFSAL UNSA ha inteso agire per rettificare le disposizioni
normative, avviando un approfondimento con la politica e l´amministrazione
nella prospettiva di includere nella sanatoria prevista dalla legge di bilancio
per il 2024 anche gli impiegati a contratto del MAECI, esclusi senza alcuna
ragione.
La sanatoria che,
una volta pubblicato il predetto ddl in Gazzetta Ufficiale, sarà legge dello
Stato, dispone l’applicazione dell'articolo 1, comma 131, della legge n. 213
del 2023 (ai sensi del quale, al fine di ritenere assolti gli obblighi
contributivi, per i periodi di paga fino al 31 dicembre 2004, le
amministrazioni pubbliche, per i propri dipendenti iscritti alla gestione ex
INPDAP costituita presso l’INPS, sono tenute a trasmettere all’INPS, ai fini
della corretta
implementazione
delle posizioni assicurative individuali, esclusivamente le denunce mensili di
cui all’articolo 44, comma 9, del decreto legge n. 269 del 2003, ovvero quelle
relative alle retribuzioni decorrenti dal gennaio 2005) anche al personale di
cui all'articolo 152 del DPR n. 18 del 1967, ovvero al personale a contratto,
iscritto a enti previdenziali italiani.
Ancora una volta
CONFSAL –UNSA mette al centro della propria attenzione i lavoratori, impiegando
tutte le energie, le competenze e gli strumenti a propria disposizione per
costruire un percorso di equiparazione tra lavoratori della stessa
Amministrazione, in passato mai esistita, ma che - anche in prospettiva degli
interventi su cui il nostro Sindacato sta lavorando e che troveranno spazio nei
prossimi provvedimenti – diverrà nei prossimi anni una realtà di fatto, a cui
guardare con fiducia e speranza.
Confsal Unsa
Esteri, dip 12
Belluno - Concluso
il convegno internazionale “Le migrazioni nelle Alpi”: una riflessione
condivisa sul futuro delle aree montane andato in scena lo scorso 29 novembre
nella suggestiva cornice della Sala Conferenze dell’Area Megalitica di Corso
Saint-Martin-de-Corléans. L’evento, a cui ha partecipato anche l’Associazione
Bellunesi nel Mondo, ha rappresentato un’importante occasione per riflettere
sulle sfide dello spopolamento delle aree montane e sulla necessità di
preservare il patrimonio culturale delle Alpi, coinvolgendo esperti,
istituzioni e associazioni provenienti da tutta la regione alpina.
Tra gli
interventi, dunque, anche quello di Oscar De Bona, presidente ABM e UNAIE –
Unione Nazionale Associazioni Immigrati ed Emigrati, che ha sottolineato
l’importanza di una prospettiva condivisa tra le regioni alpine. “La geografia
di questo convegno ci ha spinto a parlare di una geografia non in verticale, da
sud a nord, ma orizzontale, da est a ovest – ha spiegato De Bona -. Una linea
orizzontale che accomuna una vasta area di montagna che si trova ad affrontare
le stesse problematiche di spopolamento, di storia di emigrazione e anche di
immigrazione. Sono convinto che lavorando tutti assieme possiamo portare un
beneficio a tutto il comprensorio alpino dando voce e azione ai nostri
emigranti e discendenti”.
Un ricco programma
di interventi
Il convegno,
articolato in una sessione mattutina e una pomeridiana, ha offerto una
panoramica dettagliata sulle dinamiche migratorie alpine e sulle prospettive
future per le comunità montane. Dopo i saluti istituzionali di Marlène Domaine,
sindaco di Saint-Nicolas, e Luciano Caveri, Assessore agli Affari europei,
Innovazione, PNRR e Politiche nazionali per la montagna, si sono susseguiti
interventi di alto livello.
Jean-Pierre Martin
Perolino, presidente del Comité Fédéral des Sociétés d’Emigrés Valdôtains
(COFESEV), ha illustrato il fenomeno dell’emigrazione valdostana nel mondo,
mentre Laurent Rigaud, presidente dei Savoyards du Monde, ha analizzato la
carenza di manodopera nelle montagne e l’emigrazione savoiarda. A seguire,
Maurizio Tomasi, direttore della rivista Trentini nel Mondo, ha affrontato i
temi dell’emigrazione trentina, e Luigi Papais, consigliere dell’Ente Friuli
nel Mondo, ha discusso le sfide generazionali per le comunità friulane.
Nel pomeriggio, i
lavori si sono concentrati su temi legati alla sostenibilità delle montagne.
Andrea Membretti, sociologo delle Università di Pavia e Torino, ha esplorato il
fenomeno delle “migrazioni verticali”, e Davide Rosso, storico e giornalista, ha
approfondito la mobilità della popolazione valdese tra le Alpi, l’Europa e le
Americhe. Geremia Gomboso, presidente dell’Istituto Ladin Furlan Pre Checo
Placerean, ha evidenziato il ruolo cruciale della pianificazione urbanistica
nel contrastare lo spopolamento montano.
Conclusioni e
sfide per il futuro
Michela
Ceccarelli, docente e membro del Comitato scientifico della Fondation E.
Chanoux, ha concluso il convegno sottolineando una problematica urgente per la
Valle d’Aosta: nel giro di 15 anni, la regione avrà bisogno di circa 10mila
lavoratori. “Bisogna agire subito e assieme”, ha dichiarato, evidenziando la
necessità di una strategia condivisa per attrarre risorse umane.
Anche il
presidente della Regione Valle d’Aosta, Renzo Testolin, ha preso la parola,
ribadendo l’importanza di sostenere le realtà associative impegnate nel
fenomeno migratorio, sia storico sia contemporaneo. “Queste associazioni
possono davvero portare un risultato fondamentale per lo sviluppo e, per certi
aspetti, per la sopravvivenza delle nostre terre di montagna”, ha sottolineato.
Grazie alla
partecipazione di esperti e rappresentanti delle comunità alpine, il convegno
si è confermato un momento di alto valore, volto a individuare soluzioni
concrete per lo sviluppo economico e sociale delle aree montane. Oscar De Bona
e le realtà che rappresenta hanno dimostrato come il dialogo e la
collaborazione tra regioni possano essere strumenti fondamentali per il futuro
delle Alpi. (aise/dip 9)
Alla Farnesina la XVII conferenza delle Ambasciatrici e degli Ambasciatori d’Italia
ROMA - Lunedì 16 e
martedì 17 dicembre, alla Farnesina, avrà luogo la XVII edizione degli “Stati
Generali della Diplomazia”, la Conferenza delle Ambasciatrici e degli
Ambasciatori d’Italia nel mondo, appuntamento di confronto sull’azione
internazionale del nostro Paese, con la partecipazione di oltre 150 titolari
delle Sedi diplomatiche italiane all’estero e di numerosi Ministri di Governo.
La Conferenza sarà
l’occasione per affrontare gli attuali scenari internazionali; la sicurezza
cibernetica e le minacce ibride; la proiezione del saper fare italiano nel
mondo tramite ricerca, scienza, energia e cultura; la nuova legislatura
europea; la promozione dell’export e dell’internazionalizzazione delle imprese.
Mercoledì 18 e
giovedì 19 dicembre 2024, il programma della Conferenza delle Ambasciatrici e
degli Ambasciatori d’Italia nel mondo si svolgerà a Milano.
Il programma di
lunedì 16 dicembre prenderà il via alle ore 10.00 e proseguirà fino alle 17.30
con la sessione conclusiva. Per l’inaugurazione sono previsti gli interventi
del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e del Vice Presidente e
Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Antonio
Tajani, poi a seguire ci saranno le cinque sessioni sui temi: “Pace e
negoziati. Scenari internazionali”, (previsti gli interventi di Tajani, del
Ministro degli Esteri svizzero, Ignazio Cassis, e del Direttore Generale
dell’AIEA, Rafael Mariano Grossi); “sicurezza cibernetica, minacce ibride,
intelligenza artificiale” (oltre a Tajani interverrà il Ministro della Difesa,
Guido Crosetto, e il Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio e
Autorità Delegata per la sicurezza della Repubblica, Alfredo Mantovano); “La
proiezione del saper fare italiano nel mondo: ricerca, scienza, energia e
cultura” (sempre Tajani coadiuvato in questo caso dal Ministro dell’Ambiente e
della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, dalla Ministra
dell’Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini, dal Ministro della
Cultura, Alessandro Giuli, e dal Ministro dell’Istruzione del Merito, Giuseppe
Valditara); “Nuova legislatura europea: sfide e opportunità”, (dopo Tajani
interverrà il Ministro per gli affari europei, il PNRR e le politiche di
coesione, Tommaso Foti); e la sessione conclusiva per cui è previsto il
videomessaggio della Presidente del Consiglio dei Ministri, Giorgia Meloni.
I lavori
proseguiranno poi il 17 dicembre e si svolgeranno a porte chiuse.
(aise/dip 10)
Amtliche Zahlen. Migranten im Staatsdienst deutlich unterrepräsentiert
Das Statistische Bundesamt hat Daten der Integration
analysiert. Ein Ergebnis: nur jede zehnte Person mit ausländischen Wurzeln ist
im öffentlichen Dienst beschäftigt. Personen ohne Einwanderungserfahrung sind
doppelt so oft im Staatsdienst.
Nur 11 Prozent der Menschen mit Einwanderungsgeschichte
waren im vergangenen Jahr in Deutschland im öffentlichen Dienst beschäftigt.
Ihr Anteil war damit etwa halb so hoch wie bei Menschen ohne
Migrationshintergrund. Von ihnen waren 20 Prozent beispielsweise als Lehrer,
Erzieher, Polizist oder Sachbearbeiter tätig, wie das Statistische Bundesamt
anlässlich der Veröffentlichung des Dashboards Integration auf Grundlage von
Ergebnissen des Mikrozensus mitteilte.
Unterschiede gibt es auch innerhalb dieser Gruppe: Während
2023 jede zehnte selbst eingewanderte Person (10 Prozent) im öffentlichen
Dienst tätig war, traf dies bei den Nachkommen mit zwei eingewanderten
Elternteilen auf jede siebte Person und damit auf 14 Prozent zu. Bei Personen
mit einem eingewanderten Elternteil lag der Anteil der im öffentlichen Dienst
Beschäftigten mit 18 Prozent nur geringfügig niedriger als bei Personen ohne
Einwanderungsgeschichte mit 20 Prozent.
Nachkommen häufiger im öffentlichen Dienst als zehn Jahre
zuvor
Die zeitliche Entwicklung fällt bei den einzelnen Gruppen
ebenfalls unterschiedlich aus. So ist der Anteil der im öffentlichen Dienst
Beschäftigten bei den selbst Eingewanderten im Vergleich zu 2013 um einen
knappen Prozentpunkt auf 10 Prozent im Jahr 2023 angestiegen. Bei den
Nachkommen hat er um gut die Hälfte von 9 Prozent auf 14 Prozent zugelegt. „In
diesem Zeitraum sind viele Menschen neu nach Deutschland eingewandert, wodurch
sich die Zusammensetzung der Eingewanderten verändert hat“, erklärten die Statistiker.
Bei Personen mit einem eingewanderten Elternteil ist der
Anteil der im öffentlichen Dienst Beschäftigten ebenfalls angestiegen – von 13
Prozent auf 18 Prozent.
15 Prozent haben Einwanderungsgeschichte
Insgesamt hatten 2023 gut 15 Prozent der Beschäftigten im
öffentlichen Dienst eine Einwanderungsgeschichte. Knapp 12 Prozent waren selbst
eingewandert und knapp 4 Prozent waren Nachkommen Eingewanderter. „Damit sind
sie auch gemessen an der Gesamtbevölkerung deutlich unterrepräsentiert“,
erläuterte das Bundesamt. Menschen mit Einwanderungsgeschichte hatten demnach
einen Anteil von 29 Prozent an der Gesamtbevölkerung. An den Erwerbstätigen von
15 bis 64 Jahren betrug ihr Anteil 26 Prozent.
Eine Einwanderungsgeschichte haben demnach Personen, die
entweder selbst oder deren beide Elternteile seit 1950 nach Deutschland
eingewandert sind. (dpa/mig 13)
„Bewältigung illegaler Migration“. Rumänien und Bulgarien treten Schengenraum bei
Reisende mit dem Auto oder Zug müssen bisher an der Grenze zu
Bulgarien und Rumänien ihren Ausweis vorzeigen. Eine EU-Einigung wird das schon
bald ändern. Im Gegenzug verspricht Rumänen „Bewältigung illegaler Migration“.
Bulgarien und Rumänien können ab Anfang Januar vollständig
dem grenzkontrollfreien Schengen-Raum beitreten. Nachdem seit März bereits
Kontrollen an den Flughäfen und den Seegrenzen weggefallen sind, wird nun auch
das freie Reisen über die Grenzen zu Lande möglich, wie die ungarische
EU-Ratspräsidentschaft nach einem einstimmigen Beschluss der 27 Mitgliedstaaten
in Brüssel mitteilte.
Der Schengen-Raum ermöglicht es Menschen, in Europa zu
reisen, ohne dabei an den Grenzen kontrolliert zu werden. Insgesamt 29 Länder
gehören dazu, darunter EU-Mitgliedsstaaten wie Deutschland und Frankreich, aber
auch Nicht-EU-Länder wie die Schweiz, Norwegen, Island und Liechtenstein.
Zuletzt hatten allerdings viele Regierungen – auch die deutsche – im Kampf
gegen irreguläre Migration wieder Grenzkontrollen eingeführt.
Neue Mitglieder können nur einstimmig im Schengen-Raum
aufgenommen werden. Österreich hatte länger die Liberalisierung an den
Landgrenzen blockiert, zuletzt aber den Widerstand aufgegeben. Rumänien und
Bulgarien hatten seit 2011 auf den Beschluss gewartet.
Faeser begrüßt Schengen-Erweiterung
Wien hatte sein Veto damit begründet, dass über die beiden
Länder weiter zahlreiche Migranten ins Land kommen könnten. Unter anderem sorge
inzwischen ein stärkerer Außengrenzschutz dafür, dass Migranten nicht mehr
durchgewunken würden, hieß es jedoch nun.
Die deutsche Innenministerin Nancy Faeser begrüßte am Rande
des Treffens der Innenminister die Schengen-Erweiterung. Beide Länder würden
sich gut um einen gesicherten Außengrenzschutz kümmern. Das bisherige
österreichische Verzögern bezeichnete die SPD-Politikerin auf Nachfrage als
Fehler. Es gehe ja auch um Vertrauen in die Europäische Kommission, sagte
Faeser. Wenn man Kriterien für einen Beitritt festlegen und sie würden erfüllt,
dann müsse man auch so konsequent sein, das umzusetzen. Sie sei froh, dass dieser
Schritt nun gegangen wurde.
Rumänien verspricht „Bewältigung illegaler Migration“
Rumäniens Staatspräsident Klaus Iohannis sagte, der Schritt
steigere die Wettbewerbsfähigkeit rumänischer Produkte und die Attraktivität
des Landes für ausländische Investoren. Iohannis versicherte mit Blick auf die
Migration zugleich: „Rumänien wird weiterhin verantwortungsbewusst handeln, um
die Außengrenzen der Union zu schützen und zu stärken, einschließlich der
wirksamen Bewältigung der illegalen Migration.“ Der bulgarische Präsident Rumen
Radew hob ebenfalls hervor, der Schengen-Beitritts seines Landes stärke die
europäische Integration Bulgariens sowie seine Wirtschaft und bringe vor allem
den Bürgern Erleichterungen.
Alle EU-Mitgliedstaaten werden, sobald sie bereit sind,
Vollmitglieder des Schengen-Raums. Dies ist sowohl ein Recht als auch eine
Verpflichtung.
Rumänien und Bulgarien EU-Mitglieder seit 2007
Rumänien und Bulgarien waren bereits 2007 der EU
beigetreten. Bis September standen Justiz und Rechtsstaat dort aber wegen
grassierender Korruption und organisierter Kriminalität unter
Sonder-Überwachung der EU-Kommission. Auch wegen dieser Probleme gab es lange
keine Einstimmigkeit unter den Staats- und Regierungschefs für einen Beitritt.
Ursprünglich ging es im Schengen-Abkommen nur um den freien
Personenverkehr. Doch mit der Zeit wurde das Abkommen erweitert. Heute regelt
es etwa auch die Zusammenarbeit zwischen Polizeibehörden, damit Verbrechen
grenzübergreifend besser bekämpft werden können. (dpa/mig 13)
Im syrischen Bürgerkrieg mischten stets internationale
Akteure mit. Der Fall Assads samt Rückzug von Iran und Russland läutet ein
neues Kapitel ein. Von Hanna Pfeifer
& Regine Schwab
Dem syrischen Volk ist nach fast 14 Jahren Krieg und nach
einem halben Jahrhundert der Schreckensherrschaft der Sturz des Assad-Regimes
gelungen. Ein wichtiger Faktor für die Rasanz des Vormarschs sind Veränderungen
in der Konstellation dritter, in den Konflikt involvierter Parteien. Sie
öffneten ein Gelegenheitsfenster, das die syrischen Rebellen nutzten und das
für den Zeitpunkt der Offensive entscheidend war.
Der syrische Bürgerkrieg kennzeichnete sich durch eine
Vielzahl an bewaffneten Gruppen, die in wechselnden Allianzen, manchmal auch in
jahrelanger Kooperation, gegen das Regime und untereinander kämpften. Darüber
hinaus ist auch der hohe Grad der Internationalisierung dieses Konflikts
markant. Bereits in den ersten Jahren des Krieges waren Forderungen nach einer
humanitären Intervention laut geworden. Aber selbst nach dem Giftgasangriff des
Regimes 2013, bei dem über 1 400 Menschen getötet wurden, blieb eine direkte
Intervention westlicher Mächte unter US-Führung aus – gegen den Wunsch
vieler Syrerinnen und Syrer nach einem begrenzten Militäreinsatz zur
Schwächung von Baschar al-Assad.
Dies erlaubte es anderen internationalen Akteuren, sich in
den Konflikt einzumischen. Eine zentrale Rolle spielte Russland als
Unterstützer des Regimes. Wladimir Putin lieferte Waffen, Baschar al-Assad
erlaubte es dem russischen Regime, nahe Latakia in Westsyrien einen
Luftwaffenstützpunkt und in Tartus eine Marinebasis im östlichen Mittelmeer zu
unterhalten. Ab 2015 griff Russland direkt zugunsten des Regimes ein, vor allem
mit massiven Luftangriffen gegen Zivilistinnen und Zivilisten sowie gegen zivile
Infrastruktur. Bis zuletzt waren diverse private russische Militärfirmen in
Syrien aktiv.
Eine weitere Stütze der Assad-Diktatur war der Iran, der
bereits seit 2011 aus ideologischen und strategischen Gründen militärisch in
den Konflikt eingriff. Für das iranische Regime stellte Syrien seit der
Islamischen Revolution einen wichtigen Verbündeten dar, insbesondere im
Austragen regionaler Rivalitäten mit den sunnitischen Golfstaaten. In den
Jahren des Global War on Terror gewann die Allianz gemeinsam mit
nicht-staatlichen Gruppierungen im Libanon, Irak und in Palästina – darunter
Hisbollah und Hamas – unter dem Namen „Achse des Widerstands“ neue strategische
Bedeutung. Der Iran unterstützte das Assad-Regime direkt durch Training,
Waffenlieferungen und Personal.
Die wohl mächtigste Kraft auf der Seite des Regimes war die
libanesische Hisbollah. Trotz einer innerlibanesischen Einigung auf Neutralität
im Syrienkonflikt griff die Gruppe ab 2012 zunächst durch die Entsendung von
Beratern und Militärkadern ein, ab 2013 dann ganz offiziell und direkt mit
Kämpfern aufseiten des Assad-Regimes. Neben den mit der „Achse des Widerstands“
geteilten Zielen für die regionale Ordnung gab es für die Hisbollah auch
materielle Gründe, sich mit Assad gut zu stellen – für sie bestimmte iranische
Waffenlieferungen liefen über syrisches Territorium.
Während die USA und andere westliche Staaten zunächst von
einem direkten Militäreinsatz absahen, stellten sie bereits ab Beginn des
Krieges Finanzmittel und leichte Waffen für die syrische Opposition zur
Verfügung. Ein direkter Einsatz begann erst mit dem rasanten Aufstieg des
Islamischen Staats in Irak und Syrien (ISIS) im Jahr 2014. Unter US-Führung
formierte sich die Global Coalition against Daesh, die bis 2019 über 44 000
Luftschläge im Irak und in Syrien durchführte. Neben einer Reihe westlicher Staaten
gehörten der Koalition auch diverse arabische Verbündete an, nämlich Bahrain,
Jordanien, Saudi-Arabien und die Vereinigten Arabischen Emirate sowie für eine
kurze Zeit Katar.
Aber auch jenseits des Kampfes gegen ISIS hatten die
Golfstaaten und die Türkei Syrien schon früh als Gebiet entdeckt, innerhalb
dessen sie ihre regionalen, ordnungspolitischen Interessen durchsetzen wollten.
Dies geschah vor allem durch die Finanzierung von Rebellengruppen ab 2012.
Saudi-Arabien unterstützte Teile der Freien Syrischen Armee als Gegengewicht
gegen der Muslimbruderschaft nahestehende islamistische Gruppen. Die Türkei und
Katar statteten dagegen salafistische und islamistische Gruppen aus, vor allem
Ahrar al-Sham.
Eine entscheidende Wende für den Erfolg der Rebellengruppen
stellte 2015 dar. Nicht nur gründeten Ahrar al-Sham und Jabhat al-Nusra sowie weitere
bewaffnete Gruppen die Allianz Jaish al-Fatah, die weite Teile der Provinz
Idlib unter ihre Kontrolle brachte. Diese vereinigten Kräfte erfuhren zudem
gemeinschaftliche Unterstützung von Katar, der Türkei und Saudi-Arabien – und
damit von drei Staaten, die zuvor oftmals gegnerische Gruppierungen unterstützt
hatten. Diese Einigkeit, die sich aus einer gestiegenen Bedrohungswahrnehmung
durch den Iran erklären lässt, dauerte jedoch nur kurz an.
Die Türkei verfolgte seit Beginn des Konflikts ein
eigenständiges Ziel: die Schwächung kurdischer bewaffneter Gruppen und deren
Fernhalten von der türkischen Grenze. Nach dem großflächigen Rückzug des
syrischen Regimes übernahmen die kurdische PYD und ihr bewaffneter Arm YPG
plötzlich die Kontrolle über bedeutende Teile Nordsyriens. Diese
Gebietskontrolle wurde im Kampf gegen ISIS und andere
salafistisch-jihadistische Gruppen wie Jabhat al-Nusra, die
Vorgängerorganisation von Hay’at Tahrir al-Sham (HTS, unter deren Führung nun
Assad gestürzt wurde), weiter ausgeweitet. Um den gestärkten kurdischen Kräften
entgegenzuwirken, griff die Türkei seit 2016 mehrfach direkt militärisch ein
und unterstützte nicht-staatliche Proxies im Nachbarland. Die wichtigste
unterstützte Gruppe ist die Syrische Nationale Armee, die aus ehemaligen
Mitgliedern der Freien Syrischen Armee und wohl auch von ISIS besteht.
Zuletzt ist auch Israel als Partei in dem Konflikt zu
nennen. Während das Assad-Regime zur Achse des Widerstands gehörte und damit in
einer Allianz mit Israels wichtigsten Gegnern stand, so hatte sich mit Syrien
im Konflikt um die von Israel völkerrechtswidrig besetzten Golanhöhen eine Art
stille Übereinkunft zur Duldung des Status quo eingespielt. Israel flog aber
immer wieder Luftangriffe gegen iranische Militärs, Hisbollah-Angehörige,
Waffentransporte und syrische Militäreinrichtungen. Diese Angriffe galten
jedoch nicht der Stärkung einer Kriegspartei, sondern der Schwächung der
Achsenmitglieder.
Die israelischen Militärhandlungen der vergangenen Monate
haben in diesem Sinne die Achse des Widerstands gebrochen. Die exzessive
israelische Gewalt gegen Zivilistinnen und Zivilisten in Gaza und später im
Libanon sowie sichtbar begangene Völkerrechtsverbrechen haben in der arabischen
Welt zwar die Unterstützungswerte für die Achsenmitglieder deutlich steigen
lassen. Allerdings fügte die israelische Armee nicht nur der Hamas in und
außerhalb von Gaza, sondern auch der Hisbollah im Libanon und dem Iran
erheblichen militärischen Schaden und einen massiven Gesichtsverlust zu, nicht
zuletzt durch die Tötung der Anführer beider Gruppen in Teheran und Beirut.
Am Tag vor dem Beginn der Rebellenoffensive in Syrien war
zwischen Hisbollah und Israel ein – bestehender, wenn auch brüchiger –
Waffenstillstand verhandelt worden. Viele Kämpfer waren in den letzten Monaten
bereits aus Syrien abgezogen worden, und so war Hisbollah wohl nicht fähig –
und angesichts der massiven Rückschläge im Libanon vielleicht auch nicht
willens –, den Rebellengruppen etwas entgegenzusetzen. Die iranische Führung
selbst war von Assad zunehmend desillusioniert, der wohl Informationen über iranische
Stellungen an Israel weitergegeben hatte. Teheran begann am 7. Dezember mit dem
Abzug seines Personals aus Syrien.
Auch Russland ließ Assad fallen, nachdem es über Jahre nicht
nur militärisch, sondern auch als diplomatische Schutzmacht eine zentrale
Stütze für das Regime gewesen war, etwa durch Blockaden im UN-Sicherheitsrat.
Assad scheint die russischen „Ratschläge“ schon länger ausgeschlagen zu haben.
Hier ist der gescheiterte Normalisierungsprozess mit der Türkei zu nennen.
Diesen hatte Russland in die Wege geleitet, um Syrien wieder in der Region zu
verankern und von Iran zu entfernen. Assad zeigte sich in den Verhandlungen mit
der Türkei jedoch unnachgiebig und unterschätzte dabei, dass Putin die Geduld
mit ihm verlieren könnte.
Bis auf vereinzelte private Militärfirmen hatte Russland
seine militärische und finanzielle Unterstützung seit Beginn der Invasion in
der Ukraine 2022 zurückgefahren. Zudem hatte Russland nach dem 7. Oktober 2023
die gemeinsamen Luftschläge mit der syrischen Luftwaffe auf Idlib und
angrenzende Gebiete wieder hochgefahren. Im Zuge des Rebellenvormarschs erhöhte
sich die Taktung der Angriffe, blieb aber im Vergleich etwa zur Rückeroberung
Aleppos begrenzt. Das Putin-Regime steht nach eigenen Angaben mit Vertretern
der Rebellenallianz in Kontakt, um seine geostrategischen Interessen zu wahren.
Russland hat bisher Stützpunkte im Landesinneren evakuiert, versucht aber seine
Militärbasen im Mittelmeer zu behalten.
Die von HTS angeführte Rebellenallianz stand zumindest
indirekt sowohl mit iranischen als auch mit russischen Vertretern im Austausch
und sicherte zu, neben russischen Militärstützpunkten auch Botschaften und
schiitische Schreine zu schützen. Nach Berichten der syrischen Medienplattform
al-Jumhuriya war dies Ergebnis einer Zusammenkunft in Doha kurz vor Beginn der
Rebellenoffensive. Die russische und iranische Führung signalisierten der
Türkei, dass sie bereit seien für eine politische Transition in Syrien. In
Koordination wurden mit Saudi-Arabien, Ägypten, Irak, Jordanien und Katar
sieben Verhandlungspunkte erarbeitet und über die Türkei an die Rebellen
übermittelt. Diese formulierten drei Gegenforderungen, nach deren Annahme der
Vormarsch begann.
In nahezu vollständiger Abwesenheit iranischer und
russischer Kräfte sowie der Hisbollah sind nun zwei andere internationale
Mächte prägend für das künftige Geschehen in Syrien: Die Türkei und Israel
versuchen, das Gelegenheitsfenster des Regimezusammenbruchs für sich zu nutzen.
Die Kämpfe der Syrischen Nationalen Armee gegen die von Kurden geführten
Demokratischen Kräfte Syriens (SDF) in Nordsyrien halten an; zuletzt brachten
die türkisch unterstützten Milizen die Stadt Manbji unter ihre Kontrolle, die
bisher von den SDF kontrolliert worden war. Zudem attackiert die Türkei direkt
kurdische Stellungen mit Drohnen- und Luftangriffen. Sie scheint die Situation
nutzen zu wollen, um die kurdischen Einheiten nachhaltig zu schwächen. Die
Angriffe der Türkei sind nicht nur völkerrechtswidrig, sondern destabilisieren
auch die Lage in Nordsyrien in einer Form, die am Ende ISIS wieder erstarken
lassen könnte.
Israel hingegen hat in den vergangenen Tagen strategische
Waffen der syrischen Armee wie die Luftwaffe und Marine sowie Chemiewaffen
zerstört. Es hat zudem die militärisch-neutrale Pufferzone zwischen den seit
1967 von Israel illegal besetzten Golanhöhen und dem syrischen Staatsgebiet
unter seine Kontrolle gebracht und erwägt wohl, diese in weitere syrische
Gebiete auszudehnen. Diese Expansion würde für weitere Instabilität sorgen.
Zudem verstoßen alle israelischen Militärhandlungen der letzten Tage in Syrien
gegen das Völkerrecht, wie auch die Vereinten Nationen mehrfach anmahnten.
Sowohl die türkischen als auch die israelischen
Militärhandlungen sind Brüche des internationalen Rechts und müssen dringend
unterbunden werden. Beide Staaten scheinen in Erwartung der kommenden
US-Regierung von Donald Trump Fakten schaffen zu wollen, die der neue Präsident
nicht rückgängig machen wird. Er hat in der Vergangenheit sowohl die Türkei als
auch Israel bei ähnlichen Aktionen unterstützt. Deutschland und die EU müssen
jetzt Druck auf die Türkei und Israel ausüben, die Situation nicht weiter zu destabilisieren,
und einen selbstbestimmten syrischen Übergangsprozess nach besten Kräften
unterstützen. IPG 13
Wunder. Elfjährige nach tagelanger Irrfahrt allein im Mittelmeer gerettet
Mehrere Tage soll ein Mädchen aus Sierra Leone nach dem
Sinken eines Flüchtlingsbootes mit zwei Rettungsringen im Mittelmeer getrieben
haben. Eine deutsche Hilfsorganisation rettete es nach eigenen Angaben vor dem
Ertrinken.
Vor der italienischen Insel Lampedusa hat eine deutsche
Hilfsorganisation nach eigenen Angaben ein elfjähriges Mädchen vor dem
Ertrinken gerettet, das allein im Mittelmeer trieb. Die Crew des Segelschiffs
„Trotamar III“ habe das Kind am frühen Morgen an Bord genommen und anschließend
auf die Insel gebracht, teilte die Organisation Compass Collective mit. Von der
italienischen Küstenwache gab es zunächst keine Informationen.
Die Helfer gehen davon aus, dass das Mädchen mit mehr als 40
weiteren Menschen auf einem Migrantenboot im zentralen Mittelmeer unterwegs
war, um nach Europa zu gelangen. Das Boot hatte sich demzufolge in der
tunesischen Stadt Sfax auf den Weg gemacht. Infolge eines starken Sturms sei es
vor einigen Tagen gesunken. Das Mädchen soll nun die einzige Überlebende sein.
Zwei Rettungsringe und eine Rettungsweste
Das Kind – nach Angaben der Hilfsorganisation aus dem
westafrikanischen Staat Sierra Leone – habe seit dem Schiffbruch allein mit
zwei Rettungsringen und einer Rettungsweste im Wasser getrieben. Die Crew sei
durch laute Rufe auf das Mädchen aufmerksam geworden. Die Crew der „Trotamar
III“ unterstützt nach Angaben von Compass Collective die zivile Seenotrettung
im zentralen Mittelmeer. Derzeit ist sie südlich von Lampedusa im Einsatz.
Immer wieder versuchen Menschen, mit Booten übers Mittelmeer
nach Lampedusa, Sizilien oder auf Italiens Festland zu gelangen. Dabei kommt es
immer wieder zu Unglücken mit Toten und Vermissten. Das Innenministerium in Rom
zählte dieses Jahr etwa 64.000 Menschen, die auf Booten Italien erreichten. Im
Vorjahreszeitraum waren es mit etwa 153.100 mehr als doppelt so viele. (dpa/mig
12)
Friedensbotschaft des Papstes: Todeszelle und Minenfelder
In seiner Friedensbotschaft für 2025, die an diesem Donnerstag
veröffentlicht wurde, setzt sich Papst Franziskus einmal mehr für eine
Abschaffung der Todesstrafe ein. Vor Vatikanjournalisten stieß eine
US-Theologin bei der Vorstellung der Botschaft ins selbe Horn.
Krisanne
Vaillancourt Murphy leitet das „Catholic Mobilizing Network“. Es
hat sich zum Ziel gesetzt, Katholiken in den Vereinigten Staaten für den Kampf gegen
die Todesstrafe zu mobilisieren. Der Vatikan bot ihr nun ein Forum, um dieses
Anliegen vorzustellen.
„Papst Franziskus bittet um unser entschiedenes Engagement
für die Achtung der Würde des menschlichen Lebens, und dazu gehört die
Abschaffung der Todesstrafe in allen Nationen. Die Todesstrafe ist eine
‚strukturelle Sünde‘, die es in mindestens 55 Ländern auf der ganzen Welt gibt.
Fast 28.000 Menschen sitzen in der Todeszelle; in dieser Statistik sind Fälle
in Ländern, für die es keine offiziellen Zahlen gibt, natürlich nicht
enthalten. In meinem Heimatland, den Vereinigten Staaten, gibt es in 27 der 50
Bundesstaaten die Todesstrafe.“
Fast 28.000 Menschen sitzen in der Todeszelle
Papst Franziskus hat 2018 einen Passus des Katechismus der
Katholischen Kirche geändert. In der neuen Fassung heißt es, dass die
Todesstrafe in jedem Fall „unzulässig ist, weil sie gegen die Unantastbarkeit
und Würde der Person verstößt“ (Nr. 2267). Der Papst argumentiert in der Regel,
dass Hinrichtungen keineswegs die Gerechtigkeit förderten, im Gegenteil:
Vielmehr nähre die Todesstrafe „ein Rachegefühl“, das sich zu einem
„gefährlichen Gift“ für die Gesellschaft entwickeln könne.
„Das System der Todesstrafe hinterlässt überall Wellen des
Leids in den Familien, in den Gemeinden und in unseren Sozialsystemen.“
„Das System der Todesstrafe hinterlässt überall Wellen des
Leids in den Familien, in den Gemeinden und in unseren Sozialsystemen“, so
Vaillancourt Murphy. „Wir stellen fest, dass das Strafrechtssystem die Opfer
oft retraumatisiert oder sie ganz aus dem Rechtssystem ausschließt; dann ist da
die Entmenschlichung in der isolierenden Enge der Todeszellen. Es gibt Beweise
für rassistische Voreingenommenheit und weit verbreitete Diskriminierung,
ungerechtfertigte Verurteilungen und sogar Hinrichtungen von Unschuldigen.“
Die Geschichte der Schiebers
Die Aktivistin nannte die Existenz der Todesstrafe den
„Inbegriff einer Wegwerfkultur“, wie der Papst sie immer wieder beklagt. „Ein
standhaftes, vom Glauben erfülltes Eintreten für die Abschaffung der
Todesstrafe ist ein Akt tiefer Hoffnung in unserer heutigen Welt. Und die
Erfahrung von Gottes unendlicher Barmherzigkeit und seinem Modell der Vergebung
gibt unserem Zeugnis Auftrieb… Ich trage Geschichten über den Weg der Vergebung
von Familienmitgliedern von Mordopfern sowie von Männern und Frauen in der Todeszelle
mit mir - sie alle bestätigen, was der Heilige Vater über Heilung und Frieden
schreibt.“
„...mutige Schritte, um sicherzustellen, dass ihr Schmerz
nicht zu noch mehr Leid führte oder einer sündigen Gesellschaftsstruktur
Vorschub leistete.“
Ihre Freunde Vicki und Syl Schieber hätten 1998 ihre Tochter
Shannon verloren: Die junge Studentin wurde ermordet. „Ihr Leid war
unvorstellbar; dennoch entschieden sie sich, auf eine Weise zu reagieren, die
Wunden wieder heilt. Sie kämpften dafür, dass der Mann, der ihrer Tochter das
Leben genommen hatte, nicht zum Tode verurteilt wurde. Im Geiste der Versöhnung
unternahmen die Schiebers mutige Schritte, um sicherzustellen, dass ihr Schmerz
nicht zu noch mehr Leid führte oder einer sündigen Gesellschaftsstruktur
Vorschub leistete. Das Eintreten für das Leben des Mannes, der ihre Tochter
getötet hatte, war ein konkreter Ausdruck der heilenden Gerechtigkeit, nach der
sie sich sehnten.“
Ein Mitarbeiter der Rüstungsindustrie wechselt die Seiten
Auch ein weiterer Aspekt der Friedensbotschaft von Papst
Franziskus wurde auf der Pressekonferenz im Vatikan näher beleuchtet – sein
Appell nämlich, einen Teil der Rüstungsausgaben lieber in einen Fonds gegen
Hunger und für die Entwicklung armer Staaten zu stecken. Das Wort hatte Alfieri
Fontana, ein früherer Mitarbeiter der italienischen Rüstungsindustrie, der in
den neunziger Jahren ausgestiegen und in den Bereich des Minenräumens
übergewechselt ist.
„Doch dann wurde der Mechanismus auf einmal gestört: die
Fragen der Kinder...“
„Mein Leben war nicht schlecht; moralische Probleme tauchten
auf und verschwanden gleich wieder beim Gedanken, dass, wenn ich die Landminen
nicht gemacht hätte, es jemand anderes getan hätte. Internationale Spannungen
hielten die Arbeit stabil, und für jeden kalten Krieg, der endete, kam ein
neuer im Nahen Osten und so weiter... Doch dann wurde der Mechanismus auf
einmal gestört: die Fragen der Kinder, die wissen wollten, was man macht und
warum man es macht, der Druck der öffentlichen Meinung, die das Problem der
Landminen entdeckte… Ich habe mein Leben geändert und versuche seitdem, das
‚Vorher‘ in Ordnung zu bringen. Was für mich einmal normal war, ist zu einer
Last geworden.“
„Was für mich einmal normal war, ist zu einer Last geworden“
Der Wunsch der Menschen nach Frieden werde durch Lügen,
Angst und Hunger unterdrückt, so Fontana. Das spiele der kleinen Minderheit von
Menschen in die Hände, die Konflikte aller Art für ihre eigenen Zwecke nutzten.
„Der große Krieg in Osteuropa bringt derzeit die Verlegung
von Minenfeldern mit sich, die militärisch gesehen wenig bewirken, aber eine
zukünftige Rache an all denjenigen darstellen, die einmal versuchen werden, in
ihre Häuser zurückzukehren. Oder die versuchen werden, die von den Geflüchteten
verlassenen Häuser zu besetzen.“ (vn 12)
14. Integrationsbericht. Trend zu mehr Einbürgerungen – Klagen über Rassismus
Die Bundesregierung hat die Wartezeiten für die Einbürgerung
verkürzt. Geduldete erhielten neue Perspektiven. Doch die öffentliche Debatte
verunsichert viele Zuwanderer – aktuell die Syrer. Die Linke bezeichnet den
Bericht als einen „Katalog gebrochener Koalitionsversprechen“.
Rassismus und aufgeheizte öffentliche Debatten über
Migration behindern aus Sicht der Integrationsbeauftragten der Bundesregierung,
Reem Alabali-Radovan (SPD), das Ankommen von Zugewanderten in Deutschland und
die Gewinnung ausländischer Arbeitskräfte. Einen Tag nach dem Sturz des
syrischen Präsidenten Baschar al-Assad über Rückführungen nach Syrien zu
diskutieren, sei „absolut unangebracht“, sagte die Staatsministerin bei der
Vorstellung eines Integrationsberichts, den das Kabinett beschlossen hat. „Das
schmerzt sehr viele syrische Mitbürger.“ Dem Bericht zufolge berichtet jeder
fünfte Eingewanderte und jeder Vierte unter ihren Nachkommen über persönliche
Rassismuserfahrungen.
Die Co-Vorsitzende der Türkischen Gemeinde in Deutschland
(TGD), Asl?han Ye?ilkaya-Yurtbay, kritisiert: „Statt einer Willkommenskultur,
die wir angesichts des Fachkräftemangels unbedingt bräuchten, wird hier das
Gegenteil etabliert.“ In Deutschland herrsche „eine Art Antiwillkommenskultur,
mit der wir uns komplett aus dem Spiel nehmen im Wettbewerb um Fachkräfte aus
aller Welt“.
In Deutschland leben laut Alabali-Radovan 222.610
erwerbstätige Syrer. Hinzu kommen den Angaben zufolge rund 65.000 syrische
Minijobber. Viele Syrerinnen und Syrer arbeiteten in systemrelevanten Berufen,
unter ihnen 5.000 Mediziner. Die Integrationsbeauftragte räumt ein: „Wir haben
noch eine Herausforderung bei der Integration in den Arbeitsmarkt bei Frauen,
das gilt auch für Frauen aus Syrien.“ Ein Grund dafür seien Schwierigkeiten bei
der Kinderbetreuung. Auch gebe es nicht genügend Integrationskurse mit Kinderbetreuung.
Von beiden Problemen seien auch Ukrainerinnen stark betroffen – „und da müssen
wir ran“.
Mehr Menschen mit nicht dauerhafter Aufenthaltserlaubnis
Die Zahl der Menschen mit befristeten Aufenthaltstiteln hat
im Jahr 2023 einen Rekordwert erreicht. Waren es Mitte 2016 noch rund zwei
Millionen Ausländer, die sich mit einer zeitlich begrenzten
Aufenthaltserlaubnis in Deutschland aufhielten, so galt dies im vergangenen
Jahr laut einem aktuellen Lagebericht der Integrationsbeauftragten für vier
Millionen Menschen. Der starke Anstieg hat auch mit dem Zuzug von Flüchtlingen
infolge des russischen Angriffskriegs gegen die Ukraine zu tun.
Etwas mehr als die Hälfte der Menschen mit befristen
Aufenthaltstiteln (55 Prozent) hatten diese im vergangenen Jahr dem
Integrationsbericht zufolge aus völkerrechtlichen, humanitären oder politischen
Gründen, 23,9 Prozent aus familiären Gründen. Etwa jeder Zehnte (10,4 Prozent)
verfügte über einen befristeten Aufenthaltstitel zur Aufnahme einer
Erwerbstätigkeit. Aufgrund einer Ausbildung wurde ein solcher Aufenthaltstitel
in 6,3 Prozent der Fälle gewährt.
Einbürgerungen auf Rekordniveau
Eine unbefristete Erlaubnis zum Aufenthalt in Deutschland
besaßen demnach im vergangenen Jahr 2,9 Millionen Menschen. Die Zahl der
Menschen, die durch Einbürgerung Deutsche wurden, war 2023 mit rund 194.000
Einbürgerungen so hoch wie noch nie.
Dass dieser Trend in diesem Jahr noch zugenommen hat, liegt
daran, dass viele Syrer und andere Ausländer, die in den Jahren 2015 und 2016
nach Deutschland gekommen waren, inzwischen die Voraussetzungen für eine
Einbürgerung erfüllen. Ein weiterer Faktor ist das seit Juni geltende neue
Staatsangehörigkeitsgesetz. Es sieht verkürzte Wartezeiten vor und erlaubt
grundsätzlich die Mehrstaatigkeit.
Weniger Geduldete
Die Zahl der Geduldeten sank von 2022 auf 2023 von rund
248.000 auf etwa 194.000. Seit dem 31. Dezember 2022 gibt es das sogenannte
Chancenaufenthaltsrecht. Es betrifft Menschen, die sich zum Stichtag 31.
Oktober 2022 mindestens fünf Jahre geduldet, gestattet oder mit einer
Aufenthaltserlaubnis in Deutschland aufgehalten haben. Sie können gemeinsam mit
ihren Angehörigen für 18 Monate eine Art Aufenthaltserlaubnis auf Probe
erhalten.
Geduldete sind Menschen, die ausreisepflichtig sind, aber
aus bestimmten Gründen nicht abgeschoben werden können – etwa weil sie keine
Ausweisdokumente haben oder krank sind. Die Duldung ist immer befristet.
Die Integration gelinge inzwischen in allen Lebensbereichen
besser, sagte Alabali-Radovan. Viele Strukturen, Institutionen und Behörden
seien aber noch nicht „auf die vielfältige Gesellschaft“ ausgerichtet, vor
allem im Bildungsbereich. Hier „stecken wir noch fest im letzten Jahrhundert“.
Noch vor der für den 23. Februar erwarteten Neuwahl soll laut Alabali-Radovan
eine Diversitätsstrategie im Kabinett beschlossen werden. Diese solle zu einer
Erhöhung des Anteils von Beschäftigten mit Migrationshintergrund im
öffentlichen Dienst – insbesondere in den Bundesministerien – beitragen. Im
vergangenen Jahr lag der Anteil der Eingewanderten im öffentlichen Dienst bei
11,7 Prozent.
„Ein Katalog gebrochener Koalitionsversprechen“
Kritik erntet der Bericht von der
Linke-Bundestagsabgeordneten Gökay Akbulut. Die Bilanz der Bundesregierung in
der Migrations- und Integrationspolitik sei ernüchternd. „Zahlreiche
Ankündigungen aus dem Ampel-Koalitionsvertrag – vom Partizipationsgesetz bis zu
den Erleichterungen beim Ehegattennachzug – wurden nicht umgesetzt. Anstelle
einer progressiven Neuausrichtung gab es eine moralische Kapitulation vor dem
migrationsfeindlichen Diskurs von Union und AfD“, erklärte Akbulut.
Die Verschärfungen im Asylrecht seien nicht nur
menschenrechtswidrig, sondern auch ein „fatales Signal des Einknickens“ vor
einer zunehmend rassistisch geführten öffentlichen Debatte. „Der dramatische
Anstieg rassistischer Vorfälle, den wir aktuell erleben, ist auch ein Resultat
einer Politik der Bundesregierung, die sich dem rechtspopulistischen Diskurs
nicht entschieden entgegenstellt“, so Akbulut weiter.
Erstellt wurde der Integrationsbericht mit dem Titel
„Teilhabe in der Einwanderungsgesellschaft“ vom Deutschen Zentrum für
Integration und Migrationsforschung. (dpa/mig 12)
Papst zu Syrien: „Politische Lösung ohne weitere Konflikte“
Franziskus hat zu einem friedlichen Übergang für Syrien
gemahnt, wo gerade ein Machtwechsel stattgefunden hat. Auch rief der Papst bei
seiner Generalaudienz zu Frieden im Nahen Osten, in Myanmar und in der Ukraine
auf.
Syrien befindet sich aktuell in einer „heiklen Phase“ seiner
Geschichte, erklärte Papst Franziskus an diesem Mittwoch am Ende der
Generalaudienz. „Ich hoffe, dass eine politische Lösung gefunden wird, die ohne
weitere Konflikte und Spaltungen die Stabilität und Einheit des Landes
verantwortungsvoll fördert“, betonte er.
Am Wochenende war in Damaskus das Assad-Regime durch
islamistische Aufständische gestürzt worden. Die neuen Machthaber versprachen
Stabilität und kein Blutvergießen. Dennoch ist die Lage weiterhin
unübersichtlich, insbesondere religiöse Minderheiten fühlen sich verunsichert.
„Ich bete für die Fürsprache der Jungfrau Maria, dass das
syrische Volk in seinem geliebten Land Frieden und Sicherheit erfährt und dass
die verschiedenen Religionen in Freundschaft und gegenseitigem Respekt zum
Wohle dieser von so vielen Jahren des Krieges geplagten Nation
zusammenarbeiten“, sagte Franziskus mit Blick auf den politischen Umbruch.
Kardinalstaatssekretär Pietro Parolin hatte bereits in
dieser Woche Respekt für die christlichen Gemeinschaften in Syrien
eingefordert. Er verwies zudem auf die Verantwortung der internationalen
Gemeinschaft, die notwendigen Bedingungen für Dialog und Frieden in Syrien zu
schaffen.
Appell für Frieden in Nahost, Myanmar und der Ukraine
Papst Franziskus rief in der Audienzhalle außerdem zu
Frieden im Nahen Osten, in Myanmar und in der „gemarterten Ukraine“ auf. „Krieg
ist immer eine Niederlage“, betonte der Papst. „Beten wir für den Frieden.“ Mit
Blick auf die Ukraine fügte er hinzu, es brauche Gebete für „einen Ausweg aus
diesem Krieg“.
(vn 11)
Assad ist Geschichte, doch das Land steht vor einer ungewissen
Zukunft. Zwei syrische Stimmen zu den dramatischen Entwicklungen der letzten
Tage. Von Hussam Baravi & Salam Said
Wir haben alle vom Sturz von Baschar al-Assad geträumt, aber
nie wirklich geglaubt, dass wir diesen Moment erleben würden. Ein Freund hat
die überwältigenden Gefühle auf Facebook perfekt eingefangen: „Wir Syrer sind
alle Lügner; wir haben geschworen, dass wir Syrien nicht vermissen und niemals
um es weinen werden, aber hier sind wir: alle in Tränen aufgelöst,
unkontrollierbar.“ Diese Worte spiegeln meinen eigenen Unglauben wider. Am
Sonntagmorgen, nachdem ich stundenlang die Entwicklungen in der Nacht verfolgt
hatte, wachte ich mit über 200 Nachrichten auf. Assad war gestürzt. Es war kein
Traum, es war Wirklichkeit. Allerdings wich meine Euphorie einem Unbehagen, als
die Nachricht sackte.
Der Sturz von Assad ist unbestreitbar ein Wendepunkt in der
modernen Geschichte Syriens. Eine Diktatur, die 54 Jahre lang mit eiserner Hand
regierte, ist innerhalb weniger Tage zusammengebrochen. Das allein ist schon
episch. Jahrzehntelang vermittelte Assads Regime die Illusion der
Unbesiegbarkeit – ein unerschütterliches Machtgefüge, das jahrelangen
Protesten, Aufständen und Druck von außen standhielt. Sein Sturz erschüttert
dieses Bild und zeigt, wie zerbrechlich selbst die gefestigtsten Autokratien sind.
Assads Sturz bringt auch neue Hoffnung, einige der schmerzhaftesten Wunden
Syriens zu heilen, wie die Lage der politischen Gefangenen und das Schicksal
der gewaltsam Verschwundenen. Zum ersten Mal seit Jahren gibt es eine echte
Chance für Familien zu erfahren, was mit ihren Angehörigen geschehen ist, die
in Assads Gefängnissen ums Leben kamen – und einen Abschluss zu finden.
Doch der Triumph ist nicht ungetrübt. Assads Sturz war nicht
das Werk säkularer, demokratischer Kräfte, die ein gerechtes Syrien anstreben,
sondern wurde durch radikale Gruppen wie Hay’at Tahrir al-Sham (HTS)
herbeigeführt. Viele Freunde zögerten, mir zu gratulieren, unsicher, ob dies
ein Sieg oder der Beginn eines neuen Albtraums ist. Meine eigene Zerrissenheit
wuchs: Die Freude über Assads Fall mischte sich mit der Angst vor dem, was
folgen könnte. Meine Schwester war zwischen Syrien und dem Libanon gestrandet,
mein alter Vater war allein in Damaskus, einer Stadt im Zerfall. Das von Assads
Regime hinterlassene Machtvakuum ist keine bloße Theorie – sondern eine
greifbare, erschreckende Realität.
Diese Verwundbarkeit reicht über das Persönliche hinaus.
Syrien ist nun ein Schlachtfeld für konkurrierende regionale Interessen. Israel
hat aus der Befürchtung, dass fortschrittliche Waffen in die Hände von Rebellen
gelangen könnten, seine Luftangriffe auf mehrere Orte intensiviert und ist im
Süden weiter vorgerückt. Dabei hat es strategische Orte ins Visier genommen,
die während Assads Herrschaft ignoriert worden waren – ein beunruhigendes
Zeichen dafür, wie sehr Assads „Feinde“ von seiner Stabilität profitiert
hatten. Gleichzeitig ergreifen von der Türkei unterstützte Fraktionen wichtige
Gebiete wie Manbij, wodurch Ankara seinen strategischen Zielen in Nordsyrien
näher kommt. Die zersplitterte Opposition läuft trotz ihrer neuen Bedeutung
Gefahr, in interne Kämpfe zu verfallen, wodurch das Land anfällig für die
Ausbeutung durch externe Mächte bleibt.
Für Syrer wie mich, die jahrelang von diesem Tag geträumt
haben, ist die Realität bittersüß. Syrien ist nun „frei“ von Assad, aber noch
nicht befreit. Der Sturz von Assad bedeutet das Ende einer Ära, aber nicht den
Beginn des Friedens. Stattdessen markiert er eine neue Phase der Unsicherheit.
Können die verschiedenen zersplitterten Anti-Regime-Fraktionen mit ihren
konkurrierenden Agenden die Herausforderung der Regierungsführung meistern?
Kann die internationale Gemeinschaft – die Syrien nach einem Schwarz-Weiß-Schema
betrachtet – über symbolische Gesten hinausgehen und die humanitären sowie
politischen Krisen in Syrien angehen? Oder wird Syrien weiterhin ein Schauplatz
von Machtkämpfen bleiben und seine Bevölkerung ins Kreuzfeuer geraten?
Die Frage ist nun, ob dieser historische Moment als
Grundlage für den Wiederaufbau einer zerrütteten Nation dienen kann – oder ob
er in ein weiteres Kapitel der Verzweiflung münden wird, ähnlich wie die
„Befreiung“ Afghanistans und des Irak. Für diejenigen von uns, die diesen Kampf
im Exil geführt haben, ist die Hoffnung durch die Erkenntnis gedämpft, dass die
Befreiung nur der erste Schritt auf einem langen, ungewissen Weg ist.
Hussam Baravi, Syrien-Projekt, FES-Libanon
Als ich hörte, dass die islamistischen Oppositionskräfte
(HTS) Aleppo am 29. November 2024 zurückerobert hatten, hätte ich nie gedacht,
dass sie nur eine Woche später Damaskus erreichen würden. Am Samstag, dem 7.
Dezember, kam die Nachricht, dass Assads Truppen aus Sweida vertrieben worden
waren – einer Stadt mit großer Symbolkraft. Sweida ist nicht nur die Heimat
einer drusischen Minderheit, sondern beherbergt auch viele Binnenvertriebene.
Die Nachricht schlug ein wie ein Blitz.
Als Syrer begannen wir sofort, die Berichte zu überprüfen.
Meine Familie, die nur wenige Kilometer von Damaskus entfernt lebte,
informierte mich, dass die „Revolutionäre“ bereits in der Stadt angekommen
waren! Alles schien ruhig … aber war es womöglich die Ruhe vor dem Sturm? Oder
handelte es sich tatsächlich um eine friedliche Machtübernahme? Eine Mischung
aus Angst, die an die Kämpfe von 2012 und die darauf folgenden Jahre erinnerte,
und Freude über den Fall des grausamen Regimes erfüllte die Luft.
Am Sonntagmorgen war Damaskus vom Diktator befreit, und die
Syrer begrüßten sich mit Sabah al Hurria („Ein Morgen der Freiheit“). Auf
Facebook kursierende Videos verstärkten das Gefühl, Zeugen eines Traums zu
sein, auf den die Syrer während der mehr als 13 Jahre andauernden Revolution
gehofft hatten.
Der Rückzug von Assads Truppen kam überraschend und wirkte
fast unwirklich. Die Bilder von gestürzten Symbolen des Regimes und vom Abbau
seines Personenkults waren tief bewegend und erinnerten an Szenen aus dem Irak
2003 oder an die Aufstände in Tunesien, Ägypten und Libyen in den Jahren 2011
und 2012. Menschen strömten auf die Straßen, feierten die „Freiheit“, sangen
Revolutionslieder und riefen: „Das syrische Volk ist eins.“ Dieser
historische Moment war emotional und bedeutete, was noch wichtiger ist, einen
Sieg der Gerechtigkeit.
Die bewegendsten Bilder entstanden bei der Freilassung
politischer Gefangener aus einigen der brutalsten und gewalttätigsten
Gefängnissen der Welt. Das berüchtigte Sednaya-Gefängnis, in dem 30 000
Insassen auf einer einzigen von insgesamt drei Etagen zusammengepfercht sind,
ist eines der dunkelsten Symbole für die Grausamkeit des Regimes. Frauen mit
kleinen Kindern – einige von ihnen gerade einmal drei Jahre alt, die
möglicherweise noch nie das Sonnenlicht gesehen hatten – wurden endlich in die
Freiheit entlassen. Diese Momente markierten einen ersten Schritt in Richtung
Sieg für die Gerechtigkeit. Der nächste Schritt muss darin bestehen, die
Verantwortlichen für diese Verbrechen gegen die Menschlichkeit zur Rechenschaft
zu ziehen.
Ironischerweise waren es islamistische Kräfte, die Syrien
von Assads Diktatur befreiten. Doch ihre Vision von Freiheit steht in einem
starken Gegensatz zu den Rechten von Frauen, Jugendlichen und Andersdenkenden.
Während ihre Militäroperationen diszipliniert und gut organisiert sind, bleibt
ihr Konzept von Freiheit und Gerechtigkeit weit entfernt von dem, was viele
Syrer – insbesondere Frauen – erhoffen. Angesichts dieser Unterschiede
beobachten wir die sich entfaltenden Ereignisse mit großer Vorsicht.
Während die Syrer die friedliche Machtübernahme und die neu
gewonnene Freiheit feiern, schürt der ohrenbetäubende Lärm israelischer
Angriffe auf die syrische Infrastruktur und Ziele im Süden die Angst vor einem
neuen Konflikt. Israel verschwendet keine Zeit – Premierminister Netanjahu hat
den Waffenstillstand von 1974 für ungültig erklärt, und das israelische Militär
ist in die entmilitarisierte Zone in der Nähe der Golanhöhen vorgedrungen und
hat die Stadt Quneitra erreicht.
Inmitten der Feierlichkeiten und Freude wächst die Sorge vor
einer weiteren Welle der Zerstörung und Ungerechtigkeit. Die Möglichkeit eines
neuen Krieges wirft einen düsteren Schatten auf die fragile Zukunft Syriens.
Salam Said, FES-Tunesien IPG 10
Debatte über Rückkehr. Bamf verhängt Entscheidungsstopp für Asylverfahren von Syrern
Nach dem plötzlichen Sturz von Baschar al-Assad in Syrien
ist die Lage unübersichtlich. Dennoch ist in Deutschland eine Debatte über
Rückführung syrischer Geflüchteter entfacht. Experten warnen eindringlich vor
voreiligen Forderungen. Eine unmittelbare Folge hat das Geschehen in Syrien
dennoch.
In Deutschland hat unmittelbar nach dem Sturz des Regimes in
Syrien eine Debatte über die Rückführung syrischer Flüchtlinge eingesetzt.
Politiker, Experten und Menschenrechtler meldeten sich zu Wort.
Bundesinnenministerin Nancy Faeser (SPD) mahnte am Montag Geduld an. Viele
syrische Flüchtlinge in Deutschland hätten nun wieder eine Hoffnung auf eine
Rückkehr in ihre Heimat, sagte die SPD-Politikerin in Berlin. Doch seien
angesichts der unübersichtlichen Lage in Syrien „konkrete Rückkehrmöglichkeiten
im Moment noch nicht vorhersehbar und es wäre unseriös, in einer so volatilen
Lage darüber zu spekulieren“, sagte Faeser.
Eine handfeste Konsequenz aus der neuen Lage in Syrien gibt es
dennoch: Die Innenministerin bestätigte, dass das Bundesamt für Migration und
Flüchtlinge (Bamf) einen Entscheidungsstopp für aktuell noch laufende
Asylverfahren verhängt habe, bis die Lage klarer sei. Es gehe um knapp 47.000
Asylanträge. Der stellvertretenden Sprecherin des Innenministeriums, Sonja
Kock, zufolge leben knapp eine Million Syrer in Deutschland, die Mehrzahl als
international anerkannte Flüchtlinge oder Bürgerkriegsflüchtlinge. Rechtlich
sei es möglich, ihren Schutzstatus in Deutschland zu widerrufen. Doch dafür sei
wesentlich, ob sich die Lage in Syrien dauerhaft geändert und stabilisiert
habe. Zum jetzigen Zeitpunkt sei es eine „ziemliche hypothetische Frage“, ob
die syrischen Geflüchteten zurückkehren müssten.
Der Sprecher des Außenministeriums, Sebastian Fischer,
kündigte ein neues Lagebild für Syrien an, wenn man mehr über die Entwicklung
sagen könne. Für Fragen des Asylrechts und Flüchtlingsschutzes sei
entscheidend, ob künftige Entscheidungsträger den Schutz aller Minderheiten
garantieren, sagte Fischer.
Unionspolitiker fordern Rückreisen von Syrern
Für die Union forderte der parlamentarische Geschäftsführer
der Bundestagsfraktion, Torsten Frei (CDU), das Bamf solle sich rasch auf die
Überprüfung der den syrischen Flüchtlingen zugesprochenen Schutztitel
vorbereiten. Wenn Syrien sich zu einem Land entwickle, in dem weder politische
Verfolgung noch eine individuelle Gefahr drohe, müsste das Konsequenzen haben
für die Anerkennungspraxis in Deutschland, sagte Frei der „Augsburger
Allgemeinen“.
CSU-Chef Markus Söder rechnet mit deutlich mehr freiwilligen
Rückkehren von Syrern aus Deutschland in das Heimatland. „Der Grund, Syrien zu
verlassen, war vor allem Assad. Deswegen wird es viele Menschen geben, die
jetzt einfach in ihre Heimat zurückwollen“, sagte der bayerische
Ministerpräsident nach einer Sitzung des CSU-Vorstands in München. Söder
betonte, es müsse „sogar überlegt werden, wie eine stärkere Rückführung in die
syrische Heimat vieler Menschen möglich ist.“ Bayerns Innenminister Joachim Herrmann
(CSU) betonte, dass Deutschland die reisewilligen Syrer unterstützen solle:
„Wir sollten auch überlegen, sie dabei finanziell zu unterstützen“, sagte er
auf Anfrage der Deutschen Presse-Agentur. Sollte nun in Syrien tatsächlich
Stabilität und Humanität einkehren, gebe es keinen Grund mehr für einen
generellen Abschiebungsstopp.
Grüne und Linke kritisieren Debatte
Demgegenüber warnte der Europapolitiker der Grünen, Anton
Hofreiter, davor, nach dem Sturz des Assad-Regimes syrische Flüchtlinge unter
Druck zu setzen. „Überlegungen, nach dem Sturz von Assad unsere
Migrationspolitik zu verändern und härter gegen syrische Geflüchtete
vorzugehen, sind völlig fehl am Platz“, sagte der Vorsitzende des
Europaausschusses im Bundestag den Zeitungen der Funke Mediengruppe. Auch
Bundestags-Vizepräsidentin Katrin Göring-Eckardt hat die Diskussionen
kritisiert. „Ich finde das nach anderthalb Tagen eine unangemessene
innenpolitische Debatte“, sagte die Grünen-Politikerin dem rbb-Inforadio.
Deutlicher äußerte sich der Linken-Vorsitzende Jan van Aken
am Montag in einer Pressekonferenz in Berlin: „Alle, die jetzt anfangen, über
Abschiebungen nach Syrien zu reden, sind einfach nur, und entschuldigen Sie die
Wortwahl, das sind einfach nur verkommene Drecksäcke.“ Clara Bünger,
fluchtpolitische Sprecherin der Linken im Bundestag, bezeichnete die
Forderungen als „völlig deplatziert“ Sie offenbarten „nur die wahren Interessen
derer, die sie erheben: Ihnen geht es nicht um Freiheit und Gerechtigkeit für
die Menschen in Syrien, sondern allein um ihren rechten Fiebertraum,
Hunderttausende zu deportieren“.
EU-Kommission empfiehlt keine Rückkehr nach Syrien
Auch die EU-Kommission warnt vor allzu großen Hoffnungen auf
schnelle und unproblematische Rückkehrmöglichkeiten für Flüchtlinge nach
Syrien. Die Bedingungen für eine sichere und würdevolle Rückkehr seien nach
derzeitiger Einschätzung momentan nicht gegeben, sagte ein Sprecher in Brüssel.
Mit dieser Linie sei man sich einig mit dem Hohen Flüchtlingskommissar der
Vereinten Nationen (UNHCR). Die aktuelle Lage sei von großer Hoffnung, aber
auch von großer Unsicherheit geprägt. Es werde an jedem Einzelnen und an jeder
Familie sein, zu entscheiden, was sie tun möchte. Der Sprecher machte damit
auch deutlich, dass es aus Sicht der Kommission bis auf weiteres keine
Abschiebungen geben sollte.
Ähnlich äußerte sich das Deutsche Institut für
Menschenrechte. Direktorin Beate Rudolf sagte, die Debatte um die Rückkehr
syrischer Flüchtlinge komme zu früh. Die Situation sei viel zu unklar, um
Schlussfolgerungen daraus zu ziehen für Menschen, die in Deutschland Schutz
erhalten haben, sagte Rudolf. Die Gesellschaft für bedrohte Völker (GfbV)
warnte ebenfalls vor „vorschnellen Aufrufen zur Rückkehr von Geflüchteten“.
Zwar freuten sich viele Menschen über den Sturz Assads, doch die Lage sei von
großer Unsicherheit geprägt, viele Syrer blickten weiterhin mit Sorge in die
Zukunft.
Dem Migrationsforscher Gerald Knaus zufolge könnte der Sturz
des Assad-Regimes einen Wendepunkt für die Flüchtlingssituation in Europa
herbeiführen. Höchste Priorität müsse es haben, zusammen mit den Nachbarländern
für Stabilität zu sorgen, sagte Knaus. Wer eine sofortige Massenrückkehr nach
Syrien verspreche, handele populistisch.
Deutsch-Syrer zwischen Aufbruchstimmung und Vorsicht
Unter Deutsch-Syrern und Syrern in Deutschland hat der Sturz
von Assad große Begeisterung ausgelöst. „Wir empfinden unbeschreibliche
Freude“, sagte die Vorsitzende des Verbands Deutsch-Syrischer Hilfsvereine, die
Rüsselsheimer Rechtsanwältin Nahla Osman, am Montag dem „Evangelischen
Pressedienst“. „Wir glauben, wir sind in einem Traum.“ Es gebe aber auch
Zweifel und Angst. Dem säkularen Verband gehören 42 Mitgliedsvereine
verschiedener Ausrichtungen an.
Der Machtwechsel in Syrien sei erstaunlich friedlich
verlaufen, sagte Osman. Von ihren engen Kontakten nach Aleppo wisse sie, dass
dort kaum Schüsse gefallen seien. „Die Machtübergabe ging ganz schnell,
plötzlich waren alle gegen Assad.“ Selbst ein Verwandter im Amt eines Ministers
habe gesagt: „Endlich sind wir frei.“ Zwar gebe es auch Angst in der
Umbruchsituation, aber die Minderheiten würden bisher in Frieden gelassen: „Die
Christen in Aleppo konnten Weihnachtsbäume aufstellen und feiern Gottesdienste“,
sagte Osman.
Syrer in Deutschland schwankten derzeit zwischen
Aufbruchstimmung und Vorsicht. „Die Sehnsucht nach dem Heimatland ist groß.“
Aber abgesehen von der Frage, ob die Sicherheit im Land gewährleistet ist, gebe
es praktische Probleme für eine Rückkehr. Die meisten Deutsch-Syrer sagten, sie
wollten nach Syrien reisen, wenn es dort sicher sei, auch wenn zunächst nur auf
einen Verwandtenbesuch und um nach dem Heim zu schauen.
Experte: Arbeitsmarkt würde Heimkehr von Syrern verkraften
Eine mögliche Rückkehr von Syrern ist nach Einschätzung des
Arbeitsmarktforschers Enzo Weber vom Institut für Arbeitsmarkt- und
Berufsforschung (IAB) in Nürnberg verkraftbar. Derzeit sind nach Angaben der
Bundesagentur für Arbeit 222.610 Menschen mit syrischer Staatsangehörigkeit in
Deutschland sozialversicherungspflichtig beschäftigt. Hinzu kommen noch einmal
rund 65.000 Minijobber. Damit liege der Anteil der Syrer an den
Gesamtbeschäftigten in fast allen Berufsgruppen bei unter einem Prozent, sagte
Weber.
Rund 44 Prozent der syrischen Arbeitskräfte sind ungelernte
oder angelernte Helfer – mehr als die Hälfte haben eine
Facharbeiterqualifikation oder sogar einen höheren Ausbildungsstand. Allein
rund 5.000 Mediziner aus dem Land arbeiten dem IAB zufolge in Deutschland.
Vor dem Bürgerkrieg in Syrien, der 2011 mit einem
Volksaufstand gegen das Regime von Machthaber Baschar al-Assad begonnen hatte,
waren Hunderttausende Syrer nach Deutschland geflohen. Nach 13 Jahren
Bürgerkrieg übernahm nun eine Rebellenkoalition unter Führung der Miliz Haiat
Tahrir al-Scham (HTS) die Kontrolle über die Hauptstadt Damaskus. Der
entmachtete Assad flüchtete nach Moskau, wo er Medienberichten zufolge laut
Kreml politisches Asyl erhalten soll. (epd/dpa/mig 10)
Arbeiter wählen zunehmend rechts. Wie können linke und
progressive Parteien sie zurückgewinnen? Von Bartosz Rydlinski
Donald Trump sorgte 2016 für einen Schock, als er durch
Siege in den Swing States im amerikanischen Rust Belt zum US-Präsidenten
gewählt wurde – darunter Michigan, Pennsylvania und Wisconsin, wo traditionell
die Demokraten die Nase vorn hatten. Ähnlich verhielt es sich letzten November.
In den ehemaligen Industriezentren des Landes stimmte man mit überwältigender
Mehrheit für Trump und sein Versprechen, „Amerika wieder groß zu machen“. Laut
Nachwahlbefragungen wurde Trump von einer Mehrheit der Arbeiterschicht – also
Menschen ohne College-Abschluss, die jährlich zwischen 30 000 und 99 999
US-Dollar verdienen – in den entscheidenden Bundesstaaten unterstützt. Das galt
für weiße, lateinamerikanische und schwarze Wähler gleichermaßen.
Dieser Trend ist nicht auf die Vereinigten Staaten
beschränkt. Im Juni stimmten 57 Prozent der französischen Arbeiterinnen und Arbeiter
in der ersten Runde der Parlamentswahlen für den rechtsextremen Rassemblement
National. Und bei den Parlamentswahlen in Österreich im September gaben 50
Prozent der Arbeiterschicht der rechtspopulistischen Freiheitlichen Partei
Österreichs (FPÖ) ihre Stimme, während die Alternative für Deutschland (AfD)
bei den Landtagswahlen in Brandenburg 46 Prozent der Stimmen der Arbeiterinnen
und Arbeiter auf sich vereinte.
Die polnische Rechtspartei Recht und Gerechtigkeit (PiS),
die zwischen 2015 und 2023 regierte, liefert ein anschauliches Fallbeispiel
dafür, warum populistische und autoritäre Parteien für Arbeiterinnen und
Arbeiter in Europa und den USA immer attraktiver werden und wie die
Mitte-links-Parteien sie zurückgewinnen können. Der PiS gelang es, eine Reihe
legislativer Erfolge zu verbuchen, darunter die Senkung des Rentenalters, die
Erhöhung des Mindestlohns und die Gewährung direkter Geldtransfers an Eltern mit
Kindern unter 18 Jahren. Die PiS griff Anliegen auf, für die sich normalerweise
die Sozialdemokraten einsetzen, und förderte so die wirtschaftlichen Interessen
der polnischen Arbeiterschaft. Infolgedessen stimmte fast die Hälfte dieser
Gruppe bei den Parlamentswahlen im vergangenen Jahr für die PiS (wobei am Ende
eine Koalition aus Oppositionsparteien genügend Sitze gewann, um eine
Mehrheitsregierung zu bilden).
Meine wissenschaftliche Untersuchung der Wählerschaft mit
geringerer Bildung und niedrigerem Einkommen in Kleinstädten und ländlichen
Gebieten Polens, die ich im Auftrag der Stiftung für Europäische Progressive
Studien und der Friedrich-Ebert-Stiftung durchgeführt habe, ergab eine fast
vollständige Abkopplung dieser Gruppe von der linken Mitte. Die aus der
Arbeiterschicht stammenden Teilnehmenden in meinen Fokusgruppen brachten
sozialdemokratische Parteien mit der LGBTQ+-Agenda, der Sexualisierung von Kindern,
der Offenheit gegenüber Migranten und dem Bestreben, die staatliche
Souveränität zu untergraben, in Verbindung. Statt traditionelle Medien zu
konsumieren, beziehen sie ihre Informationen von Nischengruppen auf den
Sozialen Medien. Diese Wählerinnen und Wähler sind stolz auf ihre
Anti-Establishment-Haltung und sehen sich in einem Kampf um ihre
Existenzgrundlage und um den Zugang zu „objektiven“ Informationen.
Diese Ergebnisse decken sich mit jenen einer systematischen
Auswertung von 51 Studien, die sich mit der sinkenden Zustimmung für
Mitte-links-Parteien im Westen befassen. Die Demokratische Partei in den USA,
die Sozialdemokraten in Westeuropa und die progressiven Kräfte in den
postkommunistischen Ländern haben alle an Rückhalt in der Arbeiterschicht
verloren. Um diesen Trend umzukehren, gilt es für diese Parteien,
arbeiterfreundliche Maßnahmen zu ergreifen und die Art der Kommunikation mit
diesem wichtigen Wähleranteil zu ändern.
Progressive Kräfte auf beiden Seiten des Atlantiks setzen
sich seit Jahren für eine stärkere Unterstützung von Arbeiterfamilien ein,
unter anderem durch höhere Ausgaben für öffentliche Dienstleistungen,
Gesundheitswesen, Bildung und Infrastruktur. Das hat ihnen sogar geholfen,
Wahlen zu gewinnen (wenn auch oft gegen unbeliebte konservative Regierungen).
Man denke nur an die US-Präsidentschaftswahlen 2008 und 2020, bei denen die
Demokraten Barack Obama und Joe Biden siegten, sowie an den überwältigenden Sieg
der Labour Party über die Tories bei den Unterhauswahlen im Vereinigten
Königreich im Juli dieses Jahres.
Sobald diese Parteien jedoch im Amt sind, brechen sie
oftmals ihre Wahlversprechen. Über die Schaffung attraktiver Arbeitsplätze in
Zukunftsbranchen zu reden, ist das eine, die tatsächlich Realität werden zu
lassen, etwas ganz anderes. Arbeiterinnen und Arbeiter wünschen sich mutige,
effektive Führungspersönlichkeiten, die konkrete Maßnahmen ergreifen.
Die Mitte-links-Parteien müssen einsehen, dass sie mit
Arbeiterinnen und Arbeitern nicht auf die gleiche Weise kommunizieren können
wie mit wohlhabenden städtischen Eliten. Anstatt die Sorgen der Arbeiterschicht
über Migration, Globalisierung und den ökologischen Wandel zu ignorieren,
sollten die Demokraten in den USA und die sozialdemokratischen Parteien in
Europa diese Ängste auf Kanälen und Plattformen ansprechen, die von diesem
Bevölkerungsteil bereits genutzt werden. In dieser Hinsicht könnten sie sich
eine Scheibe von der extremen Rechten abschneiden, die auf TikTok und X zu
einer dominierenden Kraft geworden ist. Die Erstellung von Videos, die dem
Populismus einen positiveren und demokratischeren Spin verleihen, ist weniger
eine Frage des Geschmacks als vielmehr eine Notwendigkeit.
In den letzten zwei Jahrhunderten hat die Arbeiterschicht
durch ihr Drängen auf das allgemeine Wahlrecht, die Einführung von
Sozialprogrammen und durch andere politische Maßnahmen zur Förderung des
wirtschaftlichen Wohlstands sowie zur Stärkung der politischen Stabilität eine
wesentliche Rolle beim Aufbau liberaler Demokratien gespielt. In turbulenten
Zeiten wie derzeit gilt es für Mitte-links-Parteien sicherzustellen, dass die
Wählerinnen und Wähler aus der Arbeiterschicht bei ihnen ein politisches Zuhause
finden. Das erfordert eine konzertierte Anstrengung, sie für sich zu gewinnen,
und zwar indem man ihre Anliegen ernst nimmt und sie dort abholt, wo sie sich
befinden. Gelingt dies nicht, wird die extreme Rechte weiterhin die Wut der
Arbeiterinnen und Arbeiter ausnutzen, um ihre antidemokratische Agenda
voranzutreiben. PS/IPG 10
Jahresbericht. Menschenrechtsinstitut kritisiert deutsche Migrationspolitik
Das Institut für Menschenrechte stellt der deutschen
Migrationspolitik ein schlechtes Zeugnis aus. Es sei gezeichnet von Abwehr und
Abschreckung, heißt es im neuen Jahresbericht. Danach gibt es auch auf dem
Arbeitsmarkt Handlungsbedarf.
Das Deutsche Institut für Menschenrechte (DIMR) sieht durch
die verschärfte Migrationsdebatte Grundrechte infrage gestellt. In seinem am
Montag in Berlin vorgestellten 9. Menschenrechtsbericht kritisiert das Institut
einschneidende Verschärfungen im Migrationsrecht und eine Politik, die auf
Abwehr und Abschreckung von Schutzsuchenden setze. Direktorin Beate Rudolf
sagte, es bereite ihr große Sorgen, „dass Politikerinnen und Politiker
demokratischer Parteien vorschlagen, das Grundrecht auf Asyl abzuschaffen oder
dass sie das menschenwürdige Existenzminimum infrage stellen“.
Sie bezog sich damit auf Forderungen aus den Unionsparteien,
das individuelle Asylrecht auf den Prüfstand zu stellen, die
Asylbewerberleistungen für Ausreisepflichtige zu streichen oder das Bürgergeld
für arbeitsfähige Menschen infrage zu stellen. „Wenn heute das Existenzminimum
von Schutzsuchenden abgesenkt wird, kann es morgen andere treffen“, sagte
Rudolf: „Menschenrechte gelten für alle oder für niemanden.“
Ausbeutung im Transport- und Baugewerbe verhindern
Der aktuelle Menschenrechtsbericht über die Lage in
Deutschland sieht Defizite in der Migrationspolitik, der Wohnungspolitik, bei
der Inklusion von Menschen mit Behinderungen und bei den Folgen der
Rohstoff-Beschaffung auf indigene Gruppen in den Lieferländern. Vor diesem
Hintergrund kritisierte Rudolf, dass die Bundesregierung das deutsche Gesetz
für die Einhaltung von Menschenrechts-Standards in den Lieferketten zugunsten
schwächerer europäischer Regelungen wieder abschaffen will. Dazu will das
Kabinett möglicherweise am Mittwoch einen Beschluss fassen.
Auch bei der Behandlung von Ausländer auf dem Arbeitsmarkt
gibt es dem Institut zufolge massive Defizite. Es empfiehlt Maßnahmen zur
Bekämpfung ausbeuterischer Arbeitsverhältnisse. Ein wichtiger Schritt wäre hier
aus Sicht des Instituts die Einführung einer Dokumentationspflicht für
Subunternehmerketten im Transport- und Baugewerbe. Betroffen sind insbesondere
ausländische Arbeitnehmer, die in ausbeuterischen Arbeitsverhältnissen
festsitzen und faktisch recht- und schutzlos ihren Arbeitgebern ausgeliefert sind.
Kritik an der Bezahlkarte: empirisch widerlegt
Kritik erntet auch die Bezahlkarte für Geflüchtete.
„Hartnäckig hält sich die Behauptung, dass Bargeldleistungen einen Anreiz
(Pull-Faktor) für Migrant:innen darstellen, um nach Deutschland zu kommen. Doch
Wissenschaftler:innen können diesen behaupteten Zusammenhang nicht bestätigen“,
heißt es in dem DIMR-Jahresbericht. Vielmehr sei die Annahme des Konzepts von
Push- und Pull-Faktoren höchst umstritten. Es sei „mittlerweile vielfach
empirisch widerlegt“.
Das Institut legte einen weiteren Bericht zum wachsenden
Antisemitismus in Deutschland nach dem Hamas-Massaker am 7. Oktober vergangenen
Jahres in Israel vor. Darin verlangt es die Bekämpfung des Antisemitismus als
„menschenrechtliches Gebot“. Der Bericht warnt vor den negativen Folgen der
Polarisierung und dem Zwang zur Positionierung angesichts des Gaza-Kriegs. Es
sei kein Widerspruch, mit den israelischen Opfern der Hamas mitzufühlen und
zugleich mit den zivilen Opfern im Gaza-Streifen und im Libanon, sagte Rudolf.
Der Bericht wurde zum Tag der Menschenrechte am Dienstag
vorgelegt. Der Tag erinnert an die Verabschiedung der Allgemeinen Erklärung der
Menschenrechte durch die Generalversammlung der Vereinten Nationen am 10.
Dezember 1948. Das Deutsche Institut für Menschenrechte ist eine unabhängige
nationale Menschenrechtsinstitution. Es wird vom Bundestag finanziert. Das
Institut setzt sich nach eigenen Angaben unter anderem dafür ein, dass
Deutschland die Menschenrechte im In- und Ausland einhält und fördert. (epd/dpa/mig
10)
Tag der Menschenrechte. Zeitenwende für Menschenrecht – Schutz von Bildungseinrichtungen im Krieg
Wiesbaden. Anlässlich des Tags der Menschenrechte 2024 fordert
der World University Service (WUS), das Recht auf Bildung für alle zu
gewährleisten - insbesondere für über 220 Millionen Kinder und Jugendliche in
über 300 Kriegen und Konflikten weltweit.
Der Tag der Menschenrechte erinnert an die Verabschiedung
der Allgemeinen Erklärung der Menschenrechte durch die Generalversammlung der
Vereinten Nationen am 10. Dezember 1948. In Artikel 26 fordern die Vereinten
Nationen das Recht auf Bildung für alle Menschen. Heute sind weltweit mehr als
220 Millionen Kinder und Jugendliche in über 300 Kriegen und Konflikten von
diesem Menschenrecht ausgeschlossen, rund 115 Millionen Menschen sind aufgrund
von Naturkatastrophen, Konflikten und Kriegen auf der Flucht und haben keinen
Zugang zu Bildungseinrichtungen.
„Wir unterstützen die Arbeit der Globalen Koalition zum
Schutz von Bildung vor Angriffen (GCPEA), der Deutschland 2018 beigetreten ist.
Das Abkommen soll dazu verpflichten, Bildung auch in Zeiten bewaffneter
Konflikte zu schützen. Bisher haben 119 Staaten unterzeichnet, aber es bedarf
gezielter Initiativen der Staatengemeinschaft, um den guten Absichten auch
konkrete Taten zum Schutz von Bildungseinrichtungen folgen zu lassen und auch
Bildungsangebote in Flüchtlingsunterkünften weltweit auszubauen“, so Dr. Kambiz
Ghawami, Vorsitzender des World University Service (WUS).
Der jüngste Bericht der Globalen Koalition zum Schutz von
Bildung vor Angriffen zeigt, dass immer mehr Universitäten und Schulen in
Kriegen zerstört werden. In den Jahren 2022 und 2023 wurden demnach weltweit
6.000 Bildungseinrichtungen angegriffen, ein Anstieg von fast 20 Prozent im
Vergleich zu den beiden Vorjahren. Mehr als 10.000 Studierende, Lehrende und
Forschende wurden dabei verletzt oder getötet. In jedem dieser Länder wurden
Hunderte von Schulen bedroht, geplündert, niedergebrannt, mit improvisierten
Sprengsätzen angegriffen oder von Artillerie oder Luftangriffen getroffen,
heißt es in dem Bericht. Ein weiteres Problem sei die Besetzung und Nutzung von
Schulen und Universitäten als Unterkünfte für Kämpfer.
„Stellvertretend für tausende zerstörte
Bildungseinrichtungen weltweit möchte ich am Tag der Menschenrechte nur die
zerstörten Schulen und Universitäten in den palästinensischen Gebieten, in der
Ukraine, in der Demokratischen Republik Kongo, im Sudan und in Myanmar nennen,
mit der Folge, dass der jungen Generation in diesen Ländern ihr Menschenrecht
auf Bildung zerschossen und zerbombt wird“, so Dr. Ghawami abschließend. Wus 10
Hamburg – Nach dem Ampel-Aus soll am 23. Februar 2025 ein
neuer Bundestag gewählt werden. Oppositionsführer Friedrich Merz (CDU) wäre
nach einer aktuellen Umfrage des Markt- und Meinungsforschungsinstituts Ipsos
derzeit der favorisierte Kanzlerkandidat. 19 Prozent der Deutschen halten den
CDU-Vorsitzenden für den am besten geeigneten Kandidaten für das Amt des
Bundeskanzlers.
Ipsos befragte insgesamt 1.000 Wahlberechtigte im Alter von
18 bis 75 Jahren, die aus einer Liste potenzieller Kanzlerkandidaten die aus
ihrer Sicht geeignetste Person auswählen sollten. Neben Merz standen den
Befragten der amtierende Bundeskanzler Olaf Scholz (SPD), Vizekanzler Robert
Habeck (Grüne) sowie AfD-Bundessprecherin Alice Weidel zur Auswahl.
Scholz abgeschlagen auf dem letzten Platz
Hinter Merz folgt mit 15 Prozent Zustimmung Alice Weidel von
der AfD, die wiederum knapp vor Wirtschaftsminister Robert Habeck von den
Grünen mit 13 Prozent liegt. Nur für etwa jeden zehnten Deutschen (11%) ist
Olaf Scholz der am besten geeignete Kandidat. Ein Drittel (33%) hält keinen der
Genannten für das Kanzleramt geeignet, weitere 9 Prozent können oder wollen
sich zu dieser Frage nicht äußern.
Damit landet der amtierende Bundeskanzler auf dem letzten
Platz und weit hinter seinem Herausforderer Friedrich Merz. Vor allem die
weiblichen Wählerinnen kann der Kanzler nicht überzeugen. Während 15 Prozent
der befragten Männer Scholz für den geeignetsten Kandidaten halten, sind es bei
den Frauen nur 8 Prozent. Bei Merz, Weidel und Habeck zeigt die Umfrage dagegen
keine großen geschlechtsspezifischen Unterschiede. Allerdings geben deutlich
mehr Frauen (36%) als Männer (30%) an, dass sie keinen der genannten Personen
für das Kanzleramt geeignet halten.
Habeck und Scholz im Osten deutlich unbeliebter als im
Westen
Während sich in Westdeutschland immerhin 14 Prozent der
Befragten für Robert Habeck und 12 Prozent für Olaf Scholz als Kanzler
aussprechen, erreichen sie in den ostdeutschen Bundesländern nur 7 (Habeck)
bzw. 8 (Scholz) Prozent Zustimmung. Dagegen spricht sich im Osten fast ein
Viertel der Befragten (24%) für AfD-Chefin Alice Weidel als künftige
Bundeskanzlerin aus. Damit liegt sie sogar knapp vor Friedrich Merz, der 22
Prozent der Ostdeutschen überzeugt. Im Westen fällt die Zustimmung für Alice
Weidel mit 13 Prozent deutlich geringer aus.
Merz besonders bei Älteren beliebt
Unionskandidat Friedrich Merz überzeugt vor allem die
älteren Wähler. 28 Prozent der 60- bis 75-Jährigen halten ihn für den
geeignetsten Kanzlerkandidaten. Bei den 40- bis 59-Jährigen liegt dieser Anteil
mit 17 Prozent deutlich niedriger, in der jüngsten Altersgruppe der 18- bis
39-Jährigen kann er sogar nur 13 Prozent der Befragten für sich gewinnen.
Anders sieht es bei den drei Gegenkandidaten von Merz aus:
Scholz, Habeck und Weidel erhalten jeweils die höchste Zustimmung bei den
jüngeren Wählern. Vor allem Robert Habeck kommt bei den Älteren nicht an. Nur 9
Prozent der 60- bis 75-Jährigen halten den derzeitigen Vizekanzler für die
beste Besetzung im Amt des Bundeskanzlers, in den beiden jüngeren Altersgruppen
sind es jeweils 14 Prozent.
Große Koalition beliebteste Regierungsoption
Neben der Kanzlerfrage hatte Ipsos die Wahlberechtigten auch
gefragt, welche Koalition sie sich für die neue Regierung nach der
Bundestagswahl wünschen. Dabei gaben 22 Prozent der Befragten an, eine Große
Koalition aus CDU/CSU und SPD zu bevorzugen. Eine schwarz-grüne Koalition wird
dagegen nur von 7 Prozent der Deutschen favorisiert. Ebenfalls nur eine
Minderheit wünscht sich eine schwarz-rot-grüne Kenia-Koalition (9%), eine
schwarz-rot-gelbe Deutschland-Koalition (6%) oder eine schwarz-gelb-grüne Jamaika-Koalition
(3%).
Im Vergleich zu diesen Optionen erreicht eine schwarz-blaue
Koalition rechts der Mitte (CDU/CSU und AfD) einen relativ hohen Anteil von 18
Prozent – eine Zusammenarbeit mit der AfD wurde allerdings vom CDU-Vorsitzenden
Merz bereits ausgeschlossen. Etwas mehr als ein Drittel der Wahlberechtigten
(35%) legt sich auf keine der genannten Koalitionen fest. 22 Prozent geben an,
kein Parteienbündnis zu bevorzugen, weitere 13 Prozent können oder wollen die
Frage nicht beantworten. Ipsos 11
Frankfurter Buchmesse erhält den KAV-Preis „Teilhabe und Zusammenhalt“
Die Frankfurter Buchmesse schafft durch ihre enge
Zusammenarbeit mit der Kommunalen Ausländerinnen- und Ausländervertretung (KAV)
der Stadt Frankfurt am Main eine einzigartige Plattform für kulturellen
Austausch und gesellschaftliche Teilhabe. Aufstrebende Autorinnen und Autoren
mit Migrationsgeschichte erhalten hier die Möglichkeit, ihre ersten Schritte in
die
Welt des Schreibens zu wagen. Gleichzeitig entdecken fast
2.000 – vor allem junge – Besucherinnen und Besucher mit Migrationsgeschichte
die Messe für sich, lassen sich inspirieren und gestalten aktiv mit.
Mit Diskussionen, kreativem Austausch und eigenen Projekten
öffnet die Buchmesse Türen und macht Vielfalt sichtbar. Über 140 Autorinnen und
Autoren mit Wurzeln in mehr als 60 Ländern haben in den letzten drei Jahren am
KAV-Stand ihre Werke präsentiert. Zusätzlich entstanden zahlreiche neue
Kontakte, Kooperationen und Synergien, die weit über die Veranstaltung
hinausreichen.
Für dieses herausragende Engagement und die Förderung von
Vielfalt und Zusammenhalt verleiht die Kommunale Ausländerinnen- und
Ausländervertretung der Stadt Frankfurt am Main der Frankfurter Buchmesse den
Preis „Teilhabe und Zusammenhalt“ und gratuliert herzlich.
Mit freundlichen Grüßen
Jumas Medoff (Vorsitzender der KAV) Kav 10
Syrien nach dem Regime-Sturz: Millionen Menschen in Not
World Vision weitet Hilfsmaßnahmen aus. Winter, zerstörte
Infrastruktur und Versorgungskrisen verschärfen die Lage für Kinder und
Familien
Nach fast 14 Jahren Krieg hat sich die politische Situation
in Syrien innerhalb einer Woche komplett verändert. Die internationale
Kinderhilfsorganisation World Vision weitet ihre Maßnahmen in Syrien nach dem
Sturz des Assad-Regimes aus und fordert umfassende Unterstützung der
Zivilbevölkerung in den kommenden Wochen und Monaten. World Vision ist
gemeinsam mit lokalen Partnerorganisation in dem Land aktiv und unterstützt in
vielen Regionen hunderttausende Binnenvertriebene und aufnehmende Gemeinden.
9. Dezember 2024 – Der Sturz des Assad-Regimes
markiert eine historische Wende nach 14 Jahren Krieg. Doch die humanitäre Krise
in Syrien bleibt dramatisch. Die internationale Kinderhilfsorganisation World
Vision, gemeinsam mit lokalen Partnerorganisationen seit 12 Jahren in Syrien
aktiv, verstärkt ihre Maßnahmen und fordert umfassende Unterstützung der
Zivilbevölkerung in den kommenden Wochen und Monaten.
Hunderttausende in Lagern – Winter verschärft die
Krise
Vor allem im Nordwesten des Landes leben Hunderttausende
Binnenvertriebene unter prekären Bedingungen in überfüllten Lagern. Der Zugang
zu Nahrung, sauberem Wasser und medizinischer Versorgung bleibt stark
eingeschränkt, während die winterlichen Verhältnisse die Lebensbedingungen
weiter verschlimmern.
„Die Situation ist in vielen Teilen Syriens noch
unüberschaubar und die Menschen sind aufgrund der schrecklichen Erfahrungen aus
dem letzten Kriegsjahrzehnt sehr verunsichert. Viele wünschen sich nichts mehr
als endlich Stabilität und einen dauerhaften Frieden, damit der Wiederaufbau
und ein Versöhnungsprozess beginnen können,“ sagt Janine Lietmeyer, Vorständin
World Vision Deutschland.
Zerstörte Infrastruktur und Mangel an Lebensmitteln
Der Krieg hat Syrien in Trümmern hinterlassen: Die
Infrastruktur ist massiv beschädigt, die Grundversorgung mit Wasser,
Elektrizität und Gesundheitsdiensten instabil. In den großen Städten wie Aleppo
und Hama stehen lebenswichtige Einrichtungen wie Krankenhäuser, Bäckereien und
Kraftwerke unter enormem Druck.
„Die jüngsten Kämpfe haben erneut den Zugang zu
Gesundheitseinrichtungen stark beeinträchtigt. Große Krankenhäuser und Zentren
für medizinische Grundversorgung, wurden beschädigt oder vorerst geschlossen,
teilweise gibt es nur notärztliche. Versorgung. Diese Situation belastet
insbesondere Kinder sehr,“ so Lietmeyer weiter.
World Vision arbeitet seit 2013 in Syrien und ist unter
anderem mit Projekten aktiv, die von Auswärtigen Amt und dem Bundesministerium
für wirtschaftliche Zusammenarbeit (BMZ) gefördert werden. Die lange Präsenz
und Ortskenntnis der Mitarbeitenden erleichtern die Bemühungen, vor allem die
am stärksten betroffenen Menschen zu erreichen.
World Vision Deutschland e.V.
Spendenkonto: PAX-Bank eG IBAN DE72 3706 0193 4010
5000 07
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World Vision Deutschland ist für die Durchführung seiner
Projekte auf Spenden angewiesen. Danke für Ihre Unterstützung!
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Umfrage. Mehrheit sieht Migrationspolitik der Regierung kritisch
„Irreguläre Migration“ beschäftigt Menschen in Deutschland –
ebenso die Einwanderung von potenziellen Arbeitskräften. Wie die
Bundesregierung hier agiert, überzeugt die Mehrheit der Deutschen nicht, wie
Ergebnisse einer Umfrage zeigen.
Drei von vier Bundesbürgern haben laut einer aktuellen
Umfrage den Eindruck, die Bundesregierung sei bei der Begrenzung der
„irregulären Migration“ nicht aktiv genug. Das geht aus den Ergebnissen einer
repräsentativen Erhebung des Meinungsforschungsinstituts YouGov im Auftrag der
Deutschen Presse-Agentur hervor. Danach sieht jeder zweite Deutsche auch bei
der Steuerung der Erwerbsmigration noch Luft nach oben.
Dass die Bundesregierung genug unternimmt, um „irreguläre
Migration“ zu verhindern, glauben laut Umfrage lediglich 14 Prozent der
Deutschen. 75 Prozent sind vom Gegenteil überzeugt. Elf Prozent der Befragten
trauten sich in dieser Frage kein Urteil zu.
Jeder Zweite hält mehr Engagement für Erwerbsmigration für
nötig
Auf die Frage, ob die Bundesregierung genug tue für die
Einwanderung potenzieller Arbeitskräfte aus Nicht-EU-Staaten oder nicht,
antworteten 50 Prozent, die Regierung „macht nicht genug, um die Einwanderung
von Arbeitskräften zu ermöglichen“. 30 Prozent der Befragten finden die
Aktivitäten der Bundesregierung auf diesem Gebiet ausreichend. Jeder Fünfte hat
hierzu keine klare Meinung.
Deutschlands Wirtschaft wird dieses Jahr nach einer Prognose
der EU-Kommission leicht schrumpfen. Erwartet wird im laufenden Jahr ein
Rückgang des Bruttoinlandsprodukts um 0,1 Prozent. Als einer der Gründe für die
Flaute gilt der Arbeitskräftemangel in vielen Branchen.
93 Prozent halten „irreguläre Migration“ für ein Problem
Im Zuge der Befragung, die am 29. November begann und am
Dienstag endete, wurde auch deutlich, dass eine große Mehrheit der Deutschen
„irreguläre Einwanderung“ problematisch findet. Demnach sehen lediglich zwei
Prozent der Bundesbürger überhaupt kein Problem darin, dass Menschen, die nicht
aus der EU stammen, ohne gültigen Aufenthaltstitel einreisen beziehungsweise
sich in Deutschland aufhalten.
15 Prozent der Wahlberechtigten halten dies für ein kleines
Problem. Für die Antwortvariante „großes Problem“ entschieden sich 27 Prozent
der Befragten. Etwa die Hälfte der Teilnehmer der Umfrage (51 Prozent) halten
„irreguläre Einwanderung“ den Angaben zufolge für ein sehr großes Problem.
Lediglich fünf Prozent der Befragten äußerten sich hier unentschlossen.
AfD- und BSW-Anhänger sehen „irreguläre Migration“ sehr
kritisch
Fast alle Befragten, die angaben, bei der für den 23.
Februar geplanten Bundestagswahl AfD oder das Bündnis Sahra Wagenknecht (BSW)
wählen zu wollen, sehen in der „irregulären Migration“ ein großes oder sehr
großes Problem. Etwas niedriger ist der Wert bei denjenigen, die ihre Stimme
der CDU beziehungsweise der CSU zu geben. Auch die Mehrheit der potenziellen
SPD-, Linke- und FDP-Wähler sehen das so.
Lediglich bei den Menschen, die angaben, die Grünen wählen
zu wollen, war die Gruppe derjenigen, die „irreguläre Einwanderung“ als großes
oder sehr großes Problem ansehen in etwa so groß wie die Gruppe der Menschen,
die darin nur ein kleines Problem sehen oder gar kein Problem.
In den ersten zehn Monaten dieses Jahres hat die
Bundespolizei rund 71.000 unerlaubte Einreisen festgestellt. Im gesamten Jahr
2023 gab es laut Polizeistatistik rund 127.500 unerlaubte Einreisen.
Jeder Zweite glaubt, Einwanderung war schlecht
Berücksichtigt werden muss hier, dass Bundesinnenministerin
Nancy Faeser (SPD) die stationären Kontrollen inzwischen auf alle Landgrenzen
ausgeweitet hat. Das mag Schleuser einerseits abschrecken, führt auf der
anderen Seite aber auch dazu, dass mehr unerlaubte Einreisen direkt an der
Grenze auffallen, was Zurückweisungen ermöglicht. Zurückweisungen an deutschen
Landgrenzen gibt es derzeit nur in bestimmten Fällen: Wenn jemand mit einer
Einreisesperre belegt ist oder kein Asyl beantragt.
Dass die Einwanderung in den vergangenen zehn Jahren
insgesamt schlecht für Deutschland war, glaubt demnach jeder Zweite. 15 Prozent
der Deutschen sind überzeugt, Einwanderung sei im zurückliegenden Jahrzehnt im
Großen und Ganzen gut gewesen. Sowohl Licht als auch Schatten sehen hier 30
Prozent der Befragten. (dpa/mig 9)
Was bedeutet der Sturz Assads – auch für Geflüchtete in
Deutschland?
Jahrelang herrschte in Syrien ein Patt, das fast eine Art Stabilität
suggerieren konnte. Die Blitzoffensive von Rebellen treibt Machthaber Assad in
die Flucht – und das Land in ungewisse Zeiten. Knapp eine Million Syrer in
Deutschland halten den Atem. Von Johannes Sadek und Sara Lemel
Die Ereignisse überschlagen sich: In weniger als zwei Wochen
hat eine Allianz aus Aufständischen in Syrien die Kontrolle über die
wichtigsten Städte übernommen und Syriens Machthaber Baschar al-Assad in die
Flucht geschlagen. Nach bald 14 Jahren Bürgerkrieg beginnt in dem arabischen
Land der nächste große Umbruch.
Ist die Assad-Regierung jetzt endgültig gestürzt?
Eine Rückkehr Assads an die Macht scheint nach seiner Flucht
aus Damaskus praktisch ausgeschlossen. In den vergangenen Jahren konnte sich
seine schwache Regierung nur mit der Unterstützung Russlands, des Irans, der
libanesischen Hisbollah und anderen Iran-treuen Milizen halten. Assad dürfte –
wenn er die Flucht überlebte – untertauchen, etwa in Moskau. Auch die Armee,
der wichtigste syrische Unterstützer Assads, hat das Ende seiner Regierung
verkündet. Syrien wurde seit Jahrzehnten von der Assad-Familie beherrscht,
Assads Vater Hafis wurde 1970 zum faktischen Alleinherrscher.
Wie geht es in Syrien jetzt weiter?
Das ist unklar. Das Bündnis aus Aufständischen, das in
großen Gebieten samt der Hauptstadt Damaskus die Kontrolle übernahm, wird
angeführt von der Islamistengruppe Haiat Tahrir al-Scham (HTS). Übersetzt heißt
das in etwa „Organisation für die Befreiung (Groß-)Syriens“.
Zuvor hatte sie Verbindungen zu den Terrororganisationen
Islamischer Staat (IS) und Al-Kaida. Sie sagte sich später aber
öffentlichkeitswirksam von diesen los. Anführer Abu Mohammed al-Dschulani tritt
seit einigen Tagen mit seinem bürgerlichen Namen Ahmed al-Scharaa auf und
schlägt eher diplomatische und versöhnliche Töne an. HTS wurden zuvor aber auch
Folter und Hinrichtungen vorgeworfen. Die EU und die USA stufen HTS als
Terrororganisation ein.
Wird HTS die Macht in Syrien allein übernehmen?
Nein. HTS ist die mächtigste der Rebellengruppen, die sich
zum gemeinsamen Kampf gegen Assad mit anderen Gruppen zusammengeschlossen hat.
Nach dem Sturz der Assad-Regierung könnte die Rivalität dieser Gruppen aber
wieder stärker hervortreten und in einem Machtvakuum auch zu neuen Kämpfen
führen. Zudem gibt es im Norden weitere Rebellengruppen, die von der Türkei
unterstützt werden, Kurdenmilizen im Nordosten sowie Zellen der Terrormiliz IS,
die Anschläge verüben. Es ist unklar, welche Gruppe oder möglicherweise ein
neues Bündnis die Macht übernehmen könnte und auch welche Rolle die Soldaten
und andere Sicherheitskräfte spielen, die bisher Assad die Treue hielten.
Was bedeutet Assads Sturz für Syrien und den verbündeten
Iran?
Mit Assad stürzt Kritikern zufolge einer der größten und
brutalsten Machthaber des Nahen Ostens, der unter anderem mit Giftgas und
Folter gegen die eigene Bevölkerung vorging. Die nun fallenden Assad-Denkmäler
erinnern an den Sturz der Langzeitherrscher im Irak und in Libyen, Saddam
Hussein und Muammar Gaddafi. Viele Syrer bejubeln Assads Ende, andere fürchten
zugleich eine neue, andere Gewaltherrschaft unter den aufständischen
Islamisten. ´
Der Iran verliert mit Assad einen wichtigen strategischen
Alliierten. Teheran finanzierte die Assad-Regierung und half ihr militärisch,
auch um Syrien als „Korridor“ zur Hisbollah-Miliz im Libanon zu nutzen. Mit dem
Machtwechsel in Syrien gerät die iranische Nahostpolitik – und insbesondere der
Kampf gegen Erzfeind Israel – in eine Sackgasse. Kritiker werfen der iranischen
Führung vor, mit ihrer Fehlkalkulation in Syrien Milliarden US-Dollar in den
Sand gesetzt zu haben.
Einige sehen im Sturz Assads sogar den großen Wendepunkt für
die sogenannte „Achse des Widerstands“, die der Iran gegen Israel gebildet hat.
Nach der Tötung von Hamas-Auslandschef Ismail Hanija sowie Hisbollah-Chef
Hassan Nasrallah und nun der Flucht Assads wurden innerhalb weniger Monate drei
Spitzenfiguren der „Achse“ ausgeschaltet. Ein Mitglied der Revolutionsgarden
(IRGC), die Assads Regierung lange am Leben hielten, vergleiche die Ereignisse
in Syrien mit dem Fall der Berliner Mauer, berichtet eine Iran-Reporterin der
„New York Times“
Wie wirkt Assads Sturz sich auf Nachbar Israel aus?
Israel beobachtet die Entwicklungen in dem nördlichen
Nachbarland Syrien mit großer Wachsamkeit. Der Sturz Assads wird als herber
Rückschlag für Israels Erzfeind Iran eingestuft. Weil die wichtige
Landverbindung zwischen dem Iran und dem Mittelmeer gekappt ist, dürfte auch
eine Wiederaufrüstung der Hisbollah, gegen die Israel bis zu einer Waffenruhe
vor anderthalb Wochen Krieg führte, kaum möglich sein. All dies spielt Israel
in die Hände.
Aus israelischer Sicht ist der Zusammenbruch von Assads
Herrschaft Teil einer regionalen Kettenreaktion, die mit dem Terrorüberfall der
Hamas und anderer extremistischer Gruppen auf Israel am 7. Oktober 2023
begonnen hat.
Was könnte in der Region folgen?
Der israelische Analyst Udi Evental spricht von einem
„regionalen Erdbeben“ durch den Sturz Assads. Er rechne nun mit mehreren
möglichen „Nachbeben“ in der Region. Die islamistische Hamas im Gazastreifen
und die schiitische Hisbollah im Libanon seien bereits weitgehend geschlagen.
Der „Feuerring“, mit dem iranische Helfershelfer Israel innerhalb gut eines
Jahrzehnts umgeben hätten, sei mit den Ereignissen in Syrien praktisch komplett
zerstört.
Evental sieht nun bessere Chancen für eine Waffenruhe und
einen Geisel-Deal im Gazastreifen nach mehr als einem Jahr des verheerenden
Kriegs in dem Küstenstreifen. „Die Hamas hat die Unterstützung der (iranischen)
Achse verloren, bleibt allein zurück und signalisiert wachsendes Interesse an
einer Einigung.“ Damit biete sich die Möglichkeit, vor einem Amtsantritt von
Donald Trump als US-Präsident im Januar „reinen Tisch zu machen“, damit man
sich „gemeinsam auf die zentrale Bedrohung konzentrieren kann: das iranische
Atomprogramm“.
Welche Rolle spielen Russland, die Türkei und die USA?
Die Entwicklungen in Syrien werden seit Jahren nicht mehr in
Damaskus angestoßen, sondern neben Teheran auch in Moskau und Ankara. Russland
hatte Assad im Bürgerkrieg mit Luftangriffen an der Macht gehalten, seine
Truppenzahl im Land wegen des Ukraine-Kriegs aber verringert. Moskau dürfte
dennoch versuchen, seine wichtigen Luft- und Marine-Stützpunkte an der
Mittelmeerküste zu halten, auch wegen ihrer Nähe zu Europa und zur Sicherung
seiner Interessen in Afrika.
Bei Russland wie der Türkei, die Gebiete im Norden Syriens
besetzt hält, ist unklar, inwieweit es künftig Absprachen geben könnte mit den
neuen Machthabern im Land. Experten vermuten, dass die Türkei die Offensive
zumindest billigte, um Druck auf Assad auszuüben. Dieser hatte eine
Normalisierung mit der benachbarten Türkei bisher abgelehnt – zum Unmut des
türkischen Präsidenten Recep Tayyip Erdogan. Dieser möchte wegen der Spannungen
im eigenen Land unter anderem Flüchtlinge nach Syrien zurückführen. Erdogan hat
zudem deutlich gemacht, dass er eine Ausweitung der Präsenz von kurdischen
Milizen an der Grenze zur Türkei nicht dulden wird.
Die USA haben ihrerseits noch einige Hundert Soldaten in
Syrien stationiert zum Kampf gegen die Terrormiliz IS. Sie waren aber auch eine
Art westlicher Keil tief im Einflussgebiet des Irans. Nach dem Amtsantritt
Trumps in Washington, der schon 2019 einen US-Truppenabzug aus Syrien
angeordnet hatte, könnten sich die militärischen Kräfteverhältnisse dort erneut
ändern. Trump stellte jetzt klar, er wolle nicht, dass sich die USA in
irgendeiner Form in die Krise in Syrien einmischen, weil es nicht ihr Kampf sei.
Was geschieht mit den Millionen syrischen Flüchtlingen?
Ein sicheres Land für eine Rückkehr war Syrien in
vergangenen Jahren keineswegs. Diejenigen, die im Bürgerkrieg ab 2011 vor
Assads Truppen, seinen Verbündeten oder anderen bewaffneten Gruppen flüchteten,
könnten nun dennoch über eine Rückkehr nachdenken. In der benachbarten Türkei
leben mehr als drei Millionen syrische Flüchtlinge – Schätzungen zufolge sind
es mehr als doppelt so viele – und viele weitere im Libanon, Jordanien und
Ägypten. Im Bürgerkrieg wurden mehr als 14 Millionen Menschen vertrieben, etwa
die Hälfte davon im eigenen Land.
Was bedeutet die neue Situation für die Flüchtlinge in
Deutschland?
Am 31. Oktober hielten sich in Deutschland laut Ausländerzentralregister
974.136 syrische Staatsgehörige auf. Die Mehrheit von ihnen sind Flüchtlinge
beziehungsweise Asylbewerber. In den ersten elf Monaten dieses Jahres stellten
72.420 Menschen aus Syrien erstmals beim Bundesamt für Migration und Flüchtlinge
(Bamf) einen Asylantrag. Von den Flüchtlingen, die 2015 und 2016 nach
Deutschland kamen, sind inzwischen etliche deutsche Staatsbürger geworden.
Wie sich die neue Lage auf die Flüchtlingssituation
auswirken wird, hängt davon ab, ob es nach dem Sturz von Assad einen weitgehend
friedlichen Übergang gaben wird oder ob Selbstjustiz und Machtkämpfe für neue
Instabilität sorgen. „Sollte sich die Situation positiv entwickeln, würden
etliche Syrer zurückkehren wollen“, sagt der fluchtpolitische Sprecher von Pro
Asyl, Tareq Alaows, der Deutschen Presse-Agentur.
Andere, die in Deutschland Arbeit gefunden und eine Familie
gegründet hätten, wollten dagegen bleiben und würden die alte Heimat wohl nur
noch besuchen wollen. Der Aktivist sagt: „Über 600.000 Menschen aus Syrien
leben in Deutschland mit einer befristeten Aufenthaltserlaubnis. Sie brauchen
Sicherheit.“
Hoffnung und Angst bei Syrern in Deutschland
In Berlin-Neukölln versammelten sich am Wochenende einige
Dutzend Menschen, um den Vormarsch der Rebellen zu feiern. Sorgen vor den
Absichten der neuen Machthaber äußerten vor allem Angehörige religiöser
Minderheiten.
Khaled Davrisch, Repräsentant der von Kurden ins Leben
gerufenen Selbstverwaltung in Nord- und Ostsyrien in Deutschland sagte: „Mit
dem Ende des Regimes stehen wir vor der Verantwortung, die Fehler der
Vergangenheit zu überwinden und gemeinsam ein Syrien zu formen, das Freiheit
und Würde für alle garantiert.“ Die Selbstverwaltung strebe keine Abspaltung
an, sondern wolle sich beteiligen, „am Aufbau eines demokratischen und
pluralistischen Syriens, das die Rechte aller Syrerinnen und Syrer ohne
Diskriminierung garantiert“. (dpa/mig 9)
Vatikan/UNO: Schuldenerlass und entschlossenes Handeln gegen Armut
In einer Rede bei den Vereinten Nationen hat Erzbischof
Gabriele Caccia, Ständiger Beobachter des Heiligen Stuhls, die internationale
Gemeinschaft zu konkreten Maßnahmen gegen Armut, zur Entschuldung der
Entwicklungsländer und zum Schutz der Umwelt aufgerufen. Diese Ziele müssten
Priorität bei der Entwicklungsfinanzierung haben, betonte er am Mittwoch in New
York. Mario Galgano – Vatikanstadt
Erzbischof Gabriele Caccia, Ständiger Beobachter des
Heiligen Stuhls bei den Vereinten Nationen, hat in einer Sitzung des
Vorbereitungskomitees für die Vierte Konferenz zur Entwicklungsfinanzierung
eine eindringliche Botschaft übermittelt. Seine Forderungen zielten auf eine
gerechtere Weltordnung, die Armut bekämpft, die Schuldenlast der
Entwicklungsländer mindert und den Klimaschutz stärkt.
Kritik an bisherigen Bemühungen
Caccia kritisierte, dass bisherige Maßnahmen im Bereich der
Entwicklungsfinanzierung weder Ungleichheiten noch die durch internationale
Krisen verstärkte Verwundbarkeit vieler Länder wirksam reduziert hätten. „Um
signifikante Fortschritte bei den Millenniums-Entwicklungszielen und einer
ganzheitlichen menschlichen Entwicklung zu erzielen, ist eine konkretere
Zuweisung der verfügbaren Finanzmittel erforderlich“, erklärte er.
Besondere Aufmerksamkeit müsse dabei den am wenigsten
entwickelten Staaten, den Inselstaaten und den Binnenländern gelten. Diese
seien durch ihre geografische und wirtschaftliche Lage besonders gefährdet und
benötigten dringend Unterstützung beim Umwelt- und Klimaschutz.
Entschuldung als moralische Verpflichtung
Ein zentrales Anliegen des Heiligen Stuhls sei der
Schuldenerlass für Entwicklungsländer. Caccia unterstrich die Bedeutung dieser
Maßnahme, die auch von Papst Franziskus in seiner Bulle Spes non confundit
gefordert wird. „Es ist ein moralisches Gebot, die Würde aller Menschen zu
wahren und das Potential der im Teufelskreis der Verschuldung gefangenen
Nationen freizusetzen“, betonte der Erzbischof.
Die Last untragbarer Schulden hindere viele Länder daran,
die Grundlagen für eine nachhaltige Entwicklung zu legen und auf globale
Herausforderungen zu reagieren. „Ein Schuldenerlass ist kein Almosen, sondern
eine Investition in die Zukunft und Gerechtigkeit“, so Caccia weiter.
Armut als Kernproblem
Die Beseitigung der Armut müsse oberste Priorität auf der
Agenda der Internationalen Konferenz zur Entwicklungsfinanzierung haben. „Armut
ist nicht nur ein wirtschaftliches Problem, sondern eine schwere Verletzung der
von Gott gegebenen Menschenwürde und ein ernsthaftes Hindernis für nachhaltige
Entwicklung“, mahnte Monsignore Caccia abschließend.
Der Heilige Stuhl appellierte an die internationale
Gemeinschaft, die Prinzipien von Solidarität und Gerechtigkeit stärker in den
Mittelpunkt der Entwicklungsfinanzierung zu stellen. Die Herausforderungen der
heutigen Welt erforderten entschlossenes Handeln, um die Menschheit aus Armut
und Ungleichheit zu befreien und eine lebenswerte Zukunft zu schaffen. (vn 7)
„Getarntes Todesurteil“. Italien verschärft Gesetz gegen private Seenotretter
Die rechtsnationale italienische Regierung hat Gesetze gegen
private Seenotretter verschärft. Es zwingt Seenotretter, Menschen in Seenot
nicht zu helfen, sofern sie bereits Geflüchtete an Bord haben. Seenotretter
sprechen von einem „getarnten Todesurteil“ – und retten weiter Menschen.
Italien hat die gesetzlichen Regelungen gegen private
Seenotretter verschärft. Der Senat beschloss am Mittwoch, die bisher im
sogenannten Piantedosi-Dekret festgelegten Maßnahmen in der
Migrationsgesetzgebung zu verankern. Darin enthalten ist unter anderem die
Vorgabe, dass die Schiffe nach jeder Rettung unverzüglich den ihnen
zugewiesenen Hafen anlaufen müssen, ohne auf dem Weg weitere Geflüchtete in
Seenot an Bord zu nehmen.
Bei Zuwiderhandlung drohen die Festsetzung des Schiffs und
Geldstrafen. Die rechtsnationalistische Regierung von Ministerpräsidentin
Giorgia Meloni hatte mit dem Piantedosi-Dekret bereits Anfang 2023 neue Regeln
für die private Seenotrettung im Mittelmeer erlassen.
„Gesetzesänderungen sind ein getarntes Todesurteil“
Die Seenotrettungsorganisationen kritisierten die
Verabschiedung des Gesetzes scharf. „Auf See sind zivile Rettungsschiffe die
letzte Bastion gegen staatliche Gewalt“, sagte die Sprecherin von Sea-Watch,
Giulia Messmer. „Die neuen Gesetzesänderungen sind ein getarntes Todesurteil.“
In einer Erklärung von acht internationalen Organisationen hieß es, Ziel der
gesetzlichen Verankerung sei nicht die Verwaltung der Seenotrettung, sondern
ihre Behinderung und Kriminalisierung.
Nach der Senatsentscheidung werden Verstöße nun nicht mehr
nur auf die Kapitänin oder den Kapitän des Schiffes bezogen, sondern auch auf
den oder die Eigentümer. Wenn also die Besatzung eines Schiffes mehrfach
innerhalb von fünf Jahren nach einem ersten Einsatz weiteren Menschen in Seenot
hilft, statt ohne weitere Rettungen den zugewiesenen Hafen anzusteuern, gilt es
nicht nur mit dem gleichen Kapitän als Wiederholung eines Verstoßes und wird
härter bestraft. Zudem würden die Fristen für Einspruch gegen die Strafen
verkürzt, kritisieren die Organisationen.
SOS Humanity rettet über 80 Flüchtlinge
Zuletzt hat die Hilfsorganisation SOS Humanity 83 Menschen
im Mittelmeer gerettet. Mehr als ein Dutzend der Menschen sei in kritischem
Zustand aufgefunden worden und brauche medizinische Behandlung in einem
Krankenhaus an Land, teilte die Organisation am Mittwoch mit. Sie seien bei der
Rettung am Dienstag stark bis dramatisch unterkühlt gewesen, manche seien
bewusstlos gewesen oder hätten Meerwasser in den Atemwegen gehabt. Ihr Holzboot
habe bereits Schlagseite gehabt, als die Crew der „Humanity 1“ die Menschen in
Seenot erreichte.
Das Mittelmeer zählt zu den gefährlichsten Fluchtrouten
weltweit. Nach Angaben der Internationalen Organisation für Migration (IOM)
kamen seit Beginn des Jahres mehr als 2.000 Menschen bei der Überfahrt ums
Leben oder sie werden vermisst. Die Dunkelziffer wird weit höher angenommen.
Lediglich die Schiffe privater Hilfsorganisationen halten nach in Seenot
geratenen Flüchtlingsbooten Ausschau.
Liste „sicherer“ Herkunftsstaaten jetzt Gesetz
Zu den Neuerungen im italienischen Gesetz gehört auch die
dadurch in Gesetzesform gegossene Liste von sogenannten sicheren
Herkunftsstaaten. Auf dieser stehen unter anderem Bangladesch, Ägypten und
Marokko. Die italienische Regierung hatte die Liste in ein Gesetz umgewandelt,
nachdem ein Gericht in Rom die Unterbringung von Migranten aus Ägypten und
Bangladesch in von Italien betriebenen Asylzentren in Albanien untersagt hatte.
In dem aktualisierten Gesetz ist auch festgelegt, dass
künftig das Oberlandesgericht und nicht mehr die Fachgerichte für die
Bestätigung der Inhaftierung von Asylbewerbern zuständig sind. (epd/mig 6)
OSZE auf Malta: Vatikan besorgt um Zukunft der Organisation
Sorge vor einer Spaltung der OSZE und einer Verwässerung
ihrer eigentlichen Ziele hat der vatikanische Außenbeauftragte, Erzbischof Paul
Richard Gallagher, beim derzeiten OSZE-Außenministertreffen in Malta
ausgedrückt. Dabei mahnte er die Mitgliedsstaaten, nicht vom Konsensprinzip
abzuweichen, um die Grundwerte der Einrichtung, die entscheidend zum Ende des
Kalten Krieges beigetragen hat, nicht zu gefährden. Christine Seuss -
Vatikanstadt
In seiner Ansprache am Donnerstag hob Gallagher die
Bedeutung der Schlussakte von Helsinki (Helsinki Final Act) hervor, mit der
sich die Unterzeichnerstaaten – darunter neben europäischen Ländern auch die
USA und die damalige Sowjetunion – nach jahrelangen Verhandlungen 1975 in
Helsinki auf eine Reihe von Grundprinzipien geeinigt hatten. Aus der mit der
Schlussakte beendeten Konferenz ist die Organisation für Sicherheit und
Zusammenarbeit in Europa (OSZE) hervorgegangen, die mittlerweile 57
Teilnehmerstaaten von Nordamerika bis nach Zentralasien hat.
Herausforderungen und Erfolge
Mit Blick auf den Jahrestag im kommenden Jahr gelte es nun,
„sowohl die Erfolge als auch die Herausforderungen“ zu würdigen, die die OSZE
erlebt habe. Wichtig sei außerdem eine „Vision für die Zukunft mit Klarheit,
Entschlossenheit und erneuertem Engagement für Frieden, Sicherheit und
Gerechtigkeit“ für den gesamten Globus, so der Vatikandiplomat:
„Die Schlussakte von Helsinki ist Ausdruck des gemeinsamen
Verständnisses aller Teilnehmerstaaten, dass Frieden nicht nur die Abwesenheit
von Krieg oder ein Gleichgewicht der Kräfte bedeutet, sondern vielmehr die
Frucht freundschaftlicher Beziehungen, eines konstruktiven Dialogs und der
Zusammenarbeit zwischen den Staaten bei der Einhaltung der völkerrechtlichen
Verpflichtungen und der Achtung aller universellen Menschenrechte ist.“
Gallagher würdigte den Vertragsabschluss, der zumindest zu
Beginn in Westeuropa als unpopulär galt, erkannte er doch de facto die
sowjetische Annexion der baltischen Staaten Litauen, Lettland und Estland an.
Auf der anderen Seite hatten sich die Unterzeichner jedoch auf wichtige
Grundrechte geeinigt, die international überwacht wurden und Dissidenten in der
Sowjetunion letztlich in die Hände spielten. Deshalb gilt die Schlussakte als
Vertragswerk, das entscheidend zu einem Ende des Kalten Krieges beigetragen
hat.
Sorge über zunehmende Fragmentierung
Heutzutage stehe es um die OSZE jedoch nicht zum Besten,
ließ Gallagher in seiner Ansprache deutlich durchblicken: „In den letzten
Jahren haben wir mit großer Sorge nicht nur einen mangelnden Verfahrenskonsens
innerhalb der OSZE beobachtet, sondern vor allem ein zunehmendes Schwinden
gegenseitigen Vertrauens zwischen einigen Teilnehmerstaaten, eine Zunahme
ideologischer Aggressionen und eine eklatante Missachtung der in der
Schlussakte von Helsinki enthaltenen Grundprinzipien“, so der vatikanische
Sekretär für die Beziehungen mit den Staaten und Internationalen Organisationen
auf Malta.
Sorge über „zunehmende Fragmentierung“
Ein Beispiel dafür sei auch die Tatsache, dass
Schlüsselpositionen in der Organisation nur nach langwierigen Verhandlungen
besetzt werden konnten, während die Diskussion über den amtierenden Vorsitz
2026 noch nicht einmal begonnen habe. Die evidenten Probleme spiegelten die
aktuelle Weltlage wider, räumte der Vatikandiplomat ein, der in diesem
Zusammenhang der Sorge des Heiligen Stuhls über die „zunehmende Fragmentierung“
der Organisation Ausdruck verlieh.
Es bestehe somit die Gefahr, sich in „Clubs“ gleichgesinnter
und „ideologisch kompatibler“ Staaten zurückzuziehen, was die übergreifende
internationale Zusammenarbeit aufs Schwerste beeinträchtigen würde, mahnte
Gallagher. Die OSZE sei vielmehr „eine Organisation nicht gleichgesinnter
Staaten, die im Konsens arbeitet“, was eher „die geduldige Arbeit des Dialogs
und der Verhandlungen“ als die des „gewaltsamen Aufzwingens“ erfordere.
Die Bedeutung von Konsens nicht gleichgesinnter Staaten
„Es wäre zutiefst bedauerlich, wenn die Teilnehmerstaaten
die Hoffnung aufgeben und das eigentliche Wesen der OSZE gefährden würden, indem
sie das Streben nach konsensbasierten Beschlüssen aufgeben und die Organisation
in ein Forum nur für gleichgesinnte Staaten verwandeln“, so Gallagher. Er
warnte vor dem Risiko einer „Selbstauflösung“ oder zumindest einer
„Formveränderung“, was nicht nur von der Schlussakte von Helsinki abweichen,
sondern auch „den Geist von Helsinki“ verfälschen würde. Liege doch die Stärke
der Organisation letztlich in der „Vielfalt der Perspektiven“ und der Tatsache,
dass Entscheidungsprozesse durch Dialog zustande kämen.
„Die OSZE hat immer einen Weg gefunden, Konsens zu erzielen
und ihre hochgesteckten Ziele zu verfolgen. Lassen Sie uns daher in unserem
Engagement, alle Parteien an den Verhandlungstisch zu bringen, standhaft
bleiben“, so der Appell des Vatikandiplomaten. In einer Zeit, in der es Dialog,
Deeskalation und Entspannung dringend brauche, stehe die OSZE nun an einem
Scheideweg. Ihre Zukunft liege in der Verantwortung jedes einzelnen
Teilnehmerstaats, soGallagher.
Das Treffen findet am 5. und 6. Dezember in Malta statt,
auch Russlands Außenminister Lawrow und Anthony Blinken aus den USA sind dazu
vor Ort. (vn 6)
Amnesty International wirft Israel Völkermord an Palästinensern vor
Israels Regierungschef Netanjahu preist die Streitkräfte
seines Landes gerne als die „moralischste Armee der Welt“ an. Amnesty kommt in
einem fast 300 Seiten langen Bericht zu einem anderen Ergebnis.
Amnesty International hat Israel Völkermord an den
Palästinensern im Gazastreifen vorgeworfen. Die israelische Armee habe im Zuge
ihrer Militäroffensive Kriegsverbrechen begangen und absichtlich Leid und
Zerstörung über die dort lebenden Menschen gebracht, teilte die
Menschenrechtsorganisation mit. Sie legte einen fast 300 Seiten langen Bericht
zu den Vorwürfen vor, den die israelische Regierung als „vollständig falsch“
bezeichnete.
Auslöser des Gaza-Kriegs war das Massaker der Hamas und
anderer Extremisten aus dem Gazastreifen am 7. Oktober 2023 mit 1.200 Toten und
etwa 250 Verschleppten. Israel betont stets, Hamas-Kämpfer hätten Zivilisten
als Schutzschild missbraucht, während Israel alles unternommen habe, Zivilisten
zu schonen.
Amnesty betonte hingegen, Israel habe es darauf angelegt,
die Palästinenser als Gruppe zu zerstören. Wer wie auch deutsche
Rüstungsunternehmen Israel weiterhin Waffen liefere, laufe Gefahr, sich
mitschuldig zu machen. Der Völkermord müsse sofort beendet, ein
Waffenstillstand vereinbart und alle Geiseln freigelassen werden, forderte die
Menschenrechtsorganisation.
Humanitäre Mahnungen ignoriert
Die israelische Regierung habe zahllose Mahnungen über die
katastrophale humanitäre Lage ignoriert und sich über Maßnahmen des
Internationalen Gerichtshofs (IGH) hinweggesetzt, kritisierte Julia Duchrow,
Generalsekretärin von Amnesty International in Deutschland. Der IGH hatte
Israel aufgefordert, die humanitäre Versorgung im Gazastreifen sicherzustellen.
„Der israelische Staat beging und begeht Völkermord an
Palästinensern im Gazastreifen“, sagte Amnestys internationale
Generalsekretärin, Agnès Callamard, in Den Haag. Israel „hatte und hat die
klare Absicht, Palästinenser im Gazastreifen auszulöschen“.
Israel über Amnesty: „fanatische Organisation“
Das israelische Außenministerium beschrieb Amnesty
International als eine „schändliche und fanatische Organisation“. Es handele
sich um einen „fabrizierten Bericht, der vollständig falsch ist und auf Lügen
basiert“. Israel verteidige sich seit dem Hamas-Terrorangriff in
Übereinstimmung mit dem internationalen Recht.
Israel geht seit mehr als einem Jahr massiv mit Bodentruppen
und Luftangriffen gegen die Hamas in dem mit mehr als zwei Millionen Einwohnern
dicht besiedelten Küstenstreifen vor. Nach palästinensischen Angaben wurden
bereits mehr als 44.500 Menschen getötet und rund 105.500 verletzt. Ein großer
Teil der Wohnhäuser und Infrastruktur wurden zerstört. Hilfsorganisationen
warnen vor einer Hungersnot. (dpa/mig 6)
Bayern und seine Muslime: Wie beheimatet fühlen sie sich?
Vor wenigen Monaten gab es harsche Töne zwischen
muslimischen Vertretern und der bayerischen Politik. Nun traf man sich im
Heimatministerium in Nürnberg zu einer Tagung über Muslime in Bayern. Ein
Schritt aufeinander zu oder Offenbarungseid? Von Veronika Wawatschek
Es ist noch kein Jahr vergangen, da warf der Penzberger Imam
Benjamin Idriz der bayerischen Staatsregierung vor, zu wenig für Muslime im
Freistaat zu tun, sie "komplett zu ignorieren". Bayerns Innenminister
Joachim Herrmann versprach daraufhin, das Thema "anzupacken" und war
heute auf einer Tagung im Heimatministerium in Nürnberg zu Gast.
"Woher kommst du wirklich?"
Unter dem Titel "Muslimisch. Bayerisch. Perspektiven
auf Heimat" hatten die Islamberatung, die Eugen-Biser-Stiftung und der
Bayerische Landesverein für Heimatpflege Vertreter von Muslimen und aus der
Politik zum Gespräch geladen – ein dringender und notwendiger Schritt, wie
viele der Teilnehmenden betonten.
Denn noch immer gebe es Vorbehalte und Vorurteile gegenüber Muslimen
und Musliminnen im Freistaat. Wenn etwa Muslime in Bayern auf die Frage:
"Woher kommst du?" korrekt mit: "Aus Ingolstadt, aus Kaufbeuren,
aus Kitzingen" antworten würden, heiße es noch immer oft: "Nein,
woher kommst du wirklich?"
Diese Reaktionen würden Muslime und Musliminnen hierzulande
auch noch hören, wenn sie sie schon in der dritten oder vierten Generation hier
leben, sagt Stefan Zinsmeister von der Eugen-Biser-Stiftung: "Das heißt,
sie werden verbal ausgegrenzt, obwohl sie sich selber eigentlich heimisch
fühlen."
Sechs Prozent der Bayern sind Muslime
In Bayern leben aktuell rund 700.000 Musliminnen und
Muslime. Das sind etwa sechs Prozent der bayerischen Bevölkerung. Im Alltag
aber seien sie oftmals weiterhin nicht sichtbar, sagt Kübra Kisa von der
Islamberatung Bayern, die die Tagung im Heimatministerium in Nürnberg
mitorganisiert hat: "Wir sehen oft auf muslimischer Seite, dass sich
Muslime oft nicht wahrgenommen fühlen, dass sie oft nicht sichtbar sind, obwohl
sie längst beheimatet sind."
Veranstaltungen wie die in Nürnberg sollen auch
Möglichkeiten für Gespräche und Zusammenarbeit schaffen, zum Beispiel mit dem
Bayerischen Landesverein für Heimatpflege. Der sieht es inzwischen auch als
wichtige Aufgabe an, sich um das muslimische Erbe in Bayern zu kümmern. Denn
schließlich beziehe sich die Heimatpflege auf alle in Bayern lebenden Menschen,
betont Rudolf Neumaier.
Muslimisches Brauchtum in Bayern dokumentieren
Muslime und Musliminnen würden schon mehr als 100 Jahre in
Bayern leben. "Da wird's Zeit, dass wir sie in die Heimatpflege einbringen
und dass sie sich in die Heimatpflege einbringen." Konkret kann sich
Neumaier vorstellen, muslimisches Brauchtum in Bayern zu dokumentieren, etwa
wie Feste hierzulande gefeiert würden. Forderungen an die Politik will er
aktuell nicht aufstellen.
Es gehe vielmehr darum, zunächst ins Gespräch zu kommen und
sich kennenzulernen. Dieser Meinung ist auch Bayerns Innenminister Joachim
Herrmann von der CSU. Ähnlich wie sein Kollege, der Integrationsbeauftragte
Karl Straub, vertritt er die Botschaft: Muslimisches Leben gehört zu Bayern.
Für Hermann ist es aber weniger die Frage "ob der Islam zu Bayern gehört,
sondern eher, dass es auf jeden Fall Menschen gibt muslimischen Glaubens, die
zu Bayern gehören, Menschen, die zum Teil schon vor Jahrzehnten nach Bayern
gekommen sind, sich gut integriert haben."
"Wie lange dauert es, bis ich nicht mehr Ausländerin
bin?"
Auf der Tagung "Muslimisch. Bayerisch" gab es
allerdings durchaus Stimmen, die dem Freistaat in Sachen Integration noch
einigen Nachholbedarf attestierten. Zum Beispiel, dass Moscheen in die
Innenstädte gehörten, nicht in Industriegebiete. Oder dass Islamverbände als
Körperschaften des öffentlichen Rechts angesehen werden sollten.
Auch das sei wichtig, um ein Gefühl entwickeln zu können,
dazuzugehören, sagt Ayten Kilicarslan vom Sozialdienst muslimischer Frauen.
"Wir Muslime wollen einfach als Teil dieses Landes gesehen werden. Muslime
werden nicht unbedingt als Deutsche wahrgenommen. Aber Muslim sein bedeutet
nicht unbedingt Migrant sein." Ihre Familie lebe in dritter Generation in
Deutschland und sie frage sich, wie lange es dauern wird, bis sie nicht mehr
als Ausländerin wahrgenommen werde.
Defizite bei der Integration hat das Bayerische
Innenministerium inzwischen erkannt und bietet seit einigen Monaten
Begegnungsveranstaltungen wie diese in Nürnberg an. Man müsse ins Gespräch
kommen, viel mehr als bisher. Denn – so Innenminister Hermann weiter – noch
immer gebe es im Freistaat viele Menschen, die sehr wenig über den Islam und
Muslime hierzulande wüssten. Es brauche ein Aufeinanderzugehen. Br.de 5
Trumps Drängen auf einen Waffenstillstand könnte eine Chance
für die kriegsgebeutelte Ukraine sein. Dafür muss Europa jedoch in die Bresche
springen. Von Frank Hoffer
Nach über 1 000 Tagen Krieg, unzähligen Toten und
Verwundeten, zerstörter Infrastruktur sowie zerbombter Dörfer und Städte steht
die Ukraine vor einer schwierigen Entscheidung: Entweder aus einer Position der
Schwäche über einen Waffenstillstand verhandeln oder versuchen, eine
entscheidende Wende auf dem Schlachtfeld zu erzwingen. Letzteres ist allerdings
ohne mehr westliche Waffen und – um es einmal auszusprechen – ohne westliche
Truppen kaum vorstellbar.
Trotz westlicher humanitärer, finanzieller und militärischer
Hilfe verschlechtert sich die Lage der Ukraine. Gleichzeitig dreht sich die
Eskalationsspirale weiter – real und verbal. Auch wenn nicht vergessen werden
darf, wer diesen Krieg begonnen hat, wer Aggressor und wer Verteidiger ist, ist
es in der Verlaufslogik des Krieges letztendlich nicht entscheidend, wer
angefangen hat. Die Logik des Krieges verlangt nach immer mehr Soldaten und
nach mehr und schwereren Waffen, solange der Feind nicht niedergerungen ist.
Und Generäle haben die Tendenz, Politikerinnen und Politikern zu versprechen,
dass mit noch entschlossenerem Militäreinsatz ein Sieg möglich ist.
Gebremst wurde und wird die Eskalation nur, weil der Westen
das ultimative Risiko eines Großkrieges bis hin zum Einsatz atomarer Waffen
befürchtet. Diese Sorge beruht darauf, dass Russland in einer ausweglosen
Situation keinen anderen Weg sehen könnte, um eine drohende Niederlage
abzuwenden. Befürworter uneingeschränkter Waffenlieferungen an die Ukraine ohne
Einschränkungen der Angriffe mit westlichen Raketen auf russisches Territorium
halten Putins Drohungen hingegen für einen Bluff. Und je länger der Krieg
dauert, desto mehr schleicht sich bei den Befürwortern bedingungsloser
Waffenhilfe – auch weil man sich von Putin nicht einschüchtern lassen will –
eine gewisse Nonchalance gegenüber dem Risiko des Atomwaffeneinsatzes ein.
Dabei erhöht jede wirkungslose Drohung das Risiko, dass
Russland irgendwann zu dem Schluss kommen könnte, den Drohungen müssen Taten
folgen, um ernst genommen zu werden. Es hilft nichts, wenn man im Westen davon
ausgeht, Putin wisse selbst, dass der Einsatz taktischer Atomwaffen töricht
ist. Die verquere Sichtweise des Gegners ins Kalkül zu ziehen, ist ein Gebot
der Vernunft. Geradezu naiv mutet da die Auffassung des Leiters der Münchner
Sicherheitskonferenz, Christoph Heusgen, im Deutschlandfunk an, dass man
Wladimir Putins Nukleardrohung nicht ernst nehmen müsse, weil ja China gesagt
habe, es sei dagegen. Nach dem Motto: Der Westen muss keine Angst vor Putins
Nukleardrohungen haben, Xi Jinping wird uns schützen.
Die Frage, ob Putin blufft oder sich irgendwann zur
ultimativen Eskalation gezwungen sieht, ist für politische Entscheidungsträger
eine der schwierigsten Abwägungen. Dies dürfte der wesentliche Grund sein,
weshalb US-Präsident Joe Biden und in seinem Gefolge Bundeskanzler Olaf Scholz
die Waffenlieferungen nur schrittweise ausgeweitet haben und keine unbegrenzte
Waffenhilfe zusichern. Wie auch immer man dieses Vorgehen bewertet, die
Fortsetzung dieser Politik ist keine Strategie für die Zukunft: Die Ukraine verblutet
im wahrsten Sinne des Wortes vor unseren Augen und kann den Abnutzungskrieg nur
noch eine begrenzte Dauer durchhalten.
Die Frage zusätzlicher Soldaten ist dabei die Achillesferse
des ukrainischen Widerstands und noch dringlicher als die Frage zusätzlicher
Waffen. Es mehren sich die Berichte von totaler Erschöpfung der kämpfenden
Truppe, massiven Rekrutierungsproblemen, zunehmender Desertation
beziehungsweise Umgehung der Einberufung durch Flucht und Korruption. Im
Gegensatz zu Putin hat die Ukraine keine Diktatorenfreunde, die einfach junge
Menschen an die Front und in den Tod abkommandieren können, ohne auf die
Stimmung im eigenen Land und die Sorgen der Menschen Rücksicht nehmen zu
müssen.
Soll die Ukraine siegen beziehungsweise zumindest aus einer
Position der Stärke verhandeln können, erfordert dies nicht nur westliche
Waffen, sondern eben auch westliche Soldaten. In Großbritannien und Frankreich
wird zwar darüber nachgedacht, aber dabei geht es wohl eher um Ausbilder,
technische Wartung von Waffen und möglicherweise Kämpfer von privaten
Sicherheitsfirmen à la Blackwater. Es ist schwer vorstellbar, dass sich bei den
ukrainischen Verbündeten politische Mehrheiten finden, der Ukraine mit eigenen
Truppen zu Hilfe zu kommen.
Deshalb, und angesichts der Lage an der Front und des
Wahlsiegs von Donald Trump, hat sich Präsident Selenskyj offenbar entschieden,
das Ziel einer vollständigen militärischen Befreiung der besetzten Gebiete
aufzugeben und stattdessen einen Waffenstillstand entlang der Frontlinie bei
gleichzeitiger NATO-Mitgliedschaft der Ukraine ins Gespräch zu bringen. Die
negative Entwicklung an der Front und Trumps erklärter Wille, den Krieg rasch
zu beenden, haben Selenskyj gleichzeitig ermöglicht und gezwungen, trotz der
starken patriotischen Kräfte im eigenen Land, die weiter für das Maximalziel
kämpfen wollen, einen Weg zwischen Eskalation und Kapitulation zu suchen. Die
Chancen, den Krieg einzufrieren, wären 2022 nach der Befreiung von Cherson
besser gewesen als jetzt, da die Ukraine aus einer Position der Schwäche heraus
verhandeln muss. Umso wichtiger ist entschlossenes Handeln des Westens, damit
Selenskyjs schwieriger, aber richtiger Schritt den Weg zur Rettung der Ukraine
und nicht zu einem russischen Sieg ebnet.
Die Präsidentschaft von Donald Trump bietet unter Umständen
eine Chance für einen Waffenstillstand. Er hat eine klare wie simple Botschaft.
Putin kann wählen zwischen einem Waffenstillstand, bei dem er die eroberten
Gebiete besetzt hält, aber auch die freie und unabhängige Ukraine bestehen
bleibt, oder einer Verschärfung des Krieges. Niemand – auch Putin nicht – kann
wissen, wie Trump reagiert, wenn Putin einen Waffenstillstand ablehnt. Mit
Sicherheit kann man allerdings davon ausgehen, dass er seine Präsidentschaft
nicht mit einer Niederlage beginnen möchte.
Europa sollte die Bemühungen Trumps um einen
Waffenstillstand entschieden unterstützen, dabei jedoch sicherstellen, dass
nicht nur die Waffen schweigen, sondern auch die Sicherheit der freien Ukraine
gewährleistet wird. Angesichts der eigenen militärischen Schwäche bleibt Europa
kaum eine andere Wahl, als Trump anzubieten, den Großteil der finanziellen Last
zu tragen – sei es für die sicherheitspolitische Absicherung eines
Waffenstillstands oder, falls dieser scheitert, für verstärkte
Waffenlieferungen. Jede Lösung muss Sicherheitsgarantien für die Ukraine
umfassen. Falls ein NATO-Beitritt wegen russischen Widerstands oder interner
Uneinigkeit nicht realisierbar ist, müssen europäische Großmächte, in
Kooperation mit den USA, glaubwürdige Sicherheitsgarantien entwickeln.
Aber gibt es auf russischer Seite überhaupt Verhandlungsbereitschaft?
Ist Putin bereit, seine Maximalforderungen von Regimechange und Entwaffnung der
Ukraine aufzugeben? Ob die Aussicht auf einen Waffenstillstand die Stimmung in
der russischen Bevölkerung verändert und Kritik am Krieg lauter wird, bleibt
von außen schwer einzuschätzen. Inwieweit mehr oder weniger neutrale Staaten
wie Indien, Brasilien und Südafrika und selbst China Russland angesichts des
ukrainischen Vorschlags zu Verhandlungen drängen, bleibt abzuwarten. Selenskyjs
Vorschlag bietet Putin die Chance, den verlustreichen und teuren Krieg zu
beenden. Doch die Unberechenbarkeit Trumps könnte für Putin ein abschreckendes
Risiko sein. Klar ist: Ein Waffenstillstand ist nur denkbar, wenn Putin nicht
glaubt, dass die Ukraine bald kapitulieren muss. Europa muss daher
unmissverständlich seine Unterstützung für die Ukraine demonstrieren.
Dafür wird Europa Hunderte Milliarden mobilisieren müssen,
denn Trump bietet Schutz vor Putin, wenn überhaupt, nur gegen Cash. Die
Solidarität mit der Ukraine durch Einsparungen bei Infrastruktur, Klimawandel
und sozialer Gerechtigkeit zu finanzieren, würde Wasser auf die Mühlen derer
geben, die den Krieg beendet sehen wollen, egal was dabei aus der Ukraine wird.
Für Deutschland bedeutet dies daher entweder eine Aussetzung der Schuldenbremse
oder eine Erhöhung der Staatseinnahmen, etwa durch eine einmalige zehnprozentige
Freiheitsabgabe auf Vermögen über einer Million Euro.
Der Preis eines Waffenstillstands auf der Basis der
militärischen Realitäten wäre dreifach: Die Ukraine verliert zumindest
vorübergehend 20 Prozent ihres Territoriums, Europa zahlt viele Milliarden für
US-Militärhilfe, und Donald Trump, der wohl gefährlichste Feind der
amerikanischen Demokratie, erzielt einen außenpolitischen Triumph. Trotz dieser
Kosten bleibt dies der beste Hoffnungsschimmer zwischen Kapitulation und
Armageddon. IPG 6
Vereinte Nationen. 2025 brauchen 305 Mio. Menschen humanitäre Hilfe
Der globale Hilfsappell der UN zeichnet ein düsteres Bild
der weltweiten Krisen und Konflikte. Rund 305 Millionen Menschen werden demnach
im kommenden Jahr auf Hilfe angewiesen sein. Dabei wird die Arbeit für
humanitäre Helfer immer gefährlicher. Ein Appell richtet sich direkt an
Deutschland.
Rund 305 Millionen Menschen in Not werden im kommenden Jahr
laut den Vereinten Nationen auf humanitäre Hilfe angewiesen sein. Kriege,
Extremwetter infolge des Klimawandels und eine ungerechte Chancenverteilung
hätten viele Menschen ins Unglück gestürzt, warnten die UN am Mittwoch in Genf.
„In einer brennenden Welt zahlen die Schwächsten, Kinder,
Frauen, Menschen mit Behinderungen und die Armen den höchsten Preis“, erklärte
Tom Fletcher, UN-Nothilfekoordinator bei der Vorstellung des globalen
Hilfsappells für 2025. In dem Appell rufen die UN und ihre Partner die Geber
auf, 47 Milliarden US-Dollar für lebensrettende Hilfe in 32 Ländern und 9
Flüchtlingsregionen zu zahlen. Mit dem Geld soll laut Fletcher Erwerb und
Verteilung von Lebensmitteln, Medizin und anderen Hilfsgütern für mindestens
190 Millionen Menschen sichergestellt werden. Ziel sei es aber, allen
Bedürftigen zu helfen.
Drastische Folgen der Unterfinanzierung
Bis November seien nur 43 Prozent der für 2024 geforderten
50 Milliarden US-Dollar gegeben worden. Die Folgen der Unterfinanzierung seien
drastisch. Im laufenden Jahr sei die Nahrungsmittelhilfe in Syrien um 80
Prozent gekürzt worden. Die Wasser- und Sanitärhilfe im durch Cholera
gefährdeten Jemen sei verringert worden. Im Tschad habe sich der Hunger
aufgrund der Kürzungen verschärft.
Das größte Hindernis für die Unterstützung und den Schutz
von Menschen in bewaffneten Konflikten sei die weit verbreitete Verletzung des
humanitären Völkerrechts. Dazu zählten die Blockade von humanitären Lieferungen
oder Angriffe auf Helfer. Den Angaben zufolge ist 2024 bereits das Jahr mit den
meisten getöteten humanitären Helfern.
Menschenrechtler fordern deutliche Positionierung der
deutschen Regierung
Der entwicklungspolitische Dachverband Venro äußerte sich
angesichts der Zahlen besorgt, insbesondere über die humanitäre Lage im
Gaza-Streifen. Angesichts der in Gaza getöteten humanitären Helferinnen und
Helfer erwarte man „eine deutliche und konsequente Positionierung der deutschen
Regierung, dass Selbstverteidigungsrecht und Kriegsführung Grenzen haben“,
sagte Venro-Vorstandsmitglied Anica Heinlein. Dem Verband gehören nach eigenen
Angaben 150 deutsche Entwicklungs- und Hilfsorganisationen an.
Das Hilfswerk World Vision wies auf die Folgen von Kriegen
und Konflikten für Kinder hin. Jedes fünfte Kind weltweit lebe in einem
Konfliktgebiet oder sei aus einem geflohen, sagte Vorständin Janine Lietmeyer.
(epd/mig5)
Die Rebellenoffensive in Aleppo erschüttert die scheinbare
Stabilität des syrischen Regimes – wie reagiert die internationale
Gemeinschaft? Von Hussam Baravi
Ende November 2024 haben Aufständische mit ihrem
dramatischen Angriff auf Aleppo – das als Symbol für die Wiederherstellung der
Assad-Herrschaft galt – die vom Regime errichtete Fassade der Stabilität
erschüttert. Mit ihrer Überraschungsoperation „Abschreckung der Aggressionen“
bereitete die Rebellengruppe Hayat Tahrir al-Sham (HTS) der jahrelangen
Kontrolle des Regimes über den westlichen Teil der Provinz Aleppo ein jähes
Ende und eroberte am 30. November die Provinzhauptstadt. Parallel nutzten
Einheiten der von der Türkei unterstützten Syrischen Nationalarmee (SNA) die
Gelegenheit und nahmen mit ihrer Operation „Morgendämmerung der Freiheit“ die
kurdisch besetzten Gebiete nördlich und östlich von Aleppo ins Visier. Der
Doppelangriff destabilisiert die Region, schwächt Assads Streitkräfte und
verschärft die ohnehin angespannte Gesamtsituation.
Das Wiederaufflammen der Kampfhandlungen nach fast zehn
Jahren abwartender Ruhe rückt die grundlegenden Schwachpunkte des Assad-Regimes
in den Blick und offenbart, dass dieses Regime ohne Unterstützung von außen
nicht in der Lage ist, aus eigener Kraft zuverlässig für Stabilität zu sorgen.
Die Oppositionskräfte sind sichtlich wiedererstarkt und zwingen die regionalen
und internationalen Akteure, ihre Strategien zu überdenken. Auch wenn Assads
Truppen sich um die Stadt Hama neu formieren, welche Berichten zufolge von HTS
am 5. Dezember eingenommen wurde, macht die Offensive deutlich, wie labil die
Macht ist, an die das Regime sich klammert. Für diejenigen in Europa, die für
eine Normalisierung der Beziehungen zu Assad werben, ist das eine deutliche
Warnung: Eine solche Normalisierung ist strategisch falsch und wird weder zu
dauerhafter Stabilität führen noch die Migration eindämmen.
Nachdem das Regime 2016 Aleppo und andere Gebiete wieder
unter seine Kontrolle gebracht hatte, strickte es sich ein ausgefeiltes
Narrativ zurecht: Assad hat gesiegt – und Syrien ist wieder sicher und stabil.
Diese Illusion wird durch die aktuellen Geschehnisse zunichtegemacht. Assads
Truppen leisteten keine oder nur wenig Gegenwehr und machten einige gravierende
strukturelle Defizite sichtbar. Die schnellen Geländegewinne der HTS ließen die
militärischen Schwachstellen des Regimes erkennbar werden und verschärfen seine
Abhängigkeit von externen Akteuren wie Iran und Russland. Die schlecht
ausgerüstete und überforderte syrische Armee zeigte keine schlagkräftige
Reaktion, sodass wichtige Gebiete schutzlos blieben. Verschärfend kam hinzu,
dass durch die – wenngleich wohl nur partielle – Verlagerung der Hisbollah ein
Sicherheitsvakuum entstanden ist. Assads Truppen bemühen sich mit Hochdruck,
sich neu zu sortieren, aber jede Gegenoffensive setzt vermutlich Unterstützung
aus Teheran und Moskau voraus – und diese hat einen hohen Preis.
Russlands Reaktion war wichtig, fiel aber zurückhaltend aus.
Zwar verschaffte es mit seinen Luftangriffen Assads bedrängten Truppen ein
wenig Entlastung, aber Moskaus Forderung, das Regime solle „die
verfassungsmäßige Ordnung schnell wiederherstellen“, lässt darauf schließen,
dass Russlands Begeisterung für ein intensiveres Engagement sich in Grenzen
hält. Das könnte ein Anzeichen dafür sein, dass Moskau sich strategisch
grundsätzlich neu ausrichtet, weil der Ressourceneinsatz in der Ukraine für
Russland Vorrang hat. Eine andere Möglichkeit ist, dass Russland Assads
geschwächte Position ausnutzen will, um die angestrebte Annäherung zwischen
Erdogan und Assad voranzubringen, gegen die der syrische Machthaber sich in den
vergangenen Monaten beharrlich gesperrt hat. Parallel wird erwartet, dass Iran
sich stärker engagieren und möglicherweise durch die Entsendung von Truppen –
vor allem von unterstützenden Milizen – Assad den Rücken stärken wird. Dadurch
gerät Assad noch stärker unter den Einfluss Teherans, büßt noch mehr Autonomie
ein und wird sich sein „kalkuliertes Schweigen“ im Krieg zwischen Israel und
der Hisbollah noch weniger leisten können.
Assads Handlungsspielraum zwischen dem wachsenden Einfluss
Teherans und möglichen israelischen Vergeltungsaktionen schrumpft zusehends.
Israel ist entschlossen, den iranischen Einfluss in Syrien einzudämmen, und
könnte die instabile Situation ausnutzen. Damit riskiert Israel allerdings,
Assad noch mehr in die Arme des Iran zu treiben und die Bestrebungen der USA
und der Vereinigten Arabischen Emirate (VAE), Assad von Teheran loszueisen, zu
erschweren. Auf der anderen Seite kann es sein, dass Iran wegen seiner eigenen
Sorgen und die Hisbollah aufgrund ihres verminderten Interesses in ihrer
Unterstützung nachlassen.
Die Operation „Abschreckung der Aggressionen“ war definitiv
weder spontan noch planlos. Die koordinierte Bodenoffensive unter Einsatz von
Drohnen und anderen hoch entwickelten Technologien wirkt wie eine lange und
sorgfältig geplante Aktion. Zudem gingen der Operation, die erklärtermaßen das
Regime von weiteren Kampfhandlungen abschrecken soll, ein Monat verstärkter
russischer Luftangriffe auf verschiedene Örtlichkeiten in Idlib und breit
kursierende Gerüchte über eine möglicherweise bevorstehende Militäroperation
voraus.
Einerseits stärkt die Offensive in Aleppo die syrische
Opposition und beweist, dass sie sehr wohl in der Lage ist, das Regime
herauszufordern, nachdem es seit 2016 nicht danach ausgesehen hatte. Die HTS
verfolgte mit ihrer Operation vermutlich mehrere Ziele: Sie will sich für den
Fall, dass es zu Gesprächen zwischen der Türkei und dem syrischen Regime kommt,
eine stärkere Verhandlungsposition sichern, indem sie auf die Unzufriedenheit
der Zivilbevölkerung eingeht und sich mehr Territorium und Ressourcen für die
Vertriebenen verschafft, die sich bei ihr in Idlib aufhalten. Die Instabilität
in der Region bot eine einmalige Chance, der lang anhaltenden Pattsituation ein
Ende zu bereiten. Die taktischen Erfolge machen die Opposition wieder zu einer
maßgeblichen Größe und verschaffen ihr mehr Druckmittel gegenüber allen
Beteiligten – und das könnte großen Einfluss auf die Gespräche haben, die
vermutlich in Gang kommen werden, wenn der Sturm sich wieder gelegt hat.
Andererseits wird durch die Operation „Morgendämmerung der
Freiheit“ sichtbar, dass unterschiedliche Ziele verfolgt werden – was der
Türkei und ihrer eigenständigen Agenda in die Hände spielt. Ankara hat das
Chaos in Aleppo als Gelegenheit genutzt, um seinen langfristigen Zielen
näherzukommen. Durch die Operation erzielte die Türkei erhebliche
Geländegewinne in Tel Rifat, drängte die kurdischen Einheiten weiter zurück und
stabilisierte damit ihre angestrebte Pufferzone. Dass die Türkei sich taktisch
mit den Oppositionseinheiten abstimmt, zeigt, dass Ankara Einfluss sowohl auf
die Kurden als auch auf Assad gewinnen will – den sie an den Verhandlungstisch
bringen möchte. Auf lange Sicht könnte die wachsende Dominanz der HTS Ankaras
Interessen gefährden.
Die Opposition wirkt zwar nach außen geeint, ist aber nach
wie vor tief gespalten. Diese Schwachstelle könnte die jüngsten Erfolge
untergraben. Die Ziele der HTS und der von der Türkei unterstützten Kräfte
werden schon bald miteinander kollidieren und es beiden erschweren, die
erzielten Fortschritte mittelfristig zu sichern, zumal wenn es – was
wahrscheinlich ist – zu Konflikten über Führungs- und Ressourcenfragen kommt.
Außerdem sind der dschihadistische Charakter der HTS und die Tatsache, dass sie
von vielen westlichen Staaten als Terrororganisation eingestuft wird,
zusätzliche Hürden für eine mögliche internationale Anerkennung und
Unterstützung der Organisation. Wenn die Opposition nicht zu Geschlossenheit
und einer kohärenten Strategie findet, droht die Gefahr, dass sie die in Aleppo
entfachte Dynamik aufs Spiel setzt. Damit würde sie den Ball wieder zur Türkei
zurückspielen, sodass die das Spielfeld nach ihren eigenen Vorstellungen
umgestalten könnte. Die Ereignisse sind allerdings so sehr im Fluss, dass die
Dinge sich auch in unerwartete Richtungen entwickeln können.
Durch Donald Trumps Wiederwahl ist weitgehend ungewiss, wie
die Syrienpolitik der USA künftig aussehen wird. Das „Disengagement“, das er in
seiner ersten Amtszeit betrieb, und insbesondere der Rückzug der US-Truppen
2019 liefern eine mögliche Vorlage für die künftige Gestaltung der Dynamik in
der Region. Ein deutliches Indiz für diesen Kurswechsel ist die Nominierung von
Tulsi Gabbard als US-Geheimdienstkoordinatorin. Sie ist für ihre
anti-interventionistische Haltung bekannt und unterstützt eine Wiederannäherung
an Assad. Dies könnte ein Signal für eine versöhnlichere Gangart gegenüber dem
syrischen Regime sein. Solche Veränderungen könnten die Oppositionskräfte an
den Rand drängen und die kurdisch geführte Selbstverwaltung von Nord- und
Ostsyrien (AANES) schwächen, die damit durch türkische Vorstöße und die
Instabilität in der Region gefährdet würde. Wenn die USA ihr Engagement
zurückfahren, könnten zudem Bedrohungen wie ein Wiedererstarken des ISIS
zunehmen und den Norden Syriens weiter destabilisieren.
Was die internationale Gemeinschaft – und vor allem Europa –
aus der jetzigen Situation lernen sollten, ist klar: Stabilität in Syrien lässt
sich nicht auf dem wackeligen Fundament einer Normalisierung der Beziehungen zu
Assad aufbauen. Die Offensive in Aleppo macht deutlich, wie fragil das Regime
und wie unberechenbar der Konflikt in Syrien nach wie vor ist. Für eine
nachhaltige Lösung des Konflikts braucht es mehr als kurzfristige
Zwischenlösungen und ein Engagement, das an der Oberfläche bleibt. Gefordert
ist eine Langzeitstrategie, die sich an Prinzipien orientiert, die Ursachen der
Instabilität an der Wurzel packt und die Fehler des bisherigen Umgangs mit dem
vermeintlich „eingefrorenen Konflikt“ in Syrien korrigiert.
Die EU-Politik der „Drei Neins“ – keine Normalisierung, kein
Wiederaufbau, keine Lockerung der Sanktionen – bietet nach wie vor einen
entscheidenden Schutz vor diesen Gefahren. Europa muss jedoch proaktiver
werden. Angesichts der Aleppo-Offensive sollte die EU ihre Unterstützung für
die gemäßigten Kräfte innerhalb der Opposition intensivieren, die
Rechenschaftspflicht und damit auch ihre abschreckende Wirkung mit Blick auf
Kriegsverbrechen stärken und die humanitäre Hilfe zur Priorität machen, damit
die katastrophalen Lebensbedingungen der Vertriebenen sich verbessern. Wenn
Europa sinnvoll dazu beitragen will, dass Syrien auf seinem Weg zu dauerhafter
Stabilität unterstützt wird, braucht es ein festes und umfassendes
Gesamtkonzept. IPG 6
Studie. Soziale Ungleichheit beim Ehrenamt nimmt zu
Auch für ehrenamtliches Engagement gibt es Hürden. Laut dem
vierten Engagementbericht der Bundesregierung sind diese in den vergangenen
Jahren sogar höher geworden. Betroffen sind unter anderem Menschen mit
Einwanderungsgeschichte.
Menschen mit Behinderungen oder Migrationshintergrund sowie
arme Menschen engagieren sich in Deutschland im Vergleich seltener
ehrenamtlich. Dies geht aus dem am Mittwoch veröffentlichten vierten
Engagementbericht der Bundesregierung hervor. Die Diakonie Deutschland mahnte
eine stabile Finanzierung des Ehrenamtes an.
Dem Bericht zufolge hat sich die soziale Schere bei der
Beteiligung am freiwilligen Engagement weiter geöffnet. Demnach engagieren sich
deutlich mehr sozial gut gestellte Personen ehrenamtlich als Menschen mit
niedrigen Einkommen. Der Unterschied hat sich dem Bericht zufolge zwischen 1999
und 2019 verdoppelt.
Staatsangehörigkeit spielt eine Rolle
Nach Angaben des Bundesfamilienministeriums engagieren sich
fast 29 Millionen Menschen ehrenamtlich in Deutschland. Schwerpunkt des von
unabhängigen Sachverständigen erarbeiteten Engagementberichts sind die
Voraussetzungen für freiwilliges Engagement. Gleiche Zugangschancen seien von
hohem gesellschaftlichen Wert, hieß es. Ungleiche Beteiligung führe dazu, dass
nicht alle Gruppen ihre Interessen gleichermaßen in Projekte, Institutionen
oder Vereine einbringen können.
Besonders schwer haben es den Angaben zufolge Menschen, die
an der Armutsschwelle leben, und Erwerbslose. Menschen mit Behinderungen müssen
erhebliche Barrieren überwinden, um mitwirken zu können. Auch die
Staatsangehörigkeit spielt eine Rolle. Zwar engagieren sich ein Drittel der
Eingebürgerten in Deutschland ehrenamtlich. Doch sind es bei den Personen mit
deutscher Staatsangehörigkeit seit Geburt 43 Prozent und unter Ausländern nur
17 Prozent. Im Bevölkerungsdurchschnitt liegt die Engagementquote bei knapp 40
Prozent.
Expertin: Es liegt nicht an der Motivation
Der geringe Anteil von Menschen mit Migrationshintergrund
liegt nach Angaben des am Berichts beteiligten Deutschen Zentrums für
Integrations- und Migrationsforschung (DeZIM-Institut) nicht an mangelnder
Motivation oder Hilfsbereitschaft. Die Sozialwissenschaftlerin Sabrina Zajak
vom DeZIM-Institut sagte, wenn man freiwilliges Engagement außerhalb von
Vereinen und Organisationen betrachte, etwa die informelle Nachbarschaftshilfe,
seien Menschen mit Migrationshintergrund sogar deutlich überrepräsentiert.
Gut 38 Prozent der nur informell Engagierten haben den
Angaben zufolge einen Migrationshintergrund, helfen auf diese Weise anderen und
gestalten ihr Umfeld mit.?„Aber diese Formen von solidarischem Handeln werden
durch die gängigen Definitionen im Freiwilligensurvey bisher nicht sichtbar
gemacht“, erklärt Zajak. Dadurch könne sich das Vorurteil verfestigen, Menschen
mit Migrationshintergrund würden nicht helfen wollen?– was gesellschaftliche
Spaltung schüre und weitere Diskriminierung fördere.
Hürden erschweren Zugang
Der höhere Anteil informell Engagierter mit
Migrationshintergrund ist laut Bericht auch darauf zurückzuführen, dass es
viele Hürden gibt, die den Zugang zu offiziellen Strukturen erschweren. Zentral
für den Weg ins freiwillige Engagement seien Netzwerke, aus denen heraus neue
Freiwillige rekrutiert werden. Befragte ohne Migrationshintergrund etwa hätten
öfter angegeben, schon einmal von einem Verein oder einem Verband gefragt
worden zu sein, ob sie sich engagieren wollen (23,2 bzw. 18,3 Prozent). Wer als
„fremd“ wahrgenommen werde, bekomme mit geringerer Wahrscheinlichkeit derlei
Anfragen. Auch mangelndes Zutrauen spiele hier eine Rolle.
„Mangelnde Zugangsmöglichkeiten ins Engagement dürfen wir
als Gesellschaft nicht hinnehmen. Denn Engagement bedeutet nicht nur, sich für
das Gemeinwohl einzusetzen, sondern auch das Zusammenleben konkret zu gestalten
und Interessen einzubringen“, betont Zajak. „Gleichberechtigte Teilhabe ist
wichtig für eine Demokratie, die Vielfalt anerkennt. Darum müssen wir uns auch
weniger offensichtlicher Barrieren bewusst werden und sie abbauen.“
Sachverständige fordern Abbau von Hürden
Die Diakonie Deutschland drängt auf stabile
Rahmenbedingungen für das Ehrenamt. Diakonie-Präsident Rüdiger Schuch sagte,
die Unsicherheit über den zukünftigen Bundeshaushalt führe bereits dazu, dass
sich Hauptamtliche nach neuen Jobs umsähen. „Mit ihnen geht der notwendige,
stabile fachliche Rückhalt für das freiwillige Engagement verloren“, erklärte
Schuch. Dies sei kaum zu kompensieren.
Die Sachverständigen-Kommission empfiehlt der Politik und
den Institutionen, die Ehrenamtliche beschäftigen, den Barrieren und Hürden für
gesellschaftliches Engagement entgegenzuwirken. Andernfalls werde sich die
soziale Ungleichheit beim Ehrenamt noch verschärfen. Der Bericht beruht auf
empirischen Studien und internationalen Forschungsergebnissen. Das Kabinett
will auch eine Ehrenamtsstrategie verabschieden. Jede Bundesregierung legt
einmal in vier Jahren einen Engagementbericht vor. (epd/mig 5)
Aktuelle Studie: Geschlechtergerechtigkeit im Aufenthaltsrecht
unzureichend
In den aktuellen Debatten über Migration und gelingende
Integration
geraten Frauen und ihre Lebenswirklichkeiten in Deutschland
oftmals
aus dem Blick. Auch das große Potential von Frauen mit
Migrationsgeschichte als Antwort auf den Fachkräftemangel
wird kaum
diskutiert. Die Studie "Geschlechtergerechtigkeit im
Aufenthaltsrecht? Ein Gleichstellungs-Check des
Aufenthaltsgesetzes"
untersucht erstmals systematisch, wie geschlechtergerecht
die
Rahmenbedingungen sind, die das Aufenthaltsrecht schafft.
Außerdem zeigt sie, wo sich Hindernisse verbergen, die einer
Integration von Frauen in unsere Gesellschaft und in den
Arbeitsmarkt
im Wege stehen.
Prof. Dr. iur. Dorothee Frings und Dr. iur. Catharina Conrad
führten
die Untersuchung im Auftrag der Bundesstiftung
Gleichstellung durch
und nahmen dafür einen Gleichstellungs-Check des bestehenden
Aufenthaltsgesetzes vor. Die zentralen Ergebnisse und
Handlungsempfehlungen wurden heute veröffentlicht.
Staatsministerin Reem Alabali-Radovan, Beauftragte der
Bundesregierung für Migration, Flüchtlinge und Integration:
"Auch
nach dem Ankommen in Deutschland stehen Frauen mit und ohne
Fluchterfahrung vor großen Hürden. Sie tragen in vielen
Fällen
Verantwortung für eine Familie, den Hauptteil der
Care-Arbeit und
haben - auch deshalb - oftmals schlechtere berufliche
Qualifizierungen. Und überproportional häufig erleben sie
Gewalterfahrungen. Die Studie der Bundesstiftung
Gleichstellung
untersucht
erstmals aus einem intersektionalen Blickwinkel, wie unser
Aufenthaltsrecht dieser Mehrfachdiskriminierung gezielter
begegnen
sollte. Sie ist ein wichtiger Beitrag, der die aktuelle
Debatte
versachlicht und Handlungsbedarfe deutlich macht."
Hürden bei der Integration in den Arbeitsmarkt
Bisherige Forschungsergebnisse legen nahe, dass die knapp
vier
Millionen Frauen aus Drittstaaten, die in Deutschland leben,
überwiegend eine Erwerbsbeteiligung wünschen, sie jedoch
nicht
entsprechend umsetzen können. Sie verbringen doppelt so viel
Zeit mit
unbezahlter Sorge- und Familienarbeit wie geflüchtete
Männer. Durch
fehlende aufenthaltsrechtliche Vorkehrungen bezogen auf
Vereinbarkeit
werden sie beim Spracherwerb gegenüber Männern
benachteiligt. Wenn
Frauen aus Drittstaaten erwerbstätig
sind, gehen sie nur selten einer Tätigkeit nach, die ihrer
Qualifikation entspricht. Aktuell arbeiten nur 21,7 % der
Frauen, die
ihrem Partner nach Deutschland nachgezogen sind, in ihrem
erlernten
Beruf. Bei den nachgezogenen Männern sind es 46,9 %.
Besserer Schutz vor geschlechtsspezifischer und häuslicher
Gewalt
notwendig
Jedes Jahr werden mehr Frauen Opfer von
geschlechtsspezifischer und
häuslicher Gewalt. Für Frauen ohne deutsche
Staatsangehörigkeit kommt
erschwerend hinzu, dass sie häufig kein stabiles soziales
Umfeld in
Deutschland haben. Das Konzept des eheabhängigen
Aufenthaltsrechts,
wie es aktuell im Aufenthaltsgesetz verankert ist (§ 31 Abs.
1
AufenthG), fördert zudem die Abhängigkeit vom meist
männlichen
Partner. Denn nachgezogene Ehepartnerinnen - mit 70 %
handelt es sich
überwiegend um Frauen - haben
zunächst für drei Jahre nur ein vom Status des Ehemannes
abgeleitetes
Aufenthaltsrecht. Um den Betroffenen einen besseren Schutz
vor
geschlechtsspezifischer und häuslicher Gewalt zu
ermöglichen, bedarf
es eines früheren eigenständigen Aufenthaltsrechts der
Ehepartnerinnen, falls die ehelichen Lebensgemeinschaft
aufgehoben
wird.
Gleichstellungs-Check ist wirksames Instrument
In der Untersuchung wurden neben Geschlecht weitere Faktoren
betrachtet, die die Wirkungen des Aufenthaltsrechts auf die
unterschiedlichen Lebensumstände von Frauen und Männern
beeinflussen.
Dies macht die Studie zu einem gelungenen Beispiel für die
intersektionale Anwendung des Gleichstellungs-Checks. Die
Studie
zeigt somit auf, dass durch konsequente
gleichstellungsorientierte
Gesetzesfolgenabschätzungen, sogenannte
Gleichstellungs-Checks,
Hindernisse erkannt und ausgeräumt werden können,
damit Gesetze Gleichstellung fördern und effektiver wirken.
Ab 2025
wird sich die Bundesstiftung verstärkt der
gleichstellungsorientierten Gesetzesfolgenabschätzung widmen
und die
Bundesministerien durch Schulung und Beratung bei der
Umsetzung des
Gleichstellungs-Checks unterstützen.
Alle Ergebnisse der Studie sowie ihre Handlungsempfehlungen
finden
Sie unter https://www.bundesstiftung-gleichstellung.de/publikationen/
BG 4
Diskriminierung an deutschen Hochschulen kein Einzelfall
Der Fall des von der Berliner Akkon-Hochschule für
Humanwissenschaften entlassenen Prof. Dr. Kenan Engin zieht weite Kreise. Es
zeigt sich immer mehr: Es gibt viele Betroffene und nur wenige, die darüber
sprechen. Von Erkan Pehlivan
Die Entlassung von Prof. Dr. Kenan Engin von der Akkon
Hochschule für Humanwissenschaften in Berlin hat Kritik auf sich gezogen und
Empörung hervorgerufen. Nach Bekanntwerden seines Falls meldeten sich ehemalige
Angestellte der Hochschule, um über Diskriminierung von Lehrpersonal zu
sprechen. Die Situation sei für sie nicht mehr tragbar gewesen, sodass sie sich
neue Jobs gesucht hätten. Sie alle eint, dass sie ihre Identität nicht
preisgeben wollen. Die Formen der erfahrenen Diskriminierung unterscheiden sich
jedoch. Mal sei es der ethnische Hintergrund, ein anderes Mal eine Behinderung,
die Hautfarbe oder das Geschlecht gewesen. In den meisten Fällen, so berichten
Betroffene, liegt intersektionale Diskriminierung, also eine Überschneidung
verschiedener Merkmale, vor.
Die Akkon-Hochschule, die zum Wohlfahrtsverband Johanniter
gehört, weist die Vorwürfe zurück. Auf ihrer Internetseite heißt es: „Wir
stellen allerdings ausdrücklich klar, dass die öffentlich erhobenen Vorwürfe
gegen die Hochschule jeder Grundlage entbehren.“ Auf Anfrage teilt die
Hochschule mit, sie setze sich „aufgrund unserer humanwissenschaftlichen
Ausrichtung und unseres Leitbildes für die Werte der Weltoffenheit und der
Chancengleichheit aller Menschen ein – unabhängig von ihrer ethnischen oder religiösen
Zugehörigkeit, ihrem Geschlecht, ihrer sexuellen Orientierung, ihrem Alter oder
einer möglichen Behinderung“. Weiter heißt es: „Es gab und gibt keine Fälle von
Diskriminierung und/oder Bullying von und an Lehrenden.“
Gazal S. (Name geändert), eine Studierende an der
Hochschule, lacht darüber. „Niemals, ich habe mehrfach die Unileitung
angeschrieben und mich auch über einen Mitarbeiter beschwert. Nichts ist
geschehen. Es wurde gar nicht ernst genommen.“ Gazal erzählt, wie sie
diskriminiert wurde, bittet die Redaktion jedoch, keine Details zu
veröffentlichen, um nicht identifiziert zu werden. Nach Beendigung ihres
Studiums könne ihr Fall gerne publik gemacht werden. Dann wolle sie sich auch
bei der Antidiskriminierungsstelle des Bundes melden.
Druck auf Hochschule wächst
Der Druck auf die Hochschule wächst derweil: Die Solidarität
mit dem geschassten Professor ist seit dem Beitrag im MiGAZIN gewachsen. Über
1.300 Personen, davon überwiegend Wissenschaftler:innen an Universitäten,
fordern die Rücknahme der Maßnahmen gegen ihren Kollegen. Zuvor hatten sich
Studierende in einer Petition solidarisch mit Engin gezeigt. Auch die
Gewerkschaft für Erziehung und Wissenschaft (GEW) stellte sich solidarisch
hinter den Hochschullehrer.
Der Fall beschäftigt inzwischen auch die Politik. „Es ist
entscheidend, dass der Bundesvorstand der Johanniter diese öffentliche Kritik
sowie Besorgnisse ernst nimmt“, schreibt die Bundestagsabgeordnete Gökay
Akbulut (Die Linke) in einem Brief an den Bundesvorstand der Johanniter, der
dem MiGAZIN vorliegt. Akbulut legt die Einsetzung einer unabhängigen Kommission
nahe, um die Vorfälle objektiv und transparent aufzuarbeiten. Auf Fragen
verweist die Johanniter an die Hochschule.
Diese teilt mit, sie habe inzwischen eine auf
Compliance-Fragen spezialisierte Kanzlei mit einer unabhängigen Evaluierung der
Prozesse und Strukturen beauftragt. Wie Engin dem MiGAZIN mitteilt, hat die
Kanzlei mit ihm jedoch nicht gesprochen. Die Hochschule lasse keine Einsicht
erkennen: vor Gericht am 25.10.2024 habe sie von Engin eine Erklärung
gefordert, in der er sich von den Vorwürfen distanzieren solle. Dann könne man
auch über eine Lösung reden. Engin bleibt jedoch bei seiner Haltung: „So eine
Erklärung wird es nie geben!“
Engin kein Einzelfall
Recherchen des MiGAZIN zeigen, dass Diskriminierung an
Hochschulen kein Einzelfall ist. Mehrere Wissenschaftler:innen an anderen
Hochschulen wandten sich seit Bekanntwerden des Falls von Professor Engin an
das MiGAZIN und berichteten von ähnlichen Erfahrungen: Diskriminierung und
Bullying – auch sie bleiben anonym.
Die Diversitäts- und Antidiskriminierungsexpertin Bontu
Lucie Guschke schreibt in einem Fachartikel, Hochschulen würden oft als
„meritokratische, faire und gesellschaftskritische Orte dargestellt, an denen
Entscheidungen anhand objektiver Exzellenzkriterien getroffen werden“. Die
Wissenschaftlerin räumt mit dem Mythos auf, dass Universitäten
diskriminierungsfreie Räume seien. Die Expertin verweist auf eine Studie an 46
Universitäten und Forschungsinstitutionen in 15 europäischen Ländern. Demnach
erleben 62 Prozent der Beschäftigten an Universitäten geschlechtsspezifische
Gewalt, unter ethnisch marginalisierten Beschäftigten seien es sogar 69
Prozent. Guschke deckt auf, dass sexistische und rassistische Diskriminierung
keine Ausnahmen oder ‚bedauerliche Fehler‘ im Universitätssystem sind. „Die Art
und Weise, wie Universitäten organisiert sind, ermöglicht, bestärkt und
normalisiert die kontinuierliche Reproduktion von Sexismus und Rassismus sowohl
auf institutionell-struktureller als auch interaktionell-individueller Ebene“,
heißt es.
Das deckt sich mit unserer Recherche: Studierende und
Wissenschaftler:innen sind müde und wählen den Weg des Schweigens – aus Angst
vor Repression oder einfach aus Scham darüber, sich nicht gegen Diskriminierung
und Bullying gewehrt zu haben.
Auch Sophia Hohmann, Vorstandsmitglied im „Netzwerk gegen
Machtmissbrauch in der Wissenschaft“, sieht strukturelle Diskriminierung an
deutschen Hochschulen und mahnt zu Gegenmaßnahmen: „Es braucht dringend von den
Hochschulen unabhängige Anlaufstellen für Betroffene aller Statusgruppen.“ Die
Antidiskriminierungsarbeit an Hochschulen sei oft nur als Projekt angelegt, was
auch wieder eine problematische Struktur darstelle. Diskriminierungen müssten
angemessen sanktioniert werden. Sie dürften nicht nur als Einzelfall und
individuelles Fehlverhalten betrachtet werden, sondern in ihrer strukturellen
Dimension. Strukturen müssten geändert werden, „dass Diskriminierung weniger
wahrscheinlich wird“, sagt Hohmann im Gespräch. Engin sei kein Einzelfall,
„denn Personen, die sich an Hochschulen für Antidiskriminierung engagieren,
werden vielfach selbst diskriminiert, ausgegrenzt und/oder bedroht.“ (mig 4)
22 Prozent der Arbeitszeit für Bürokratie nötig
München. Durch erhöhte Anforderungen müssen Angestellte 22
Prozent ihrer Arbeitszeit für bürokratische Tätigkeiten aufwenden. Dies geht
aus einer Umfrage des ifo Instituts unter Führungskräften in Deutschland
hervor. „Die Unternehmen berichten vor allem von erheblichem Personalaufwand,
der zur Einhaltung immer neuer gesetzlicher Auflagen benötigt wird“, sagt
ifo-Forscherin Ramona Schmid. „Zudem kritisieren sie, dass die zunehmende
Bürokratie die Wettbewerbsfähigkeit und die unternehmerische Freiheit belastet
sowie die Investitionsentscheidungen der Unternehmen beeinflusst.“
Nach Angaben der Managerinnen und Manager entsteht der
steigende Zeitaufwand vor allem durch ausufernde Berichts- und Informations-,
Dokumentations- und Meldepflichten. Außerdem seien die gesetzlichen Regelungen
in den letzten zehn Jahren immer komplexer geworden. Rund 75 Prozent der
Teilnehmenden bewerten die Praxistauglichkeit bzw. Umsetzbarkeit von Gesetzen
dabei als schlecht bis sehr schlecht.
Um den bürokratischen Anforderungen gerecht zu werden,
müssen knapp 80 Prozent der an der Umfrage teilnehmenden Unternehmen externe
Dienstleister beauftragen. In Summe beziffern die Unternehmen die durch
Bürokratie verursachten Kosten auf durchschnittlich 6 Prozent ihres Umsatzes.
Teilnehmer der Befragung waren ca. 450 Mitglieder des Panels
der ifo-Managementumfrage. Die Umfrage lief im Mai 2024. Ifo 4
UNO: Afrika in den Sicherheitsrat?
Seit dreißig Jahren fordert der afrikanische Kontinent einen
ständigen Sitz im Sicherheitsrat der Vereinten Nationen. Auch der Vatikan ruft
nach einer Reform der UNO. Die USA sind mittlerweile für einen afrikanischen
Sitz, wollen ihm aber kein Vetorecht einräumen.
„Bisher hatten sich die USA gegen jede Erweiterung des
Sicherheitsrats ausgesprochen“. Das erklärt der Forscher Francis Kpatindé,
Dozent an der Pariser Elite-Universität Sciences Po. „Die letzte Hürde wurde
nun genommen. Die Afrikagruppe der Vereinten Nationen und die Afrikanische
Union in Addis Abeba müssen sich nun zusammensetzen, beraten und arbeiten, um
eine angemessene Antwort auf das amerikanische Angebot zu geben.“
Bisher haben fünf Länder im Sicherheitsrat einen ständigen
Sitz mit Vetorecht: China, Russland, Frankreich, Großbritannien und die USA.
Der Rat hat auch zehn weitere nichtständige Mitglieder, die von der
Generalversammlung jeweils für eine zweijährige Amtszeit gewählt werden. Bisher
hatten nur drei afrikanische Länder schon mal einen nichtständigen Sitz im
Sicherheitsrat: Sierra Leone, Algerien und Mosambik.
Auch Staaten südlich der Sahara bewerben sich um den Sitz
„Die beiden Großmächte südlich der Sahara, Südafrika und
Nigeria, bewerben sich um einen Posten als ständiges Mitglied im
Sicherheitsrat. In Nordafrika haben Sie Ägypten, das ebenfalls eine
afrikanische Macht ist, Algerien, Marokko und Äthiopien, das den Sitz der
Afrikanischen Union beherbergt. Außerdem gibt es noch den Senegal, der
gleichfalls eine ständige Mitgliedschaft im Sicherheitsrat der Vereinten
Nationen anstrebt.“
Der afrikanische Kontinent beherbergt 1,3 Milliarden
Menschen auf seinem Territorium, was 17 Prozent der Weltbevölkerung entspricht.
Mit 54 Staaten stellt Afrika sogar 28 Prozent der 193 UN-Mitglieder, und mehr
als 40 Prozent der Friedenssoldaten sind heute Afrikaner. Der Kontinent bringt
also international durchaus Gewicht auf die Waage. Jetzt macht das Angebot der
USA den Weg frei für Gespräche.
Die Sache betrifft nicht nur Afrika
„Man wird auch versuchen müssen, herauszufinden, ob die
Afrikaner einen Sitz im Rat akzeptieren würden, auch ohne über ein Vetorecht zu
verfügen. Die Frage geht übrigens über Afrika hinaus, denn Lateinamerika hat ja
ebenfalls keinen ständigen Sitz im Sicherheitsrat, obwohl es dort große Länder
wie Brasilien und Argentinien gibt, die sich ebenfalls darum bewerben. Und in
Asien hat ein Land wie Indien keinen Sitz im Sicherheitsrat, jedenfalls keinen
ständigen. Als die Vereinten Nationen 1945 gegründet wurden, saßen nur vier
afrikanische mit Länder am Tisch: Ägypten, Äthiopien, Liberia und Südafrika.
Dies waren die vier Länder, die von Anfang an Mitglieder der Vereinten Nationen
waren. Später, in den späten 1950er Jahren und in noch größerer Zahl ab 1960
erlangten afrikanische Länder ihre Unabhängigkeit.“
Der Westen bemüht sich derzeit in ganz neuer Weise um
Afrika, damit die dortigen Regierungen nicht in das Lager von China oder
Russland überwechseln. So ist u.a. zu erklären, dass Joe Biden jetzt gerade
Angola besucht; es ist für den US-Präsidenten das erste Land südlich der
Sahara, das er in seiner zu Ende gehenden Amtszeit bereist. Allerdings – wer
einen afrikanischen Sitz im UN-Sicherheitsrat will, der sollte wissen, dass er
da ein dickes Brett bohren muss.
Langer Atem nötig
„Um eine Reform der Vereinten Nationen durchzuführen,
braucht es Jahre! Es bedarf vieler Diskussionen, denn um zum Beispiel den
Sicherheitsrat zu reformieren, muss zuerst die aktuelle Charta der Vereinten
Nationen überarbeitet werden. Zuvor müssten jedoch die fünf ständigen
Mitglieder des Sicherheitsrats und zwei Drittel der Mitglieder der
Generalversammlung einstimmig zustimmen. Ich glaube nicht, dass die
Generalversammlung ein Problem bei der Überarbeitung der Charta darstellen
wird, aber man muss auf die Position der fünf derzeitigen ständigen Mitglieder
des Sicherheitsrats achten.“
Francis Kpatindé kann sich nicht vorstellen, dass es während
einer Präsidentschaft von Donald Trump zu einer UN-Reform kommen könnte. Er
findet es auch gar nicht so schlimm, wenn da jetzt nichts überstürzt wird.
„Man muss nachdenken, vor allem bei einem so heiklen Thema.
Es wäre ja die erste große Reform seit 1945. Es gab kleine Reformen, aber diese
ist von großer Bedeutung und wird das geopolitische Schachbrett verändern.
Darum muss man dafür meiner Meinung nach einige Jahre einplanen. Wenn man sich
mal vorstellt, dass 28 Prozent der Mitglieder seit 1945 akzeptieren, den
Anordnungen und Entscheidungen einer kleinen Gruppe von Staaten zu gehorchen…
Das ist doch nicht möglich!“
Papst wirbt für Reform
Der Dozent findet schon, dass Afrika an den Tisch der
Entscheider gehört. „Was bringt es Afrika, eine so große Anzahl an Truppen zu
stellen, wenn ihm letztendlich Entscheidungen aufgezwungen werden? Die UNO
funktioniert auch heute noch wie zu Zeiten des Kolonialismus. Auf der Ebene der
bilateralen Beziehungen kann das so nicht weitergehen – und auch auf der Ebene
der multilateralen Beziehungen kann dieses System nicht fortgesetzt werden.“
Papst Franziskus tritt deutlich für eine UNO-Reform ein,
unter anderem in seiner Enzyklika „Fratelli tutti“. Der Krieg in der Ukraine
zeigt aus seiner Sicht „erneut mehr als deutlich, dass es agilere und
effizientere Wege zur Konfliktlösung braucht“. Die UNO entspreche in ihrer
heutigen Gestalt „nicht mehr den neuen Realitäten“. Das bezieht er ausdrücklich
auch auf den Sicherheitsrat.
Das Interview führte Augustine Asta vom französischen
Programm Radio Vatikan für Afrika. (vn 3)
Tag der Menschen mit Behinderung. Inklusionslücken endlich schließen
Hürth – Anlässlich des Internationalen Tages der
Menschen mit Behinderung am 3. Dezember 2024 kritisiert die Lebenshilfe
Nordrhein-Westfalen e.V., dass durch das vorzeitige Ende der Bundesregierung
bedeutende Gesetzesvorhaben mit großer Relevanz für die Belange der Menschen
mit Behinderung nicht umgesetzt wurden. Dies stellt einen erheblichen
Rückschritt für die Inklusion und die Rechte von Menschen mit Behinderung in
Deutschland dar.
Ein zentrales Anliegen der Menschen mit Behinderung ist ein
zweites Gesetz zum inklusiven Arbeitsmarkt, das unter anderem eine Erhöhung des
Werkstattlohns für Menschen mit Behinderung in Werkstätten für behinderte
Menschen (WfbM) sowie Regelungen zum Gewaltschutz und zu den
EU-Rentenansprüchen im Bundesversicherungsamt (BfA) hätte umfassen sollen. Eine
vom Bundesministerium für Arbeit und Soziales (BMAS) in Auftrag gegebene Studie
empfiehlt sogar, die Bezahlung von Werkstattbeschäftigten zu verbessern und das
gesamte System transparenter zu gestalten. Doch die Reform wurde von der
Ampel-Koalition trotz Ankündigung im Koalitionsvertrag nicht angestoßen.
Ebenso bleibt die Reform des
Behindertengleichstellungsgesetzes (BGG) aus. Diese hätte verbindliche Maßnahmen
zur Barrierefreiheit bei Mobilität, Wohnen, Gesundheit und im digitalen
Bereich, auch für private Anbieter, enthalten können, da freiwillige Maßnahmen
bisher nicht zu den notwendigen Veränderungen geführt haben. Die Reform hätte
entscheidende Verbesserungen für die Teilhabe von Menschen mit Behinderung
im Sinne der vor 15 Jahren ratifizierten UN-Behindertenrechtskonvention
ermöglichen können.
Besonders bedauerlich ist, dass es nach wie vor keine
Entscheidung zum Gesetz zur Ausgestaltung der Inklusiven Kinder- und
Jugendhilfe (IKJHG) gibt. Der Gesetzentwurf war dem Ziel einer inklusiven
Kinder- und Jugendhilfe nahe, welche die Lebenshilfe schon lange fordert3, doch
die Chancen auf ein inklusives SGB VIII wurden nicht genutzt. Der
Verschiebebahnhof für Kinder mit drohender Behinderung im Grenzbereich zur
seelischen Behinderung bleibt bestehen, ebenso wie die unzureichende Anrechnung
von Einkommen und Vermögen sowie Leistungen der Eingliederungshilfe für Kinder
und Jugendliche. Es fehlt an einer Regelung für eine einheitliche
Gerichtsbarkeit für alle Leistungen des SGB VIII in der
Sozialgerichtsbarkeit.Die Neuregelung sollte alle Leistungen der Eingliederungshilfe
für junge Menschen einbeziehen, insbesondere ambulante Leistungen gemäß § 78a
SGB VIII. Dies erfordert, dass die öffentliche Jugendhilfe Vereinbarungen für
ambulante Leistungen abschließt und die Schiedsstellenfähigkeit erhält. Der
Rechtsanspruch auf eine Leistungsvereinbarung muss im SGB VIII verankert
werden, unabhängig von der Art der Leistung. Zudem sollten die Definitionen von
Behinderung im SGB VIII und SGB IX übereinstimmen, ohne das Merkmal der
Wesentlichkeit. Die Hilfeplanung im SGB VIII muss sinnvoll mit der
Bedarfsermittlung im SGB IX verknüpft werden.
Positiv ist hingegen, dass das Gesetz zur Neuregelung der
Vormünder- und Betreuungsvergütung nicht verabschiedet wurde, da es dramatische
negative Auswirkungen gehabt hätte. Der Entwurf hätte zu sinkenden Einnahmen
der Betreuungsvereine und Betreuer:innen geführt und das Ziel einer
existenzsichernden Finanzierung verfehlt. Angesichts der Preissteigerungen seit
der letzten Anhebung der Vergütungssätze im Jahr 2019 und der Tariferhöhungen
ist es unverständlich, warum die Vergütung für berufliche Betreuer reduziert
werden sollte. Eine solche Reduzierung hätte die Attraktivität des Berufs
weiter geschmälert. Hier muss die neue Bundesregierung eine andere Richtung
einschlagen.
Die im Entwurf angestrebte durchschnittliche Erhöhung der
Vergütung um 12,7 % wird bei weitem nicht erreicht und lässt sich schon jetzt
beim Vergleich der bisherigen Fallgruppen mit dem neuen System widerlegen. Die
Vergütungssätze müssen vielmehr deutlich erhöht werden, um den
Preissteigerungen gerecht zu werden, insbesondere angesichts der gestiegenen
Anforderungen an berufliche Betreuer seit der Reform des Vormundschafts- und
Betreuungsrechts zum 1. Januar 2023.
Für viele Betreuungsvereine stellen die vorgeschlagenen
Vergütungsregelungen eine akute Existenzbedrohung dar. Da sie ihre
Mitarbeitenden nach Tarif entlohnen, würde jede Tariferhöhung ihre
wirtschaftliche Situation weiter verschärfen. Dies könnte zur Schließung von
Vereinen und zur Aufgabe der Tätigkeit durch rechtliche Betreuer:innen führen,
was die Betreuungsbehörden zusätzlich belasten würde. Besonders aufwendige
Betreuungen werden nicht mehr zusätzlich vergütet, was Fehlanreize schafft,
rechtlich betreute Personen in stationären Einrichtungen unterzubringen und nur
vermögende Personen zu betreuen.
Die Lebenshilfe NRW fordert die neue Bundesregierung auf,
diese drängenden Themen zügig anzugehen und die notwendigen gesetzlichen
Maßnahmen zu ergreifen, um die Rechte und die Teilhabe von Menschen mit
Behinderung nachhaltig zu stärken und nicht weiter zu verschleppen.
Forderung an die NRW-Landesregierung
Auf Landesebene in Nordrhein-Westfalen sorgt die stockende
Umsetzung des 2016 im Bundestag beschlossenen Bundesteilhabegesetzes (BTHG) für
großen Unmut bei Menschen mit Behinderung, Familien und Trägern der
Eingliederungshilfe. Die Personenzentrierung und verbesserte Teilhabe drohen
nach jahrelangem detailverliebtem Verhandeln nun auf eine pragmatische Lösung
zuzusteuern. Während wir den Pragmatismus grundsätzlich befürworten, sind wir
besorgt, dass dadurch von einer echten Umsetzung im Sinne des Gesetzes nicht
viel übrig bleibt.
Wir appellieren an die NRW-Landesregierung, beim Gesetz zur
Neuregelung der Vormünder- und Betreuungsvergütung, das von den Ländern
finanziert wird, dieses nicht weiter aus Kostengründen zu blockieren und mit
einer neuen Bundesregierung zügig im Sinne der Menschen mit Behinderung
einzuwirken. Wir fordern, dass die Landesregierung anerkennt, dass die
Sicherstellung der rechtlichen Betreuung für Menschen mit Unterstützungsbedarf
eine staatliche Pflichtaufgabe ist, die angemessen finanziell ausgestattet werden
muss. LN-W 3
„Ein Ort des Rassismus, Antisemitismus und rechten
Agendasettings“
Anders als früher sei der Kurznachrichtendienst heute
„toxisch“, heißt es in einem offenen Abschiedsbrief mit mehr als 60
Unterzeichnerinnen und Unterzeichnen aus Deutschland. Sie steigen aus.
Dutzende Journalisten und Autoren sowie eine Reihe von
gesellschaftlichen Institutionen in Deutschland haben gemeinsam ihren Abschied
vom Kurznachrichtendienst Twitter angekündigt. Darunter sind die
Fernsehmoderatoren Dunja Hayali und Jo Schück ebenso wie Bestsellerautorin Anne
Rabe sowie etwa mehrere NS-Gedenkstätten wie das NS-Dokumentationszentrum in
München und die Gedenkstätte Haus der Wannseekonferenz in Berlin. Insgesamt
trägt die Liste mehr als 60 Unterschriften.
X habe sich zu einer zunehmend toxischen Umgebung
entwickelt, sagte der Sprecher des Hauses der Wannseekonferenz, Eike Stegen,
auf Anfrage. Der Kurznachrichtendienst – früher Twitter – sei „systematisch
unmoderiert“ und verbreite Hass und Hetze. Das Haus der Wannseekonferenz
schließe seinen Account in zehn Tagen (13.12.) und setze auf Alternativen wie
Bluesky und soziale Medien wie Tiktok oder Instagram.
Ähnliche Gründe führt auch der von 66 Personen
unterschriebene „Offene Abschiedsbrief“ unter dem Titel „eXit von Twitter“ an,
den unter anderen Hayali auf Instagram teilte. Initiatoren sind die Autoren Jan
Skudlarek und Max Czollek. „Seit der Übernahme durch Elon Musk ist Twitter kein
Ort mehr für freie und faire Meinungsäußerung und einen offenen Austausch“,
heißt es in dem Papier. „Schlimmer noch, Twitter ist ein Ort der Zensur, des
Rassismus, Antisemitismus und des rechten Agendasettings geworden.“ (dpa/mig 3)
Die Ära der globalen US-Dominanz ist vorbei. Auf die Treue
ihrer Bündnispartner kann sich die Supermacht unter Trump nicht länger
verlassen. Von Sarang Shidore
Das atemberaubende Comeback von Donald Trump als Präsident
hat die Verbündeten der USA ordentlich durcheinandergewirbelt. Hinter ihren
besonnenen Glückwunschadressen spürt man deutlich die Angst, Washington könnte
sie bald nur noch wie austauschbare Schachfiguren auf dem globalen Spielbrett
behandeln. Das wäre in der Tat ein bedeutender Umbruch. In der Amtszeit von
Präsident Joe Biden hatten die Vereinigten Staaten große Mittel zur Verstärkung
ihrer Bündnisse und Partnerschaften eingesetzt, um der verschärften Konkurrenz
mit China und Russlands Invasion in der Ukraine zu begegnen.
Vieles spricht dafür, dass ihnen das gelungen ist. Die von
den USA geführte NATO hat energisch alle Kräfte gegen Russland gebündelt. Der
Handelskrieg der USA gegen China findet inzwischen ein Echo in Europa. Indem
Japan die Verteidigungsausgaben verdoppelt, sich dem Sanktionsregime gegen
Russland angeschlossen und seine Beziehungen zu Südkorea gestärkt hat, ist es
den USA näher gerückt. Die Philippinen beginnen nach einer Zeit der
Entfremdung, eine gemeinsame Front gegen China zu schmieden. Indien bleibt nach
wie vor ein enger Partner. „Wir sind stärker denn je“, konnte sich Joe Biden
bei der 75-Jahre-Feier der NATO in diesem Sommer voller Überzeugung rühmen.
Doch bei näherer Betrachtung bemerkt man auch einen anderen Trend
hinter den Kulissen. Die Verbündeten und Partner der USA versuchen nämlich,
sich nach allen Seiten abzusichern, und weitere Abkommen mit Ländern außerhalb
des westlichen Einflussbereichs zu schließen. Diese am stärksten im Globalen
Süden sichtbare Entwicklung wurde weniger von einzelnen Staatschefs als von der
Struktur des internationalen Systems selbst befördert. In einer Welt, die immer
stärker von vielfachen Bündnissen und Transaktionalismus bestimmt ist, können
sich die USA nicht länger auf die Loyalität ihrer Freunde verlassen. Diese
Entwicklung ist längst im Gange, und sie hat nur wenig mit Trump zu tun.
Bereits seit einigen Jahren sind mit der Türkei und Thailand
zwei Schwellenländer von ihrem großen Bündnispartner abgerückt und bewegen sich
fortan im Dreieck zwischen den USA und deren Rivalen. Das langjährige
NATO-Mitglied Türkei war im syrischen Bürgerkrieg eindeutiger Gegner Russlands
und verurteilte aufs Schärfste den russischen Einmarsch in der Ukraine. Dennoch
schloss sich die Türkei nicht dem US-geführten Sanktionsregime an, sondern
vertiefte ihre Handelsbeziehungen und die Energiepartnerschaft mit Moskau. Die
türkische Regierung vermochte gar, Russland und die Ukraine zur Unterzeichnung
eines Abkommens über den Export von ukrainischem Getreide auf die Weltmärkte zu
bewegen, das bis letzten Sommer Gültigkeit besaß.
In Thailand wurden die Anstrengungen beschleunigt, sich
stärker an China zu binden. Da es keine Territorialstreitigkeiten mit Peking
gibt, das Land sich aber mit den Auswirkungen des Bürgerkriegs im benachbarten
Myanmar konfrontiert sieht, verstärkte Thailand die wirtschaftlichen
Beziehungen zu China, führte mehr gemeinsame Militärmanöver durch und kauft
inzwischen über 40 Prozent seiner Waffen dort. Als wollten sie ihre
Unabhängigkeit von den USA unter Beweis stellen, schlossen sich die Türkei und
Thailand in diesem Jahr als Partnerstaaten der nichtwestlichen BRICS-Gruppe an,
die von Brasilien, Russland, Indien, China und Südafrika angeführt wird.
Das Vorgehen der beiden Staaten bedeutet jedoch nicht, dass
sie antiamerikanisch oder antiwestlich eingestellt sind. Thailand hat sein
jährliches gemeinsames Militärmanöver mit den US-Truppen weiter ausgebaut und
eine Mitgliedschaft in der OECD beantragt. Die Türkei wiederum kauft
US-Kampfflugzeuge und erklärt, man wäre nicht in die BRICS-Gruppe gegangen,
hätte man eine Chance auf den EU-Beitritt gehabt. Wer sich absichern will,
sucht in allen Richtungen.
Der BRICS-Gipfel im letzten Monat war für Indien ein
sicherer Raum, um das erste ernsthafte Treffen der Staatschefs Narendra Modi
und Xi Jinping seit fünf Jahren zu ermöglichen. Mit dem Abzug der Truppen an
zwei Grenzpunkten im Himalaya könnte Indien den Beginn einer Entspannung mit
China einläuten, die dem Subkontinent auch größeren Spielraum im Verhältnis zum
amerikanischen Verbündeten verschaffen würde. Die Partnerschaft mit den USA
wird garantiert weiterhin stabil bleiben. Sie wird jedoch angesichts von
Indiens fortgesetzten Beziehungen zu Russland und der Machtübernahme einer
US-freundlichen, aber indienkritischen Regierung in Bangladesch auf die Probe
gestellt.
Selbst im Herzen des US-Bündnissystems gibt es Anzeichen,
dass die Tendenz zur Absicherung nach allen Seiten wächst. Der Vorschlag des
japanischen Premierministers Shigeru Ishiba zur Gründung einer „asiatischen
NATO“ als Gegengewicht zu China klingt zunächst wie ein Bekenntnis zur Pax
Americana. Doch Ishiba will auch die Asymmetrie im Verhältnis zu den USA
beseitigen, mehr Mitspracherecht für Tokio erwirken und China in die regionale
Kooperation einbeziehen, etwa beim Katastrophenschutz. Die Niederlage der regierenden
Liberaldemokratischen Partei bei den jüngsten Parlamentswahlen wird allerdings
die ehrgeizigen Ziele der Regierung zur Erhöhung der Militärausgaben
torpedieren und den von den USA gewünschten Fokus auf den Ausschluss Chinas
aufweichen.
In Europa konnten in der Zwischenzeit populistische Parteien
ungeahnte Erfolge erzielen. Im Allgemeinen stellen sie die US-Politik gegenüber
der Ukraine infrage und sind oft nicht gewillt, die NATO – wie in den USA
üblich – als heilige Kuh zu betrachten. In Italien zeigt Giorgia Melonis
Regierung, dass der Aufstieg solcher Kräfte das Bündnis nicht unbedingt
schwächen muss. Doch im Endergebnis wird Europa angesichts der neuen Politik
stärker unter Druck gesetzt, die amerikanischen Prioritäten im Verhältnis zu
Russland und möglicherweise auch zu China zu übernehmen. Viktor Orbáns Ungarn
und die Slowakei unter Robert Fico pflegen bereits Beziehungen zu allen Seiten.
Dieses Modell könnte in der nächsten Zeit durchaus weitere Nachahmer in Europa
finden.
Warum ist die Absicherung nach allen Seiten derzeit so
attraktiv? Ihre Vorreiter finden sich in den ehemals blockfreien Staaten im
Globalen Süden. Dort nutzten Mittel- und schwächere Mächte vielfältige
Partnerschaften, um sich in einem feindseligen internationalen System
durchsetzen zu können. Doch es gibt auch zwei neue Gründe, warum diese
Strategie gerade jetzt attraktiv scheint: zum einen die Unsicherheit der
künftigen Weltordnung, zum anderen der Eindruck, dass die unipolare Welt, in
der die USA drei Jahrzehnte lang den Globus dominierten, im Verschwinden
begriffen ist. Unter diesen Bedingungen ist es sinnvoll, sich ernsthaft auf die
Rivalen des Hegemons einzulassen.
Diese Tendenz zur Absicherung ist allerdings eher neu und
längst noch kein beherrschender Trend unter den Verbündeten und
Sicherheitspartnern der USA. Doch die Amerikaner sollten sich auf weitere
Abweichler einstellen. Statt auf Ausschluss und Abzug könnte Washington auch
auf eine andere mathematische Operation setzen: auf Addition. Dazu müsste man
allerdings den Glauben an die Einzigartigkeit Amerikas aufgeben – der die
Vereinigten Staaten als Leuchtfeuer der Zivilisation sieht, die jedwede
Barbarei bekämpft – und eine eigene Absicherungsstrategie entwickeln.
Transaktionales Handeln fällt Trump leicht. Doch um die USA
von ihrer unhinterfragten Vorherrschaft zu neuem Absicherungsdenken zu bewegen,
muss der gewählte Präsident seine Impulsivität überwinden und einen Plan
fassen, wie diese vielfältigen Bündnisse zum Nutzen Amerikas gestaltet werden
können. Das ist eine hohe Hürde, aber die sich rasch wandelnde Welt verlangt
auch einen hohen Einsatz. TNYT/IPG 3
Stimmung in der deutschen Autoindustrie verschlechtert sich rasant
München – Der Index für das Geschäftsklima der deutschen
Automobilindustrie ist im November auf minus 32,1 Punkte gefallen, von minus
28,6* Punkten im Oktober. „Die Branche steckt fest in der aktuellen Gemengelage
aus tiefgreifender Transformation, intensivem Wettbewerb und schwacher
Konjunktur“, sagt ifo Branchenexpertin Anita Wölfl.
Die Unternehmen beurteilen ihre aktuelle Geschäftslage
nochmals deutlich schlechter als im Oktober und blicken den kommenden sechs
Monaten noch pessimistischer entgegen: Der Indikator der Geschäftslage fiel auf
minus 33,9 Punkte, nach minus 29,0* Punkten im Vormonat. Der Indikator für die
Geschäftserwartungen ging auf minus 30,4 Punkte zurück von minus 28,2* im
Oktober.
Das Stimmungstief ist vor allem der schwachen Nachfrage
geschuldet: „Der Auftragsberg, den die Unternehmen der Autoindustrie angesichts
von Pandemie und Lieferkettenproblemen seit Anfang 2021 angehäuft hatten, ist
abgearbeitet. Neue Aufträge kommen herein, reichen aber nicht aus, um die
Kapazitäten auszulasten“, so Wölfl.
Die Krise in der Autoindustrie zeigt sich auch bei der
Arbeitsnachfrage: Der Indikator der Beschäftigungserwartungen ist zwar im
Vergleich zum Vormonat etwas gestiegen, erreicht aber mit minus 34,1 Punkten
ein Langzeittief. „Viele Unternehmen der Autoindustrie halten sich bei
Neueinstellungen zurück oder diskutieren über Stellenkürzungen“, so Wölfl.
Auch beim Auslandsgeschäft blicken die Unternehmen den
kommenden Monaten pessimistisch entgegen. Ein negativer Trump-Effekt scheint
allerdings ausgeblieben zu sein. Der Indikator der Exporterwartungen ist
vielmehr von minus 31,3 Punkten* im Oktober auf minus 19,2 Punkte im November
gestiegen. „Die Unternehmen warten noch ab, wie sich die Handelspolitik
entwickeln wird“, sagt Wölfl. Zudem hat der Dollar nach der Wahl kräftig
aufgewertet, wovon die Exporteure profitieren können. Ifo 3
Bundestag soll über Neuregelung von Abtreibung beraten
Eine mögliche Neuregelung der Abtreibung soll nach dem
Wunsch einer Gruppe von Abgeordneten in den kommenden Tagen im Bundestag
beraten werden.
„Als Gruppe haben wir
das Recht, in dieser Woche die Erste Lesung unseres Gesetzentwurfs zu haben.
Von diesem Recht wollen wir Gebrauch machen“, sagte die SPD-Abgeordnete Carmen
Wegge dem Redaktionsnetzwerk Deutschland an diesem Montag. Wegge gehört zu den
Initiatorinnen und Initiatoren eines Gruppenantrags aus den Reihen von SPD,
Grünen und Linken, der eine Abschaffung des Strafrechtsparagrafen 218 vorsieht.
Dieser regelt die Strafbarkeit von Abtreibungen.
„Selbstverständlich wollen wir das Gesetz vor der
Bundestagswahl auch noch zur Abstimmung bringen“, so Wegge weiter. „Die
Neuregelung des Schwangerschaftsabbruchs, so wie wir sie vorschlagen, kann aus
unserer Sicht auch eine Mehrheit im Parlament bekommen.“
Rechtswidrig, aber unter bestimmten Bedingungen straffrei
Derzeit sind in Deutschland Schwangerschaftsabbrüche laut
Paragraf 218 des Strafgesetzbuchs rechtswidrig. Abtreibungen in den ersten
zwölf Wochen bleiben aber straffrei, wenn die Frau sich zuvor beraten lässt.
Ebenso straffrei bleibt der Eingriff aus medizinischen Gründen sowie nach einer
Vergewaltigung.
Kern des Vorstoßes der Gruppe um Wegge und andere
Abgeordnete ist es, Schwangerschaftsabbrüche aus dem Strafgesetz
herauszunehmen. Stattdessen sollen Abbrüche bis zur zwölften Woche, nach einer
Vergewaltigung oder aus medizinischen Gründen künftig „rechtmäßig und
straffrei“ sein und im Schwangerschaftskonfliktgesetz geregelt werden. Eine
Beratungspflicht soll bleiben, allerdings ohne die derzeit geltende Wartezeit
von drei Tagen. Die Kosten eines Schwangerschaftsabbruchs sollen künftig von
der Krankenkasse übernommen werden. (kna 2)
Mit Trump im Weißen Haus rückt ein Deal in der Ukraine
näher. Osteuropa würde dies in ernsthafte Gefahr bringen. Von Michael Kranz
Im vergangenen Jahr fragten mich in Warschau Menschen sowohl
aus Polen als auch aus der Ukraine, wenn sie hörten, dass ich in den USA
aufgewachsen bin, fast immer als Erstes, wer meiner Meinung nach die Wahl 2024
gewinnen würde. Die nächste Frage war dann immer, ob ein Trump, wenn er
gewänne, die Ukraine und Osteuropa wirklich den Russen preisgeben würde. In den
ersten Tagen nach Trumps Wahlsieg war diese Sorge unter meinen polnischen
Freunden und Angehörigen deutlich zu spüren. Doch nachdem monatelang gewarnt
worden ist, eine Rückkehr von Donald Trump an die Macht würde apokalyptische
Folgen für die Ukraine und die NATO-Ostflanke haben, gibt es jetzt an Europas
Grenze zu Russland eine neue Devise: Verfallt nicht in Panik, sondern bereitet
euch vor.
Das wahrscheinliche Ende des Krieges in der Ukraine während
Trumps erstem Amtsjahr wird nur die Spitze des Eisbergs der Veränderungen sein,
die sich in Osteuropa abzeichnen. Die Staaten in der Region, allen voran Polen
und die baltischen Staaten, stellen sich bereits ein Szenario vor, das über die
Ukraine hinausreicht und so aussieht, dass Russland seine Kriegsmaschinerie
schon bald direkt an der NATO-Ostflanke in Aktion setzen könnte, die ohne
solide amerikanische Sicherheitsgarantien verwundbarer wäre denn je. Und doch
bietet die angespannte Situation Osteuropa unerwartete Chancen. Ohne Amerikas
Führungsrolle und seine oftmals einschränkende Einflussnahme hat Osteuropa die
Chance, seine eigene künftige Verteidigungsstrategie zu überdenken, die
Fortschritte der Nachkriegswirtschaftsordnung in der Ukraine zu nutzen und
Westeuropa endlich dazu zu zwingen, sich den Realitäten der multipolaren Welt
voll und ganz zu stellen.
Mit anderen Worten: Wir erleben derzeit eine grundlegende
Verschiebung des Kräfteverhältnisses in Osteuropa. In naher Zukunft werden
Polen und die baltischen Staaten nicht umhinkommen, in die Bresche zu springen
und sich stärker als bisher in Europa zu positionieren. Denn sie blicken in die
Gewehrläufe eines Russlands, das durch einen De-facto-Triumph in der Ukraine
und die schwächer werdenden amerikanischen Sicherheitsgarantien in Europa erst
recht gestärkt wird. Unterdessen sieht sich die Ukraine mit dem schlimmsten
anzunehmenden Szenario konfrontiert, da die USA den Unterstützungshahn
vermutlich zudrehen werden. Dann muss Europa gezwungenermaßen zum ersten Mal
seit Generationen die Verteidigung der Ukraine und seine eigene Verteidigung
selbst in die Hand nehmen.
Die Chancen, dass Trump seine Meinung zur Militärhilfe für
die Ukraine ändern und auch weiterhin Mittel für die Verteidigung des Landes
bereitstellen wird, stehen leider sehr schlecht. Die Ukraine wird wohl an den
Verhandlungstisch gezwungen werden. Die europäischen, von Polen angeführten
Bemühungen, das ukrainische Militär weiterhin zu unterstützen, werden das
Unvermeidliche bestenfalls hinauszögern, und die Biden-Regierung ist sich
dessen bewusst. Jüngste Kursänderungen wie die Freigabe von Langstreckenraketen
vom Typ ATACMS, die von der Ukraine für Schläge gegen russisches Territorium
genutzt werden können, und die Lieferung von Antipersonenminen sollen der
Ukraine vor allem helfen, sich vor den Verhandlungen eine möglichst günstige
Position zu sichern und zumindest ein Mindestmaß an Abschreckung gegen künftige
russische Aggressionen aufbieten zu können.
Fast erübrigt es sich zu erwähnen, dass jedes
Friedensabkommen wohl auf die dauerhafte Annexion der gegenwärtig von Russland
besetzten Gebiete hinausläuft und die Ukraine dazu zwingen wird, ihre
Ambitionen auf einen NATO-Beitritt aufzugeben. Mit anderen Worten: Es wäre ein
Sieg für Russland. Aber selbst dann bleibt noch vieles offen in der Frage, wie
ein solcher „Frieden“ konkret aussehen würde und wie die Ukraine vermeiden
könnte, von Russland auf Dauer geschluckt zu werden. Laut einem Bericht des
Wall Street Journal sieht der zentrale Plan von Trumps Übergangsteam vor, die
Ukraine auf eine Zusage zu verpflichten, in den nächsten 20 Jahren nicht der
NATO beizutreten. Die kontinuierliche Lieferung von US-Waffen soll dann
Russland von künftigen Angriffen abschrecken, und eine Art europäische
Friedenstruppe soll die entmilitarisierte Zone überwachen, in der die Kämpfe
eingestellt werden.
Ein solcher Plan kommt Polen sehr gelegen, da der polnische
Präsident Andrzej Duda im vergangenen Jahr vorgeschlagen hat, polnische Truppen
im Rahmen von Friedensbemühungen in der Ukraine zu stationieren. Inzwischen ist
Polen gut aufgestellt, um von den Wiederaufbaubemühungen nach dem Krieg enorm
zu profitieren. 3 000 polnische Unternehmen haben sich bei der polnischen
Investitions- und Handelsagentur (PAIH) registrieren lassen, weil sie am
Wiederaufbau der Ukraine mitwirken wollen. Wenn Polen sich daran beteiligt, die
Sicherheit in der Ukraine vor Ort zu gewährleisten, birgt das natürlich ein
erhebliches Risiko, da es das Land einem Konflikt mit Russland umso
näherbringt. Doch auf genau diese Rolle bereitet die polnische Führung das
Militär des Landes seit Jahren vor.
Die Staats- und Regierungschefs Osteuropas befinden sich
nach eigener Einschätzung im Fadenkreuz Russlands – egal, wie sie sich
verhalten. Eine aktive Verteidigung muss also an oberster Stelle stehen.
Staats- und Regierungschefs von weiter westlich gelegenen Ländern Europas
kommen zögerlich zu demselben Schluss und haben kürzlich zugesagt, nicht nur in
die nationalen Verteidigungsausgaben, sondern auch in den Ausbau der
europäischen Rüstungsindustrie zu investieren. Es gibt keinen Grund zu der
Annahme, Putin werde sich mit einer Verhandlungslösung in der Ukraine
zufriedengeben. Im Gegenteil: Mit dem Rückenwind eines Sieges in der Ukraine
und mit einer US-Führung, die nicht bereit ist, sich über das absolute Minimum
hinaus militärisch in Europa zu engagieren, könnte Putin durchaus zu dem
Schluss kommen, dass die Zeit reif ist für eine weiter gehende
Wiederherstellung der sowjetischen Einflusssphäre. Westeuropa tut schrittweise
mehr, um gerüstet zu sein, und Frankreich zum Beispiel liegt im Zeitplan bei
seinen Bemühungen, die Verteidigungsausgaben in diesem Jahr auf die von der
NATO vorgegebenen zwei Prozent des BIP zu steigern. Die Osteuropäer wissen
jedoch, dass es im Falle eines russischen Angriffs an ihnen wäre, die Stellung
zu halten. Polen verfügt derzeit über die drittgrößte Armee der NATO, und wenn
die ukrainische Armee die russischen Streitkräfte fast drei Jahre lang in
Schach halten konnte, kann das robustere und technologisch fortschrittlichere
Militär Polens hoffentlich dasselbe leisten.
Es kann gar nicht genug betont werden, wie ungewiss die
Sicherheit Osteuropas durch Trumps Wahl schlagartig wird. Ein vollständiger
Rückzug der USA aus der NATO ist weniger wahrscheinlich, als es die weit
verbreitete Diskussion nahelegen könnte, denn die jüngst erfolgte,
richtungsweisende Eröffnung eines US-Stützpunktes in Polen und die Bemühungen,
die amerikanische Militärhilfe für die Ukraine und die NATO „Trump-sicher“ zu
machen, werden es Trump erschweren, sich vollständig aus dem Bündnis zurückzuziehen.
Doch nachdem Russland seine Nukleardoktrin aktualisiert, eine ballistische
Rakete, die nuklear bestückt werden kann, auf die Ukraine abgefeuert und letzte
Woche die neue US-Basis in Polen auf seine Liste potenzieller Ziele gesetzt
hat, glaubt Putin offenbar, dass er die Oberhand hat – und dass Europa nicht
willens oder in der Lage ist, die eigene Ostgrenze wirksam zu verteidigen.
Da Trump in wenigen Monaten das gesamte regionale Gefüge
verändern könnte, bemüht sich der Osten der NATO, die Folgen abzumildern. Das
bringt vor allem Polen in die Bredouille, denn es muss nicht nur seine
Bedeutung als aufstrebende Militärmacht unter Beweis stellen, sondern auch mit
Ländern wie Rumänien, Schweden, den baltischen Staaten und der bedrängten
Ukraine zusammenarbeiten, um Moskau gemeinsam in Schach zu halten. Vor allem
aber ist dies eine Feuerprobe für Europa. Jahrzehntelang konnten sich die Westeuropäer
in der von den Vereinigten Staaten gebotenen Sicherheit wiegen und sich
pazifistischen Visionen hingeben. Diese Illusion mussten zuerst die an Putins
Russland angrenzenden Staaten aufgeben, aber Europa steht jetzt am gleichen
Scheideweg: Entweder räumt Europa der Sicherheit höchste Priorität ein und
beschreitet einen unabhängigen Weg in der Verteidigungspolitik – oder es lässt
Putin weiterhin freie Hand. IPG 2
Aktuelle Studie: Jeder dritte Händler sieht sich bis Jahresende in einer Restrukturierung
Arbeitsplätze sollen abgebaut und Filialen geschlossen
werden
Mehr als jeder dritte Händler (36 Prozent) will eine
Restrukturierung noch bis Ende 2024 umgesetzt oder begonnen haben. Vier von
fünf Einzelhändlern (83 Prozent), die eine Restrukturierung planen, ziehen auch
eine strategische Neuausrichtung ihres Unternehmens in Betracht. Die Hälfte (50
Prozent) berücksichtigt in der Planung gezielt Arbeitsplatzabbau als wichtige
Maßnahme, um Kosten zu senken. Zum Vergleich: In der Industrie will jedes
vierte Unternehmen (26 Prozent) Jobs streichen. Befragt wurden Einzelhändler im
Non-Food-Bereich (ohne Lebensmitteleinzelhandel). Das ist das Ergebnis einer
aktuellen Befragung des Marktforschungsinstituts Verian (zuvor: Kantar Public)
im Auftrag der Unternehmensberatung FTI-Andersch in den Branchen Automobil,
Maschinen- und Anlagenbau, Konsumgüter und Handel.
* 17 Prozent der Befragten mit Plänen zur Restrukturierung
sehen auch Filialschließungen vor
* Mittelfristig will fast die Hälfte der Unternehmen (46
Prozent) eine Restrukturierung durchführen
* 91 Prozent der Befragten macht der Arbeitskräftemangel zu
schaffen – trotz geplanter Stellenstreichungen
Insgesamt schätzt der Non-Food-Einzelhandel in Deutschland
die wirtschaftliche Lage noch negativer ein als die Industrie. Fast die Hälfte
(48 Prozent) der Händler rechnet mit einer schlechteren Geschäftsentwicklung
als im Vorjahr (vgl. Industrie: 34 Prozent), 60 Prozent erwarten eine Zunahme
von Insolvenzen im Handel (vgl. Industrie: 42 Prozent), jeder dritte Händler
(34 Prozent) erwartet eine ‚Insolvenzwelle‘ (vgl. Industrie: 21 Prozent) unter
Händlern und Lieferanten. Ein Viertel der Befragten (24 Prozent) sieht sich
selbst ‚existenziell bedroht‘, wenn branchenweite Insolvenzen im erwarteten
Umfang eintreten (vgl. Industrie: neun Prozent).
„Insolvenzen können schnell zu einem Domino-Effekt führen:
Kunden und Lieferanten brechen weg, Rabattschlachten nehmen zu, Finanzierer
werden immer skeptischer und die Attraktivität von Innenstädten sinkt weiter“,
sagt Dorothée Fritsch, Managing Director und Handelsexpertin bei FTI-Andersch,
der auf Restrukturierung, Business Transformation und Transaktionen
spezialisierten Beratungseinheit von FTI Consulting in Deutschland.
„Die ersten prominenten Insolvenzen haben wir bereits
gesehen. Jetzt treffen strukturelle Herausforderungen auf die wohl schlechteste
wirtschaftliche Lage seit der Wirtschafts- und Finanzkrise. Und das gepaart mit
einer anhaltend schlechten Konsumstimmung. Zuletzt sind neben den so genannten
Vertikalisten und Plattformbetreibern zusätzlich noch weitere internationale
Anbieter aggressiv auf den deutschen Markt gedrängt. Das Ergebnis: An einer
Marktbereinigung wird kein Weg vorbeiführen“, sagt Fritsch.
FTI-Andersch-Expertin: Netto werden Jobs im Handel wegfallen
Ein Drittel (36 Prozent) der Handelsunternehmen, die sich
bereits in der Restrukturierung befinden, baut bereits aktiv Arbeitsplätze ab.
Die Hälfte (50 Prozent) der Befragten, die aktuell eine Restrukturierung ins
Auge fassen, plant eine Personalreduktion. Die größte Hürde für eine
erfolgreiche Neuausrichtung ist gleichzeitig: das Halten und Rekrutieren von
Arbeitskräften – das haben 84 Prozent der Handelsunternehmen angegeben, die
aktuell eine Restrukturierung durchführen oder planen. Dabei stößt vor allem
der Handel im Vergleich zur Industrie auf größere Herausforderungen. Denn bei
denjenigen, die bereits in der Restrukturierung sind, haben dies sogar 91
Prozent angegeben. In der Industrie sehen das Problem des Haltens und
Neu-Rekrutierens mit zwei Drittel (66 Prozent) der Befragten deutlich weniger.
„Am Point of Sale (POS) benötigt der Handel Verkäuferinnen
und Verkäufer mit einer höheren Qualifikation, um den gestiegenen
Kundenansprüchen gerecht zu werden. Um diese Top-Leute werben alle, und der
Personalmangel wurde im Zuge der Coronapandemie nachhaltig verschärft“, sagt
Dorothée Fritsch. „Zudem fehlen Experten und Expertinnen für Digitalisierung,
Supply Chain Management und Innovation.“
Eine weitere zentrale Herausforderung stellen aus Sicht der
Händler Refinanzierungen dar. Dies ist einerseits auf das aktuelle Zinsumfeld
zurückzuführen, andererseits auf gestiegene Anforderungen der Finanzierer
infolge des strukturellen Marktwandels. Entsprechend stoßen zwei Drittel der
Händler (66 Prozent) auf große beziehungsweise sehr große Herausforderungen,
während dies in der Industrie weniger als die Hälfte (45 Prozent) der befragten
Unternehmen angeben. Dennoch kommuniziert die Hälfte (48%) der kurzfristig zu
refinanzierenden Handelsunternehmen nicht verstärkt mit den jeweiligen
Finanzierern.
Gleichzeitigkeit von Stabilität und strategischer
Neuausrichtung notwendig
Weitere Maßnahmen, die Händler in der Restrukturierung jetzt
angehen wollen: Bereinigung des Portfolios (92 Prozent), verstärktes
Liquiditätsmanagement (67 Prozent) und Rückstellung von Investitionen (jeweils
58 Prozent), Verringerung der Einkaufsmengen/Vorordervolumina (42 Prozent),
verstärkte Abverkaufsmaßnahmen (50 Prozent). An Filialschließungen arbeiten
zwar aktuell nur neun Prozent der Befragten, 17 Prozent wollen dies aber bei
weiteren geplanten Maßnahmen angehen. 83 Prozent der Unternehmen mit Restrukturierungsplänen
ziehen eine strategische Neuausrichtung in Betracht, 64 Prozent derjenigen, die
sich bereits in der Restrukturierung befinden, arbeiten daran.
„Stabilisierung und konsequente Neuausrichtung müssen jetzt
gleichzeitig stattfinden. Sonst verlieren die Unternehmen zu viel Zeit, die sie
nicht mehr haben“, sagt Dorothée Fritsch. „Die Unternehmen müssen jetzt
grundsätzlich erarbeiten, wie eine stabile Neuaufstellung aussehen kann. Dazu
gehört nicht nur eine Portfolio-Bereinigung, sondern ein grundsätzliches
Infragestellen von Strategie, Strukturen und aller Prozesse hinsichtlich ihres
Wertbeitrags. Besonderes Augenmerk sollte dabei auch auf Portfolio und Kanäle
gelegt werden.“
Sofortiges Handeln nötig, aber kein Aktionismus
Immerhin: Jeder fünfte (20 Prozent) Händler prüft bereits
eine mögliche Übernahme strauchelnder Wettbewerber bzw. Lieferanten. 68 Prozent
arbeiten an einem Ausbau der Kunden- und Partnerbasis außerhalb der bestehenden
Märkte, 48 Prozent führen aufgrund der Marktlage jetzt intensiv ein Screening
ihrer Lieferanten durch. Nur jeder zehnte Befragte untersucht auch seine
Vermieter auf wirtschaftliche Gesundheit.
„Es wird stark erkennbar sein, wer für diesen Sturm gut
gerüstet ist. Diese Händler haben bereits zuvor auf erfolgreiche und innovative
Verkaufsformate, ein fokussiertes Sortiment, ein gutes Zusammenspiel von Fläche
und profitablen digitalen Kanälen, die richtige Lage und ein positives
Kundenerlebnis abgestellt“, sagt Dorothée Fritsch.
Fritsch: „Weitere Erfolgsfaktoren, die wir im Markt sehen:
es werden gemeinsam mit den wichtigsten Lieferanten neue Belieferungsmodelle
entwickelt und mit Vermietern neue, in Teilen flexibilisierte Mietkostenmodelle
vereinbart. Wie in jeder Krise wird es darum auch hier Gewinner geben.
Allerdings deutlich weniger als Verlierer. Es gilt jetzt einen kühlen Kopf zu
bewahren, einen Plan zu entwickeln, genau zwischen kurz- und langfristigen
Maßnahmen zu unterscheiden. Und endlich die Transformation in Angriff zu
nehmen, die in zu vielen Fällen in den letzten Jahren zu kurz kam.“ Fti 1
Die große Mehrheit der Bevölkerung bejaht Einwanderung, sagt
Prof. Friedrich Heckmann im Gespräch. Er betrachtet Migration
generationenübergreifend und nicht tagespolitisch. Auch die bei der Integration
sei Deutschland erfolgreich. Was er vermisst, ist eine neue Nationenbildung.
Darin wirbt er in seinem Buch.
MiGAZIN: Herr Heckmann, in Ihrem Buch „Einwanderung mit
Zukunft. Neue Nationsbildung in Deutschland statt Minderheitengesellschaft“
betonen Sie das Konzept der „neuen Nationsbildung“ als Alternative zur
Minderheitengesellschaft. Was genau verstehen Sie darunter, und warum halten
Sie es für Deutschland für notwendig?
Friedrich Heckmann: Neue Nationsbildung ist zum einen ein Konzept
für eine neues gesellschaftliches „Wir“, das die Menschen mit
Migrationsgeschichte, die in Deutschland im Generationenverlauf ihren
Lebensmittelpunkt begründet haben, einschließt. Das Buch begründet die
gesellschaftliche und nationale Zugehörigkeit dieser Bevölkerungsgruppe auf der
Basis eines reformulierten Nationsbegriffs. Es beschreibt zum anderen, was sich
in der gesellschaftlichen Wirklichkeit als Annäherungs- und
Zugehörigkeitsprozess bereits abspielt. Es ist notwendig, diese Prozesse bewusst
zu machen, vergleichbar mit den Diskussionen um Deutschland als
Einwanderungsland.
Sie kritisieren das Modell einer Minderheitengesellschaft.
Welche Risiken sehen Sie darin?
Minderheitengesellschaft steht für ein Nebeneinander von
ethnischen Gruppen mit Trennlinien in vielen Lebensbereichen und fehlendem
Wir-Bewusstsein in Hinsicht auf die Gesamtgesellschaft. Die Befestigung von
ethnischen Minderheitenstrukturen stellt per se noch kein gesellschaftliches
Problem dar. Gesamtgesellschaftliche Kommunikation und Kooperation zu
ermöglichen sowie die politische Loyalität der Minderheitenangehörigen als
Staatsbürger zu erreichen und abzusichern stellen jedoch eine permanente Aufgabe
dar. Zugleich bergen ethnische Minderheiten-Mehrheitsstrukturen in
Krisensituationen die Gefahr, dass soziale, wirtschaftliche und politische
Konflikte ethnisiert werden. Zahlreiche historische Erfahrungen haben die
Leidenschaftlichkeit und Unmenschlichkeit ethnisierter Konflikte gezeigt.
Inwiefern kann eine „neue Nationsbildung“ den Zusammenhalt
in der Gesellschaft stärken, und welche Hürden bestehen Ihrer Meinung nach
dabei?
„Neue Nationsbildung heißt, auf der Grundlage eines neuen
Nationsbegriffs neue Gruppen in diese Gemeinschaft aufzunehmen.“
Nation steht für Vorstellungen von Gemeinschaft und für
wechselseitige Solidarerwartungen. Neue Nationsbildung heißt, auf der Grundlage
eines neuen Nationsbegriffs neue Gruppen in diese Gemeinschaft aufzunehmen. Das
bedeutet, Deutsche oder Deutscher ist nicht nur, wer von deutschen Eltern
abstammt, sondern auch, wer in Deutschland von ausländischen Eltern geboren
wurde und wer in Deutschland integriert ist und sich zum Grundgesetz bekennt.
Im gesellschaftlichen Leben sind die verschiedenen Formen
von ethnischer, rassistischer und religiöser Diskriminierung die größten
Hindernisse, die gesellschaftliche Teilhabe und Identifizierung von Migranten
mit Deutschland erschweren. Assimilationszwänge wirken in die gleiche Richtung,
wie auch Politiken von Herkunftsländern, die Auswanderer weitere als „ihre“
Bürger zu betrachten und entsprechende Bindungspolitiken zu praktizieren.
Deutschland steht aktuell vor politischen Herausforderungen
im Bereich der Migration. Glauben Sie, dass die derzeitigen politischen Ansätze
zur Einwanderungspolitik die nötigen Perspektiven für eine „neue
Nationsbildung“ bieten?
„Teile der Bevölkerung in Deutschland stehen aktuell unter
dem Einfluss populistischer einwandererfeindlichen Politik.“
Teile der Bevölkerung in Deutschland stehen aktuell unter
dem Einfluss populistischer einwandererfeindlichen Politik. Ich zeige aber in
meinem Buch, dass die große Mehrheit der Bevölkerung Einwanderung bejaht und
sich in Jahrzehnten in diese Richtung bewegt hat. Fokussieren wir den Blick
nicht auf den aufgeregten und konflikthaften öffentliche Diskurs über
Flüchtlings- und Asylpolitik, sondern auf größere, Generationen übergreifende
Trends, dann sind systematische Integrationspolitiken auf kommunaler und nationaler
Ebene – auf der nationalen Ebene vor allem die Integrationskurse, die
Anti-Diskriminierungsgesetzgebung und das neue Staatsangehörigkeitsgesetz –
Politiken, die den Prozess neuer Nationsbildung unterstützen. Von
herausragender Bedeutung ist auch die Ebene kommunaler Integrationspolitik. Zu
Recht sagt man, Integration findet auf der kommunalen Ebene statt. Praktisch
alle Kommunen sind heute Träger und Organisatoren von Integrationspolitik, die
die Annäherung von Migranten und Einheimischen fördert.
Wie kann Ihrer Meinung nach verhindert werden, dass
Einwanderung und Integration in Deutschland weiter polarisiert und von extremen
Positionen beeinflusst wird?
„Politiker, die von ‚kleinen Paschas‘ reden, verstehen das
nicht als empirische Hypothese, sondern als abwertende und diskriminierende
Äußerung, mit der sie bei vorurteilsvollen Menschen ‚punkten‘ wollen.“
Demokratische Positionen und Institutionen müssen gestärkt
werden und eine erfolgreiche Wirtschafts- und Sozialpolitik muss verhindern,
dass in Krisen Verteilungskämpfe zunehmen, in denen ethnische und rassistische
Mobilisierung den gesellschaftlichen Zusammenhalt gefährden. Ein stärkeres
Engagement der Wirtschaft, die ja vollständig von erfolgter und zukünftiger
Migration abhängig ist, sollte über einzelne Plädoyers für eine
Willkommenskultur hinausgehen und systematische Formen annehmen. Nicht zu vergessen
ist aber die Ebene persönlicher Beziehungen und persönlicher Kommunikation
einschließlich der sozialen Medien, auf der es gilt, Ethnozentrismus und
Rassismus entgegenzutreten.
Was geht Ihnen durch den Kopf, wenn ranghohe Politiker der
Mitte von „kleinen Paschas“ reden?
Ich denke schon, ohne dass ich das quantifizieren kann, dass
es solche Phänomene in Einwandererfamilien als Ergebnis von Formen
patriarchalischer Erziehungspraktiken gibt. Politiker, die von „kleinen
Paschas“ reden, verstehen das jedoch nicht als empirische Hypothese, sondern
als abwertende und diskriminierende Äußerung, mit der sie bei vorurteilsvollen
Menschen „punkten“ wollen.
„Einwanderung, die in sicheren Kontexten verläuft, erhöht
die Akzeptanz von Migration und Migranten in der Bevölkerung…
Migrationspolitik, die von Sicherheitsthemen beherrscht wird, erreicht aber das
Gegenteil.“
Die Migrationsdebatte wird dominiert von Sicherheitsthemen.
Wie bewerten Sie diesen politischen Fokus, und welche Folgen hat er Ihrer
Meinung nach für das gesellschaftliche Miteinander?
Das ist keine einfache Frage. Einwanderung, die in sicheren
Kontexten verläuft, erhöht die Akzeptanz von Migration und Migranten in der
Bevölkerung und stärkt den gesellschaftlichen Zusammenhalt. Migrationspolitik,
die von Sicherheitsthemen beherrscht wird, erreicht aber das Gegenteil.
„Einwanderung mit Zukunft: Neue Nationsbildung in
Deutschland statt Minderheitengesellschaft“ von Prof. Dr. Friedrich Heckmann
Der Flüchtlings- und Migrationsdruck nimmt weltweit zu
aufgrund zunehmender Konflikte, Armut oder klimatischer Veränderungen. Die
Europäische Union reagiert darauf mit Abschottung. Kann diese Politik
langfristig aufgehen?
Hierzu zwei Punkte: Zum einen gibt es meines Erachtens keine
Lösung des „Migrationsproblems“, sondern nur bessere oder schlechtere
Politiken, mit den Herausforderungen von Migration und Integration umzugehen.
Die Ursache dafür liegt in der extremen und zunehmenden Ungleichheit in der
Welt und der Revolution der Kommunikation, die dazu geführt hat, dass weltweit
sich ähnliche Vorstellungen von einem guten und sicheren Leben herausgebildet
haben.
Zum anderen: Da Integration auch und zentral eine
Ressourcenfrage ist, und zwar materieller wie psychisch-sozialer, und
Ressourcen knapp sind, hilft es dem gesellschaftlichen Frieden, wenn Migration
kontrolliert und begrenzt verläuft. Das ist aber, wenn man nicht mit Mauer und
Schießbefehl reagieren will, nur in eingeschränktem Maße möglich. Der
Bevölkerung vorzuspielen, man habe solche Instrumente, ist Symbolpolitik, die
aber zu Frustrationen führt und zur Bereitschaft, auf extremistische,
rechtsradikale Akteure zu hören.
In den 60‘ern bis 80‘ern erlag Deutschland dem Irrtum, die
sogenannten „Gastarbeiter“ würden irgendwann wieder zurückkehren. Einem
ähnlichen Irrtum unterlag man auch nach dem Jugoslawienkrieg. Vor knapp zehn
Jahren ging man abermals irrtümlich davon aus, die Menschen aus Syrien würden
wieder zurückkehren. Bei Ukrainerinnen und Ukrainern legt man erstmals den
Fokus auf eine nachhaltige Integration in den Arbeitsmarkt. Hat Deutschland
gelernt aus seiner Migrationsgeschichte – oder ist das nicht vergleichbar?
„Deutschland hat auf jeden Fall aus seiner
Migrationsgeschichte gelernt, dass es ein Einwanderungsland ist, zahlreiche
Institutionen neu geschaffen oder angepasst und ist insgesamt erfolgreich bei
der Integration von Einwanderern.“
Deutschland hat auf jeden Fall aus seiner
Migrationsgeschichte gelernt, dass es ein Einwanderungsland ist, zahlreiche
Institutionen neu geschaffen oder angepasst und ist insgesamt erfolgreich bei
der Integration von Einwanderern. Was das Kommen und Gehen angeht muss man
beachten, dass es in praktisch allen Einwanderungsprozessen ein bestimmtes,
aber zwischen den Ländern unterschiedliches Maß an Rückwanderung gibt. Nicht
alle im Land befindlichen Ausländer sind auch Einwanderer oder potentielle
Einwanderer, die Wanderungsbilanz zeigt, dass es ein ständiges großes Kommen
und Gehen gibt. Nur ein Teil der Zuwanderer wird zu Einwanderern und das hängt
von unterschiedlichen individuellen und kontextuellen Bedingungen ab. Die
Mehrheit der sogenannten Gastarbeiter, an deren Beispiel wir viel gelernt
haben, ist nicht geblieben und nicht zu Einwanderern geworden, die Mehrheit ist
zurückgekehrt.
Für mein Thema der neuen Nationsbildung heißt das auch, dass
sich Prozesse neuer Nationsbildung nicht auf alle im Land befindlichen
Ausländer beziehen, sondern auf diejenigen Personen, die nach längerem
Aufenthalt und erfolgreicher Integration oder im Generationenverlauf ihren
Lebensmittelpunkt in Deutschland gefunden haben. MiG 1